Tradizione ebraica moderna/Capitolo 11
Levinas e il primato dell'etica
modificaPer approfondire, vedi La Coscienza di Levinas. |
A ogni giudice che giudica veramente, anche solo per un'ora,
la Scrittura attribuisce il merito di essere stato
collaboratore di Dio nell'opera della creazione.
L’itinerario di Levinas
modificaEmmanuel Levinas nacque il 12 gennaio 1906,[1] nella città lituana di Kaunas, nota sia ai polacchi che agli ebrei come "Kovno". Nel 1923, all'età di sedici anni, Levinas lasciò Kovno per studiare filosofia all'Università di Strasburgo in Francia. Durante l'anno accademico 1928-29, studiò a Freiburg sotto Edmund Husserl e Martin Heidegger. Nel 1930, si trasferì a Parigi; sposò Raisa Levy, che da bambina viveva nello stesso isolato di Levinas a Kovno; divenne cittadino francese; trovò impiego all’École Normale Israelite Orientale; pubblicò articoli accademici sulla fenomenologia husserliana, la sua tesi di Strasburgo, il libro premiato La teoria dell'intuizione nella fenomenologia di Husserl (1930) e brevi pezzi in riviste ebraiche su argomenti ebraici; e in altri modi entrò nella vivace vita intellettuale di Parigi. Arruolato nell'esercito francese nel 1939, Levinas trascorse gli anni della guerra in un campo di prigionia tedesco. Dopo la guerra, divenne direttore dell’École Normale Israelite Orientale e nel 1947 pubblicò i suoi primi due libri filosofici originali: Il Tempo e l'Altro[2] e Dall'esistenza all'esistente.[3] Dopo la guerra, Levinas iniziò anche i suoi studi talmudici sotto il maestro talmudico noto solo come "Monsieur Chouchani" o "Professor Shoshoni", che allo stesso tempo insegnava anche a Elie Wiesel, tra gli altri.[4] Nel 1959, Levinas tenne la prima delle sue numerose "letture talmudiche" ai colloqui annuali degli intellettuali ebrei francesi, un gruppo che si era formato due anni prima.
Nel 1961, Levinas pubblicò il suo capolavoro sull'etica, Totalità e infinito,[5] che gli servì come tesi per il dottorato francese in lettere. Con il sostegno di Jean Wahl, Levinas ottenne il suo primo incarico accademico presso l'Università di Poitiers nel 1963. Nel 1967, si trasferì all'Università di Paris-Nanterre, per unirsi a Paul Ricœur; e infine, dal 1973 al suo pensionamento nel 1976, Levinas concluse la sua carriera accademica presso l'Università di Parigi-Sorbona dove, come professore emerito di filosofia, tenne corsi fino al 1979.
Nel 1974, Lévinas pubblicò il suo secondo magnum opus, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza.[6] Oltre ai quattro libri filosofici sopra menzionati, dagli anni Trenta agli anni Novanta Levinas pubblicò molti articoli sia di filosofia che di ebraismo, quasi tutti ormai raccolti in vari volumi, la maggior parte dei quali assemblati e introdotti da Levinas, ma alcuni anche curati da altri e pubblicati postumi.
Levinas morì all'età di ottantanove anni il 25 dicembre 1995 (l'ottavo giorno di Chanukkah), dopo alcuni anni debilitanti trascorsi soffrendo di Alzheimer.
Il messaggio centrale della filosofia di Emmanuel Levinas è in effetti piuttosto semplice, ben noto e antico, sebbene allo stesso tempo notoriamente difficile da realizzare: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Tuttavia, nonostante la schiettezza e il consenso quasi universale a questo insegnamento morale essenziale, il linguaggio che Levinas utilizza per mettere in moto la sua filosofia e il contesto a cui la sua filosofia risponde sono piuttosto complessi e almeno inizialmente piuttosto sconcertanti. Molti lettori neofiti di Levinas si lamentano della densità dei suoi testi, ed è vero che Levinas fa poche concessioni all'opinione o al gusto di massa. Scrive sulla base dell'intera civiltà occidentale, da Atene a Gerusalemme a Roma, e tenendo a mente tutti i suoi più grandi collaboratori e interlocutori.
Il pensiero di Levinas non è solo impegnato nella filosofia e coinvolto nella modernità, completamente aperto alle scoperte delle scienze moderne e alle estensioni fenomenologiche della scienza; è anche fedele a una lunga tradizione di spiritualità e saggezza monoteiste ebraiche. Levinas è allo stesso tempo e senza compromessi sia un filosofo che un pensatore ebreo. "C'è", ha detto una volta in un'intervista, "una comunicazione tra fede e filosofia e non il famigerato conflitto".[7] In seguito, dovremo vedere più precisamente come Levinas armonizza il pensiero dell'ebraismo e della filosofia, o meglio inizia nella loro continuità, ma possiamo dire subito che poiché evita la semplicità allettante di certe dicotomie fin troppo evidenti, l'ingresso nel suo pensiero è per questo motivo reso più difficile.
È tempo di entrare nel pensiero di Levinas, cosa che faremo cogliendo innanzitutto il significato di monoteismo. L'ebraismo, qualunque sia il suo carattere specifico, è un monoteismo. Qual è allora l'essenza del monoteismo? Inoltre, in che modo la modernità, il passaggio dagli standard antichi e medievali di intellezione, permanenza ed eternità, a quelli di volontà, cambiamento e tempo, segna una differenza per il monoteismo? In che modo la metafisica etica di Emmanuel Levinas deve essere pensata in relazione al monoteismo in generale, al monoteismo etico dell'ebraismo in particolare e, per quanto riguarda entrambi, al passaggio intellettuale e spirituale da una sensibilità classica a una moderna? Queste sono le domande che guidano questo Capitolo.
Il pensiero di Levinas è allo stesso tempo filosofico ed ebraico, e l'ebraismo è una religione monoteista. "Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe" – il Dio del popolo ebraico, dell'ebraismo – è un Dio monoteista. Tuttavia, al di là delle storie bibliche, dei rituali, delle restrizioni alimentari, dei luoghi e dei tempi sacri, al di là di tutto ciò che costituisce le particolarità delle particolari religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam), comprendere il monoteismo è impossibile perché il monoteismo, per sua stessa natura, supera la comprensione umana. Ma in che modo esattamente il monoteismo supera la comprensione umana? Esplorariamo tale questione esaminando quello che io chiamo il "paradosso del monoteismo".
Il paradosso del monoteismo
modificaIl paradosso si dipana in tre fasi. Tutte e tre sono necessarie e tutte e tre insieme sono al centro di tutte le religioni monoteiste. Innanzitutto, il Dio monoteista è perfetto, per definizione. È la premessa fondamentale e irrevocabile del monoteismo. Se si adora un Dio imperfetto, non si adora il Dio del monoteismo. Inoltre, la perfezione della perfezione di Dio è assoluta. Nessun attributo, qualità o aggettivo può essere applicato alla perfezione di Dio nella misura in cui sono tutti presi dal nostro mondo finito e possono quindi essere applicati a Dio solo per analogia o negazione. La perfezione assoluta di Dio, ciò che Levinas, citando da Nefesh HaChayim (L'Anima della Vita) di Rabbi Hayyim di Volozhyn, chiama "Dio dalla sua parte",[8] è perfezione senza dualità, molteplicità o contrasto. Qui l'"unità" (echud) di Dio non è numerica, una tra le altre, ma unica, incomparabile. Levinas invoca una frase del Deuteronomio 4:39: "non c’è nulla al fuori di lui".[9] Ecco Dio prima o senza la Creazione. È ciò che i cabalisti hanno chiamato ayin, letteralmente “nulla”, o “pura spiritualità” (se lasciamo il termine “spirito” indefinito e indeterminato), in contrasto con yesh, “esistenza” o “realtà palpabile”, letteralmente "c’è".
