Tradizione ebraica moderna/Capitolo 5

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Martin Buber fotografato in Israele (ca.1950)

Il pensiero dialogico di Martin Buber

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Qual è il lascito di Martin Buber al pensiero ebraico? Buber è stato sicuramente uno dei pensatori ebrei più prolifici e influenti del XX secolo. I suoi scritti coprivano una vasta gamma di discipline, comprese diverse aree della filosofia, tradizioni mistiche di tutto il mondo e chassidismo, nonché studi biblici, ermeneutica e traduzione. Soprattutto, fu un pensatore visionario, che cercava di superare la “malattia del tempo” impegnandosi in relazioni autentiche con gli altri e insegnando ai suoi studenti e lettori a fare lo stesso.[1]

Nel valutare l'eredità di Buber al pensiero ebraico, delineerò i paralleli tra lo sviluppo del suo approccio all'ermeneutica e la sua visione mutevole del modo ideale di relazionarsi con gli altri, in particolare con gli altri esseri umani e con Dio. Esaminerò in dettaglio Ich und Du (Io e Tu), il capolavoro della filosofia dialogica di Buber,[2] ed esplorerò la misura in cui la sua matura filosofia del dialogo è messa in discussione dalla Shoah.

Primi scritti

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Chassidismo e Chassidut.

Buber nacque nel 1878 a Vienna. Dopo la separazione dei suoi genitori quando aveva tre anni, fu allevato fino all'età di quattordici anni dai nonni paterni in Galizia. Da bambino cresciuto nella tenuta di suo nonno in Polonia, Buber partecipò alla vita ebraica tradizionalmente osservante e fu anche esposto allo stile di vita chassidico di alcuni dei suoi vicini ebrei in Polonia. Il nonno di Buber, Solomon, era un eminente studioso dell’Haskalah – movimento illuminista ebraico – le cui edizioni critiche del Midrash sono ancora molto apprezzate. All'età di quattordici anni, Buber tornò a Vienna per vivere con suo padre. Abbandonò le pratiche religiose ebraiche e si interessò alla filosofia occidentale, in particolare al pensiero di Kant e Nietzsche, e continuò a studiare filosofia, letteratura tedesca, psicologia e storia dell'arte presso le Università di Vienna, Berlino, Lipsia e Zurigo.

L'interesse di Buber per l'ebraismo si riaccese grazie alla sua affiliazione al sionismo. Fu originariamente reclutato per la causa nazionalista ebraica da Theodor Herzl e curò brevemente Die Welt, il principale giornale del partito sionista. Buber si unì presto alla “fazione democratica” guidata da Chaim Weizmann. Anche se a volte rimase deluso dagli aspetti politici del sionismo e si astenne dall'attività politica pratica per lunghi periodi, rimase un appassionato sostenitore di una rinascita sionista della cultura ebraica. Nel 1916 iniziò a pubblicare Der Jude, un giornale di sionismo culturale e politico. Nei dibattiti politici dagli anni ’20 fino alla fondazione di Israele nel 1948, Buber sposò opinioni minoritarie basate sulla sua filosofia, incluso il pacifismo (si oppose all'armamento dei coloni ebrei) e, forse come conseguenza della sua filosofia dialogica, propose che in Palestina dovesse essere creato uno stato bi-nazionale.

Dal 1905 in poi, Buber si immerse nello studio delle tradizioni mistiche di tutto il mondo, e questo interesse lo portò a sua volta a concentrarsi sullo chassidismo, il movimento mistico popolare che si diffuse nell'Europa orientale nei secoli XVIII e XIX, e che Buber aveva incontrato durante le sue visite d'infanzia alle comunità chassidiche in Galizia. Lo studio di Buber sul chassidismo portò alla pubblicazione delle sue famose raccolte di racconti chassidici.[3] Le sue prime raccolte sono libere rivisitazioni di storie classiche, che attingono all'ermeneutica romantica che Buber sviluppò sotto l'influenza di Nietzsche, Dilthey e Schleiermacher.[4]

Nelle sue prime raccolte di racconti chassidici e in altri scritti su miti e leggende, Buber cercò, attraverso l'empatia, di raggiungere l'unione con la mente dell'autore del testo o con quella del narratore originale. Riguardo alla sua prima raccolta di storie chassidiche, The Tales of Rabbi Nachman, Buber scrive: "I experienced... my unity with the spirit of Rabbi Nachman." Similmente, scrive che il suo lavoro sui racconti del Ba’al Shem Tov implicava la realizzazione del suo "inborn binding with Hasidic truth" e un tentativo di "to construct the inner process in the life of the master".[5] L'ermeneutica romantica di Buber lo portò a credere che la sua empatia con i maestri chassidici gli desse la licenza di elaborare, abbellire e distorcere le loro storie, pur rimanendo fedele alla verità interiore del loro insegnamento.[6]

Ci sono sorprendenti somiglianze tra la prima ermeneutica di Buber e i suoi primi scritti sulla relazione. L'opera Daniel: Dialogues on Realization del 1913 rappresenta il primo periodo mistico, in cui Buber presenta l'unione come la forma ultima di relazione.[7] Il suo scopo nello scrivere Daniele era quello di sintetizzare il concetto orientale dell '"Uno" con i reami occidentali della filosofia, della religione, della scienza e dell'arte.[8] Buber descrive due modi di stare al mondo. L’“orientamento”, che in molti modi prefigura la relazione “Ich-Es (Io-Esso)” descritta in Ich und Du (Io e Tu), si riferisce al mondo delle esperienze ordinarie, che si adattano alle leggi della causalità e ai vincoli di spazio e tempo. La “realizzazione”, al contrario, “si riferisce a quel significato accresciuto della vita che scaturisce da momenti di esistenza intensificata e di percezione intensificata”.[9]

Nel primo dei cinque dialoghi che compongono Daniel, Buber si concentra sul rapporto con la natura, utilizzando l'esempio di un albero. Lo stesso esempio ricorrerà, con alcune revisioni significative, in Ich und Du. Nel testo precedente Buber presenta l'unione con l'altro come la via della realizzazione. L'omonimo Daniele ordina al suo compagno di non pensare all'albero, di non confrontare le sue proprietà con quelle di altri pini cembri, di altri alberi, di altre piante, ma di concentrarsi esclusivamente su di esso e di tentare di avvicinarsi ad esso. Dice: "With all your directed power, receive the tree; surrender yourself to it, until you feel its bark as your skin, and the force of a branch spring from its trunk like the striving in your muscles [...] yes truly until you are transformed".[10] Proprio come Buber cercava di sentire l’“unità” con Rabbi Nachman, Daniel raccomanda una forma estrema di empatia come percorso verso la vera relazione.

