Tradizione ebraica moderna/Introduzione

Indice del libro
Ingrandisci
Qoelet come decorazione Sukkah, di Israel David Luzzatto (1800ca.)

Introduzione

modifica
  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Filosofia ebraica.

Cos’è la filosofia ebraica moderna, ed esiste davvero una cosa del genere? Se esiste, cosa la rende moderna? Cosa la rende ebraica? E cosa la rende filosofia? In effetti, chi pone una domanda del genere e per quale motivo? Tali domande rappresentano una sfida all'esistenza stessa di una specie di filosofia che sia genuinamente ebraica e allo stesso tempo moderna? Mi invitano a rispondere, forse per essere difensore della filosofia ebraica moderna e per difenderla dai suoi detrattori? Queste domande sono sconcertanti. Sebbene possano sembrare semplici nel contenuto e facilmente risolvibili, anche un attimo di analisi rivelerà quanto sia difficile rispondere e persino comprendere.

Uno scettico potrebbe sostenere che non esiste una filosofia ebraica. Perché la filosofia (potrebbe spiegare il nostro audace interlocutore) è la ricerca di questioni universali. E i metodi che usiamo quando poniamo tali domande non possono mostrare identità particolari e non possono essere vincolati da impegni particolari oltre alla devozione alla filosofia stessa. Julius Guttmann, uno dei più grandi studiosi del XX secolo su questo dibattito, intitolò così la sua indagine del 1933, Die Philosophie des Judentums (La filosofia dell'erbraismo). Il titolo sembra lasciasse intendere che, nonostante l'oggetto particolare in vista, il metodo rimaneva comunque universale e puramente razionale: una filosofia dell’ebraismo, ma non una filosofia ebraica. Quindi il nostro scettico immaginario potrebbe avere ragione. Se la filosofia fosse semplicemente un impulso umano, allora la “filosofia ebraica” dovrebbe essere intesa come l’applicazione di un approccio filosofico generale a temi specifici (ebraismo, esistenza ebraica e così via). Ma le cose non sono così semplici. L'impulso ad affrontare le questioni in modo filosofico non sorge in ogni momento e in ogni luogo. È un impulso defamiliarizzante, un atteggiamento di meraviglia (in greco, thaumazein) verso cose normalmente date per scontate. Più recentemente, nella tradizione analitica, la filosofia è stata intesa come l'applicazione della logica, o un'analisi del linguaggio ordinario, a confusioni concettuali. Wittgenstein lo paragonò a una cura terapeutica: “mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia”. L'immagine suggerisce una dislocazione o dissoluzione dell'errore convenzionale. La filosofia quindi nasce soprattutto, forse, quando gli impegni tacitamente condivisi vengono in qualche modo messi in discussione o vengono gettati in una luce insolita, tanto da sembrar richiedere una giustificazione esplicita e vigorosa se non vogliono essere abbandonati.

Questa nozione può aiutare a spiegare perché la filosofia ebraica non è eterna ma sembra, al contrario, un'attività cerebrale tipicamente moderna. A dire il vero, c’erano filosofi ebrei già a partire da Filone d’Alessandria. E Maimonide (probabilmente il più grande filosofo ebreo di tutti), le cui opere sintetizzano l'ebraismo con fonti islamiche ed ellenistiche, si stabilì nel Vecchio Cairo nel XII secolo. La filosofia ebraica sembrerebbe quindi tanto antica quanto il confronto ebraico con la Grecia. Ma nel mondo premoderno, le comprensioni condivise che costituivano il contesto intellettuale della vita ebraica rimasero in gran parte intatte, i suoi cambiamenti più o meno confinati nei processi normativi di interpretazione (midrash) e innovazione (chidush) sotto l’attenta guida dell'istituzione rabbinico. Fu solo con l'espulsione dalla Spagna e i conseguenti dislocamenti della comunità ebraica nel corso dei secoli XVI e XVII che l'edificio più profondo dell'ebraismo fu interamente esposto a scrutinio scientifico e filosofico. Da quel momento in poi, la vita ebraica non poté più poggiare comodamente su un fondamento dato per scontato di fede condivisa. Con frequenza crescente, varie sfide sorsero in maniera continua per mettere in dubbio quel fondamento: il naturalismo scientifico, l’Illuminismo, l’assimilazione, il secolarismo, il socialismo e il nazionalismo – tutti questi accompagnati da crescenti ondate di conflitto e modalità diversificate di risposta ebraica. A dire il vero, c’è sempre stata diversità all'interno del mondo ebraico. Fin dalle sue origini, forse, l'ebraismo si è abituato a sfide frequenti, sia interne che esterne. Non solo si è adattato, ma è anche diventato più forte grazie a loro. Ma forse la caratteristica più distintiva della modernità ebraica è che tali dislocazioni sembrano ora essere meno l'eccezione che la regola. La filosofia ebraica – se effettivamente è un segno di dislocazione – sembra oggi una caratteristica inevitabile della moderna condizione ebraica.