In secondo luogo, il Dio perfetto del monoteismo[10] crea un universo imperfetto. Il processo di creazione — che è uno degli argomenti centrali della Cabala, o almeno così sono i versetti iniziali della Genesi — è un mistero in sé. Ciò che è importante per il paradosso, tuttavia, è l'imperfezione della creazione (possibile, così dicono alcuni cabalisti, solo attraverso la "contrazione" di Dio, qualunque cosa ciò significhi). Include, in un certo senso, l'ignoranza così come la conoscenza, il male così come il bene, i sentimenti ignobili così come i sentimenti nobili, il profano così come il sacro. Qui, pertanto, in "questo mondo", invece di un Uno unico e assolutamente perfetto senza altri, c'è gerarchia, l'alto e il basso, il meglio e il peggio. In contrasto con la perfezione assoluta, qui si ha "Dio dalla nostra parte", per invocare di nuovo il linguaggio che Levinas prende dall'opera principale di Rabbi Hayyim di Volozhyn. Nell'ebraismo, il termine "santo" (kadosh), secondo l'interpretazione classica data da Rabbi Solomon ben Isaac (Rashi), si riferisce alla "separazione": del sacro dal profano, del puro dall'impuro, del nobile dal volgare. La separazione si riferisce, da un lato, alla differenza fondamentale tra Creatore e creazione e, dall'altro, alle differenze all'interno della creazione, tra gli esseri. "Prima che tu potessi gioire con gli occhi" direttamente su Dio, insegnano i rabbini nel Midrash, "sei caduto sulla terra".[11]
Per quanto riguarda le differenze all'interno e tra le tre grandi religioni monoteiste, ciascuna determina in quale senso primario la creazione è una diminuzione, un'imperfezione della perfezione originale di Dio. Ognuna risponde alla domanda sul significato e la natura della creazione in relazione a Dio. Ciò che consegue dalle risposte a questa domanda fondamentale è la legittimità stessa e la gerarchia delle contromisure sancite dalla religione – come sapienza, fede, preghiera, carità, pentimento, buone opere, sacramento, sentimento, rettitudine, ascetismo e così via – di cui le creature si pensa siano capaci per rettificare l'imperfezione della creazione. Vale a dire, determinare il significato dell'imperfezione della creazione specifica il significato e la funzione dell'effettiva religione monoteista — ebraismo, cristianesimo o islam.
Quindi, primo passo: la perfezione di Dio. Secondo passo: l'imperfezione della creazione.
In terzo luogo, tuttavia, poiché Dio è perfetto, tutto ciò che deriva da Dio è anche perfetto, completamente perfetto come la sua fonte — inclusa la creazione! Solo il perfetto deriva dalla perfezione, altrimenti la perfezione non sarebbe perfezione. Poiché tutto è perfetto, non è richiesto nulla, non sono richieste contromisure e non è necessaria alcuna legittimazione o rettifica. Dal punto di vista di questo terzo elemento, anche per una creatura essere grata per la perfezione è essenzialmente un atteggiamento ingrato, poiché grata o no, tutto rimane perfetto. Non è richiesto nulla. La perfezione non può richiedere nulla senza diminuire se stessa. E la perfezione, poiché è perfezione, è inalterata. Ecco, quindi, latente in questo terzo elemento, preso da solo, la seduzione del nichilismo, un nichilismo santo, la tentazione dell’eccesso, chiamiamola così, in contrasto al surplus. Scrive Levinas di questo eccesso originario della creazione: "The spiritualism beyond all difference that would come from the creature, means, for man, the indifference of nihilism. All is equal in the omnipresence of God. All is divine. All is permitted".[12] Ma così anche niente è permesso perché niente è proibito... tutto ciò che è, è – senza gerarchia, senza orientamento, senza motivazione. Nihil obstat [nulla si frappone], ma anche nil admirari [non ammirare nulla]. Tuttavia non di meno, o, più precisamente dalla prospettiva monoteistica, molto di più: questa perfezione non è niente di meno che la pura gloria splendente della perfetta santità di Dio. Tutto è Dio e Dio è tutto.
Il paradosso del monoteismo deriva dalla verità simultanea di tutti e tre gli elementi: Dio è perfetto, e la creazione è allo stesso tempo imperfetta e completamente perfetta.[13] È proprio il surplus aperto da questo paradosso che sta alla radice di ogni monoteismo. È su questo paradosso (chiamato metaforicamente una “pietra di fondazione” o “roccia”) e a causa di questo paradosso che le vere religioni monoteiste – non la “religione in generale” ma l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam – sono costruite, e che riflettono in tutta la loro concreta particolarità dalla liturgia all’attività quotidiana alla teologia. È proprio questo paradosso che non può essere afferrato o conosciuto, perché supera la comprensione umana. Questa è l'incomprensione specifica che sta alla radice del monoteismo.
Il paradosso sotto o sopra
modificaCome ogni paradosso, il paradosso del monoteismo è fondamentalmente non-razionale. Trasgredisce i due principi costituzionali della logica proposizionale, vale a dire i principi di non-contraddizione e terzo escluso. Secondo le restrizioni di tale logica, nulla può essere, e nessuna affermazione coerente può affermare sia "A" che "non A" allo stesso tempo. Tutto, per essere, e per essere affermato in modo coerente, deve essere o "A" o "non A". Nel caso del monoteismo, tuttavia, come abbiamo appena visto, queste condizioni della logica non sono solo insoddisfatte, devono essere infrante. Quindi il monoteismo "è" al di là della logica dell'essere e il "senso" che ha (se ha senso) è al di là della logica della razionalità. Il linguaggio stesso dell’essere, come inteso dai filosofi, è quindi inadeguato al paradosso del monoteismo. L'essere aderisce a se stesso, sussiste in se stesso, si sviluppa da se stesso, mentre il Dio del monoteismo è sia essere (Dio come im-perfezione della creazione) sia oltre l'essere (Dio prima o senza la creazione) allo stesso tempo – "altrimenti che essere", per usare la formula di Levinas. Non si può "pensare", "sentire" o "obbedire" al Dio del monoteismo senza invocare una trascendenza assoluta – la perfezione di Dio, con o senza il mondo – il cui "contenuto" trabocca dal suo "contenitore", sia che quest'ultimo, il contenitore, sia concepito come pensiero, sentito come emozione o attuato tramite azione. Non è per caso, quindi, ma per necessità che il paradosso si trovi al centro della religione monoteista.