Filosofia dialogica

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Sia negli scritti successivi di Buber sul chassidismo e sull'ermeneutica biblica, sia nella sua filosofia più matura, questa enfasi sull'unione è sostituita da un modello dialogico di relazione, ed è per i suoi scritti sulla relazione dialogica, o Io-Tu, che Buber è meglio conosciuto. Mentre Buber sviluppava la sua filosofia Io-Tu nel periodo dal 1916 al 1922, il suo approccio all'interpretazione dei testi cambiò radicalmente. Abbandonò la ricerca romantica dell'unirsi alla mente dell'autore e spostò la sua attenzione dall'autore al testo stesso. La sua raccolta di racconti chassidici del 1922,[11] e le successive pubblicazioni in quest'area, riflettono un nuovo rispetto per l'integrità del testo. I racconti successivi sono molto più radi, privi di abbellimenti, elaborazioni e fioriture romantiche che avevano valso ai racconti precedenti il sobriquet scherzoso di "Buber meises" (un gioco di parole sulla frase yiddish booba meises, racconti di vecchie comari).

Il ritrovato rispetto di Buber per l'integrità del testo è particolarmente evidente nella sua erudizione biblica e nella sua collaborazione con Franz Rosenzweig nella traduzione della Bibbia in tedesco. Buber e Rosenzweig si impegnarono a frenare il proprio entusiasmo poetico e a conservare nella loro traduzione quanto più possibile il ritmo, la semantica e lo stile retorico del testo ebraico. Invece di creare una traduzione eloquente, che potesse essere letta senza problemi in tedesco, si proponevano deliberatamente di trasmettere l'estraneità del testo biblico. In particolare, cercavano di preservare il carattere orale della Bibbia ebraica, considerandola un'opera che necessita di essere ascoltata (TAT 43).

Oltre ad apportare questo profondo cambiamento nella sua pratica ermeneutica, anche l’approccio di Buber alla religione e alla spiritualità cambiò radicalmente durante il periodo precedente alla pubblicazione di Ich und Du. In uno dei suoi “Frammenti autobiografici”, intitolato “Una conversione”, suggerisce che l'impulso per questo passaggio provenisse dall’esperienza personale piuttosto che da considerazioni strettamente intellettuali. Buber racconta che dopo una mattinata di “entusiasmo religioso” ricevette la visita di un giovane che non conosceva. Sebbene Buber avesse accolto il visitatore e avuto con lui una discussione amichevole, non fu tuttavia pienamente presente all’incontro e non riuscì a discernere che la visita era motivata dalle profonde preoccupazioni esistenziali del giovane:

« Later, not long after, I learned from one of his friends – he was no longer alive – the essential content of these questions; I learned that he had come to me not casually but borne by destiny, not for a chat but for a decision. [...] What do we expect when we are in despair and yet go to a man? Surely a presence by means of which we are told that nevertheless there is meaning. »
(PMB 26[12])

Sebbene l'episodio, raccontato da Buber, possa far pensare ad un suicidio del visitatore, questi in realtà fu ucciso al fronte della Prima guerra mondiale (ENR 80). Il punto di Buber nel frammento non è che sia stato lui a causare la morte del giovane, ma che era assente nello spirito quando invece era richiesta la sua piena presenza – "he failed to make real, insofar as it was up to him, the possibility of genuine dialogue that that hour offered" (ENR 81). Se Buber non avesse menzionato la morte del giovane subito dopo il loro incontro, l'episodio – pur perdendo un po' del suo pathos – avrebbe mantenuto comunque il suo messaggio essenziale.

È interessante notare che la lezione che Buber trasse da questa esperienza non era un obbligo generale di essere pienamente presenti agli altri ogni volta che ci cercavano, ma una lezione specifica sui pericoli dell'esperienza mistica “religiosa”: "Since then I have given up the ‘religious’ which is nothing but the exception, extraction, exaltation, ecstasy; or it has given me up". Invece della ricerca dell’esperienza mistica, Buber racconta di essere stato “convertito” a una religiosità del quotidiano: "I possess nothing but the everyday out of which I am never taken. [...] I know no fullness but each mortal hour’s fullness of claim and responsibility" (PMB 26).

Il passaggio di Buber dalla sua prima filosofia romantica e dalle sue ricerche mistiche alla filosofia del dialogo potrebbe essere stato innescato anche dalla critica del suo amico Gustav Landauer al suo iniziale entusiasmo per la Prima guerra mondiale. Come molti ebrei tedeschi patriottici, Buber inizialmente sostenne la guerra.[13] Egli pensava che lo stato d'animo eroico in Germania "had initiated an epoch of unconditioned action in which one realizes one’s Erlebnisse in their fullness and thereby gains ‘a connectedness with the Absolute’". Buber arrivò addirittura a vedere la tragedia della guerra "as being of marginal import compared to the war’s metaphysical significance" (FMD 18).

Landauer, un oppositore della guerra, scrisse a Buber nel maggio 1916, criticando sia la politica “perversa” di Buber sia la metafisica asociale da cui derivava, e la sua lettera sembra aver provocato un completo ripensamento della posizione da parte di Buber. Tutte le dichiarazioni pubbliche di Buber successive alla ricezione della lettera di Landauer mostrano che egli era completamente contrario alla guerra (FMD 102). Inoltre, dopo aver ricevuto la lettera, cominciò ad affrontare uno dei temi dell'insegnamento di Landauer, l'insistenza sul fatto che ogni “cambiamento nella qualità della vita spirituale” deve essere preceduto da una trasformazione delle relazioni interumane (FMD 19). Come vedremo più avanti, esplorare la connessione tra la vita spirituale e l'ambito delle relazioni interpersonali è uno dei temi centrali di Ich und Du.

Un altro fattore importante nello sviluppo del pensiero dialogico di Buber fu l'influenza intellettuale di Franz Rosenzweig. Come ha dimostrato Rivka Horwitz, questa influenza può essere vista confrontando il testo delle conferenze “Religion as Presence” di Buber, tenute alla Lehrhaus di Francoforte nel 1922, con le varie bozze di Ich und Du (BW 193–205). Sulla base di questo confronto, Horwitz sostiene che la base dialogica dell’Io-Tu era in realtà “one of the very last additions to an already existing structure” (BW 194). Questo argomento non è semplicemente di interesse storico: secondo Horwitz, molte delle "formulazioni problematiche e incongruenze presenti nella versione pubblicata di Ich und Du" possono essere spiegate, almeno in parte, come derivanti dalla fusione imperfetta di due diversi approcci filosofici (BW 194).

In effetti, non è affatto ovvio che Buber si preoccupasse principalmente della coerenza filosofica quando scrisse Ich und Du. Buber sembra spesso più interessato a trasmettere un insegnamento destinato alla guida spirituale che all'elaborazione di una dottrina filosofica.[14] Il libro è scritto con uno stile diretto, a volte intimo. Nessuna prefazione o introduzione concettuale si frappone tra il lettore e l’incipit dell'opera:

The world is twofold for man, in accordance with his twofold attitude.