È stato detto che il problema di ebraismo e filosofia moderna è una dimensione del dilemma più generale di “Atene e Gerusalemme” o (per invocare un distico diverso), “Ellenismo ed Ebraismo”. Pensatori ebrei come Leo Strauss, Emmanuel Levinas ed Emil Fackenheim ritenevano che questa relazione fosse profonda e importante, non solo per l'ebraismo ma per tutta la civiltà e la cultura occidentale.[1] Levinas, ad esempio, sosteneva che la tradizione ebraica contenesse una comprensione chiave del carattere fondamentalmente etico dell'esistenza sociale. Questa intuizione, tuttavia, era stata oscurata dalla civiltà greco-occidentale e necessitava di essere riscoperta. Lévinas riteneva quindi che la filosofia e la filosofia ebraica non fossero, in definitiva, imprese distinte. Piuttosto, la filosofia tradizionale era parte di un mondo che aveva bisogno di ricordare le proprie radici, e a questo riguardo la filosofia occidentale e quella ebraica non differivano sostanzialmente. Tutta la filosofia aveva bisogno di essere rimodellata per trovare la strada verso una nuova comprensione dell'esistenza umana e dei suoi fondamenti etici; tutta la filosofia aveva bisogno di una nuova prima filosofia. Ma tale visione è solo un filo della rete variegata e complessa che costituisce la moderna filosofia ebraica. Qual è infatti lo schema più ampio di tale rete?

Supponiamo di iniziare con la domanda che potrebbe sembrare più semplice: esiste una filosofia ebraica moderna? La risposta più semplice potrebbe essere “certo che c’è”. E poi procederemmo ad elencare le figure che sembrano rientrare in questa categorizzazione: Baruch Spinoza, Moses Mendelssohn, Nachman Krochmal, Samson Raphael Hirsch, Ludwig Steinheim, Hermann Cohen, Martin Buber, Franz Rosenzweig, Julius Guttmann, Samuel Hugo Bergmann, Nathan Rotenstreich, Emil Fackenheim, Emmanuel Levinas e Horace Kallen. Tuttavia, questa proposta susciterebbe immediatamente diverse obiezioni. Innanzitutto l'elenco sembra allo stesso tempo troppo lungo e troppo corto. È troppo lungo perché include alcuni che sono studenti di filosofia ebraica ma non veri filosofi ebrei, e almeno uno che non è nessuno dei due, ma piuttosto un ebreo che era anche un filosofo. È troppo breve perché tralascia tante figure di grande importanza, tra cui Moses Hess, Isaac Breuer, Moses Maimon, Mordecai Kaplan, Abraham Joshua Heschel, Leo Baeck, Joseph Soloveitchik, Lou Silberman, Bernard Martin, Marvin Fox, Michael Wyschogrod, Louis Jacobs, Steven Schwarzschild, Jacques Derrida, David Hartmann, Eugene Borowitz e persino Gershom Scholem e Walter Benjamin. Ma si potrebbe interrompere: la domanda non riguardava specificamente la filosofia e quindi i filosofi? Sicuramente molte di queste figure non lo sono: Buber, Kaplan, Heschel, Baeck e Soloveitchik, per esempio. E se la questione riguardasse i filosofi ebrei, dobbiamo ammettere che non tutti quelli nominati meritano quel titolo, se essere un filosofo ebreo significa essere qualcuno che ha scritto opere filosofiche specificatamente indirizzate all'ebraismo o a questioni ebraiche. Dobbiamo dunque liquidare Buber, Kaplan, Heschel, Baeck, Soloveitchik, Scholem e Benjamin? Se così fosse, il nostro elenco dovrebbe essere notevolmente ridotto.

Costruire un elenco del genere non è un compito facile. Si tratta di chiedersi quale criterio utilizzare per selezionare chi dovrebbe farne parte e chi no? Ma ciò significa che bisognerebbe chiedersi cosa rende la moderna filosofia ebraica quello che è: moderna, ebraica e filosofica. Per determinare se esiste ed è esistita una cosa come la filosofia ebraica moderna, forse non possiamo evitare di chiederci di cosa si tratta. Ma anche se ci sentissimo spinti a fornire un criterio, dove lo troveremmo?