Questa altrimenti-che-razionalità non significa, tuttavia, che il monoteismo sia irrazionale. In effetti, la chiave del senso del monoteismo – sia nel pensiero, nel sentimento o nell'azione, o in qualche altro modo – dipende dal vedere il più precisamente possibile come le religioni monoteiste esprimono concretamente la "relazione" extra-logica tra Dio e la creazione. Mentre un nichilismo autenticamente ateo potrebbe affermare che "poiché non c'è Dio, tutto è permesso", non è mai il caso che per la religione monoteista, tutto sia permesso. E tutto non è permesso proprio perché c'è Dio. L'intero sforzo delle religioni monoteiste – ebraismo, cristianesimo, islam – è quello di evidenziare il significato, senza limitare completamente, di ciò che non può essere contenuto, di rivelare senza ridurre ciò che interrompe la manifestazione. La rivelazione non è quindi mai solo un particolare "contenuto" – per esempio, i testi specifici, i rituali, le dichiarazioni, i servizi, i santi e i saggi venerati dai tre monoteismi. La rivelazione è anche più vicina alla vera essenza della religione monoteistica, un più nel meno – il surplus del paradosso. Spesso si sottolinea che un testo sacro, a differenza di un testo profano, è inesauribile, anzi infinito. Ciò non significa che abbia un significato “letterale”, presumibilmente il significato di Dio. Piuttosto, ciò implica che il testo sacro abbia un numero infinito di letture, pari solo all’infinito, alla perfezione del Dio la cui Volontà si dice riveli. Determinare e rendere concreto il senso esplosivo del surplus del paradosso del monoteismo, che si tratti principalmente di amore, compassione, intelletto, comando, grazia, azione, meditazione o qualcos’altro – questo è il compito della religione, delle religioni concrete, a differenza della filosofia.
Ci sono state due ampie e fondamentalmente opposte risposte al paradosso della religione. Per figure come Baruch Spinoza e i filosofi occidentali in generale, coloro che aderiscono costantemente alla logica della razionalità, il paradosso indica che la mentalità religiosa monoteistica è meno che razionale, è subrazionale. Il reale, come Parmenide ha insistito per primo e come Hegel ha elaborato in seguito, si conforma al razionale: "Il reale è razionale e il razionale è reale". L'attualità delle credenze e delle pratiche monoteistiche ebraiche, cristiane e musulmane, basate come sono sul paradosso, verrebbe quindi spiegata come prodotti psicologico-sociologici di ignoranza, primitivismo, patologia, istinto di branco, grandi politiche, delusione di massa, coscienza di classe e simili. Per tutte le forme di razionalismo, la non razionalità del monoteismo è semplicemente subrazionale, semplicemente il sintomo di un fallimento più profondo e non riconosciuto.
Al contrario, per quelle persone che aderiscono al monoteismo, la non-razionalità del paradosso indica che la mentalità religiosa è più che razionale, è sopra-razionale. Tutto ciò che non è razionale non è quindi illusorio, superstizioso, mera apparenza. A differenza del dualismo "o/o" del razionalista, il monoteista fa una distinzione tripartita: irrazionalità, a cui ci si oppone; razionalità, che si supera; e religione, a cui si aderisce. La religione è il far senso del paradosso. Le religioni monoteiste spiegano il loro significato superiore come dono della rivelazione divina, dello spirito santo, dell'ispirazione profetica, della grazia celeste o di altre fonti elevate simili. Le obiezioni critiche dei razionalisti vengono affrontate caratterizzando la razionalità, contrariamente alle sue stesse pretese egoistiche, come ristretta, cieca alla trascendenza del divino. Lo sforzo fondamentale delle religioni monoteiste è quello di indicare e avvicinarsi a una “dimensione” (qual è il modo corretto di parlarne? – questo è il problema) del sacro, sconosciuta e irraggiungibile dalla sola razionalità.
Riferimento, intenzionalità e coscienza
modificaSi è spesso detto che tra scienza e religione non può esserci una via di mezzo o un termine, e quindi solo un conflitto senza quartiere, perché si escludono a vicenda. Una parte esalta il paradosso a spese della razionalità, mentre l'altra esalta la razionalità a spese del paradosso.[14] Leo Strauss, che ha fatto molto per propagare questa cruda dicotomia, ha anche dimostrato che quando viene posta in tale opposizione, nessuna delle due parti può convincere l'altra dei propri errori perché ciascuna si fonda su basi completamente diverse.[15] Ma dobbiamo prendere più seriamente l'idea che scienza e religione non sono immagini speculari l'una dell'altra: nessuna delle due accetta la contestualizzazione dell'altra. In contrasto con la distinzione tra il razionale e l'irrazionale riconosciuta dalla razionalità, la religione offrirebbe una terza alternativa, basata su un apprezzamento positivo del paradosso del monoteismo. Scrive Levinas: "This human impossibility of conceiving the Infinite, is also a new possibility of signifying".[16]
Sappiamo questo e come la razionalità rifiuti la religione come una specie di subrazionale. L'intelligibilità delle persone religiose verrebbe rifiutata perché ostinata, infantile, illusa e simili. Ma la nostra domanda e quella di Levinas non è né come la razionalità rifiuta la religione né come la religione rifiuta la razionalità. Piuttosto, la domanda è come il monoteismo ammette il suo paradosso fondamentale senza produrre il caos dell'irrazionalità. Il reale può non essere razionale, ma per tutto questo non è irrazionale. La risposta della religione è che il senso del paradosso trova espressione nel simbolo, non il simbolo come corruzione del pensiero, né il simbolo come mistificazione della materia, ma piuttosto il simbolo come unità instabile – la "singolarità", per usare il termine corrente – del prossimo e del lontano, dell'essere e dell'altrimenti che essere. Orientato verso l'alto, in diagonale, funziona come un'indicazione, una rottura, una sfida. La grande originalità di Levinas è quella di sostenere che il simbolo – il senso del monoteismo come surplus – non è in fondo né una struttura ontologico-epistemologica né una struttura estetica, ma una struttura etica. In Totalità e Infinito (1961), aveva già scritto: “God rises to his supreme and ultimate presence as correlative to the justice rendered unto men.[17] Everything that cannot be brought back to [se ramener à] an [ethical] inter-human relation represents not the superior form but the forever primitive form of religion".[18]
Il problema, quindi, è quello di stabilire un livello di senso indipendente dalla visione del mondo diadica razionalista, e tuttavia generatrice di razionalità. È una questione, al di là del paradosso della religione, che ha turbato, e il cui sforzo di rispondere ha determinato gran parte del pensiero moderno. In generale, queste varie alternative "a medio termine" al senso e al nonsenso si sono basate su quella che possiamo chiamare un’ontologia estetica — vale a dire un'attenzione alla manifestazione della manifestazione di per sé assunta come una nuova forma di epistemologia. Lo si vede abbastanza chiaramente nella poesia della "differenza ontologica" di Heidegger, dove la fonte del significato degli esseri non sono le loro interrelazioni razionali o irrazionali, scientifiche o storiche, ma il loro sorgere dall'aprire un'apertura, un "dare" (che è simultaneamente un ritiro) che è lo stesso "essere" (verbo) del loro essere. Tale sarebbe la struttura pre-razionale, ma non irrazionale, della rivelazione dell'essere. Fino a Levinas, tuttavia, nessuno aveva pensato questo nuovo senso di origine in termini di etica, e ancor meno era stato pensato in termini di un'etica basata sull'intersoggettività. Inoltre, e questo è molto importante, Levinas pensa l'etica eticamente. Vale a dire, Levinas pensa l'etica come la "metafisica" del paradosso del monoteismo, tale che la sua non-coincidenza concretamente "è" il sé moralmente "messo in discussione" dall'altra persona, in contrasto con tutti i resoconti filosofici, che rimangono basati su una forma o un'altra di auto-posizione, autocoscienza o impeto estetico.