The attitude of man is twofold, in accordance with the basic words which he can speak.

The basic words are not single words but word pairs. One basic word is the word pair I-Thou.

The other basic word is the word pair I-It; but this basic word is not changed when He or She takes the place of It.

Thus the I of man is also twofold.

For the I of the basic word I-Thou is different from that in the basic word I-It.[15]

L'impressione generale creata da questo stile è che l'autore non abbia tanto un argomento da sostenere quanto una visione da comunicare. Lo stesso Buber descrisse in seguito la genesi di Ich und Du come la sua risposta a una “visione”. Nel suo “Poscritto” del 1957 a Ich und Du, scrisse di essere stato “spinto da una necessità interiore” a scrivere il libro: "A vision that had afflicted me repeatedly since my youth but had always been dimmed again, had now achieved a constant clarity that was so evidently suprapersonal that I soon knew that I ought to bear witness of it" (IT 171).[16]

La sezione iniziale di Ich und Du, che abbiamo citato prima, espone le idee centrali dell'opera nel suo insieme. Buber presenta un sistema binario per analizzare e descrivere l'intera esperienza umana. Il nostro modo quotidiano di relazionarci con gli oggetti nel mondo, e in effetti di relazionarci con altre persone, come mezzo per raggiungere un fine, come cose che possiamo usare, godere e sperimentare, è chiamato Ich-Es (Io-Esso). Al contrario, i momenti di vero incontro con un altro essere, in cui l'Io risponde a tutto l'essere dell'altro con tutto il suo essere, si chiamano incontri Ich-Du (Io-Tu).[17]

Buber vede l’Io-Esso come la modalità predefinita dell’esistenza umana. Gli incontri Io-Tu non durano nel tempo. Anche nei confronti delle persone che si amano è impossibile rimanere nella modalità Io-Tu per tutto il tempo, o anche per la maggior parte del tempo. Ogni Tu deve ridiventare un Esso;[18] contemporaneamente, però, ogni Esso può essere potenzialmente incontrato come un Tu (IT 69).[19] Inoltre, Buber insiste sul fatto che, sebbene una persona possa volontariamente impedire che avvengano incontri Io-Tu, non è possibile creare un simile incontro attraverso un atto di volontà. Piuttosto, gli incontri Io-Tu avvengono per “grazia” (IT 62).

Buber delinea tre diverse sfere in cui possono aver luogo le relazioni Io-Tu: il mondo naturale, il mondo interpersonale e il mondo spirituale/artistico. Dei tre ambiti, quello delle relazioni interpersonali è il più semplice da analizzare secondo il modello binario di Buber. L'esperienza ci insegna quanto sia facile disprezzare o sentirsi indifferenti verso “l'intero essere” dell'altra persona. D'altra parte, la maggior parte delle persone può ricordare momenti in cui ha lasciato da parte tutti i piani, presupposti e strutture concettuali e ha semplicemente risposto alla persona di fronte.

Delle tre sfere in cui possono aver luogo gli incontri, solo la relazione tra sé e l'altro consente un “dialogo” letterale. Tuttavia, le principali metafore di Buber per la relazione Io-Tu derivano dal discorso. Usa i termini "parola", "discorso", "dialogo" e così via per trasmettere le qualità di presenza, dinamismo e reciprocità che sono caratteristiche dell'Io-Tu ma non della relazione Io-Esso. Per Buber, "the very act of turning to another in relation is an act of speaking, even when not a word is uttered between them".[20]

Buber sottolinea la reciprocità dell'incontro: “My Thou acts on me as I act on it. Our students teach us, our works form us” (IT 67). Sebbene la relazione sia reciproca, non è necessariamente simmetrica – ad esempio, esiste un'asimmetria intrinseca nella relazione insegnante-studente (IT 178). Inoltre, il grado di reciprocità che può essere raggiunto differirà anche a seconda che il Tu sia una pianta, un animale, un essere umano o una “forma spirituale”.[21]

Come esempio di relazione con il mondo della natura, Buber presenta una discussione abbastanza elaborata sui modi di relazionarsi con un albero. Gran parte della sezione è dedicata ad elencare una serie di modi diversi in cui potrei avvicinarmi all'albero come Esso: posso considerarlo come un'immagine, come movimento, come un campione botanico, come un oggetto matematico da contare o come un oggetto materiale da studiare secondo le leggi della fisica. Adottare uno qualsiasi di questi atteggiamenti significa relazionarsi con l'albero nella modalità Io-Esso. Tuttavia è anche possibile, senza dimenticare la conoscenza dell'albero acquisita nella modalità Io-Esso, relazionarmi con l'albero come Tu. In questa modalità, mi concentro esclusivamente sull'albero e il mio approccio ad esso non è mediato da nessuna delle categorie concettuali, estetiche, strumentali o matematiche che caratterizzano l’approccio Io-Esso. Invece rapportandomi all'albero mi rapporto ad esso non secondo uno o più dei suoi aspetti, bensì nella sua interezza (IT 57–58).

La discussione sull'albero in Ich und Du rappresenta un significativo allontanamento dalle inclinazioni mistiche del suo lavoro precedente. In Daniel, Buber aveva presentato la relazione ideale con un albero come quella in cui mi sarei identificato con esso nella misura in cui sentivo la sua corteccia come la mia pelle e la sua linfa come il mio sangue. L'insistenza sulla reciprocità in Ich und Du rende chiaro che l'unione mistica con l'altro termine della relazione non è lo scopo degli incontri Io-Tu.

La terza sfera di cui parla Buber è quella delle relazioni con gli “esseri spirituali”, e l'esempio che usa è la forma che ispira un artista a creare un'opera. Per Buber l'opera d'arte nasce quando "a human being confronts a form that wants to become a work through him. Not a figment of his soul but that which appears to the soul and demands the soul’s creative power" (IT 60). Questo brano mostra un netto contrasto con la precedente comprensione buberiana dell'origine dell'opera d'arte. L'ermeneutica di Dilthey, che, come abbiamo visto, influenzò i primi scritti chassidici di Buber, si basa sull'idea che l'opera d'arte risulta ed esprime l’Erlebnis, l’esperienza vissuta, dell'autore; da questa visione dell'origine dell'opera consegue naturalmente la comprensione dell'atto interpretativo come tentativo di identificarsi con l’Erlebnis dell'autore. Al contrario, nel passo appena citato, Buber presenta l'opera d’arte come una risposta a una “forma dello spirito”, un “Tu”, la cui esistenza è indipendente dall'artista.

L’“essere spirituale” con cui l'artista si confronta è una forma intangibile che chiede all'artista di metterlo al mondo. Buber presenta il “comandamento” che emerge in un tale incontro come una differenza significativa tra altri incontri Io-Tu e il momento di ispirazione dell'artista. Tuttavia, l'opera che l'artista è chiamato a realizzare non è che la manifestazione più concreta di una caratteristica comune agli incontri Io-Tu: esco dall'incontro in qualche modo cambiato e porto qualcosa di esso nel mondo dell'Esso.

