Simchah: nozioni di felicità

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Introduzione

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  Per approfondire, vedi La prosa ultima di Thomas Bernhard — Comunicazione e speranza di felicità.
  Per approfondire, vedi Il significato della vita — Eudaimonia e lo stato mentale della felicità.

Dai succitati titoli si può facilmente dedurre che ho già affrontato l'argomento della felicità da prospettive disparate. La felicità ha forme sia universali che culturalmente specifiche. Questo wikilibro vuole nello specifico (appunto) descrivere tre possibilità di felicità nell'ebraismo: la vita profetica di lotta; la felicità di ashrei (אַשְׁרֵי), con la sua vita di semplicità in accordo con la volontà di Dio; e simchah (שִׂמְחָה), la "vita-vissuta-in-relazione" che ha ricevuto la massima espressione nella visione pattizia di Mosè nel Deuteronomio. Concentrandosi, in particolare, sulla visione sociale di Mosè, lo studio mostra come le nozioni ebraiche di felicità sfidino le concezioni contemporanee di felicità radicate nel materialismo e nell'acquisizione, e discute di come un concentrarsi sulla felicità materiale minacci di sgretolare le relazioni e quella fibra sociale che è il filo con cui si intreccia la felicità vera e duratura.

 
Uno dei Rotoli del Mar Morto: il Rotolo di Isaia

Una prospettiva ebraica

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Tolstoj si sforzava sicuramente di più per ottenere un effetto drammatico piuttosto che essere preciso, quando aprì la frase di Anna Karenina: "Tutte le famiglie felici sono uguali; ma ogni infelice è infelice a modo suo".[1] Tale sentimento concepisce la felicità secondo il modello matematico: ci sono molte risposte sbagliate ma solo una corretta. La felicità invece non è affatto così.

La felicità assume molte forme. C'è la felicità di chi è in pace con il mondo, e la felicità di chi sfida e cambia il mondo. C'è la felicità di Mozart, dolce e naturale come una brezza primaverile, e c'è la felicità dei quartetti per archi di Beethoven, scolpiti nella roccia dalla lotta e dal dolore.

Lo stesso vale per le culture. Ognuna concepisce la felicità a modo suo. Se Aristotele aveva ragione a definire la felicità come il telos (τέλος) ultimo dell'attività umana,[2] ciò che è ricercato per il suo bene e non come mezzo per un altro e più alto scopo, allora le forme di felicità sono varie quanto le concezioni che le diverse civiltà hanno dato del summum bonum, il fine ultimo e lo scopo di una vita umana.

La lingua ebraica trasmette qualcosa di tutto questo in modo grafico e curioso. Una delle parole chiave per felicità nella Bibbia ebraica è ashrei (אַשְׁרֵי), una forma plurale e costruttiva del sostantivo, che letteralmente significa "le felicità di...". Questa parola sottolinea la realtà che la felicità non è una cosa singola, cioè che sia un sentimento, un'emozione, uno stato mentale o un giudizio su una vita nel suo insieme. È molte cose, la cui somma è maggiore delle parti.

Non esiste una visione unica ed esclusiva all'interno dell'ebraismo sulla natura e la forma della felicità, sebbene vi siano molte meditazioni profonde su di essa. L'ebraismo non è un dogma o una dottrina. Come per l'induismo, ad esempio, l'"ismo" è un'astrazione tardiva e occidentale imposta su filoni. L'ebraismo non è un "ismo" ma un "è", non un sistema astratto ma uno stile di vita. Un modo migliore per pensarci è concepirlo come una conversazione composta per molte voci, alcune profetiche, altre sapienziali, altre mistiche, altre ancora legali e giurisprudenziali. La felicità è declinata in modo diverso in queste diverse modalità di essere, e nelle Sezioni che seguono esplorerò alcune delle differenze come anche le comunanze.

Nessuna tradizione può rivendicare il monopolio della saggezza in materia di felicità. Qui abbiamo a che fare con autentici incommensurabili: l'irriducibile molteplicità di modi di prosperità umana. L'ebraismo non si vede come l'unica via verso la saggezza.[3] Ha, tuttavia, una caratteristica degna di nota: che in qualche modo gli ebrei hanno trovato la felicità in mezzo ad alcune delle peggiori sofferenze mai sopportate da un popolo. Tre momenti spiccano nella mia mente.

Il primo fu l'esilio babilonese. Il Salmo 137 ha conservato congelato nel tempo il sentimento di devastazione degli esuli:

« Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
"Cantateci i canti di Sion!".
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera? »
(Salmi 137:1-4)

Tuttavia, è ben noto che il profeta Geremia inviò una lettera agli esiliati:

« Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere. »
(Geremia 29:5-7)

Disse loro, in effetti, di non piangere. Senza minimizzare il trauma dell'esilio, la perdita della casa e la distruzione del Tempio, li istruì a trovare quanta più felicità possibile, persino lì.

Ilsecondo momento, più di un secolo dopo, ebbe luogo quando Esdra e Neemia convocarono il popolo alla Porta delle Acque nella Gerusalemme ricostruita il primo giorno del settimo mese, il Capodanno ebraico (Rosh Hashanah ראש השנה), come preludio a un rinnovamento nazionale dell'antica alleanza con Dio. Esdra lesse la Torah al popolo, avendo posizionato dei leviti tra la folla per spiegare cosa stava dicendo. Mentre ascoltavano, il popolo pianse, consapevole di quanto si fosse allontanato dalla sua missione spirituale. Neemia, tuttavia, li calmò, dicendo:

« Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza. »
(Neemia 8:10)

Kierkegaard scrisse nel suo diario: "Ci vuole coraggio morale per soffrire; ci vuole coraggio religioso per gioire".[4] Penso che questo sia ciò che Geremia e Neemia stavano esemplificando.

Il terzo nasce da un'osservazione fatta da Rabbi Jonathan Sacks, in uno dei suoi splendidi libri, sul regista italiano Roberto Benigni, che aveva realizzato una commedia sull'Olocausto intitolata La vita è bella.[5] Scriveva che, pur comprendendo la tesi del film, non poteva essere d'accordo. In sostanza, Benigni sosteneva che l'umorismo manteneva le persone sane di mente. L'umorismo poteva aver mantenuto le persone sane di mente, scrive Rabbi Sacks, ma ad Auschwitz la sanità mentale non era sufficiente a mantenere le persone in vita.

"Ti sbagli", gli disse una volta un sopravvissuto, e poi gli raccontò la sua storia. Lui e un altro prigioniero di Auschwitz erano diventati amici. Giunsero alla conclusione che se non fossero stati capaci di ridere, alla fine avrebbero perso la voglia di vivere. Così fecero un accordo. Ognuno di loro avrebbe cercato, ogni giorno, qualcosa di cui ridere. Ogni sera avrebbero condiviso le loro scoperte e riso insieme. "Il senso dell'umorismo", disse il sopravvissuto, guardandolo negli occhi, "mi ha tenuto in vita". Non posso dire di comprendere tanto coraggio, ma l'ho trovato impressionante.

Se la felicità è il rifiuto di lasciarsi sconfiggere dalla tragedia, l'ebraismo fa parte della sua storia.