Come ho suggerito, la filosofia moderna in generale nasce con l'emergere discontinuo della prospettiva scientifica moderna nel corso dei secoli XVII e XVIII e con la sfida che questa prospettiva pose ai modi di pensiero tradizionali – scientifico, filosofico, morale, politico e religioso. In termini di influenza e importanza, il pensiero di René Descartes segna un punto di svolta, se non il punto di svolta, per la filosofia moderna. Ben presto ne seguirono una serie di altri, sia per resistergli che per radicalizzare le sue affermazioni: Arnauld, Gassendi, Hobbes, Spinoza, Leibniz e così via. La stessa filosofia ebraica è molto anteriore al XVII secolo e alla nascita delle moderne scienze naturali. Ma la filosofia ebraica moderna, se deve essere chiamata “moderna” nel senso qui inteso, deve sicuramente avere qualcosa a che fare con questo stesso confronto tra la nuova scienza e le abitudini tradizionali del pensiero ebraico.

Ma cosa renderebbe tale pensiero “ebraico” nel senso rilevante? Cosa renderebbe questa filosofia non solo scritta da ebrei ma di carattere ebraico? Un suggerimento è che per essere ebraico deve affrontare le credenze e le preoccupazioni ebraiche; deve essere o far parte di un tentativo di articolare in qualche modo la natura della dottrina o dell'esistenza ebraica. Ciò che lo renderebbe ebraico, cioè, sarebbe il suo argomento: la filosofia ebraica moderna sarebbe un tipo di sforzo per dire cosa sia l'ebraismo. Ma è necessario che tale sforzo sia orientato principalmente o esclusivamente verso tale obiettivo? E se fosse mirato in un'altra direzione, se i suoi obiettivi fossero diversi, e tuttavia lungo il percorso dicesse cose interessanti, preziose o significative sull'ebraismo e sullo stile di vita ebraico? Sarebbe sufficiente questo per fare di un simile sforzo un episodio della filosofia ebraica moderna? Se così non fosse, allora la giustificazione per includere qualcuno come Spinoza, ad esempio, sarebbe davvero debole, così come lo sarebbe la giustificazione per includere Strauss o Levinas o Derrida o Benjamin. Sicuramente richiederebbe una certa energia e intelligenza per sostenere che il loro lavoro, anche in parte, fosse principalmente e intenzionalmente finalizzato ad articolare il significato dell'esistenza ebraica. Sarebbe sufficiente, quindi, che l'opera o la figura in questione contribuissero in qualche modo interessante e fruttuoso all'impresa di articolare il significato dell'esistenza ebraica, anche se non mirasse a tale obiettivo e se il filosofo non fosse principalmente impegnato in un progetto del genere. Ma chiaramente il lavoro del filosofo dovrebbe toccare questioni provocatorie e importanti sulla materia ebraica, e farlo in modo filosofico.

Tenendo presenti tali considerazioni, ho ritenuto opportuno adottare qui quello che potrebbe essere definito un criterio “ermeneutico” o “pragmatico” della filosofia ebraica moderna. Quest'ultimo non deve soddisfare standard formali o sostanziali stabiliti prima del suo verificarsi. Deve semplicemente implicare un risultato ottenuto attraverso un ampio processo interpretativo. La filosofia ebraica moderna è stata, e continua ad essere, il risultato di un impegno multiforme tra, da un lato, la riflessione su questioni rilevanti per comprendere la condizione ebraica o il significato dell'ebraismo e della vita ebraica, e, dall'altro, pensiero filosofico che è debitore e risponde alla tradizione della filosofia occidentale moderna e, forse, all'intera tradizione della filosofia occidentale così come è stata appropriata e modificata nel periodo moderno. Una tale definizione della filosofia ebraica presenta diversi tratti degni di nota. In primo luogo, è interpretativa, nel senso che i maggiori esponenti della filosofia ebraica moderna sono arrivati a essere intesi come filosofi ebrei in virtù di un processo continuo di conversazione e critica che si è sviluppato nel tempo e continua ancora oggi a generare propri criteri di inclusione, a volte, di fatto, rivedendo anche i criteri del passato. In secondo luogo, tale filosofia ebraica è episodica. Alcune figure hanno contribuito alla filosofia ebraica moderna con un vasto corpus di opere, trattati sistematici e così via. Altri ci hanno lasciato solo saggi, suggerimenti o frammenti. Un pensatore come Gershom Scholem, sebbene si concepisse come uno storico piuttosto che come un filosofo, nondimeno diede un importante contributo alla filosofia ebraica moderna attraverso le sue indagini storiche e le sue occasionali riflessioni sulla dottrina ebraica. Uno come Franz Rosenzweig, tuttavia, è un filosofo ebreo moderno in senso stretto, poiché le sue opere principali sono riccamente e consapevolmente filosofiche e si propongono di chiarire questioni filosofiche riconoscibili sull'esistenza ebraica.