L'eterno Tu

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Dopo la discussione sulla terza sfera di relazione, Buber introduce una nuova idea nella sua presentazione della relazione Io-Tu: ogni particolare incontro Io-Tu è simultaneamente, in qualche modo, un incontro con l'Eterno Tu. In ogni Tu, dice, "we address the eternal Thou" (IT 57). Il pieno significato di questa idea diventa chiaro solo nella sezione finale di Ich und Du. È interessante notare che nel 1922 Buber scrisse a Rosenzweig riguardo al libro a cui stava lavorando, e disse a Rosenzweig che sarebbe stato composto di tre sezioni, “which can be named: Word, History, God” (BW 209). Infatti omise questi sottotitoli dall'opera pubblicata, ma rimase la struttura tripartita.

La Parte III tratta specificatamente di Dio, o dell'"Eterno Tu". Buber afferma esplicitamente che la qualità speciale di tutte le altre relazioni Io-Tu deriva dal fatto che in ognuno di questi incontri ci si rivolge all'Eterno Tu: "The mediatorship of the Thou of all beings accounts for the fullness of our relationships to them" (IT 123). Questa sezione del libro presenta una critica radicale sia della teologia che delle religioni tradizionali, nella misura in cui Buber insiste sul fatto che Dio può solo essere “indirizzato”, mai “affermato” o “espresso”. Dio non può essere dedotto né dalla natura né dalla storia. Piuttosto, il Dio di cui parla Buber è "what confronts us immediately and first and always" (IT 129). Parlare di Dio significa necessariamente usare il linguaggio di Esso. Ma Dio non può mai essere un Esso: adorare un Esso non è affatto relazionarsi con Dio (IT 147). Buber riconosce che l'esperienza di una persona religiosa comprende non solo la consapevolezza della vicinanza di Dio, ma anche l'esperienza della Sua lontananza. Tuttavia, insiste sul fatto che "whoever knows God also knows God’s remoteness and the agony of drought upon a frightened heart, but not the loss of presence. Only we are not always there" (IT 147; corsivo mio).[22]

La visione buberiana delle religioni è che esse nascono da incontri genuini con l'Eterno Tu. Gli esseri umani sono inclini a escogitare strategie per far fronte a due delle caratteristiche preoccupanti della relazione Io-Tu: la sua mancanza di continuità sia nel tempo che nello spazio. Dio diventa un “oggetto di fede” per colmare i divari temporali tra i momenti di incontro, e le pratiche cultuali sorgono per rappresentare il rapporto della comunità con Dio. A poco a poco una “fede” oggettivata e la preghiera comunitaria vengono a sostituire, anziché integrare, l'autentica relazione con Dio (IT 162).

In contrasto con i suoi scritti precedenti, Buber rifiuta esplicitamente l'ideale della rinuncia all'ego, che è un tema comune nel misticismo. Egli insiste sul fatto che "the I is indispensable for any relation, including the highest, which always presupposes an I and a Thou" (IT 126). Né la rinuncia al mondo è la via verso la vera relazione; per attualizzare il rapporto con l'Eterno Tu non bisogna allontanarsi dal mondo, ma vedere il mondo nel Tu (IT 126).

La rivelazione avviene nell'incontro con l'Eterno Tu, ma Buber insiste che si tratta di una rivelazione senza contenuto esprimibile. Ciò che si riceve in questa rivelazione è la garanzia che c’è un significato (affermazione che non riuscì a comunicare al giovane in “A Conversion”) – eppure non viene comunicato nulla che possa essere espresso nel linguaggio. Ciononostante, Buber insiste sul fatto che la rivelazione conferma il significato della vita umana quotidiana e assume la forma di un comando. Tuttavia, la prescrizione non è universale: è una chiamata unica alla persona unica, che deve essere realizzata nel suo modo unico e non può essere espressa come un “dovere” o una massima universale.

Fackenheim spiega il ragionamento filosofico dietro le affermazioni di Buber sulla rivelazione. Buber è in grado di respingere le affermazioni dottrinali su Dio e tuttavia sapere che Egli è eterno e infinito, perché questi attributi non sono conosciuti attraverso la speculazione ma attraverso l'incontro stesso. L'eternità e l'infinità di Dio sono quindi il contenuto minimo di ogni rivelazione. Ma c'è anche un contenuto specifico in ogni incontro con l'Eterno Tu, perché in ogni incontro rimane un Io umano indipendente, e l'Io, ovviamente, è finito e temporale. Nell'incontro, il Tu divino parla all'Io umano nella sua situazione concreta. Il contenuto specifico della rivelazione è un misto di parola divina e risposta umana (PMB 287–88).[23]

Le pagine conclusive di Ich und Du offrono un antidoto alla “malattia del tempo”. Buber prescrive il “ritorno” a una vita di relazione con l’Eterno Tu. In opposizione alle strategie fuorvianti che gli esseri umani hanno sviluppato per cercare di preservare la continuità rendendo Dio un oggetto di fede e sostituendo culti e rituali alla vera preghiera, Buber ingiunge al lettore di incarnare la relazione pura in "the whole stuff of life". Ciò non vuol dire che ci si possa lasciare alle spalle il mondo dell'Esso; ciò è chiaramente impossibile. Tuttavia, Buber insiste sul fatto che la vita di una persona può diventare così permeata di vere relazioni Io-Tu che i momenti di incontro non sono più come "lampi nell'oscurità" ma sarebbero invece come "a rising moon in a clear starry night" (IT 163). Forse sorprendentemente, data la sua enfasi sull'importanza delle relazioni Io-Tu nella sfera interpersonale, Buber suggerisce anche che le comunità raggiungono un'esistenza autentica ponendo Dio al centro. Descrive la comunità ideale utilizzando l'immagine di un cerchio, al cui centro si trova l'Eterno Tu. La periferia è composta da “punti-Io”, che rappresentano i membri di una comunità. Sono i raggi (radii), le linee di relazione tra ogni singola persona e l'Eterno Tu, che creano la vera comunità (IT 163).

L'etica di Buber, come presentata in Ich und Du, in definitiva si basa non semplicemente sulla relazione Io-Tu tra il sé e l'altro, ma sulla relazione del sé con l'Eterno Tu. In realtà non si tratta tanto di un'etica quanto di una trascendenza dell'etica. "Duties and obligations one has only towards the stranger", scrive Buber — "But a person who has stepped before the countenance of the Eternal Thou and always has God before him is kind and loving towards others, who are no longer strangers but his intimates. The person who lives this way leaves the third-person dictates of ethics behind, but does not in any way eschew responsibility for others; on the contrary, such a person takes on responsibility for the world before the face of God" (IT 157).