Critica della felicità pura

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La felicità, tuttavia, non è centrale nel sistema ebraico dei valori. Non è il telos dell'attività umana. L'ebraismo è la ricerca della santità, non la ricerca della felicità.[6] La felicità può essere il risultato, ma non è l'obiettivo. Chi serve Dio nell'amore, dice Maimonide, "fa ciò che è giusto perché è giusto, e alla fine il bene [cioè, la felicità o la beatitudine] seguirà".[7]

Felicità non è la prima parola che ci viene in mente quando pensiamo agli eroi e alle eroine della Bibbia. Lottano, combattono, discutono, contendono. Quattro dei profeti biblici — Mosè, Elia, Giona e Geremia — pregano di morire, tanto è implacabile e difficile il compito che intraprendono. Le figure della Bibbia conoscono l'esilio, la persecuzione, il fallimento e la sconfitta. Incontrano la felicità troppo raramente. Questa rimane una caratteristica dell'ebraismo. Un teologo del ventesimo secolo ha intitolato il suo libro sulla spiritualità ebraica Strife of the Spirit.[8] Un altro ha parlato dell'ebraismo come tesi e antitesi senza la sintesi mediatrice.[9] "I discepoli dei saggi", dice il Talmud, "non hanno riposo, né in questo mondo né nell'altro".[10]

Il primo figlio dell'alleanza è chiamato, su insistenza di Dio, Isacco (in ebraico, Yitzhak יִצְחָק), che significa "Egli riderà".[11] Tuttavia la vita di Isacco non è caratterizzata dalla sua risata. Nato durante la vecchiaia di Abramo e Sara, viene quasi sacrificato dal padre. Vede rivalità tra i suoi due figli. Vecchio e cieco, viene ingannato da Giacobbe. L'unica volta in cui Isacco è il soggetto del verbo tz-ch-k, "ridere" — quando viene visto "ridere con" sua moglie Rebecca, una cortese circonlocuzione per l'intimità fisica — mette in pericolo la sua vita.[12] Ciò che Dio intende chiamando il figlio di Abramo "Egli riderà" rimane poco chiaro in tutto il testo biblico.

C'è qualcosa nel monoteismo abrahamitico che ha l'effetto di sostituire la felicità come valore centrale? Forse è che la felicità, concepita come uno stato di armonia o di essere in pace con il mondo, ha senso se concepiamo Dio o la realtà ultima come immanenti nel mondo. Essere uno con Dio diventa essere uno con ciò che è. Questo è il "sentimento oceanico" che Freud ha identificato con l'esperienza religiosa in quanto tale.[13]

Quell'armonia, effettiva o potenziale, è infranta dalla voce, all'interno della situazione umana, di un Dio trascendentale, un Dio che sta al di là della natura, che ha creato la natura e che è quindi libero — vale a dire, la cui volontà sta al di fuori del nesso della naturalezza. La coscienza profetica, ascoltando la chiamata di Uno che trascende l'universo, vive nella dissonanza cognitiva e morale tra il mondo che è e il mondo che dovrebbe essere.

La perdita del senso di unità con il mondo è la fonte di ciò che Herbert Schneidau ha chiamato "sacred discontent".[14] che la Bibbia ebraica ha introdotto nella civiltà occidentale: la sua costante tendenza all'autocritica e il desiderio irrequieto di redimere un mondo meno che perfetto. Il mito rivendica lo status quo e lo mappa sulla struttura dell'universo. La Bibbia ebraica, con il suo rifiuto del mito, sfida lo status quo nel suo sforzo per una perfezione che chiama da oltre l'orizzonte visibile.

Fu proprio questo elemento dell'ebraismo a suscitare l'ira di Arthur Schopenhauer. Egli credeva che fosse la volontà stessa – centrale nell'esistenza ebraica – la fonte della sofferenza umana. La felicità si trova, se mai, nell'estinzione del desiderio.[15]

C'è una vera e propria incommensurabilità qui tra le religioni di accettazione e quelle di protesta: tra, in extremis, la via del mistico e quella del profeta. Tuttavia, sarebbe sbagliato definire infelici le grandi vite profetiche. Piuttosto, la felicità o la sua mancanza sembrano irrilevanti per una vita del genere, per due motivi. Primo, perché la felicità, almeno nel suo senso moderno, ha a che fare con gli stati mentali interiori, con il modo in cui ci sentiamo. Questo non può essere un valore primario in un sistema morale il cui focus è su come rispondiamo alle sfide, che ha a che fare con il modo in cui agiamo, non con il modo in cui ci sentiamo. Secondo, la felicità — eudaemonia, felicitas — ha a che fare con le circostanze esterne. Comporta buona fortuna. La parola latina felicitas era una divinità dell'abbondanza, della ricchezza e del successo e presiedeva alla buona sorte. La buona sorte non ha alcun ruolo da svolgere nella visione del mondo biblica.[16] Il cittadino comune può essere giusto come il re, il povero benedetto come il ricco.

È in gioco un diverso sistema di valori. Consideriamo Abramo: chiamato a lasciare la sua terra, il luogo di nascita e la casa del padre, non appena giunge a destinazione, la terra di Canaan, la carestia lo costringe a spostarsi altrove. Almeno due volte, la sua vita è in pericolo. Avendo ricevuto la promessa da Dio che sarebbe diventato una grande nazione, il padre di molte nazioni, con tanti figli quante sono le stelle nel cielo o la sabbia sulla riva del mare, deve aspettare apparentemente all'infinito un figlio, che poi è chiamato a sacrificare. Avendo ricevuto la promessa dell'intera terra, deve contrattare con gli Ittiti e pagare un prezzo gonfiato per un singolo campo con una grotta sepolcrale. Tuttavia, la descrizione della sua morte — "Poi Abramo spirò in prospera vecchiaia, attempato e sazio di giorni, e fu riunito al suo popolo"[17] — è una delle più serene della Bibbia.

Vediamo Giacobbe, che aveva detto al faraone: "Pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita",[18] riunito alla fine con il suo amato figlio Giuseppe, e benedire i suoi nipoti, l'unica scena del genere nella Bibbia: "Io non pensavo più di vedere la tua faccia ed ecco, Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!",[19] Mosè, a cui non è stato permesso di entrare nella Terra Promessa, la vede comunque da lontano e viene sepolto, dice la Bibbia, da Dio stesso.

C'è qui una sorta di realizzazione, per la quale felicità sembra in qualche modo la parola sbagliata, che consiste nell'aver preso parte alla lotta, nell'aver dato il meglio di sé, nel non essersi compromessi inchinandosi all'immagine di sé dell'epoca, nel sapere che, nelle parole di Rabbi Tarfon: "Non sta a te completare l'opera, ma non sei libero di sottrartene".[20]

Questo tipo di eroismo morale, una controparte dell'eroismo fisico degli antichi greci, continua a risuonare nella cultura occidentale. Il filosofo Ludwig Wittgenstein era un depresso con angosciati dubbi su se stesso. Tre dei suoi fratelli si erano suicidati. Eppure le sue ultime parole furono: "Tell them I have had a wonderful life".[21] Theodore Roosevelt parlò in modo memorabile di coraggio morale nel suo grande discorso alla Sorbona:

« The credit belongs to the man who is actually in the arena, whose face is marred by dust and sweat and blood; who strives valiantly; who errs, who comes short again and again, because there is no effort without error and shortcoming; but who does actually strive to do the deeds; who knows great enthusiasms, the great devotions; who spends himself in a worthy cause; who at the best knows in the end the triumph of high achievement, and who at the worst, if he fails, at least fails while daring greatly, so that his place shall never be with those cold and timid souls who neither know victory nor defeat. »
(Theodore Roosevelt, "Citizenship in a Republic" – discorso, Sorbonne, Parigi, 23 aprile 1910)

"Felicità" sembra una parola troppo esangue e insipida per una vita del genere, eppure c'è una sorta di sublimità in una vita vissuta secondo alti ideali. E il fatto che lo si faccia in obbedienza alla parola divina redime una vita del genere dalla tragedia da un lato, dall'egoismo dall'altro. La condizione umana sarebbe impoverita senza questa forma di integrità profetica.