Il significato di significare
modificaUno dei migliori percorsi per entrare nel pensiero di Levinas è seguire il suo resoconto dell'intimo legame tra le funzioni semantiche e comunicative del linguaggio. L'attento studio della significazione da parte di Levinas lo ha portato a scoprire una dimensione del significato il cui vero contenuto è stato trascurato dalle analisi "intenzionali" o "noetico-noematiche" del significato esposte dal suo maestro Husserl, come anche dall'ermeneutica "rivelatrice" di Heidegger.
Dobbiamo ricordare, innanzitutto, che la grande scoperta di Husserl fu una svolta verso la coscienza come fonte di significato — come fonte di significato per il vero, vale a dire per la scienza, le scienze oggettive "hard". Finora, la scienza naturale, in contrasto con l'idealismo filosofico, aveva strappato la verità dal significato correlando i segni ai loro referenti. Questo era il suo realismo, basato su un semplice modello di corrispondenza della verità. Ecco il modello:
Correspondence Theory of Truth
Sign/symbol → refers to — Signified/thing itself
Ciò che Husserl vide fu che una comprensione completa del significato avrebbe richiesto anche una spiegazione della produzione di segni da parte della coscienza, una svolta verso atti di "meaning-bestowing" o costitutivi. Così Husserl integrò la struttura realista del segno-referente con la sua "origin" negli atti significanti della coscienza. Ecco il modello:
Intentional (or ‘‘Transcendental”) Analysis of Signification
Signifier/consciousness ⇒ (Sign/symbol → refers to – Signified/thing itself)
Naturalmente questo approccio “trascendentale” ha aperto la porta non solo a una chiarificazione dell'origine nella coscienza di significati scientifici o rappresentativi, ma anche a una chiarificazione dell'origine nella coscienza, ampiamente interpretata come "intentional meaning-bestowal", di molte altre regioni di significato oltre a quelle della coscienza rappresentativa, come i significati aperti dalla significazione percettiva, immaginativa, pratica ed emotiva. Heidegger, ad esempio, all'inizio di Essere e tempo (1927), analizzò il fondamento dei significati teorici nei significati strumentali, nella “mondanità” dell’“essere-nel-mondo” primordiale del soggetto.[19]
Ciò che Levinas vide, tuttavia, fu che nella sua legittima preoccupazione di fornire un terreno più ampio per la significazione rivolgendosi alla coscienza, Husserl favoriva ancora un modello rappresentazionale del significato, un modello che aveva inconsapevolmente preso in prestito dalle scienze oggettive che intendeva integrare. Ciò che colpì l'attenzione di Levinas, oltre alla più ampia struttura signifying-sign-signified di Husserl (coscienza "intenzionale"), fu la dimensione comunicativa del contenuto. Non solo il significato realista, la correlazione sign-signified, è inteso o significato attraverso un atto di coscienza; il significato è anche ciò che viene detto da qualcuno a qualcuno: ha una dimensione accusativa.[20] Non c'è solo ciò che viene detto, anche aggiungendo che ciò che viene detto è prodotto dalla coscienza e quindi ha una struttura "intenzionale", c'è anche il dire del detto a qualcuno. Come ho fatto prima, scriverò "Ecco il modello", ma tra un momento vedremo perché non può esserci alcun modello, nessuna prospettiva esterna con cui tematizzare ciò a cui Levinas sta puntando nell'evidenziare la dimensione accusativa della significazione. Ecco il modello:
Inter-Subjective Event of Meaning
Someone/Other
(Sign/symbol → refers to — signified/thing itself) — to
⇑
Signifier/Subject
Ciò che Levinas vide non fu solo che la dimensione accusativa del significato non poteva essere recuperata all'interno della struttura signifying-sign-signified dell'intenzionalità che Husserl aveva avanzato. Ciò che vide, e qui sta un aspetto della sua originalità, fu che il riconoscimento della dimensione accusativa irriducibile della significazione indicava che la significazione non era in ultima analisi una funzione né della corrispondenza con le cose né di un'origine intenzionale nella coscienza (il che, pensando così, riportò Husserl all'idealismo), ma piuttosto una funzione della relazione intersoggettiva.
Ma non è tutto. In secondo luogo, e ancora più significativo, c'è ciò che entra in gioco con questo riconoscimento del ruolo dell'intersoggettività. È proprio perché la relazione intersoggettiva è fondamentale per la significazione che è un errore comprendere e interpretare la relazione intersoggettiva in termini di strutture significanti che sono esse stesse derivate e non costitutive di essa. Piuttosto, allora, la significazione deve essere interpretata in base alle strutture dell'intersoggettività. E l'intersoggettività, per dirlo di nuovo, non può essere interpretata in termini di signifying-sign-signified, vale a dire in termini di linguaggio come sistema di segni (coerenti, rivelati, differiti o altro) o come prodotto della coscienza. La corretta interpretazione dell'intersoggettività, l'essenza stessa dell'intersoggettività — tale è il secondo aspetto dell'affermazione di Levinas e la sua intuizione più profonda e originale — è una struttura etica: la priorità morale dell'altra persona sul sé, il sé responsabile dell'altra persona. La priorità asimmetrica dell'altro, l'altro come infinito obbligo morale e il sé come responsabilità morale di fronte a ("accusato" da) la trascendenza dell'altro — questo orientamento etico dell'"Io" e del "Tu" è ciò che non può essere contenuto nella struttura signifying-sign-signified del linguaggio. È ciò che non può essere "visto dall'esterno", non può essere rappresentato, ma che tuttavia rende il linguaggio significativo, significante, importante in primo luogo.