Né in Ich und Du, né in nessuno dei suoi scritti successivi, Buber presenta un resoconto sistematico dell’etica.[24] Nella sottosezione sull'etica della sua “Risposta ai miei critici”, riconosce che sia sostenitori che critici lo rimproverano di non aver sostenuto un quadro tradizionale di leggi e doveri né creato un proprio sistema etico. Questa mancanza non è casuale: anzi, per Buber colmarla sarebbe impensabile; farlo significherebbe “ferire il nucleo” del suo pensiero (PMB 717). Quindi non offre alcun sistema etico; né, sottolinea, conosce alcun sistema universalmente valido.[25]

Il contributo di Buber alla riflessione filosofica su etica e moralità è simile a quello apportato da Emmanuel Levinas.[26] Nessuno dei due pensatori fornisce linee guida morali o un'indagine sistematica sui contenuti dell'obbligo etico. Piuttosto, l’“Io-Tu” di Buber e il “faccia-a-faccia” di Levinas arricchiscono la nostra comprensione di cosa significhi incontrare un altro essere umano. Attraverso i loro rispettivi resoconti della relazione tra il sé e l'altro, forniscono risposte a una domanda morale fondamentale: perché dovrei preoccuparmi degli altri?

Per il Buber dell’Ich und Du, come osservato in precedenza, la responsabilità morale si basa in ultima analisi sulla relazione con Dio o con l’Eterno Tu, e Dio rimane centrale nel pensiero di Buber sull’etica per tutta la sua carriera. Nella sua “Risposta ai miei critici”, Buber riafferma di vedere i valori morali come assoluti perché provengono dall’Assoluto. E scrive:

« I have never made a secret of the fact that I cannot hold the decision of a man [...] as to what is right and wrong in a certain situation to be a decision valid in itself. In my view, rather, he must understand himself as standing every moment under the judgment of God. (PMB 719) »

Filosofia dialogica e pensiero post-Olocausto

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Questa discussione su Ich und Du ha dimostrato che la risposta di Buber alla “sickness of the age” non era semplicemente che le persone si aprissero alle relazioni Io-Tu tra loro. La Parte III di Ich und Du mostra che Buber considerava una relazione con l'Eterno Tu come essenziale per la più alta forma di etica, per un'autentica vita comunitaria e per fornire all'individuo la certezza che la vita umana non è assurda. Tuttavia, la possibilità di un simile rapporto in un'epoca post-Olocausto è messa in discussione da molti pensatori ebrei, non ultimo dallo stesso Buber.

I lettori spesso guardano all’Gottesfinsternis (L’Eclissi di Dio) di Buber per trovare la sua risposta alla Shoah. La frase “eclissi di Dio” evoca la tradizionale nozione ebraica di hester panim (“l’occultamento del volto”) e può sembrare come se fosse usata da Buber specificamente per descrivere il silenzio di Dio ad Auschwitz. Tuttavia, Buber lo applicò all'intero XX secolo, che vide come un periodo di eclissi spirituale e morale. Il capitolo conclusivo di L’Eclissi di Dio ripete l'idea presentata per la prima volta in Ich und Du: l’età contemporanea è “malata” e la sua malattia consiste nella sempre crescente preponderanza dell’Io-Esso.

« The I of this relation, an I that possesses all, makes all, succeeds with all, this I that is unable to say Thou, unable to meet a being essentially, is the lord of the hour. This selfhood that has become omnipotent, with all the It around it, can naturally acknowledge neither God nor any genuine absolute which manifests itself to men as of non-human origin. It steps in between and shuts off from us the light of heaven. »
(Martin Buber, Eclipse of God, trad. Maurice Friedman et al. (Atlantic Highlands, NJ: Humanities Press, 1988), p. 167. D'ora in poi citato com EG)

È interessante notare, tuttavia, che Buber non concluse il libro con questa immagine di disperazione. Infatti, come ha osservato Fackenheim,[27] l'impermanenza di un'eclissi significa che si tratta, in un certo senso, di un'immagine piena di speranza. Lo stesso Buber scrive: "The eclipse of the light of God is no extinction; even tomorrow that which has stepped in between may give way" (EG 167).

L’immagine di un’“eclissi di Dio” è, infatti, consonante con uno dei temi principali dell'ermeneutica biblica di Buber, quello dell'alternanza tra presenza e assenza di Dio nella storia di Israele. Secondo Buber la Bibbia ha un tema unificante, rilevante per tutte le generazioni. Nel suo saggio del 1926 "L'uomo di oggi e la Bibbia ebraica", Buber identifica questo tema: la Bibbia si occupa "dell'incontro tra un gruppo di persone e il Signore del mondo nel corso della storia". I differenti generi del testo biblico sono variazioni su questo tema:

« Either openly or by implication, the stories are reports of encounters. The songs lament the denial of the grace of encounter, plead that it may be repeated, or give thanks because it has been vouchsafed. The prophecies summon man who has gone astray to turn, to return to the region where the encounter took place, promising him that the torn bond shall once more be made whole. »
(Martin Buber, On the Bible, cur. Nahum N. Glatzer (New York: Schocken, 1982), p. 1)

Per Buber, il Dio della Bibbia (come l’“Eterno Tu” di Ich und Du) è un Dio di incontro personale, non il Dio di sistemi fideisti dottrinali. I racconti, i canti e le profezie bibliche parlano ai lettori di tutte le generazioni perché affrontano una questione contemporanea, il rapporto individuale e collettivo con Dio.

Nella sua opera del 1949 Der Glaube der Propheten (La fede dei profeti), Buber traccia la natura mutevole del rapporto tra Dio e Israele, sottolineando l'intimità di Dio con i patriarchi e con Mosè, ed esaminando l'allontanamento che si verifica in altri momenti, come quando gli israeliti peccano adorando il vitello d'oro (Esodo 32). Mosè e i successivi profeti tentano di superare questa distanza riportando il popolo al vero servizio di Dio. Secondo Buber, i semi del messianismo ebraico si possono trovare nelle profezie di Amos, Osea e Isaia, che prevedono un futuro ritorno alla fede nomade del passato. Isaia in particolare profetizza che un discendente della casa di Davide stabilirà il regno politico su Israele. Secondo Buber questa “non è una predizione ma un’offerta”: il Messia arriverà quando il popolo avrà deciso di tornare a Dio.[28]

Questa sezione di Der Glaube der Propheten, con la sua enfasi sul ruolo del processo decisionale umano nel portare il Messia, rimane teodica e, come tale, non affronta le questioni sollevate dall'Olocausto.[29] Tuttavia, nel capitolo finale della stessa opera, Buber discute della sofferenza degli innocenti. In tale capitolo si concentra sul “Messia sofferente” del Deutero-Isaia, una figura che Buber interpreta come la comunità di Israele piuttosto che come un individuo. Buber attinge anche al Libro di Giobbe e ai Salmi per sviluppare ulteriormente il tema della sofferenza innocente. Sebbene non colleghi esplicitamente questi testi biblici alla Shoah, sembra probabile che Buber abbia concluso l'opera con immagini della sofferenza umana e della separazione da Dio come un modo per affrontare le questioni teologiche sollevate dall'Olocausto (TAT 136).