Felicità come beatitudine

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Ci sono, tuttavia, due termini chiave nella Bibbia ebraica che appartengono allo stesso territorio concettuale della felicità. Uno, già menzionato, è ashrei, letteralmente "le felicità di". L'altro è simchah, "gioia".

Ashrei significa, grosso modo, felicità come beatitudine. Questo è lo stato di chi ha vissuto in accordo con la volontà di Dio, una persona che è buona e fa del bene, che onora Dio e le Sue creature, che è stata benedetta nella vita e che, vivendo tra i giusti, è tenuta in grande considerazione. Questa è la felicità dell'equilibrio e della virtù, della giustizia e della compassione, del vivere bene e dello stare bene. Il Libro dei Salmi inizia con il ritratto di una tale vita:

« Beato l'uomo che
non segue il consiglio degli empi,
non indugia nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli stolti;
ma si compiace della legge del Signore,
la Sua legge medita giorno e notte. »
(Salmi 1:1-2)

Il salmo è breve, appena sei versetti. Tuttavia, è costruito attorno a due immagini poetiche stranamente in contrasto tra loro. Una è l'immagine del radicamento e della fertilità:

« Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua,
che darà frutto a suo tempo
e le sue foglie non cadranno mai;
riusciranno tutte le sue opere.
Non così, non così gli empi:
ma come pula che il vento disperde. »
(Salmi 1:3-4)

Altrove, il Salmista paragona i giusti alla lenta crescita dei malvagi che "spuntano come l'erba" solo per essere falciati giù.[22] L'ebraico per "secolare" o "profano" è chol (חוֹל), che significa "vuoto" ma anche "sabbia" che può essere o "profano" è chol, che significa "vuoto" ma anche "sabbia" che può essere soffiata via dal vento. "Secolare" nell'ebraismo non significa "mondano" (come in seculum), poiché la santità non richiede il ritiro dal mondo ma l'impegno in esso. Piuttosto, la secolarità è mancanza di radici. I giusti hanno radici. Non sono spinti dai venti della moda o del desiderio. Rimangono fermi, saldi. Crescono. Portano frutto. Fioriscono, prosperano.

L'altra immagine conflittuale è quella del movimento, "la via". Da notare nel primo verso la sequenza dei verbi dal movimento alla stasi: i malvagi prima camminano, poi stanno fermi, poi siedono. Il verso conclusivo contrappone le due "vie":

« Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina. »
(Salmi 1:6)

La strana giustapposizione di queste due immagini — il radicamento dell'albero, il progresso del viaggio — è in effetti implicita nella parola stessa ashrei. Asher — il figlio di Giacobbe e della serva di Lea, Zilpah — è così chiamato perché, come dice Leah, "Felice sono io, perché le donne mi chiameranno beata",[23] il che è quasi certamente un riferimento alla fertilità. Asherah era la dea cananea della fertilità, spesso rappresentata da un albero o da un bosco sacro.[24] La parola Asher è anche correlata a un verbo che significa "andare" o "avanzare". Il Salmista dice: "I miei passi [ashurai] si sono tenuti saldi sui tuoi sentieri"[25]

Nel campo semantico di una delle principali parole bibliche per indicare la felicità sono quindi racchiuse due idee chiave dell'esistenza ebraica, così come definite dai libri mosaici: il viaggio e la destinazione, il lungo cammino verso la libertà e la terra promessa alla fine del viaggio, la tensione biblica per eccellenza tra l'"adesso" della promessa e il "non ancora" del compimento.

L'immagine normativa nella Bibbia è quella di un popolo che è tutt'uno con il suo Dio – il Dio della creazione, della rivelazione e della redenzione – che segue fedelmente le Sue leggi e gode della ricchezza della Sua generosità in greggi e campi:

« Beato chiunque teme il Signore
e cammina nelle Sue vie!
Allora mangerai della fatica delle tue mani,
sarai felice e prospererai. »
(Salmi 128:1-3)

Questa, come giustamente nota Darrin McMahon, "is the happiness of nomads, shepherds and farmers, the blessings of a people long enslaved and continually at war with hostile enemies and hostile terrain".[26] È anche una felicità profondamente comunitaria, la felicità della Gemeinschaft in contrapposizione alla Gesellschaft, la felicità delle piccole comunità faccia-a-faccia, piuttosto che quella dell'anonimato urbano.

Qoelet sulla felicità

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Qoelet.

Questo tipo di felicità — la felicità della semplicità, del vivere secondo la volontà di Dio e vedere la vita come una Sua benedizione — alla fine incontra una crisi quando le popolazioni diventano urbanizzate e i piaceri sofisticati. Le città non hanno una buona fama nella Bibbia ebraica.[27] La prima città è costruita dal primo assassino, Caino. Babele, l'archetipo della città-stato, diventa un simbolo di auto-esaltazione: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome".[28] Sodoma e Gomorra, le città della pianura, rappresentano la depravazione sessuale e la violenza contro gli stranieri.[29] Anticipando il grande studioso islamico del XIV secolo Ibn Khaldun, la Bibbia ebraica associa la vita urbana a una perdita di asabiyah, o solidarietà sociale.[30] C'è, all'interno della città e dei suoi godimenti artificiali, il rischio costante di egoismo e corruzione, di cercare di trovare la felicità nella ricchezza o nel potere.

Ciò dà origine a una delle supreme meditazioni sulla natura della felicità, il libro dell'Ecclesiaste. Qohelet, il narratore (spesso tradotto come "il Predicatore"), è l'uomo che ha tutto — case, vigneti, giardini, parchi, piscine, servi, l'intero entourage di ricchezza e successo — e scopre che non significano nulla:

« Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità. »
(Qoelet 1:2)

Le traduzioni standard della parola chiave hevel, "vana", "inutile" o "senza senso", mascherano il fatto che in realtà significa "un respiro". Come in molte altre lingue antiche, le parole ebraiche per anima o vita sono tutte forme di respirazione. Nefesh, vita, deriva dal verbo che significa "respirare profondamente". Neshamah, anima, significa "inalare". Ruach, spirito, è anche la parola per vento. Hevel fa parte di questa famiglia di parole. Significa, in particolare, "un respiro superficiale".

Ciò che Qohelet intende nei capitoli iniziali del libro è che cercare rifugio nella ricchezza e nei beni materiali, o persino nei libri e nella saggezza, è inutile, poiché la vita non è altro che un respiro fugace. L'Ecclesiaste è una meditazione sostenuta sulla pura vulnerabilità della vita. Qohelet parla di hevel in un modo che ricorda King Lear alla fine dell'opera di Shakespeare, mentre tiene tra le braccia Cordelia morta e dice: "Why should a dog, a horse, a rat, have life / And thou no breath at all?"[31]

Hevel, un respiro superficiale, è tutto ciò che separa i vivi dai morti. Viviamo, moriamo, ed è come se non fossimo mai esistiti. Costruiamo e altri occupano. Accumuliamo beni ma altri ne godono. Il bene che facciamo viene presto dimenticato. La saggezza che acquisiamo è inutile, perché ci riporta semplicemente a un riconoscimento della nostra mortalità. Cercare la felicità in oggetti che durano è una specie di autoinganno: loro durano, noi no. Ciò porta Qohelet a una conclusione sovversiva:

« Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. »
(Qoelet 3:19-20)

Sorprendentemente per un testo religioso, non vi è alcun riferimento all'aldilà; nessuna moralizzazione del destino, nessuna argomentazione secondo cui la virtù sia una ricompensa di per sé; nessuna attenuazione del crudo fatto della mortalità.