A differenza degli strutturalisti successivi, per Levinas questo surplus non indica l'impatto di una rete più ampia di segni storico-culturali. A differenza dei decostruzionisti successivi, per Levinas questo surplus non indica l'impatto di uno slittamento semiotico, che si verificherebbe di nuovo a livello di segni che rinviano a segni. Piuttosto, per Levinas, la dimensione accusativa irrecuperabile della significazione deve essere "compresa" oltre i segni, oltre il detto (dit). Ciò che importa è l'impatto di una dimensione intersoggettiva o interumana, un dire (dire) che è fin dall'inizio un'esigenza etica. L'impatto della situazione comunicativa di un sé portato nella sua singolarità in prima persona in prossimità di un altro sé attraverso il discorso non può propriamente essere "compreso", perché in quanto esteriore, trascendente, altro, non può essere catturato in un tema o rappresentato. Al di là della struttura signifying-sign-signified, discorso, parola, espressione – ciò che in un altro contesto J. L. Austin concepiva in termini di “performance” – non indicano un fallimento del significare nell’essere sufficientemente preciso o l'intrusione di determinazioni culturali o semiotiche più ampie (che minerebbero la libertà del soggetto) rispetto al segno. Piuttosto, la necessità del discorso, della comunicazione, non è neutra e indica una priorità irriducibile derivante dalla relazione intersoggettiva, una priorità che dà senso all'intera struttura signifying-sign-signified senza minarne la validità. Questa priorità della dimensione intersoggettiva può essere spiegata solo in termini etici piuttosto che epistemologici, ontologici o estetici. L'alterità dell'altra persona a cui si parla e, ancora più importante, l'alterità dell'altra persona che parla e a cui l'Io risponde, anche nell'ascolto, avrebbe il significato morale di un obbligo. Responsabilità, quindi, la responsabilità di rispondere all'altra persona come altro, sarebbe la radice non-intenzionale della costruzione intenzionale della significazione. L'intera carriera intellettuale di Levinas è lo sforzo di articolare il più precisamente possibile questo prevalente surplus sociale e morale di significato e le sue conseguenze e ramificazioni per tutte le dimensioni della vita umana.
Etica intersoggettiva e monoteismo
modificaLe nostre domande guida hanno a che fare con Levinas e l'ebraismo. Forse la connessione non è più così difficile da vedere. Il paradosso del monoteismo può essere interpretato come l'irruzione della trascendenza nell'immanenza, senza che la trascendenza assorba l'immanenza in sé stessa o venga assorbita dall'immanenza. Il paradosso, in altre parole, imita la struttura del dire-detto che per Levinas è la struttura fondamentale dell'etica. Ma il monoteismo imita solo la struttura dell'etica, o l'etica è piuttosto la sua migliore articolazione, la sua realizzazione più fedele, la dispensazione più alta e sacra del monoteismo? Lévinas dirà di sì. "Ethics is not the corollary of the vision of God, it is that very vision" - almeno per una "religione di adulti" come l'ebraismo.[21] Consideriamo i parallelismi.
Il monoteismo caratterizza la trascendenza come perfezione e l'immanenza come imperfezione (e perfezione), senza separare le due né identificarle, ma tenendole in una relazione paradossale. Ciò che Levinas comprese fu che il paradosso del monoteismo non poteva essere né una struttura ontologica né estetica, poiché entrambe queste dimensioni di senso, che in ultima analisi riducono l'indipendenza o la separazione dell'individualità, sono essenzialmente incapaci di mantenere la straordinaria "relazione senza relazione" (relation sans relation)[22] – trascendenza nell'immanenza – caratteristica del paradosso monoteistico. L'etica, tuttavia, mantiene il sé in relazione all'alterità assoluta in virtù di responsabilità e obblighi. È la struttura stessa della trascendenza nell'immanenza. Il monoteismo è una struttura etica. Scrive Levinas in Totalità e infinito: "Religion, where relationship subsists between the same and the other, despite the impossibility of the Whole – the idea of Infinity – is the ultimate structure...[23] To know God is to know what must be done".[24]
Pertanto non è l'astratta onniscienza filosofica di Dio, ma la sua concreta benevolenza personale la chiave per comprendere la creazione. La creazione nella sua relazione con Dio, nella paradossale congiunzione di imperfezione e perfezione, è costituita dall'opera di santificazione come responsabilità della moralità e dalla redenzione come sforzo per la giustizia.[25] Il paradosso del monoteismo è l'etica come tikkun olam, "riparare il mondo" attraverso una giustizia temperata dalla misericordia. Si potrebbero citare molti testi esplicativi di Levinas per supportare questa affermazione, e invito i lettori a esaminare l'intera sottosezione intitolata The Metaphysical and the Human ("Il metafisico e l'umano"), della Section One di (EN)Totality and Infinity, da cui sono tratte le seguenti citazioni orientate filosoficamente.
Moralità e giustizia non sono solo “come” la religione; sono religione. Il cammino verso Dio non è sotto, attorno o sopra la moralità e la giustizia, ma attraverso di esse. "The harmony between so much goodness and so much legalism constitutes the original note of Judaism".[26]
Ho citato tanto da Totalità e Infinito quanto dai cosiddetti scritti "confessionali" di Levinas (da parte mia, l'unica differenza tra questi due tipi di scritti non è in ciò che Levinas dice, ma a chi lo dice). Non possiamo abbandonarci all'idea fuorviante che Levinas interpreti il monoteismo eticamente solo nelle sue opere filosofiche, come se questo modo di parlare fosse semplicemente il volto pubblico e accettabile di ciò che altrimenti e più autenticamente deriva da un campo tribale di significato da cui i non-ebrei sono esclusi per sempre. Ciò è sbagliato. Non c'è nulla di escludente nell'ebraismo (tranne che lotta per escludere ed eliminare il male e l'ingiustizia), e nulla di sovraetico, nessuna fede o fede cieca (alla maniera del Cavaliere della Fede di Kierkegaard) che sostiene la concezione dell'ebraismo di Levinas. Per Levinas, il “momento più alto” nel quasi sacrificio di Isacco da parte di Abramo, per prendere il controesempio “religioso” apparentemente più difficile, non è un rifiuto della moralità da parte di Abramo, ma precisamente la sottomissione di Abramo all'imperativo morale, il “no” dell'Angelo di Dio che non permetterà l'omicidio.[27] L'omicidio non è un male perché l'Angelo o perché Dio lo proibisce; è un male, e quindi Dio lo proibisce e lo troviamo affermato, così Levinas argomenta contro Kierkegaard, poco dopo la storia del quasi-sacrificio quando apprendiamo che Abramo, che ha ovviamente imparato bene la lezione, discute con Dio sulla salvezza delle città di Sodoma e Gomorra in nome della giustizia a cui sia gli umani che Dio devono obbedire. Tale è la religione della "alleanza", perché l'alleanza – "in nome della giustizia" – è l'espressione politica del paradosso del monoteismo. Già nel 1937, in un articolo su "Il significato della pratica religiosa",[28] Levinas comprendeva le pratiche rituali ebraiche non riducendole come la favola di Esopo a lezioni morali, o a un'igiene o un simbolismo, ma vedendo in esse un'interruzione, una pausa, un controllo di fronte alle passioni dell'atteggiamento naturale e del suo assorbimento nell'insieme delle cose (che tanto impressionò Heidegger), quindi una presa di distanza da ogni realtà puramente naturale o naturalistica. Nel suo pensiero maturo, questa esitazione – insegnata dal rituale religioso – sarà intesa nel suo senso più profondo come vergogna di fronte al male di cui sono capaci le nostre forze vitali, in ultima analisi come riconoscimento, di fronte all'altro, che "Non ucciderai".