Tuttavia, anche nell'ultimo capitolo di Der Glaube, Buber esprime sentimenti teodici. La sua lettura di Giobbe non enfatizza il momento antiteodico della protesta, ma l'eventuale ristabilimento del rapporto di Giobbe con Dio. Secondo Buber, Giobbe, alla fine del libro, "knows that the friends, who side with God, do not contend for the true God". In precedenza, Giobbe aveva riconosciuto il vero Dio come "the near and intimate God". Alla fine del libro, Giobbe sperimenta Dio solo "through suffering and contradiction, but even in this way he does experience God" (PF 192). Buber riassume quindi il libro come un racconto che "narrates the man of suffering, who by his suffering attained the vision of God" (PF, 197). In definitiva, questa lettura del libro di Giobbe è di natura teodica; non si tratta tanto della sofferenza degli innocenti (GAA 64).

In contrasto, il saggio di Buber del 1952 (EN) "The Dialogue Between Heaven and Earth", che commenta anche il Libro di Giobbe, affronta esplicitamente la situazione post-Olocausto e raggiunge una conclusione molto più inquietante. Buber si chiede "how is life with God still possible in a time in which there is an Auschwitz?" Riconosce che si potrebbe ancora "credere" in un Dio che ha permesso che accadesse la Shoah, ma mette in dubbio la possibilità di ascoltare la parola di Dio, per non parlare di entrare in una relazione Io-Tu con Lui.

« Can one still hear His word? Can one still, as an individual and as a people, enter at all into a dialogical relationship with Him? Dare we recommend to the survivors of Auschwitz, the Job of the gas chambers: ‘Give thanks unto the Lord, for He is good; for His mercy endureth forever’? »
(Martin Buber, On Judaism, p. 224[30])

La domanda di Buber sulla possibilità di un discorso divino-umano dopo l'Olocausto non ha mai avuto una vera risposta. La questione, tuttavia, ha conseguenze di vasta portata per la filosofia dialogica buberiana, poiché, come ha sottolineato Fackenheim, "the centre of Buber’s thought is dialogical speech and, moreover, it is divine-human speech that confers meaning on all speech".[31]

Ritornando al Giobbe biblico, Buber presenta una prospettiva diversa alla fine del libro. Invece di sottolineare il ristabilimento del rapporto con Dio come aveva fatto nel saggio precedente, Buber sottolinea l'inadeguatezza della risposta che Giobbe riceve da Dio, il fatto che la reazione di Dio non solo non riesce a rispondere alle accuse mosse da Giobbe, ma non tocca nemmeno le questioni. "Nothing is explained, nothing adjusted; wrong has not become right, nor cruelty kindness. Nothing has happened but that man again hears God’s address" (OJ 224-25).

La conclusione del saggio di Buber si concentra sulla risposta del popolo ebraico alla Shoah.

And we?

We – by this is meant all those who have not got over what happened and will not get over it. Do we stand overcome before the hidden face of God like the tragic hero of the Greeks before faceless fate? No, rather even now we contend, we too, with God, even with Him, the Lord of Being, whom we once chose for our Lord. We do not put up with earthly being, we struggle for its redemption, and struggling we appeal to the help of the Lord, who is again and still a hiding one. In such a state we await His voice, whether it comes out of the storm or out of a stillness that follows it. Though His coming appearance resemble no earlier one, we shall recognize again our cruel and merciful Lord. (OJ 225)

Questo saggio è il pezzo più fortemente antiteodico di Buber. Presenta Giobbe non semplicemente come l'uomo di fede che attende il ritorno di Dio, ma come il credente coraggioso che (come Abramo) discute con Dio e che protesta invece di limitarsi a lamentarsi. In modo ancora più radicale, Dio, da parte Sua, è riconosciuto come crudele oltre che misericordioso. Tuttavia, nonostante utilizzi la figura di Giobbe per esprimere delusione e rabbia per il nascondimento di Dio, Buber fa comunque appello all'aiuto di Dio e attende la Sua voce (GAA 67).

Il lascito di Buber

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Considerati i motivi antiteodici espressi in "The Dialogue Between Heaven and Earth", sembra chiaro che se Buber avesse pubblicato Ich und Du negli anni Sessanta invece che negli anni Venti, avrebbe potuto essere un lavoro molto diverso. Per lo meno, le affermazioni fiduciose secondo cui Dio è sempre presente[32] sarebbero state formulate in un modo più sfumato, tenendo conto della possibilità di una “eclissi di Dio” e dell'imperscrutabile – persino crudele – silenzio divino. Tuttavia Buber non ripudiò mai la filosofia di Ich und Du; né, nonostante la Shoah, abbandonò il suo quadro concettuale biblico. Qual è, allora, l'eredità di Buber, il suo lascito al pensiero religioso ebraico?

A differenza di Richard Rubenstein, per il quale la Shoah porta alla conclusione che "we stand in a cold, silent, unfeeling cosmos, unaided by any purposeful power beyond our own resources",[33] Buber vedeva la vita ebraica contemporanea come una continuazione della dialettica dell'Israele biblico: l'alternanza di distanza e vicinanza tra Dio e il popolo ebraico. Gli scritti di Buber non offrono una soluzione ai problemi teologici sollevati dalla Shoah. Tuttavia, esplorano la possibilità di mantenere la fede in attesa della fine dell'eclissi di Dio... eclissi che tendo a definire eclissi totale![34]

Il libro di Buber del 1952, Recht und Unrecht (Immagini del bene e del male), include interpretazioni di una serie di Salmi, ognuno dei quali si riferisce al tema della sofferenza innocente. Senza pretendere che i Salmi forniscano risposte complete e soddisfacenti al problema del male, Buber suggerisce che attraverso la loro lettura coloro che soffrono possono ottenere un rinnovamento della fede e della speranza. Buber ritiene che il potere della lettura dei Salmi dipenda da un'esegesi esistenziale, in cui l'esperienza di vita del lettore è vista “in and through the psalmist’s narrative” (TAT 142). Questa esperienza implica rendere una narrazione della memoria comune dell'ebraismo parte della memoria personale dell'interprete – un movimento che Buber vedeva come essenziale per la capacità del lettore contemporaneo di relazionarsi con il testo biblico (TAT 142).