Tuttavia Qohelet si rifiuta di lasciare che la disillusione abbia l'ultima parola. Una volta che riconosciamo che solo Dio è eterno e che la felicità umana deve essere ricercata entro i limiti del nostro troppo breve arco di anni, allora possiamo trovarla nell'adesso del tempo:

« Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. »
(Qoelet 2:24)
« Ho così compreso che non c'è nulla di meglio che rallegrarsi e far del bene mentre uno vive. »
(Qoelet 3:12)
« Dolce è il sonno del lavoratore, abbia egli poco o molto da mangiare. »
(Qoelet 5:12)
« Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole. »
(Qoelet 9:9)

Qohelet, l'uomo di indicibile ricchezza e raffinatezza, in ultima analisi trova piacere nelle cose semplici, nell'amore e nel lavoro, nel mangiare e nel bere, nel fare del bene agli altri e nel sapere che c'è un tempo per ogni cosa, per nascere e per morire, per piangere e per ridere, per riconoscere l'eternità di Dio e per accettare i limiti della vita umana.

Questa è la felicità delle grandi tradizioni di saggezza, all'interno dello stesso territorio generale degli stoici e degli epicurei, del Carpe Diem di Orazio, del "Se non ora, quando?" di Hillel e persino di Sigmund Freud e Bertrand Russell. Questa è la felicità a cui sono arrivate grandi menti da punti di partenza molto diversi, spesso solo dopo aver sperimentato la stessa disillusione con cui Qohelet iniziò la sua meditazione; è la "seconda semplicità" che arriva quando riconosci che tutte le cose che pensi portino felicità sono, in realtà, meri sostituti di essa.

Simchah: felicità condivisa

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  Per approfondire, vedi Simchah e Felicità nell'ebraismo (en).

C'è un secondo tema in Qohelet che indica la strada verso una caratteristica più importante della tradizione biblica nel suo complesso. Se ascoltiamo attentamente la grande litania di ricchezza che l'autore elenca, sentiamo una nota mai udita altrove nella Bibbia:

« Io ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; mi sono fatto vasche, per irrigare con l'acqua le piantagioni. Io ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa e ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero più di tutti i miei predecessori in Gerusalemme. Io ho accumulato anche argento e oro, ricchezze di re e di province; mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con le delizie dei figli dell'uomo, cioè donne in gran numero... Poi io ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c'è alcun vantaggio sotto il sole. »
(Qoelet 2:4-8,11)

Ciò che colpisce qui è l'uso insistente e ripetuto della prima persona singolare. In nessun altro luogo della Bibbia ebraica viene usata in modo così implacabile e ripetitivo. Nell'ebraico originale, l'effetto è raddoppiato a causa del suono del suffisso verbale e del pronome: Baniti li, asiti li, kaniti li. "Ho costruito per me stesso, ho fatto per me stesso, ho comprato per me stesso". La fonte dell'infelicità di Qohelet diventa immediatamente chiara, e fu spiegata molti secoli dopo dal grande saggio Hillel: "Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso, cosa sono?"[32]

Un inciso: quando Rabbi Sacks ero studente universitario, fece visita al grande leader ebreo, Rabbi Menahem Mendel Schneersohn, noto come il Lubavitcher Rebbe.[33] Mentre aspettava di incontrarlo, uno dei suoi discepoli gli raccontò la storia di un uomo che aveva scritto di recente una lettera al Rebbe che diceva più o meno così: "I need the Rebbe's help. I am deeply depressed. I pray and find no comfort. I perform the commands but feel nothing. I find it hard to carry on". Il Rebbe aveva inviato una risposta convincente senza scrivere una sola parola. Aveva semplicemente sottolineato la prima parola di ogni frase della lettera originale, la parola "I (io)". Era, stava suggerendo, la preoccupazione dell'uomo per se stesso che era alla radice della sua depressione. La porta della felicità, diceva lo psicoterapeuta Viktor Frankl in nome di Kierkegaard, si apre verso l'esterno.[34]

È l'"Io... per me stesso" in Ecclesiaste che allerta l'orecchio sull'inevitabile futilità della ricerca della felicità da parte dell'autore. Nell'ebraismo, la felicità non è qualcosa che troviamo nella solitudine, e ancora meno nell'autogratificazione. È qualcosa che sperimentiamo insieme.

Felicità pattizia

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Alleanza (Bibbia).

Da qui il significato della seconda parola chiave per felicità: il sostantivo simchah e il verbo s-m-ch. Ciò significa gioia, giubilo, euforia, celebrazione. È uno stato d'animo, ma è anche un modo di essere, di vivere in uno stato di gratitudine. A differenza di osherlashrei, che si basa sull'individuo in quanto individuo, la parola simchah è essenzialmente collettiva. Esiste solo in virtù dell'essere condivisa. È una forma di felicità sociale.

Questo è il termine usato dall'Ecclesiaste, e appare diciassette volte nel corso del libro. Ma il testo chiave sul posto della felicità nella vita religiosa è il Deuteronomio. Lì leggiamo che è qualcosa che un marito dovrebbe creare per la moglie:

« Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico; sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposata. »
(Deuteronomio 24:5)

È qualcosa da esprimere durante le feste o quando si portano i primi frutti a Gerusalemme:

« E ti rallegrerai, tu con il Levita e con lo straniero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore, il tuo Dio, avrà dato a te e alla tua casa. »
(Deuteronomio 26:11)

È qualcosa a cui invitiamo le persone che altrimenti sarebbero vulnerabili e sole:

« Gioirai davanti al Signore tuo Dio tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita che sarà nelle tue città e l'orfano e la vedova che saranno in mezzo a te, nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto per stabilirvi il suo nome. »
(Deuteronomio 16:11)

In un passaggio sorprendente, l'incapacità di provare felicità viene identificata come causa della disintegrazione nazionale e delle maledizioni della divisione e della sconfitta:

« Poiché non avrai servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all'abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame, alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa. »
(Deuteronomio 28:47-48)

Simchah è la felicità dell'alleanza, la felicità di un intero popolo che ringrazia Dio per la sua terra, la sua libertà, i suoi raccolti e le sue messi. È comunitaria, qualcosa che sperimentiamo solo quando lasciamo alle spalle le nostre separatezze e diventiamo parte di una comunità pattizia. Simchah ci dice che la felicità è parte del tenore e della consistenza delle nostre relazioni e del modo in cui una cultura è orientata a un senso di gratitudine. Appartiene a una visione del mondo che ha già dichiarato all'inizio della storia umana — "Non è bene che l'uomo sia solo".[35]

La radice s-m-ch ricorre solo una volta in ciascuno dei primi quattro libri della Bibbia, dalla Genesi ai Numeri, ma dodici volte nel Deuteronomio, dove è centrale nella visione testuale della beatitudine sociale. Il Deuteronomio consiste nei discorsi di addio di Mosè alla generazione successiva, che attraverserà il Giordano ed entrerà nella Terra Promessa. In esso egli ripercorre la storia dell'esodo e degli anni del deserto e rinnova l'alleanza che i loro genitori avevano fatto sul Monte Sinai.

La sua argomentazione è avvincente e inaspettata. I quarant'anni di peregrinazioni, durante i quali gli Israeliti non avevano terra, né casa, né sicurezza fisica, non furono gli anni difficili, ma quelli facili. La vera sfida sarebbe arrivata quando avrebbero avuto terra, case e ricchezza. Allora avrebbero rischiato di dimenticare da dove venivano e perché si trovavano lì. Avrebbero dimenticato di ringraziare Dio, e quando una società dimentica di ringraziare, perde l'arte della felicità.