Caratterizzare la filosofia ebraica moderna in questo modo sembrerebbe implicare un ulteriore presupposto: che la filosofia ebraica moderna, come tutta la filosofia ebraica (anzi, come tutta la filosofia), è un fenomeno storicamente mutevole, variabile piuttosto che eterno nelle sue caratteristiche. Come procede metodologicamente e quali argomenti esplora dipende dal contesto storico in cui si svolge. E un tale contesto storico dipende esso stesso da varie caratteristiche culturali e impellenti abitudini di pensiero, come anche da problemi sociali ed eventi politici. La filosofia ebraica moderna non è in tutto e per tutto la stessa filosofia ebraica precedente, antica o medievale. Né dovremmo aspettarci che sia uniforme o identica a se stessa nel tempo e nello spazio. Ciò che una simile filosofia significò per Spinoza o per Mendelssohn non è certo ciò che fu per Rosenzweig o Benjamin, Fackenheim o Soloveitchik. Tale storicità è infatti una caratteristica comune della filosofia stessa in Occidente: gran parte della filosofia occidentale o presuppone una nozione storicamente condizionata di cosa sia la filosofia, oppure solleva la questione stessa della natura della filosofia come una questione controversa a cui si può rispondere solo in riferimento ai valori del suo tempo. Come osservava Hegel, la filosofia è la propria epoca riflessa nel pensiero. Così, anche nella sfera ebraica, la questione su cosa conta come filosofia ebraica e quali metodi o argomenti dovrebbe abbracciare è cambiata con i cambiamenti portati dalla storia. Infine, dovremmo notare che considerare la filosofia ebraica moderna in questo modo storico sembra essere una caratteristica speciale della nostra situazione all'inizio del ventunesimo secolo. Viviamo in un'epoca in cui gran parte dei nostri sforzi filosofici sembrano improntati a quella panoplia di approcci che chiamiamo “post-fondazionalista” o addirittura “postmoderna”. Sia che accogliamo con favore tali etichette o disperiamo la loro influenza, il carattere ermeneutico e interpretativo della vita umana è indiscutibilmente una pietra di paragone della filosofia – e della filosofia ebraica – del nostro tempo.

In questo wikilibro forse non accetto questo modo di definirne i confini. O forse sì: i singoli capitoli possono implicare presupposti diversi e persino contrari riguardanti sia il carattere della filosofia ebraica moderna sia il modo corretto in cui deve essere perseguita. Ma nel realizzare questo studio, il mio approccio è stato guidato da alcuni criteri fondamentali, come indicherò qui di seguito.

Uno di questi criteri è che la filosofia ebraica moderna riflette la crisi del naturalismo scientifico. Una sfida centrale del nuovo pensiero scientifico del XVII secolo fu l'introduzione della possibilità di concepire la vita umana in modo esclusivamente naturalistico – cioè senza lasciare spazio evidente a una concezione non-naturalistica del valore o a un impegno verso un reame diverso da quello della natura materiale. Una delle caratteristiche più distintive della moderna filosofia ebraica è che essa tenta di rendere intelligibili gli impegni normativi ebraici anche quando presta esplicito riconoscimento alla visione tipicamente moderna del naturalismo scientifico. Per alcuni filosofi ebrei, il nuovo naturalismo sembrava mettere in discussione la validità trans-storica dello stesso ebraismo. Spinoza, per citare solo l'esempio più ovvio, era pronto ad abbracciare il naturalismo filosofico apparentemente senza riserve. Concluse che l'ebraismo stesso non era altro che un ordine storico-politico specifico del Vicino Oriente antico e non più vincolante per i suoi membri. E anche il Dio degli ebrei era agli occhi di Spinoza suscettibile di riduzione naturalistica. Dio non era più un artefice e un legislatore al di là della natura; Dio era invece identico alla natura stessa: Deus sive Natura. L'opera principale di Spinoza, Ethica, espone le sue tesi su uno sfondo di temi ebraici tradizionali, che poi rifiuta o modifica. E il Trattato teologico-politico spinoziano parla direttamente delle questioni centrali ebraiche – dalla profezia e dai miracoli all'elezione e alla legge rituale – tutte gettate in una luce insolita e naturalistica. Dai suoi giorni fino ai nostri, la vicinanza filosofica di Spinoza all'ebraismo è rimasta oggetto di accese controversie. Alcuni rifiutano del tutto le sue idee, mentre altri trovano molto nella sua filosofia che continua ad affascinare. Sembra quindi appropriato che il mio studio inizi con una discussione sulla questione se Spinoza sia un filosofo ebreo.

Tra la fine del XVIII e il XIX secolo, la fede ebraica venne portata sempre più in contatto con i principi centrali dell'Illuminismo: libertà, razionalità e dissociazione di principio tra ragione e fede. Poco dopo, la filosofia ebraica trovò nuove fonti di ispirazione nei movimenti del romanticismo tedesco e dell'idealismo tedesco. Il modo in cui negoziò questo incontro è oggetto di diversi Capitoli di questo wikilibro: una critica al tentativo di Mendelssohn di unire l’ebraismo e il liberalismo politico; una discussione sul confronto post-kantiano tra autonomia e autorità tradizionale; un'esplorazione dei temi platonici chiave nella filosofia kantiana e la loro successiva risonanza negli scritti di figure come Solomon Maimon, Nachman Krochmal e Isaac Breuer.