Nei suoi scritti filosofici, Levinas concentra molta attenzione, parte della quale ho cercato di indicare, sulla traccia dirompente della moralità come surplus non intenzionale che dà senso alle funzioni significanti della coscienza intenzionale.[29] Anche nei suoi scritti ebraici – senza in alcun modo tornare a un universalismo astratto, quindi fedele al mondo spirituale concreto della tradizione rabbinica normativa – Levinas articolerà la “breccia” dell'assoluto nel relativo, la rottura del detto tramite il dire, in termini di moralità e giustizia. Il primato dell'etica è articolato e difeso in tutti gli scritti di Levinas, sia filosofici che ebraici.[30] Nella misura in cui lo scopo della filosofia è la saggezza piuttosto che la conoscenza, non c’è bisogno e non può esserci giustificazione, dal punto di vista della filosofia stessa, per separare gli scritti filosofici dagli scritti confessionali. Non sorprende, tuttavia, che, poiché il tema stesso del “monoteismo” è un tema religioso, le letture più esplicitamente monoteistiche sul primato dell'etica si trovino negli scritti “ebraici” di Levinas. Ce ne sono diverse, ma mi riferisco ora alle pagine conclusive di due saggi pubblicati nel 1977 (sei anni dopo la pubblicazione di Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, quindi nella più piena maturità del suo pensiero): “Rivelazione nella tradizione ebraica” e “A immagine di Dio, secondo Rabbi Hayyim Volozhiner”.[31]
In “A immagine di Dio, secondo Rabbi Hayyim Volozhiner”, ad esempio, Levinas riconosce che quando Rabbi Hayyim trova il paradosso del monoteismo nella sintassi stessa delle benedizioni ebraiche, che iniziano rivolgendosi a Dio in seconda persona e concludono riferendosi a Dio in terza persona, il coordinamento di “Dio dalla nostra parte”, il Dio immanente che agisce nella storia, e “Dio dalla sua parte”, il Dio trascendente nella Sua pura perfezione, è anche e non meno un riferimento all'imperativo morale posto sull’Io di fronte a un Tu, da un lato, e alla richiesta di un “dis-interested-ness” che, lottando per la perfezione, mira alla giustizia per tutti,[32] dall’altra parte. “In this radical contradiction [between God on our side and God on his own side], neither of the two notions could efface itself before the other. . . . And yet this modality of the divine is also the perfection of the moral intention that animates religious life as it is lived from the world and its differences, from the top and the bottom, from the pure and the impure”.[33] Nella congiunzione di prossimità (“Tu”) e distanza (“Egli”) enunciata nelle preghiere ebraiche, Levinas trova in un certo senso esattamente ciò che tanti commentatori ebrei precedenti avevano trovato prima di lui: la congiunzione di questo mondo e di un altro, la congiunzione dell'umano e del divino, la congiunzione delle azioni di Dio e della Sua Essenza. Ma nelle mani di Levinas, queste congiunzioni non si basano su una “conoscenza” impossibile (o mistificazione), ma sugli imperativi di una moralità obbligata all'infinito – una “gloria” che “non appartiene al linguaggio della contemplazione” – eppure rettificata dalla giustizia, una giustizia al servizio della moralità.[34]
La gerarchia imperfetta della creazione è precisamente un imperativo morale, dalla perfezione alla perfezione. Quando Levinas, continuando nell'articolo su Rabbi Hayyim di Volozhin, scrive di questo come "a spiritualization that dismisses the forms whose elevation it perfects, but which it transcends as being incompatible with the Absolute", intende precisamente la vita religiosa come auto-superamento etico. La religione, in questo senso etico-sacro, non è più una fuga miracolosa o predeterminata dal nulla, una fuga dall'assoluta inutilità della creazione, dai suoi "involucri", ma piuttosto il perfezionamento di una creazione il cui senso più alto sarebbe precisamente questo movimento – non necessario o impossibile, ma migliore – verso la perfezione morale. Nell'ordine del faccia-a-faccia, ciò significa atti di gentilezza e compassione. A livello sociale, questo – ciò che Levinas chiama "monoteismo politico"[35] – significa la lotta per la giustizia, leggi giuste, tribunali giusti, istituzioni giuste, non solo l'applicazione ma la promozione e il miglioramento dell'equità nell'accesso e nella distribuzione di beni e servizi basilari.[36] L'etica come fondamento del reale, scrive Levinas, "is a new possibility: the possibility of thinking of the Infinite and the Law together, the very possibility of their conjunction. Man would not simply be the admission of an antinomy of reason. Beyond the antinomy, he would signify a new image of the Absolute...[37] Man in the image and likeness of God would be ethical man. His compassion, says the Psalmist, is upon all His creations".[38]
Le pagine conclusive dell'articolo di Levinas intitolato “Rivelazione nella tradizione ebraica” sono ancora più esplicite riguardo all'altezza dell'etica come senso ultimo e irriducibile del paradosso dell'ebraismo monoteistico. Levinas scrive:
In un altro saggio, Levinas aggiunge: "the Bible... is a book that leads us not toward the mystery of God, but toward the human tasks of man. Monotheism is a humanism. Only simpletons made it into a theological arithmetic".[39] Il paradosso del monoteismo non può essere pensato, ma può essere attuato come rettitudine. Tale, in effetti, era la richiesta dei profeti e la ricercatezza dei rabbini.
In questo modo, attraverso letture etiche – ciò che altrove ho chiamato “esegesi etica”,[40] lo svuotamento dell’identità come sacrificio, come circoncisione del cuore, come preghiera – è “riportato” al suo senso di infinito obbligo verso l'altra persona, come “ostaggio” – "the opposite of repose – anxiety, questioning, seeking, Desire...[41] Such is a selfhood more awake than the psyche of intentionality and the knowledge adequate to its object – a relation with an Other which would be better than self-possession – where the ethical relation with the other is a modality of the relation with God".[42] Levinas continua nello stesso articolo: "Rather than being seen in terms of received knowledge, should not the Revelation be thought of as this awakening?"[43] Levinas non sta semplicemente servendo omelie per ciò che in verità sono strutture ontologiche o estetiche: il reale è esso stesso determinato dall’idealità “messianica” della moralità e della giustizia. Forse è proprio questo che il monoteismo “capisce” meglio della filosofia.
L'ebraismo si basa sul paradosso del monoteismo; non è un manicheismo. Dio trascende il mondo ma "è" anche al suo interno. Dio trascende il mondo senza essersi separato da esso: ha dato la Sua Torah, le Sue istruzioni. Per molti ebrei, il percorso più diretto verso Dio è attraverso lo studio della Torah. Levinas dà il suo assenso a questa enfasi, ma con una svolta. Lo studio della Torah non significa pura erudizione o conoscenza per il gusto della conoscenza. Né è solo la provincia dell'élite intellettuale. Piuttosto, per Levinas, lo studio della Torah significa imparare a essere etici, e non solo "imparare" a essere etici. È l'insegnamento dell'etica, uno stimolo al comportamento morale e una chiamata alla giustizia. Lo studio della Torah per Levinas è quindi un attivismo etico.
L'originalità di Levinas, la sua interpretazione del paradosso del monoteismo in termini etici piuttosto che epistemologici, apre la possibilità di un nuovo modo di risolvere certi conflitti che continuano a perseguitare ebrei, cristiani, musulmani e i religiosi del mondo più in generale. Ciò che Levinas deve contribuire è una fuga dallo scontro indurito e quindi inevitabile e irrisolvibile delle teologie per il bene dei valori condivisi della gentilezza interumana, della moralità di mettere l'altro al primo posto e dell'equità interumana, la richiesta di giustizia per tutti.