Questo è uno dei grandi contributi della Bibbia ebraica alla comprensione della felicità. Siamo animali sociali; quindi troviamo felicità nella società. Siamo persone-in-relazione;[36] quindi la nostra felicità dipende dalla profondità e dalla qualità delle nostre relazioni. Ma queste non sono cose che accadono automaticamente. Le società possono essere ingiuste, diseguali, tiranniche o anarchiche. La buona società è quella che offre la migliore possibilità di felicità duratura per i suoi membri, e il Deuteronomio è tra i classici tentativi di descrivere tale società e il tipo di felicità che cerca di consentire. Queste sono alcune delle sue caratteristiche distintive.

Felicità qui e ora

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La felicità, nell'ebraismo biblico, si trova nel qui e ora, in questo universo che Dio ha creato e sette volte dichiarato "buono", in questa vita incarnata, nella miscela di "polvere della terra" e "alito di Dio".[37] La Bibbia ebraica e l'ebraismo in generale si tengono alla larga da quelle tendenze gnostiche, manichee o platoniche che vedono una netta separazione tra corpo e anima, tra il fisico e lo spirituale, tra il mondo del tempo e del cambiamento e quello dell'eternità.

Nella Bibbia ebraica c'è sorprendentemente poco riferimento all'aldilà, e non viene mai offerto come risposta al problema del male: perché i malvagi prosperano e gli innocenti soffrono. Né c'è alcun riferimento al peccato originale o alla caduta della condizione umana. Pecchiamo; ci pentiamo; Dio perdona — collettivamente e individualmente. È qui, sulla Terra e in questa vita, che si deve combattere per la giustizia, praticare la compassione e raggiungere la felicità.

La felicità nell'ebraismo non è vista in contrapposizione al piacere fisico. Se l'edonismo è la ricerca del piacere e l'ascetismo la rinuncia al piacere, allora l'intricata struttura della legge ebraica in relazione al cibo, alle bevande e alle relazioni sessuali dovrebbe essere vista come la santificazione del piacere.

Rifiuto dell'ascetismo

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C'è un corrispondente rifiuto, all'interno della corrente principale ebraica, dell'abbraccio volontario della sofferenza o della povertà. Ad eccezione della setta di Qumran, non ci sono monasteri o conventi nell'ebraismo, e nessuna virtù del celibato. Non c'è alcuna tradizione del santo mendicante che dona la sua ricchezza e sussiste con la carità.

L'apparente eccezione a questa regola è il caso del nazireo[38] che rinuncia al vino e ai prodotti dell'uva. Tuttavia, è proprio qui che vediamo l'entità della trasformazione rabbinica di questa idea. Il testo biblico afferma che alla fine del suo periodo di nazireato, il nazireo porta un'offerta per il rito espiatorio.[39] La spiegazione ovvia è che sta terminando il suo periodo di speciale santità e sta rientrando nel mondo di tutti i giorni. Il suo "peccato" sta nell'abbandonare questo livello superiore di santità.

Tuttavia, in una rilettura radicale, troviamo questa affermazione rabbinica della legge:

« È stato insegnato: Eleazar ha-Kappar Berabbi dice: A cosa si riferisce la Scrittura quando dice [del nazireo], "E fai espiazione per lui, perché ha peccato a causa dell'anima". Contro quale anima ha peccato? [Deve significare che] si è negato il vino. Possiamo ora fare questa inferenza da minore a maggiore: se quest'uomo che si è negato solo il vino è definito peccatore, quanto più lo è colui che si nega il godimento di molte cose. »
(BT Taanit IIa – cit. Num. 6:11)

Secondo questa interpretazione, il suo peccato consisteva nell'essere diventato un nazireo in primo luogo! Questa è una chiara polemica contro l'ascetismo. Nel Talmud di Gerusalemme, l'insegnante del terzo secolo Rav arriva fino a dire che nel mondo a venire, si dovrà rendere conto di ogni piacere legittimo che ci si è negato in questa vita.[40]

Maimonide afferma in La Guida dei perplessi[41] che la perfezione del corpo – ovvero la soddisfazione dei bisogni fisici – ha la priorità cronologica sulla perfezione dell'anima. Non puoi elevarti alle più alte vette della spiritualità se sei malato, affamato o senzatetto. C'è una qualità concreta nel pensiero ebraico classico su questo argomento: un rifiuto di romanticizzare la povertà o di giustificare la sofferenza.

Primato del personale sul politico

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La felicità di una società dipende dalla forza e dalla profondità delle sue relazioni. La Bibbia ebraica lo sottolinea con l'ordine in cui racconta le sue storie. La Genesi – un libro su mariti e mogli, genitori e figli, fratelli e loro rivalità – è il preludio a Esodo – un libro su nazioni e potere, schiavitù e liberazione. Entrambi contengono un patto divino, Genesi con Abramo come individuo, Esodo con gli Israeliti come popolo. Genesi riguarda la famiglia pattizia, Esodo la società pattizia.

Allo stesso modo, il Libro di Rut è il prologo storico del Primo libro di Samuele. Samuele racconta la storia della nascita di Israele come regno. Rut – un libro sull'amore e la lealtà di Rut per Naomi e Boaz per Ruth – rivela il suo scopo alla fine quando rivela che Rut è la bisnonna di Davide, il secondo e più grande re di Israele.

L'effetto di queste due grandi strutture letterarie è di stabilire il primato del personale sul politico. La Bibbia ebraica appoggerebbe ampiamente la visione di Oliver Goldsmith:

« How small, of all that human hearts endure,
That part which laws or kings can cause or cure! »
(Oliver Goldsmith, "The Traveller," in Select Poems of Goldsmith, cur. William J. Rolfe (New York: Brothers, 1875), 70)

La felicità, la beatitudine e la felicità vivono nei legami di lealtà e amore che strutturano la famiglia estesa e la comunità locale.

L'ordine politico, nell'ebraismo, è secondario all'ordine sociale, che a sua volta dipende dalle relazioni all'interno della famiglia. Il valore centrale della moralità biblica è l'amore: amore per Dio, per il prossimo e per lo straniero. Attorno a esso ci sono le virtù dell'alleanza: tzedek (צדק), rettitudine; mishpat (משפט), giustizia; chesed (חֶסֶד), amorevolezza; e rachamim (רַחֲמִים‎), compassione. Il servizio allo Stato, centrale nell'etica civica dei Greci, è nell'ebraismo un valore strumentale piuttosto che essenziale. È la qualità delle nostre relazioni interpersonali che più di ogni altra cosa plasma la natura della nostra felicità.

Uguaglianza di dignità

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È un elemento essenziale della grazia collettiva che tutti all'interno della società dell'alleanza abbiano accesso ai prerequisiti materiali della felicità. Le elaborate disposizioni welfare della legge biblica, gli angoli del campo agricolo e le varie altre parti del raccolto lasciate ai poveri, la distribuzione delle decime, la liberazione dei debiti nell'anno sabbatico (שמיטה) e la restituzione della proprietà ancestrale nel Giubileo, la liberazione degli schiavi e la regolamentazione dei rapporti datore di lavoro-dipendente: tutto ciò era progettato, come disse Henry George, "to lay the foundation of a social state in which deep poverty and degrading want should be unknown".[42] Norman Gottwald ha sostenuto che centrale per il progetto biblico era la costruzione – secondo gli standard del mondo antico – di una società egualitaria o nongerarchica.[43]

Si tratta di un argomento ripreso di recente da Richard Wilkinson e Kate Pickett nel loro libro The Spirit Level, in cui sostengono: "the scale of income differences has a powerful effect on how we relate to one another".[44] Le società più felici sono anche le società più eque. La prosperità materiale ha un effetto sulla salute e sul benessere al livello più basilare, ma una volta soddisfatti i bisogni essenziali, l'aumento della ricchezza produce rendimenti decrescenti.