Vale la pena notare che gran parte della filosofia ebraica moderna, da Mendelssohn fino alla Seconda guerra mondiale, si colloca nella cultura di lingua tedesca. Sebbene il rapporto ebraico-tedesco sia stato ampiamente acclamato e duramente attaccato, i suoi risultati filosofici non dovrebbero essere dimenticati. Questi Capitoli esplorano l'incontro tra ebrei tedeschi in un'epoca in cui le credenziali e il carattere della filosofia stavano cambiando in modi intriganti, dal razionalismo formale della tradizione leibniziana-wolffiana, attraverso l'enorme novità della filosofia trascendentale e critica di Kant e oltre, via Romanticismo fino alle filosofie grandiosamente sistematiche dell'idealismo tedesco in tutte le sue forme. I tre Capitoli succitati segnano momenti distintivi di questo incontro travagliato ma riccamente produttivo.

Nella prima parte del XIX secolo, la filosofia moderna così come veniva praticata in Germania subì una serie di drammatiche trasformazioni, grazie al coro di filosofi che si ribellarono all'idealismo tedesco, come Feuerbach e Marx, Schelling e Kierkegaard. Nell'ultimo terzo del diciannovesimo secolo, questo gruppo eterogeneo si era ulteriormente frammentato in una serie di movimenti filosofici concorrenti. Il neo-kantismo, una delle principali tendenze della filosofia accademica, fu rappresentato in una delle sue forme più caratteristiche all'Università di Marburgo da Hermann Cohen (il primo ebreo a ricoprire una cattedra ordinaria in un'università tedesca).[2] Altrove sia in Germania che in Francia, filosofi come Wilhelm Dilthey e Henri Bergson svilupparono nuove teorie sulla temporalità e storicità umana – rese popolari come “filosofia della vita”, “filosofia del Weltanschauungs” e “vitalismo”. Tali teorie trovarono un pubblico pronto in una generazione più giovane che stava già traendo lezioni varie e spesso contraddittorie sia dall’esistenzialismo cristiano di Dostoevskij che dall'ateismo corrosivo di Friedrich Nietzsche. Al tempo della Prima guerra mondiale, tali correnti furono integrate da movimenti più popolari come il socialismo neoromantico e il sionismo socialista e, nella filosofia accademica, da nuovi tentativi di rigore filosofico come la fenomenologia, sviluppata da Edmund Husserl (lui stesso un ebreo tedesco battezzato).

Anche in questo caso i pensatori ebrei cercarono di comprendere l'ebraismo nel contesto di questo nuovo fermento intellettuale e in un momento in cui la vita urbana era drammaticamente trasformata e le persone nelle città europee si trovavano ad affrontare nuove crisi culturali e sociali.[3] Fu durante questo periodo, dall'inizio del secolo fino alla Repubblica di Weimar e all'ascesa del nazismo, che '’ebraismo stesso affrontò una modernità nuova e in rapido cambiamento. In questa storia, Martin Buber è una figura centrale in quasi ogni fase della sua lunga carriera, dal periodo del suo impegno giovanile con il sionismo attraverso il recupero dei testi chassidici e il profondo interesse per il misticismo nell'ebraismo e in tutte le culture del mondo, fino alla formulazione della sua filosofia dialogica e il suo studio e traduzione della Bibbia ebraica. Nel rispettivo Capitolo sul pensiero di Buber, cerco di dimostrare l'integrità di questi vari filoni.

Tra la Prima guerra mondiale e la fine della Repubblica di Weimar, un’altra figura di fondamentale importanza per la moderna filosofia ebraica fu Franz Rosenzweig, la cui visione esistenziale della vita ebraica continua a ispirare e a sconcertare anche oggi. Nel Capitolo su Rosenzweig, presto particolare attenzione alle sfumature e alle tensioni del principale sistema filosofico di Rosenzweig, La Stella della Redenzione. Rosenzweig fu solo uno dei filosofi all'interno del multiforme movimento del pensiero ebraico-tedesco che venne alla ribalta negli anni ’20. Un altro era Leo Strauss, la cui influente (e, per alcuni, controversa) filosofia politica e interpretazione unica della tradizione ebraica sono esplorate nel rispettivo Capitolo 7. Di fondamentale importanza per la filosofia ebraica moderna fu anche lo storico del misticismo ebraico, Gershom Scholem, le cui riflessioni storiche sulla Cabala e sul messianismo ebraico lasciarono un'impronta dimostrabile sugli scritti filosofici del suo amico Walter Benjamin. Nel Capitolo 8 sul significato del messianismo ebraico moderno, tento di distinguere due diversi tipi di messianismo negli scritti di Strauss, Rosenzweig, Benjamin, Cohen ed Ernst Bloch.