Ciò non significa che un passaggio da basi epistemologiche, dallo scontro di teologie e ideologie a una base etica, all'amore per il prossimo e alla chiamata alla giustizia, risolverà automaticamente tutti i problemi umani. Niente affatto. Ma aprendo linee di comunicazione tra le persone, piuttosto che semplicemente tra idee, anteponendo il dire al detto, il pensiero di Levinas apre opportunità di discorso, comunicazione, scambio e comprensione interumana che si perdono fin dall'inizio quando si inizia con il detto come detto. Levinas prese il titolo per uno dei suoi articoli da una frase in un giornale su cui gli era stato chiesto di commentare: "Loving the Torah More than God". Ciò che intende, ovviamente, non è che si ama la Torah più di Dio, ma che "loving the Torah", ovvero amare il prossimo, è esattamente il modo, e l'unico modo, in cui si ama Dio. Amare Dio prima o al di sopra o senza amare il prossimo significa allontanarsi da Dio. Questo è il significato contenuto nella parola ebraica shalom (שָׁלוֹם), “pace”, che non si riferisce alla pace della conquista, la pace che è in realtà la continua soppressione della ribellione da parte del vincitore, un ordine che Levinas chiama “totalità”, ma alla pace dell'armonia, la pace del rispetto e dell'apprendimento dall'alterità dell'altro.
Il senso dell'ebraismo, come di ogni autentico umanesimo (i due non sono in alcun modo in conflitto: Levinas scrive di un "umanesimo biblico" e di un "umanesimo ebraico"), sarebbe quello di preservare il surplus del più nel meno, il perfetto nell'imperfetto, attraverso le richieste di una voce imperativa dall'aldilà: la voce dell'altra persona, che comanda al sé "to its unfulfilable obligation to one and all".[44] La perfezione di un Dio personale sarebbe il perfezionamento del mondo. E il perfezionamento del mondo sarebbe prendersi cura dell'altro prima di sé, per "l'orfano, la vedova, lo straniero", e da lì prendersi cura dell'umanità, degli animali, di tutta la vita senziente e infine di tutta la creazione. Non sentimentalismo ma moralità, moralità che richiede giustizia. "Alle vostre porte date giudizi secondo verità, giustizia e pace" (Zaccaria 8:16) - su cui Rabbi Simeon ben Gamliel commenta: "Dove si opera giustizia, si opera anche pace e verità".[45]
Note
modificaPer approfondire, vedi Serie delle interpretazioni e Serie letteratura moderna. |
- ↑ Levinas nacque il 30 dicembre 1905, secondo il calendario giuliano allora in vigore in Lituania. Per dettagli specifici su Levinas e le sue opere, si veda il mio wikilibro La Coscienza di Levinas e relativa Bibliografia.
- ↑ Emmanuel Levinas, Time and the Other [and Additional Essays], trad. (EN) Richard A. Cohen (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1987).
- ↑ Levinas, Existence and Existents, trad. (EN) Alphonso Lingis (The Hague: Martinus Nijhoff, 1978). Tutti i testi di Levinas sono da me citati nella traduzione originale (EN) .
- ↑ Cfr. Salomon Malka, Monsieur Chouchani: L’enigme d’un mâitre du XXe siècle (Parigi: Jean-Claude Lattes, 1994).
- ↑ Levinas, (EN) Totality and Infinity: An Essay on Exteriority, trad. Alphonso Lingis (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1969).
- ↑ Levinas, (EN) Otherwise than Being or Beyond Essence, trad. Alphonso Lingis (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1998).
- ↑ (EN)“There is a communication between faith and philosophy and not the notorious conflict” — Levinas, “On Jewish Philosophy” (1985), in Emmanuel Levinas, In the Time of the Nations, trad. Michael B. Smith (Bloomington: Indiana University Press, 1994), p. 170.
- ↑ Levinas, “‘In the Image of God’ According to Rabbi Hayyim Volozhiner” (1978), in Emmanuel Levinas, Beyond the Verse, trad. Gary D. Mole (Bloomington : Indiana University Press, 1994), p. 162 e passim.
- ↑ Ibid., p. 164.
- ↑ Il monoteismo deve essere contrapposto al monismo. Il monismo, espresso sia dall'induismo che dal buddhismo, rappresenta una forma di spiritualità fondamentalmente distinta dal monoteismo. Per il monismo, la Divinità è il reale nella sua totalità; per l'induismo, questa realtà ultima è Brahman; per il buddhismo, è il Vuoto assoluto. Per il monoteismo, al contrario, si deve distinguere Dio dalla Sua creazione.
- ↑ Sifre Deuteronomio, Berachah, no. 355, 17.
- ↑ Levinas, “In the Image of God”, Beyond the Verse, 166.
- ↑ Utilizzo deliberatamente la diade “perfetto/imperfetto” piuttosto che alternative come “infinito/finito”, “incondizionato/condizionato” o “assoluto/relativo” perché la prima inizia con Dio mentre la seconda inizia con la creazione.
- ↑ Tuttavia, esiste una terza alternativa: affermare un'irrazionalità non religiosa, una subrazionalità che nega la razionalità, ma allo stesso tempo nega anche la perfezione, vale a dire l'esistenza di Dio. Questa è la posizione del sofisma, dello scetticismo, o di ciò che Levinas chiama un "umanesimo puro" (in contrasto con "l'umanesimo biblico") che nega la verità in nome di relazioni di potere extra-razionali come l'abitudine, le buone maniere, la forza, l'equanimità, la volontà, la libido, il "nomadico" e simili. Per quanto influente e distruttiva sia stata e continui a essere questa terza posizione, è essenzialmente pagana e - fatta eccezione per alcune allusioni a Heidegger - non è oggetto del presente Capitolo.
- ↑ Cfr. per esempio, Leo Strauss, Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity: Essays and Lectures in Modern Jewish Thought, cur. Kenneth Hart Green (Albany: State University of New York Press, 1997).
- ↑ Levinas, “In the Image of God,” Beyond the Verse, 165.
- ↑ Levinas, Totality and Infinity, 78.