Non è tanto l'uguaglianza in sé a guidare la legislazione biblica, quanto piuttosto un senso di dignità umana e di inclusione, soprattutto quando si tratta delle festività, dei momenti di celebrazione collettiva, che, come ribadisce la Bibbia, devono includere membri soli ed emarginati della società. Maimonide dà questa espressione tagliente nel suo codice di leggi. Scrivendo sulle celebrazioni delle feste, afferma:

« Mentre uno mangia e beve per sé, è suo dovere nutrire anche lo straniero, l'orfano, la vedova e altre persone povere e sfortunate, perché chi chiude a chiave le porte del suo cortile e mangia e beve con sua moglie e la sua famiglia, senza dar nulla da mangiare e da bere ai poveri e agli amareggiati nell'anima — il suo pasto non è un giubilo in un comandamento divino, ma un giubilo nel suo proprio stomaco. È di queste persone che la Scrittura dice: "I loro sacrifici saranno per loro come il pane dei lutti, tutti quelli che ne mangeranno saranno contaminati; perché il loro pane sarà per loro soltanto, per il loro proprio appetito". Questo genere di giubilo è una vergogna per coloro che vi si abbandonano... »
(Maimonide, Mishneh Torah, Leggi dei Festival 6:18 – cit. Osea 9:4)

Non possiamo essere felici, suggerisce la Bibbia, mentre altri sono privati ​​della possibilità di felicità.

Gratitudine e rimembranza

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Un'altra intuizione sistematica delle osservazioni di Mosè nel corso del Deuteronomio è la centralità della gratitudine nel mantenimento della felicità sociale nel tempo. Egli presenta questo tramite un netto contrasto tra benedizione e oblio:

« Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato. Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio... Affinché non avvenga, quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, che il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio. »
(Deuteronomio 8:10-14)

La dimenticanza genera ingratitudine e fiducia in se stessi: "Guàrdati dunque dal dire in cuor tuo: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze".[45]

Memoria e gratitudine, sostiene Mosè, sono gli unici antidoti al potere corruttivo dell'abbondanza. Zakhor (זכור), l'imperativo di ricordare, è un tema centrale del Deuteronomio: Ricordati che un tempo eri schiavo in Egitto. Ricordati dei giorni antichi. Ricordati che ciò che hai – la libertà, la terra, i suoi prodotti, la vita stessa – è un dono di Dio, e rendi grazie. Molti dei grandi rituali del Deuteronomio, le festività, la consegna delle primizie, persino la lettura pubblica dell'alleanza ogni sette anni,[46] sono occasioni di memoria collettiva e gratitudine. Il Thanksgiving americano (Ringraziamento) è il suo equivalente moderno più evidente.

Questo è un tema centrale per l'ebraismo postbiblico. Le preghiere mattutine quotidiane iniziano con una litania di ringraziamento, così come le benedizioni per il cibo, le bevande e altri piaceri. La gratitudine è un elemento essenziale della felicità, perché focalizza la nostra attenzione su ciò che abbiamo, non su ciò che ci manca; su ciò che possediamo, non su ciò che possiedono gli altri. È la salvaguardia contro la politica dell'invidia.[47]

Shabbat

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Shabbat, Shabbat Shuvah e Qiddush.

Una delle istituzioni più potenti nella struttura biblica della felicità sociale è lo Shabbat (שבת). Gli scrittori ellenistici non riuscivano proprio a capire lo Shabbat. Conoscevano, come ogni popolo antico, il concetto di giorno sacro. Ciò che non capivano era un giorno la cui santità consisteva nel non lavorare. Attribuivano la sua osservanza da parte degli ebrei a pura pigrizia.[48]

Lo Shabbat è un'istituzione insolita. È ciò che in un suo libro, Rabbi Sacks ha chiamato "utopia in the present",[49] una prova settimanale della Fine dei giorni in cui tutte le gerarchie di dominio e potere sono sospese, in cui ricchezza e potenza non contano nulla, in cui nessuno può costringere nessun altro a lavorare, in cui datore di lavoro e dipendente, servo e padrone, sono ugualmente liberi. Lo Shabbat è l'anticipazione della società ideale che è l'opposto dell'Egitto in cui c'è una gerarchia di potere e in cui gli stranieri sono schiavi.

Ahad Ha’am scrisse notoriamente "more than the Jewish people kept the Sabbath, the Sabbath kept the Jewish people, and there have been few social institutions that have renewed their meaning more often over time".[50] Nell'era biblica, lo Shabbat era una protesta contro la schiavitù. Nell'era industriale era una tregua dalle lunghe ore di lavoro. Nell'era dell'informazione è diventato una liberazione benedetta dalla tirannia di e-mail, tweet, facebook e social media sempre più invadenti. Lo Shabbat è l'antidoto alla condizione che Wordsworth fu uno dei primi a diagnosticare:

« The world is too much with us; late and soon,
Getting and spending, we lay waste our powers. »
(William Wordsworth, "The World is Too Much With Us"[51])

Una vita felice ha bisogno di pause e intervalli, di momenti in cui assaporare le nostre benedizioni.

Speranza

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L'ultima dimensione del senso giudaico di felicità è difficile da definire, ma è forse la più importante di tutte. C'è una differenza fondamentale tra la visione della vita come definita dai concetti greci di moira (μοῖρα) e ananke (ἀνάγκη), o destino cieco e inesorabile, e i concetti ebraici di pentimento umano e perdono divino. Questi ultimi significano che non c'è destino che sia inesorabile, nessun decreto che non possa essere evitato. Questo costituisce l'argomento del Libro di Giona. Dio ordina al profeta di dire agli abitanti di Ninive che in quaranta giorni la città sarà distrutta. Giona tenta ma non riesce a sfuggire da tale missione. Alla fine consegna il messaggio, la gente si pente ed è perdonata e la città viene salvata. Giona prega quindi di morire.

Giona non riesce a capire la differenza tra una profezia e una predizione. Se una predizione si avvera, ha avuto successo. Se una profezia si avvera, ha fallito. La profezia esiste solo all'interno di una cultura che crede sia nel libero arbitrio umano che nel perdono divino. Le culture che credono nel fato inesorabile scrivono tragedie alla maniera di Eschilo e Sofocle. Le culture che credono nella libertà e nel perdono producono una letteratura di speranza, di cui Isaia è il sommo poeta.

Le culture tragiche tendono a dare origine a forme di felicità stoiche o epicuree. Un valore chiave è l’atarassia (ἀταραξία), una sorta di immunità contro il destino attraverso un abbassamento della temperatura emotiva e una riluttanza a investire pesantemente in legami emotivi duraturi. Le culture della speranza hanno una tonalità diversa. Non hanno paura di incoraggiare forti legami emotivi di amore e lealtà. Non vedono l'universo come fondamentalmente ostile o indifferente. Hanno un atteggiamento di fiducia verso il futuro, qualunque siano le difficoltà del presente. Questa sensibilità permea molti dei Salmi, il più famoso dei quali è il Salmo 23, "Il Signore è il mio pastore". Una delle sue espressioni più belle è data dal profeta Abacuc:

« Il fico infatti non germoglierà,
nessun prodotto daranno le viti,
cesserà il raccolto dell'olivo,
i campi non daranno più cibo,
i greggi spariranno dagli ovili
e le stalle rimarranno senza buoi.
Ma io gioirò nel Signore,
esulterò in Dio mio salvatore. »
(Abacuc 3:17-18)

I molti volti della felicità

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Ho descritto tre sensibilità nell'ebraismo: la vita profetica di lotta; la felicità di ashrei con la sua vita di semplicità in accordo con la volontà di Dio, che si ritrova nei Salmi e ribadita dopo un lungo esame di coscienza dall'Ecclesiaste; e simchah, la vita-vissuta-in-relazione che trova la sua massima espressione nella visione dell'alleanza tenuta da Mosè nel libro del Deuteronomio.