Negli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale, e anche nel periodo immediatamente successivo, la filosofia ebraica in Israele rimase in gran parte nelle mani degli storici. Nel frattempo, in Nord America, il pensiero ebraico nativo di Mordecai Kaplan, una fusione di sociologia e pragmatismo e una forma di naturalismo religioso, mise radici proprio mentre l’America stava attraversando il tipo di urbanizzazione e secolarizzazione che aveva caratterizzato l'Europa mezzo secolo prima. Ma allo stesso tempo, molti filosofi ebrei immigrati e giovani intellettuali ebrei nel Nuovo Mondo cominciavano ad appropriarsi della filosofia esistenziale allora di moda nella cultura intellettuale nordamericana per i propri scopi. Questo esistenzialismo era stato originariamente sviluppato sia nella Germania di Weimar che in Francia da pensatori come Martin Heidegger, Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Negli ambienti cristiani, i giovani lettori si ispiravano anche a Karl Barth, Rudolph Bultmann e Paul Tillich. Negli anni Cinquanta e Sessanta in America, il risultato di questa “importazione” dell'esistenzialismo francese e tedesco fu un movimento interconfessionale di teologi ebrei, alcuni dei quali filosofi, il cui approccio all'ebraismo era basato sulla storicità e sul radicamento situazionale dell'esistenza umana. Tra loro c'erano Michael Wyschogrod, Lou Silberman, Bernard Martin ed Emil Fackenheim. E ce ne furono altri, più teologici che filosofici, che dovrebbero essere menzionati in associazione a questi sviluppi: Will Herberg, Abraham Joshua Heschel e Eugene Borowitz. In questi primi anni del dopoguerra, accanto alla filosofia ebraica naturalista e ai suoi oppositori esistenzialisti, c'erano anche filosofi ebrei tradizionali come Marvin Fox e pensatori halakhici tradizionali come Joseph Soloveitchik. Nel Capitolo 10 su Soloveitchik per questo wikilibro, chiarisco i significativi debiti filosofici di Soloveitchik sia verso il neokantismo di Marburgo che verso il platonismo.

Fino alla metà e alla fine degli anni Sessanta, l'ombra dei campi di sterminio nazisti era uno sfondo sempre presente ma praticamente non riconosciuto nella vita e nella fede ebraica in Europa, Israele e Nord America. Ma quando finalmente la nostra attenzione si rivolse ad affrontare quell'ombra con maggiore precisione intellettuale, tra coloro che lo fecero c'erano numerose/i filosofe/i ebree/i. Hannah Arendt era una di queste filosofe (sebbene abbia sempre abiurato il titolo di “filosofa”, preferendo invece “teorico politico”). In effetti, Arendt fu probabilmente la prima. I suoi commenti sull'ebraismo riflettono la sua complessa relazione con il sionismo, mentre le sue riflessioni approfondite (anche se a volte controverse) sul nazismo, sui campi di sterminio e sulle origini del totalitarismo avevano radici anche nella filosofia politica e nell'esistenzialismo, e continuano ad essere di singolare importanza per la filosofia ebraica oggi. Ma l'Olocausto solleva anche una serie di domande più generali e strettamente filosofiche sul significato della sofferenza ebraica e sul significato del male in quanto tale: come si può conciliare la nozione di un Dio benevolo con l'esperienza di una crudeltà assoluta? Dio come concepito dall'ebraismo non è forse un Dio della storia e, in tal caso, come possiamo ancora confermare la presenza di Dio nella storia, data la tragica documentazione storica della nostra era moderna? La tradizionale spiegazione ebraica del male è ancora vera o deve essere rivista alla luce dell'Olocausto? Tali questioni sono discusse in modo più approfondito nel Capitolo 13 sul ruolo del male e della sofferenza nella filosofia ebraica moderna. Temi correlati furono affrontati da pensatori tradizionalisti come Eliezer Berkovits. Ma è stato senza dubbio Emil Fackenheim il primo a tentare di sollevare tali questioni su un piano veramente filosofico. Nel Capitolo 12 su Fackenheim, discuto la confrontazione di Fackenheim con la Shoah dai primi anni del dopoguerra fino alla pubblicazione di To Mend the World nel 1982.