- ↑ (EN) Ibid., p. 79. Lingis translates “se ramener à” as “be reduced to.” In this context, this is both wrong and misleading. It is made all the worse because in this sentence, Levinas is articulating one of his most important thoughts. A religious signification can have several meanings and does not need to be reduced to only one meaning, even if that one meaning invokes an “inter-subjective relation.” Nevertheless, all religious significations, so Levinas teaches, can be and should be brought back to their inter-subjective significance, for at this level one discovers their “superior” or highest significance: their ethical sense. This “bringing back” is similar to the way a phenomenologist peels away a term to its most extreme or irreducible sense, from whence all its other related senses borrow their meaning. For instance, in From Existence to Existents, Time and the Other, and Totality and Infinity, Levinas shows that the term “transcendence,” while in a certain sense applicable to death, only gains its full meaning from the absolute alterity of the other person, which is more other, more transcendent than death. Thus, Levinas is saying of religious significations that they gain their full (or “superior” or “adult”) sense from the ethical intersubjective relations they express, and that other levels of meaning are, wittingly or not, derived from or dependent upon these. Other levels of meaning are therefore not to be reduced away in the sense of eliminated, but are (or can be) intensified and infused with transcendence through their ethical sense. (Perhaps they can be eliminated, however, in cases where they cannot be brought to an ethical inter-subjective sense and are therefore purely mythological.) This return of sense is, given the limitations Levinas discovered in the phenomenological method’s commitment to “intentional analysis,” the ultimate function of ethical exegesis, as one sees practiced most clearly in all of Levinas’s “Talmudic Readings.” Many rabbis, in a different context to be sure, have said something quite similar, if not the same. Rabbi Samson Raphael Hirsch, for instance, has written (and not in a reductive sense): “The Sanctuary of the Law in particular, and the Law of God in general, strive solely for moral objectives.” Samson Raphael Hirsch, Jewish Symbolism: The Collected Writings, Vol. III, Paul Forchheimer (Nanuet, NY: Feldheim Publishers, 1995), 60.
- ↑ Martin Heidegger, Being and Time, trad. John Macquarrie e Edward Robinson (New York: Harper & Row, 1962); cfr. specialmente Part One, Division One, sections II and III (78–148).
- ↑ Mentre di solito si associa il “to” di “to someone” al dativo, che si riferisce a un oggetto indiretto, non è sempre così facilmente distinguibile dall’accusativo, che si riferisce a un oggetto immediato. Al di là delle finezze grammaticali, tuttavia, ciò che Levinas sta sottolineando è che la significazione ha origine nel parlare comunicativo e quindi nasce da una dimensione di provocazione o “accusa”, di essere accusati o incaricati di una responsabilità verso e per l’altra persona.
- ↑ Levinas, “A Religion for Adults,” in Emmanuel Levinas, Difficult Freedom: Essays in Judaism, trad. Séan Hand (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1990), 17
- ↑ Levinas, Totality and Infinity, 80.
- ↑ Levinas, Totality and Infinity, 80.
- ↑ Levinas, “Religion for Adults”, Difficult Freedom, 17.
- ↑ Nel capitolo intitolato (EN)“Monotheism and Ethics” (74–119), dal suo libro Monotheism: A Philosophic Inquiry into the Foundations of Theology and Ethics (Totawa, NJ: Allanheld, Osmun & Co., 1981), Professor Lenn Goodman scrive (86): "The emulation called for by the very contemplation of the concept of divine perfection – expressed Biblically as the human pursuit of holiness (Leviticus 19) and in Plato as the striving to become as like to God as lies in human capacity (Theaetetus 176) – means simply the pursuit of the highest conceivable moral standards". Si veda inoltre la versione di questo capitolo riveduta successivamente in Lenn Goodman, God of Abraham (New York: Oxford University Press, 1996), 79–114.
- ↑ Levinas, “Religion for Adults,” Difficult Freedom, p. 19.
- ↑ Levinas, Proper Names, trad. Michael B. Smith (Stanford: Stanford University Press, 1996), 74.
- ↑ Levinas, “The Meaning of Religious Practice,” trad. Peter Atterton, Matthew Calarco, e Joelle Hansel, in Modern Judaism, Vol. 25, no. 3 (2005), 285–289 (con Introduzione del traduttore).
- ↑ Cfr. per esempio, la sua attenta analisi della fenomenologia husserliana in Emmanuel Levinas, Discovering Existence with Husserl, cur. e trad. Richard A. Cohen e Michael B. Smith (Evanston: Indiana University Press, 1998).
- ↑ L’unità degli scritti filosofici e confessionali di Levinas difficilmente può essere meglio riconosciuta che nelle pagine del suo straordinario saggio del 1973, “God and Philosophy” (trad. Richard A. Cohen), inserito in Collected Philosophical Papers, cur. e trad. Alphonso Lingis (Dordrecht: Martinus Nijhoff, 1987), 153–186; presente in un'altra traduzione (EN) in Emmanuel Levinas, Of God Who Comes to Mind, trad. Bettina Bergo (Stanford: Stanford University Press, 1998), 55–78.
- ↑ Questi due saggi furono ristampati nella raccolta (EN) del 1982 intitolata Beyond the Verse.
- ↑ Levinas, Beyond the Verse, 163.
- ↑ Ibid., 165.
- ↑ (EN) In Ethics and Infinity, Levinas says the following: “In certain very old prayers, fixed by ancient authorities, the faithful one begins by saying to God “Thou” and finishes the proposition thus begun by saying “He,” as if, in the course of this approach of the “Thou” its transcendence into a “He” supervened. It is what in my descriptions I have called the “illeity” of the Infinite. Thus, in the “Here I am!” of the approach of the Other [person], the Infinite does not show itself. How then does it take on meaning? I will say that the subject who says “Here I am!” testifies to the Infinite. It is through this testimony, whose truth is not the truth of representation or perception, that the revelation of the Infinite occurs. It is through this testimony that the very glory of the Infinite glorified itself. The term “glory” does not belong to the language of contemplation.” Emmanuel Levinas, Ethics and Infinity, trans. Richard A. Cohen (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1985), 106–107. For a better understanding of what Levinas might mean by “a ‘He’ supervened” in the passage just cited, by means of a concise review of several classic Jewish commentators (Talmud, Abudraham, Riva, Rashba, Ramban, et al.) on the “You” – “He” syntax of Jewish blessings, see B. S. Jacobson, Meditations on the Siddur, trans. Leonard Oschry (Tel-Aviv: Mtzuda Press, 1966), 61–64.
- ↑ Levinas, “The State of Caesar and the State of David,” in Beyond the Verse, 186.
- ↑ Che la giustizia, per Levinas – che opera diversamente dalla moralità – cioè in termini di uguaglianza piuttosto che di disuguaglianza – sia necessaria per rettificare la moralità e sia anche regolata dalla moralità è sfuggito ai critici della sua politica, tra cui Howard Caygill, Robert Bernasconi e Asher Horowitz. Si veda, ad esempio, Asher Horowitz, “Beyond Rational Peace,” in Difficult Justice: Commentaries on Levinas and Politics, a cura di Asher Horowitz e Gad Horowitz (Toronto: University of Toronto Press, 2006), 27–47.
- ↑ Levinas, “The State of Caesar and the State of David,” in Beyond the Verse, 166–167. Per una discussione più ampia sull'analisi di Levinas riguardo a Rabbi Hayyim di Volozhyn, cfr. Chapter 11, “The Face of Truth and Jewish Mysticism,” in Cohen, Elevations, 241–273 (specialmente, 261–273).
- ↑ Psalm 145.
- ↑ Levinas, “For a Jewish Humanism,” Difficult Freedom, 275.
- ↑ Cfr. Richard A. Cohen, Ethics, Philosophy and Exegesis (Cambridge: Cambridge University Press, 2001).
- ↑ Levinas, Beyond the Verse, 149.
- ↑ Ibid., 149.
- ↑ Ibid., 150.
- ↑ Levinas, Beyond the Verse, 150.
- ↑ Pesikta D’Rav Kahana, 140a.