Nel corso della storia ebraica, alla fine sarebbero emerse molte modalità. Ci fu la felicità filosofica di Maimonide, l'unione dell'umano e del divino tramite l'intelletto attivo e la vita di contemplazione. Ci fu l'ascetismo e l'abbraccio del martirio dei pietisti ebrei nordeuropei del XII secolo, gli Chassidei Ashkenaz. Ci fu l’unio mystica dei cabalisti e il profondo desiderio dei mistici di Safed. Ci fu l'esuberanza dei Chassidim dell'Europa orientale del XVIII secolo che, più di molti altri, consideravano centrale l'idea di servire Dio con gioia.

Queste differenze sorgono a causa della duplice natura della felicità. Da un lato, si riferisce a un insieme di esperienze, dalla gioia e dall'esultanza alla contentezza e alla tranquillità, che sono universali. Ciò ci consente di fare confronti interculturali della felicità ponendo alle persone domande sulla loro soddisfazione per la vita, da cui il concetto di una "scienza" della felicità. Ma le menti riflessive in molte epoche e culture hanno identificato la felicità con il summum bonum, ciò che cerchiamo per il suo stesso bene, il cui raggiungimento o persino perseguimento costituisce l'obiettivo finale di tutti i nostri sforzi. In questo senso, la felicità è culturalmente specifica. L’eudaimonia (εὐδαιμονία) aristotelica non è la vita ebraica di beatitudine; ancora meno è il nirvana buddista. La felicità in questo secondo senso è inconcepibile senza cultura. Appartiene costitutivamente al modo in cui vediamo la condizione umana e il più alto risultato di una vita umana. La differenza tra queste forme di felicità è simile alla distinzione fatta da P. F. Strawson tra moralità sociale e ideale etico. La moralità sociale è universale. È ciò che ci consente di vivere insieme in pace e grazia. Gli ideali etici sono immagini che ci formiamo di una vita ammirevole, e sono irriducibilmente particolari. Appartengono a ciò che lui chiama "the realm of truths rather than truth".[52]

Ho dedicato la maggior parte del tempo alla visione sociale di Mosè perché mi sembra rappresenti il ​​contributo più originale dell'ebraismo alla comprensione del benessere umano. Il Deuteronomio offre l'acuta intuizione che la povertà non è l'unica minaccia alla felicità. Lo è anche l'opulenza. La prima ci deruba delle condizioni esterne della felicità, ma la seconda può sottilmente minare la sua ecologia morale. Sarebbero passati millenni prima che due pensatori altamente originali, Ibn Khaldun e Giambattista Vico, riprendessero questa idea e la integrassero nelle loro teorie sull'ascesa e la caduta delle civiltà.

Ibn Khaldun si concentrò sulla vita delle città e sul modo in cui la cultura urbana erode gradualmente la solidarietà sociale. Vico sosteneva che tutte le civiltà attraversano una sequenza di fasi: "Le persone prima intuiscono ciò che è necessario, poi considerano ciò che è utile, poi si preoccupano del comfort, poi si dilettano nei piaceri, presto diventano dissoluti nel lusso e infine impazziscono sperperando i loro beni". Il carattere della società cambia: è "prima rozzo, poi severo, poi generoso, poi delicato e infine dissoluto".[53] Ciò che guida la logica del Deuteronomio e la sua visione di una società costruita sull'alleanza divina-umana è la sfida di sconfiggere questo ciclo. Come può una cultura rimanere giovane? Come può una cultura rimanere giovane? Come può sopravvivere non solo alle sue sconfitte ma anche al suo successo? Queste sono le domande che dovremmo porci nell'Occidente postmoderno, tardo-capitalista e liberal-democratico.

La visione di Mosè è intrinsecamente religiosa. Allo stesso modo, Vico credeva che la società avesse bisogno di una base religiosa se voleva sopravvivere:

« Se i popoli perdono la loro religione, non rimane nulla che li tenga in vita in una società. Non hanno scudo per la loro difesa, nessuna base per le loro decisioni, nessun fondamento per la loro stabilità, e nessuna forma con cui esistono nel mondo. »
(Giambattista Vico, ibid.)

Se ciò sia vero va oltre i parametri di questo studio. Possiamo, tuttavia, affermare, senza terminologia religiosa, alcune delle percezioni chiave di Mosè. La felicità è sociale perché siamo animali sociali. La felicità sociale richiede una rete di relazioni forti, di cui la famiglia è la prima e la più fondamentale. Ciò richiede un'etica di fedeltà sessuale e responsabilità genitoriale. La felicità collettiva richiede anche un senso di responsabilità collettiva e una preoccupazione pratica per il benessere e la dignità degli altri. Dobbiamo coltivare il senso di gratitudine, che a sua volta richiede una memoria collettiva e i rituali del ringraziamento. La felicità sociale richiede un equivalente funzionale dello Shabbat: uno spazio culturale in cui ci concentriamo sul valore delle cose, non sul loro prezzo, e sull'importante, non solo sull'urgente. Senza uno Shabbat che ponga limiti al nostro impegno, esauriremo sia noi stessi che il nostro ambiente. Le culture, come gli individui, possono soffrire di burnout. Questa potrebbe essere la nostra condizione attuale.

"Something is profoundly wrong with the way we live today." Così inizia Ill fares the Land di Tony Judt, il libro che pubblicò poco prima della sua morte nel 2010. E continua:

« For thirty years we have made a virtue out of the pursuit of material self-interest: indeed, this very pursuit now constitutes whatever remains of our sense of collective purpose. We know what things cost but have no idea what they are worth. »
(Tony Judt, Ill Fares the Land [New York: Penguin Press, 2010], 1)

Queste preoccupazioni erano ampiamente condivise. La crisi finanziaria del 2008 pose fine al più lungo periodo di crescita economica a memoria d'uomo, ma anche prima del crollo, c'era un senso diffuso che valori e virtù venivano erosi nella ricerca precipitosa del guadagno materiale. Le persone in Occidente stavano diventando più ricche, ma non comparativamente più felici.

Già negli anni ’80 Alasdair MacIntyre, tracciando la fine della virtù, parlava dell'arrivo di un Medioevo.[54] Robert Bellah e i suoi coautori, in Habits of the Heart, mettevano cupamente in guardia sul modo in cui l'ecologia sociale "is damaged by the destruction of the subtle ties that bind human beings to one another, leaving them frightened and alone".[55] In Bowling Alone, Robert Putnam documentava l'erosione del capitale sociale man mano che le persone diventavano più preoccupate di sé e meno della società e della comunità.[56] Altri notavano la perdita di metanarrazioni attraverso cui le persone davano un senso alla condizione umana.[57]

Questi fenomeni hanno avuto un prezzo misurabile: l'aumento, soprattutto tra i giovani, di malattie depressive e sindromi legate allo stress, di abuso di droga e alcol, di crimini violenti e tentativi di suicidio. Le famiglie stabili venivano sostituite da una gamma quasi interminabile di varianti, lasciando dietro di sé bambini problematici e svantaggiati. Meno persone si ritrovavano circondate dalle reti di supporto tradizionalmente fornite dalle congregazioni e dalle comunità locali.

L'attuale preoccupazione per la felicità testimonia un autentico interrogativo sul fatto che potremmo aver preso una strada sbagliata nella sfrenata ricerca del guadagno economico. Allertandoci costantemente su ciò che non abbiamo invece di renderci grati per ciò che abbiamo, la società dei consumi diventa un sistema altamente efficiente per la produzione e la distribuzione dell'infelicità. C'è qualcosa di sbagliato in un'economia basata sullo spendere soldi che non abbiamo per comprare cose di cui non abbiamo bisogno per il bene di una felicità che non durerà.