Almeno due temi della cultura intellettuale della fine del XX secolo hanno portato l'ebraismo al centro dell'attenzione di molti intellettuali, sia europei che americani. Un tema è quello dell’“Altro”, un termine che indica una persona o un collettivo definito dalla sua esclusione dall'insieme sociale. Molti storici e teorici politici hanno affermato che l'ebreo ha funzionato come paradigma tradizionale dell'Altro in Occidente; questo è stato il caso sin dall'ascesa del cristianesimo nell'antichità, quando la Chiesa si definiva, almeno in parte, in opposizione all'ebraismo e agli ebrei.[4] Un secondo tema correlato è il ruolo speciale che l'Olocausto e il nazismo sono arrivati a svolgere nel significare la fine della modernità e la cosiddetta fine della filosofia come convenzionalmente intesa. Quando si considerano questi due temi insieme, si può capire meglio perché l'immagine dell’ebreo-come-Altro-escluso sia arrivata nella discussione filosofica ad occupare una posizione affascinante (e, paradossalmente, centrale) come significante primario dell'alterità, o alterità in quanto tale. Tali categorie – differenza, alterità, esclusione – sono state particolarmente importanti per due dei più importanti filosofi dell'Europa del dopoguerra: Jacques Derrida ed Emmanuel Levinas. Entrambi erano ebrei francesi, sebbene provenissero da culture diverse: Derrida era nato in Algeria, Levinas in Lituania. Ed entrambi, seppure in modi distinti, hanno fatto un uso creativo delle tradizioni intellettuali europee sia nella fenomenologia che nella filosofia del linguaggio. Nel Capitolo 11 su Levinas, a cui ho già dedicato un altro wikilibro, aiuto a comprendere come il pensiero di Levinas rappresenti una speciale reinterpretazione del monoteismo ebraico. E nel Capitolo 14 su linguaggio e interpretazione, richiamo l'attenzione sul ruolo speciale che il linguaggio gioca nel pensiero di Derrida.

Tuttavia, nonostante i meriti filosofici della differenza ebraica, dobbiamo anche ammettere che una delle caratteristiche più pervasive della moderna condizione ebraica è il semplice fatto dell'inclusione. Gli ideali dell'Illuminismo portarono infine all'emancipazione civica e, per quanto feroce fosse l'opposizione, il provvedimento fondamentale per l'uguaglianza civica tra ebrei e non-ebrei sembrerebbe ora in gran parte incontrovertibile e in ogni caso inalterabile. In misura straordinaria, gli ebrei moderni oggi partecipano (o, almeno, gli è consentito legalmente e culturalmente di partecipare) all'intera gamma della vita sociale e intellettuale in Occidente. Questo di per sé è un fatto da celebrare. Ma l'esperienza dell'inclusione ha anche sollevato un gran numero di domande filosofiche su come conciliare al meglio gli impegni peculiari della vita ebraica con le esigenze politico-morali dell'inclusione universale: la modernità richiede agli ebrei di rinunciare completamente al loro particolarismo? Oppure rimane la possibilità di una dialettica più sottile tra universalismo e particolarismo? I filosofi hanno tentato di negoziare tale dialettica con vari gradi di successo. In effetti, l'ingresso dell'ebraismo nel mondo moderno è una caratteristica così pervasiva della storia ebraica moderna che si potrebbe ben sostenere che la continua tensione tra universalismo e particolarismo sia al centro di tutto il pensiero ebraico moderno. Nel Capitolo 2 su Moses Mendelssohn, spiego perché la lotta di Mendelssohn contro il liberalismo politico alla fine non ebbe successo. E, nel Capitolo 4 su Hermann Cohen, esamino gli sforzi filosofici e politici di Cohen per raggiungere una riconciliazione tra l'universalismo kantiano e la particolarità ebraica.

Le aspirazioni sioniste hanno scatenato un gran numero di riflessioni intellettuali, alcune delle quali, come Roma e Gerusalemme di Moses Hess, hanno un carattere fortemente filosofico. Ma forse ancora più importante, la crescita del sionismo come movimento culturale e politico tra gli ebrei ha richiesto ai filosofi ebrei di fare i conti con la natura storica e politica dell'ebraismo, la sua concezione del messianismo, la natura del rapporto tra l'ebraismo e lo Stato di Israele e, in effetti, questioni più ampie riguardanti l’esistenza stessa sia di uno Stato ebraico che della vita ebraica nella diaspora. Da Buber a Heschel, da Fackenheim a Yeshayahu Leibowitz, i pensatori filosofici ebrei si sono sentiti spinti, se non obbligati, a rispondere a tali questioni. Si potrebbe sostenere che le riflessioni su Israele abbiano assunto un diverso senso di urgenza e un diverso contenuto dopo la Guerra dei Sei Giorni e il collegamento, nella coscienza e nell'immaginazione popolare ebraica, tra l'ascesa e la difesa dello Stato ebraico con l'Olocausto e la distruzione dell'ebraismo europeo. L'importanza di Israele nella vita pubblica dopo quella guerra, negli anni ’70 e ’80, rese in qualche modo imperativo per i filosofi ebrei fare i conti con lo Stato e il suo significato per l'ebraismo, sia come realtà storica che come elemento dell'autocomprensione concettuale ebraica.