Sebbene Fackenheim, tra gli altri, critichi Buber per non aver fatto il passo avanti verso una filosofia post-Olocausto radicalmente nuova, possiamo comunque apprezzare il lavoro di Buber come una ricca risorsa per i fedeli. La comprensione da parte di Buber del tema centrale della Bibbia – “the encounter between a group of people and the Lord of the world in the course of history” – implica che essa possa essere significativa e accessibile ai lettori di ogni generazione, anche quella dell'"eclissi di Dio". Gli scritti biblici di Buber continuano quindi ad essere rilevanti per gli ebrei religiosi, e gli elementi del suo approccio ermeneutico continuano a influenzare traduttori ed educatori.[35] Se adottiamo l'approccio di Buber all'ermeneutica biblica, l'assenza di Dio non rende la Bibbia irrilevante o un libro chiuso. Rende invece ancora più toccante la nostra lettura sia dei racconti biblici che narrano episodi di incontro divino-umano sia, soprattutto, delle storie e dei Salmi che ne lamentano l'assenza.

Buber intendeva il suo compito, almeno nello scrivere Ich und Du, come quello di “testimoniare” una visione. Tutti i suoi scritti successivi, compresi quelli dell'era post-Olocausto, testimoniano in definitiva la fede di Buber secondo cui "God can speak even though He may be silent; that He can speak at least to those who listen to His voice with all their hearts" (PMB 296).[36]

  Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni e Serie letteratura moderna.
  1. Paul Mendes-Flohr ha dimostrato, tuttavia, che i primi lavori di Buber sono di natura profondamente asociale. La sua diagnosi della malattia dell’epoca nel periodo pre-dialogico era incentrata sulla “on the crisis of Kultur, the decline of spiritual and aesthetic sensibilities putatively wrought by industrial, urban Zivilisation". Paul Mendes-Flohr, From Mysticism to Dialogue: Martin Buber’s Transformation of German Social Thought. Detroit: Wayne State University Press, 1989, p. 15. D'ora in poi citato come FMD.
  2. Secondo Pamela Vermes, I and Thou "is Buber’s masterpiece. It is the receptacle into which he pours the learning and wisdom accumulated over the years, and the vessel in which he re-words them to express his own vision of the good life. Everything that he wrote afterwards can be traced back to it." Pamela Vermes, Buber on God and the Perfect Man (Londra: Littman Library, 1994), p. 27.
  3. Die Geschichten des Rabbi Nachman (1906) e Die Legende des Baal Schem (1908). Traduzioni (ENIT) : The Tales of Rabbi Nachman (Le storie di Rabbi Nachman) (1956) e The Legend of the Baal Shem (La leggenda del Baal-Shem) (1969).
  4. Per una particolareggiata discussione dello sviluppo dell'ermeneutica di Buber, cfr. Steven Kepnes, The Text as Thou: Martin Buber’s Dialogical Hermeneutics and Narrative Theology (Bloomington: Indiana University Press, 1992), d'ora in poi citato come TAT.
  5. Buber, ‘My Way to Hasidism,’ in Buber, Hasidism and Modern Man, trad. Maurice Friedman (New York: Harper, 1966) p. 62.
  6. (EN) Kepnes elaborates on the connection between Buber’s early approach to the Hasidic tales and Dilthey’s hermeneutics. For Dilthey, the goal of interpretation in the human sciences is to arrive at ‘the mental state, the subjective, personal lived experience of the author, as he or she produced the work’ (TAT 9). However, in his mature hermeneutics, this is not the final goal of interpretation. Through the process of empathizing with the mental state of the author, a sufficiently adept interpreter can ‘not only experience the event as the author experienced it,’ but can transcend the text itself by following the line of events ‘to a conclusion that did not exist in the mind of the author’ (TAT 11).
  7. In effetti, Mendes-Flohr sostiene che prima dello sviluppo del pensiero dialogico di Buber (cioè prima del 1916), tutti gli scritti di Buber in ambiti diversi erano basati sulla sua dottrina dell’unità. "All his literary activity, be it as an interpreter of mysticism and folk myths, as a speculative philosopher, or as a Zionist publicist, can be viewed as an elaboration and refinement of his doctrine of unity." (FMD 63)
  8. Rivka Horowitz, Buber’s Way to ‘I and Thou’ (New York: The Jewish Publication Society, 1988), p. 195. D'ora in poi citato come BW.
  9. Maurice Friedman, Encounter on the Narrow Ridge: A Life Of Martin Buber (New York: Paragon House, 1991), p. 36. D'ora in poi citato come ENR.
  10. Daniel, trad. Maurice Friedman (New York: Holt, Rinehart and Winston, 1965), p. 54.
  11. Der Grosse Maggid und seine Nachfolge (Frankfurt am Main: Rütten & Loening, 1922).
  12. Martin Buber, ‘Autobiographical Fragments,’ trad. Maurice Friedman in Paul A. Schilpp e Maurice S. Freidman, curr. The Philosophy of Martin Buber (La Salle, IL: Open Court, 1967), p. 26. D'ora in poi citato come PMB. L’idea che ciò che si cerca in un incontro con l'altro è la rassicurazione che “tuttavia c’è un significato” è parallela all’affermazione di Buber in Ich und Du secondo cui la conferma del significato è un aspetto essenziale dell’incontro Io-Tu.
  13. Pamela Vermes, op. cit., pp. 20–22.
  14. (EN) Emil Fackenheim asks whether Buber’s teaching regarding dialogical relations is a doctrine – ‘a body of metaphysical and epistemological assertions’ – or pure homily (PMB 280). He argues that Buber does indeed present a philosophical doctrine, and that it is this doctrine that distinguishes his work from poems, sermons, and so forth (PMB 281). Nevertheless, Fackenheim’s essay concludes with the suggestion that Buber is perhaps not really a philosopher after all, but a ‘Hebrew sage in modern garb’ (PMB 296).
  15. Martin Buber, I and Thou, trad. (EN)Walter Kaufman (New York: Scribner’s, 1970), p. 53. D'ora in poi citato come IT. (Tutte le citazioni di I and Thou si riferiscono alla traduzione (EN) di Kaufman in mio possesso; tuttavia, per amor di consistenza, ho seguito Ronald Gregor Smith nel tradurre ‘du’ con ‘thou’ piuttosto che ‘you’.)
  16. Buber prese così sul serio questa ispirazione che in seguito si rifiutò di rivedere Ich und Du, anche laddove il significato di alcuni passaggi non era chiaro allo stesso autore! Nelle sue “Risposte ai miei critici”, Buber spiega di aver scritto "Ich und Du in an overpowering inspiration. And what such inspiration delivers to one, one may no longer change, not even for the sake of exactness" (PMB 706).
  17. Franz Rosenzweig criticò il sistema di Buber definendolo eccessivamente semplicistico. Rosenzweig era particolarmente preoccupato del fatto che con l’Io-Esso Buber avesse dato all’Io-Tu “uno storpio come avversario” (BW 208).
  18. Come vedremo più avanti, l’unica eccezione a questa regola è che Dio, o l’Eterno Tu, non potrà mai diventare “Esso”.
  19. Buber riconosce che il processo non è sempre così chiaro; può esserci confusione e intreccio tra Io-Esso e Io-Tu (IT 69).
  20. A. Kohanski, Martin Buber’s Philosophy of Interhuman Relation (Londra: Associated University Presses, 198), p. 268.
  21. Il tema della reciprocità e della mutualità ha dato luogo a molte discussioni. Buber affronta alcune delle questioni nel suo Postscriptum a Ich und Du del 1957 e nelle sue “Risposte ai miei critici” (PMB 707–10). Anche le questioni di simmetria, reciprocità e mutua relazione sono molto in discussione nel complesso dialogo tra Levinas e Buber.
  22. Si veda quanto segue per una discussione se questa affermazione secondo cui sono solo gli esseri umani (e non Dio) ad assentarsi dalla relazione rimane valida nella filosofia successiva di Buber.
  23. Il saggio di Fackenheim ("Martin Buber's Concept of Revelation", PMB 273–96) è di particolare interesse non solo perché è un'analisi filosofica attentamente argomentata del concetto di rivelazione di Buber, ma perché è anteriore alle critiche di Fackenheim a Buber per aver fallito per rispondere adeguatamente alla Shoah.
  24. Sebbene Buber non abbia mai presentato un resoconto sistematico dell'etica, il suo corpus comprende molte discussioni diverse sui valori e sui giudizi morali. Riunendo elementi dei diversi scritti di Buber sull’argomento, Marvin Fox sostiene che Buber presenta un resoconto paradossale, se non contraddittorio. Da un lato Buber insiste sul fatto che i valori morali sono assoluti e hanno la loro fonte nell’Assoluto, in Dio. Dall'altro, insiste sul fatto che gli esseri umani non ricevono mai la rivelazione in una forma completamente pura; piuttosto, viene sempre modificata in qualche modo man mano che viene ricevuta. Pertanto, sebbene l’etica di Buber non sia in definitiva relativistica, poiché egli insiste sul fatto che i valori sono assoluti, tuttavia l’individuo che deve prendere una decisione morale non ha un metodo chiaro per distinguere tra la vera voce di Dio e i propri pensieri. Fox accusa quindi Buber di presentare una filosofia morale che è “an attempt to defend moral anarchy while pleading for moral order” (PMB 170). La risposta di Buber a Fox, sebbene interessante di per sé, non è sufficientemente solida da deviare questa critica al suo insegnamento etico.
  25. Tuttavia, egli insiste sul fatto che è naturale e legittimo che "everyone should accept moral prescriptions, whatever helps him to go the way" (PMB 718, corsivo aggiunto). Tuttavia, secondo la filosofia di Buber, non esiste un insieme di regole, nessun modo di sapere in anticipo quando sarà sufficiente agire secondo le prescrizioni morali tradizionali e quando sarà necessario forgiare la propria risposta a una situazione unica. In definitiva, sia che io scelga di seguire gli insegnamenti tradizionali o di creare la mia risposta, sono ugualmente responsabile della linea di condotta che scelgo.
  26. Nonostante – o forse a causa – delle importanti somiglianze tra i due pensatori, Levinas ha ripetutamente espresso significative riserve sulla descrizione di Buber della relazione Io-Tu. Anche se il contenuto preciso delle sue varie critiche a Buber varia, sarebbe giusto riassumere la posizione di Levinas affermando che la relazione Io-Tu non è sufficientemente "etica". Robert Bernasconi esamina i numerosi studi di Levinas su Buber nel suo saggio “Failure of Communication” as a Surplus: Dialogue and Lack of Dialogue between Buber and Levinas. Questo saggio è stato recentemente ristampato in Atterton et al. (a cura di), Levinas and Buber: Dialogue and Difference (Pittsburgh, PA: Duquesne University Press, 2004). La recensione di Michael Morgan di tale volume evidenzia alcune delle questioni principali nel dibattito tra filosofia dialogica ed etica levinasiana.
  27. Fackenheim, God’s Presence in History, 61. Fackenheim sostiene che, sebbene l’immagine di un’eclissi di Dio possa sostenere la fede ebraica quando si confronta con il secolarismo moderno, la sua stessa speranza può renderla insufficiente a sostenere la fede quando si confronta con Auschwitz – forse la speranza stessa è stata distrutta (GPH pp. 78–). 79). La spiegazione dialettica di Fackenheim del “614° comandamento” ripristina non la speranza stessa, ma il “comandamento a sperare” (GPH 88).
  28. Martin Buber, The Prophetic Faith (New York: Harper and Row, 1949), p. 144. D'ora in poi citato come PF.
  29. Seguo Zachary Braiterman nel distinguere tra teodicea (discorso che tenta di giustificare, spiegare o accettare “il rapporto tra Dio e il male”) e il suo opposto, l’antiteodicea. Zachary Braiterman, (God) After Auschwitz (Princeton: Princeton University Press, 1998), p. 20. D'ora in poi citato come GAA.
  30. Martin Buber, On Judaism, (New York: Shocken Books, 1967), p. 224. Di seguito citato come OJ. Buber riporta un versetto dei Salmi che è uno dei ritornelli dell’Hallel, espressione liturgica di lode a Dio Redentore.
  31. Emil Fackenheim, To Mend the World (Bloomington: Indiana University Press, 1994), p. 196.
  32. Si veda la discussione precedente della Parte III di Ich und Du, in particolare l'idea che l'Eterno Tu ci confronta "immediately and first and always" e che solo gli esseri umani, non Dio, possono essere in colpa quando c'è un'assenza di relazione con Dio.
  33. Richard Rubenstein, After Auschwitz (Londra: The Johns Hopkins University Press, 1992) p. 172. Tendo ad associarmi fortemente alle interpretazioni teologiche di Rabbi Rubenstein.
  34. Cfr. (IT)L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia (1961/1990/2001).
  35. Per esempio, la traduzione della Bibbia in inglese di Everett Fox segue molti dei principi della traduzione Buber-Rosenzweig. Cfr. per esempio, In the Beginning: New English Rendition of the Book of Genesis (New York: Schocken, 1989).
  36. (EN) The quotation is from Fackenheim’s final sentence in the essay ‘Buber’s Concept of Revelation.’ Fackenheim’s conclusion leaves open two possibilities: (1) Buber’s position is that philosophy, at its most profound, is not I-It knowledge but a dialectical critique of I-It knowledge that points to the commitment of the I-Thou standpoint. In this case, the doctrine of I-Thou is properly philosophical. (2) Buber’s position is that philosophy is only I-It knowledge and the doctrine of I-Thou is derived from I-Thou knowledge. In the latter case, Buber would not be a philosopher but a ‘Hebrew sage in modern garb’ because ‘the ultimate basis of his doctrine is an unargued commitment to the dialogue with the ancient of God of Israel, a commitment the reader is called upon to share’ (PMB 295–96).
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