Un'antica domanda torna a tormentarci: che giova ad una cultura guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? La visione di Mosè di una beatitudine sociale suggerisce che la felicità si trova altrove rispetto a dove l'abbiamo ricercata nell'individualismo acquisitivo del nostro tardo ordine capitalista e postmoderno. È la resilienza della simchah, la gioia che esiste in virtù dell'essere condivisa – e che gli ebrei hanno trovato persino nel mezzo della tragedia – che ci dà la promessa sempre rinnovabile della speranza.

  Per approfondire, vedi Serie maimonidea, Serie misticismo ebraico, Serie delle interpretazioni e Serie dei sentimenti.
  1. Lev Tolstoj, Anna Karenina (Анна Каренина), 1.
  2. Aristotle, Etica Nicomachea, Libro 1:30.
  3. Lam. Rab. 2:13.
  4. Seren Kierkegaard, The Soul of Kierkegaard: Selections from His Journal, cur. Alexander Dru (Mineola, NY: Publications, 2003
  5. Jonathan Sacks, To Heal a Fractured World: The Ethics of Responsibility (New York: Schocken Books, 2005), 186. Cfr. anche Jonathan Sacks, Future Tense: Jews, Judaism, and Israel in the Twenty-First Century (New York: Schocken Books, 2009), 254.
  6. In particolare, cfr. Esodo 19:6; Levitico 19:2.
  7. Maimonide, Mishneh Torah, Leggi del Pentimento 10:2.
  8. Adin Steinsaltz, The Strife of the Spirit (Northvale, NJ: Jason Aronson, 1988).
  9. Rabbi Joseph Soloveitchik, "Majesty and Humility," Tradition: A Journal of Orthodox Jewish Thought 17, n. 2 (Spring 1978): 25-37.
  10. BT Berakoth 64a.
  11. Genesi 17:19.
  12. Genesi 26:8.
  13. Sigmund Freud, Civilization and Its Discontents, ed. riv. (Londra: Hogarth Press, Institute of Psycho-Analysis, 1930), 12.
  14. Herbert N. Schneidau, Sacred Discontent: The Bible and Western Tradition (Berkeley: University of California Press, 1977).
  15. Arthur Schopenhauer, The World as Will and Idea, trad. (EN) R. B. Haldane & J. Kemp (Londra: Routledge and Kegan Paul, 1883).
  16. Questo era l'elemento della filosofia morale kantiana che Bernard Williams trovava problematico. Cfr. Bernard Williams, "Persons, Character and Morality," in Moral Luck: Philosophical Papers, 1973-1980 (Cambridge: Cambridge University Press, 1981), 1-19.
  17. Genesi 25:8.
  18. Genesi 47:9.
  19. Genesi 48:11.
  20. MT Avot 2:16: לא עליך כל המלאכה לגמור, ולא אתה בן חורין ליבטל.
  21. Norman Malcolm, Ludwig Wittgenstein: A Memoir, II ed. (Oxford: Oxford University Press, 1984), 81.
  22. Salmi 92.
  23. Genesi 30:13.
  24. Deuteronomio 16:21.
  25. Salmi 17:5.
  26. Darrin M. McMahon, Happiness: A History (New York: Atlantic Monthly Press, 2006), 79.
  27. Cfr. Jacques Ellul, The Meaning of the City, trad. Dennis Pardee (Grand Rapids, MI: Eerdmans, 1970).
  28. Genesi 11:4.
  29. Genesi 18:16-19:29.
  30. Ibn Khaldun, Al Muqaddimah: An Introduction to History, trad. Franz Rosenthal, II ed. (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1967).
  31. William Shakespeare, King Lear, Act 5, Scene 3.
  32. MT Avot 1:14.
  33. Sul movimento Chabad-Lubavitch si veda il mio Messianismo Chabad e la redenzione del mondo.
  34. Viktor E. Frankl, The Doctor and the Soul: An Introduction to Logotherapy, trad. Richard Winston and Clara Winston (1955; repr., New York: Knopf, 1963), 46.
  35. Genesi 2:18.
  36. Il riferimento è all'ottimo studio di John Macmurray, Persons in Relation (Londra: Faber, 1970).
  37. Genesi 2:7.
  38. Numeri|6:1-21}}.
  39. Numeri 6:13-14.
  40. TG Kiddushin 4:12.
  41. Maimonide, La Guida dei perplessi, Lib. 3, cap. 27.
  42. Henry George, "Moses" (lecture, National Single Tax League, Cincinnati, OH, 1918).
  43. Norman K. Gottwald, The Tribes of Yahweh: A Sociology of the Religion of Liberated Israel 1250-1050 BCE (Maryknoll, NY: Orbis Books, 1979).
  44. Richard Wilkinson e Kate Pickett, The Spirit Level: Why More Equal Societies Almost (New York: Bloomsbury Press, 2010), 4-5.
  45. Deuteronomio 8:17.
  46. Deuteronomio 31:10-13.
  47. Per ricerche recenti, cfr. Robert Emmons, Thanks!: How the New Science of Gratitude Can Make You Happier (Boston: Houghton Mifflin, 2007).
  48. Cfr., ad esempio, la discussione di Agostino sulle opinioni di Seneca riguardo allo Shabbat. Agostino, Città di Dio, libro 6, cap. 11.
  49. Jonathan Sacks, A Letter in the Scroll: Understanding Our Jewish Identity and Exploring the Legacy of the World's Oldest Religion (New York: Free Press, 2000), 136-41, spec. 139.
  50. Ahad Ha’am, "Al Parshat Derakhim," in Sefer Hashabbat, cur. Hayyim Nahman Bialik (Tel Aviv: Agudat Ohel Shem, 1936), 3:516.
  51. William Wordsworth, "The World is Too Much With Us", in Select Poems of William Wordsworth, Rolfe (New York: Harper and Brothers, 1889), 120.
  52. P. F. Strawson, "Social Morality and Individual Ideal," in Freedom and Resentment and Other Essays (Londra, Methuen, 1974), 19-49.
  53. Giambattista Vico, Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni — (EN) New Science: Principles of the New Science Concerning the Common Nature of Nations, trad. David Marsh, III ed. (Londra: Penguin Classics, 1999), 98.
  54. Alasdair C. Maclntyre, After Virtue: A Study in Moral Theory (Londra: Duckworth, 1981).
  55. Robert N. Bellah et al., Habits of the Heart: Individualism and Commitment in American Life (University of California Press, 1985), 284.
  56. Robert Putnam, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community (New York: Schuster, 2000).
  57. Jean-François Lyotard, The Postmodern Condition: A Report on Knowledge, trad. (EN) Geoff Bennington & Brian Massumi (Manchester: Manchester University Press, 1984).

  Sotto lo pseudonimo Monozigote rilascia in dominio pubblico tutti i suoi scritti su Wikibooks  

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  Serie misticismo ebraico  
Libri nella serie: Messianismo Chabad e la redenzione del mondo  •  Introduzione allo Zohar  •  Isaac Luria e la preghiera  •  Il Nome di Dio nell'Ebraismo  •  Rivelazione e Cabala  •  Storia intellettuale degli ebrei italiani  •  Abulafia e i segreti della Torah  •  Israele – La scelta di un popolo  •  Nahmanide teologo  •  Evoluzione del monoteismo  •  Etica della salute  •  Il Chassidismo di Elie Wiesel  •  La teologia di Heschel  •  Ebraismo chassidico  •  Questo è l'ebraismo!  •  I due mondi dell'ebraismo  •  Ispirazione mistica  •  Tradizione ebraica moderna  •  Simchah: nozioni di felicità  •  Sefer כותב ישוע  •  Melekh Ha-Mashiach
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