Allora, la filosofia ebraica moderna non è certo giunta al termine. Ma il suo sviluppo storico è forse arrivato a un punto in cui rivedere tale storia e le sue caratteristiche più significative potrebbe rivelarsi un compito gratificante. Oggi ci sono modi nuovi ed emergenti di comprendere le esigenze della vita e del pensiero ebraico che rompono con alcune tradizioni del passato, solo per aggrapparsi ad altre. La filosofia ebraica moderna ci presenta una serie di tentativi per superare questa sfida. La tradizione moderna come la vediamo oggi è ricca, provocatoria e adattativa, ma anche irrequieta e iconoclasta. È essa stessa una tradizione da apprezzare ed esaminare man mano che si tenta di estenderla o di metterla in discussione. Guardando al futuro, è meglio orientarsi. Il presente studio è un tentativo di aiutare a far proprio questo.

Buona lettura!

  Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni e Serie letteratura moderna.
  1. Cfr. in particolare Leo Strauss, “Gerusalemme e Atene”, in Leo Strauss, Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, ed. Kenneth Hart Green (SUNY, 1997), 377–405. E per Lévinas si vedano i vari saggi in Difficult Freedom, In the Midst of the Nations e Beyond the Verse. Oltre a Encounters Between Judaism and Modern Philosophy (Basic, 1973), un esempio notevole dell'esame di Fackenheim riguardo alle carenze della filosofia moderna e di ciò che l'ebraismo può contribuire ad essa si trova nel suo libro The Religious Dimension of Hegel’s Thought. Si veda anche il suo saggio “Hermann Cohen: After 50 Years”, originariamente una conferenza del Leo Baeck Institute nel 1970, ristampato in Michael L. Morgan (a cura di), Jewish Philosophers and Jewish Philosophy (Indiana University Press, 1996).
  2. Insieme alla scuola neo-kantiana con sede a Marburgo, vanno ricordati gli sviluppi intellettuali cruciali associati alla scuola “sud-ovest” (a Heidelberg e Friburgo) guidata sia da Wilhelm Windelband che da Heinrich Rickert.
  3. La turbolenza dell'epoca si riflette, tra gli altri, nell'opera di pensatori come Max Weber e Georg Simmel, quest'ultimo nato ebreo e formatosi come filosofo, la cui opera classica La filosofia del denaro (1900) ritrae la situazione economica, il carattere sociale e psicologico della vita urbana moderna.
  4. Questo è un tema centrale in Steven B. Smith, Spinoza, Liberalism, and the Question of Jewish Identity (Chicago, 1997).
  Serie misticismo ebraico  
Libri nella serie: Messianismo Chabad e la redenzione del mondo  •  Introduzione allo Zohar  •  Isaac Luria e la preghiera  •  Il Nome di Dio nell'Ebraismo  •  Rivelazione e Cabala  •  Storia intellettuale degli ebrei italiani  •  Abulafia e i segreti della Torah  •  Israele – La scelta di un popolo  •  Nahmanide teologo  •  Evoluzione del monoteismo  •  Etica della salute  •  Il Chassidismo di Elie Wiesel  •  La teologia di Heschel  •  Ebraismo chassidico  •  Questo è l'ebraismo!  •  I due mondi dell'ebraismo  •  Ispirazione mistica  •  Tradizione ebraica moderna  •  Simchah: nozioni di felicità  •  Sefer כותב ישוע  •  Melekh Ha-Mashiach
Bibliografie & Glossari: 1  •  2  •  3  •  4  •  5  •  6  •  7  •  8  •  9  •  10  •  11  •  12  •  14  •  15  •  17  •  18


  Serie maimonidea  
Libri nella serie: Guida maimonidea  •  La dimensione artistica e cosmologica della Mishneh Torah  •  Antologia ebraica  •  Torah per sempre  •  Non c'è alcun altro  •  Virtù e legge naturale  •  Essenza trascendente della santità  •  Pensare Maimonide  •  Ebrei e Gentili  •  Le strutture basilari del pensiero ebraico  •  Pluralismo religioso in prospettiva ebraica
Bibliografie & Glossari: 1  •  2  •  3  •  4  •  5  •  6  •  7  •  8  •  9  •  10  •  11


  Serie dei sentimenti  
Libri nella serie: Filosofia dell'amore  •  Emozioni e percezioni  •  Bellezza naturale  •  Noia e attività solitarie  •  Ragionamento sull'assurdo  •  Filosofia dell'amicizia  •  Il significato della vita  •  Emozione e immaginazione  •  Ascoltare l'anima
Bibliografie & Glossari: 1  •  2  •  3  •  4  •  5  •  6  •  7  •  8  •  9