Taumaturgia messianica/Capitolo 8
Interpretazione e dimensione storica del miracolo nei Vangeli
modificaTerminologia dei miracoli nella Sacra Scrittura
modificaNell'Antico Testamento i termini più usati per indicare gli interventi "miracolosi" di Dio insistono, come abbiamo già detto, sui concetti di "segno" (ebr. ’ôt), di "opera prodigiosa" (ebr. môpet), ma anche di "grandi gesta di Dio" (ebr. gedulôt); è invece meno presente l’idea di meraviglia come semplice fatto straordinario che sorprende. Numerosi nei libri del Pentateuco e in quelli storici, quantitativamente minori in quelli profetici, pressoché assenti nella letteratura sapienziale se non come memoria, i miracoli si addensano principalmente nel contesto della liberazione del popolo di Israele dall'Egitto (Libro dell’Esodo). La loro narrazione permane frequente nei successivi contesti bellici che segnano dapprima l'epoca dell’affermazione del regno di Davide e poi la divisione del regno di Israele, fino al secondo esilio (specie in Giudici, nei due Libri di Samuele, nei due Libri dei Re). Ne emerge l'immagine di un Dio "onnipotente", che esercita la sua piena signoria sulla storia; protegge Israele e lo educa all'osservanza della Legge, correggendo ed istruendo perché questi si mantenga fedele all'alleanza e possa così restare depositario di un piano di salvezza in favore di tutte le genti. Ma gli interventi di Dio nella storia non sono mai confinati entro la dimensione della pura onnipotenza. Essi sono collegati ad un messaggio, ad un insegnamento, all'instaurazione di un nuovo rapporto con Dio: è infatti principalmente a questi contenuti che l'evento miracoloso dispone ed intende orientare. Al miracolo è collegata la fede, come condizione del suo riconoscimento, manifestazione dell'adesione dell’uomo alle opere salvifiche di Dio. Autore del miracolo è sempre Dio, anche quando i miracoli vengono compiuti da uomini: né Mosè né i profeti compiono miracoli in loro favore o per risolvere situazioni di impaccio: è Dio che li opera attraverso di essi e, pertanto, i miracoli si realizzano in un clima di fede, di preghiera, di fiducia nell'alleanza.[1]
Nei libri del Nuovo Testamento il miracolo viene principalmente indicato con l'impiego di quattro termini ricorrenti (cfr. Rengstorf, 1979 e 1981; Grundmann, 1966; Uricchio, 1988): "potere miracoloso" o "atto di potenza divina" (gr. dynamis), "segno" (gr. semeîon), "prodigio" (gr. téras) e "opera miracolosa" (gr. érgon). In continuità con quanto affermato dall'Antico Testamento, il miracolo, anche quando presentato come opera prodigiosa, resta sempre un "segno" di Dio che a Dio rimanda: in questo caso il miracolo è soprattutto "segno di Cristo", che rivela il suo mandato messianico, come ben sintetizzato dalla domanda dei discepoli del Battista rivolta allo stesso Gesù:
L'idea di miracolo come segno è specialmente presente in Giovanni, che ripercorrerà nei primi capitoli del suo Vangelo i miracoli che accompagnarono l'Esodo del popolo eletto ponendoli in collegamento con i miracoli ed i discorsi di Gesù, concentrandosi estesamente su sette segni-miracoli narrati in ordinata sequenza, dalla trasformazione dell'acqua in vino a Cana (cfr. Giovanni 2:1-11) fino alla risurrezione di Lazzaro (cfr. Giovanni 11:38-44). Matteo e Giovanni parleranno delle "opere del Cristo" e delle "opere di Dio", quelle che Gesù compie su mandato del Padre e che il Padre opera in lui. Paolo insisterà di più sulle opere della potenza divina, centrate sul dono della giustificazione ottenuta dalla redenzione di Gesù Cristo. In misura ancor più marcata di quanto già accadeva nell'Antico Testamento, i miracoli neotestamentari si realizzano necessariamente nell'orizzonte della fede: la fede che Gesù può compiere tali opere è in realtà fede in Gesù, cioè nella sua divinità e nella sua origine dal Padre. Anche i miracoli compiuti dagli apostoli e narrati dagli Atti continuano ad essere miracoli di Gesù, per i quali si richiede fede in Gesù: "Pietro gli disse: ‘Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto’. E subito si alzò" (Atti 9:34; cfr. 3:6).
I miracoli di Gesù
modificaUn'analisi comparata dei quattro vangeli rivela non meno di 40 diverse narrazioni di miracoli compiuti da Gesù (a parte una decina di apparizioni del risorto), alle quali vanno aggiunte una trentina di miracoli o eventi portentosi di varia natura riportati dagli Atti degli Apostoli (cfr. Geisler, 1999, pp. 484-486). È possibile che dei medesimi eventi siano stati riportati dai diversi evangelisti con delle differenze tali da farli apparire eventi diversi ed in questo caso il numero globale andrebbe ridotto di alcune unità. Il "peso" della presenza di queste narrazioni all'interno del materiale redazionale utilizzato dagli evangelisti è, comunque, assai rilevante: non possono essere pertanto considerate come qualcosa di circostanziale. Risalta il caso del vangelo di Marco, nel quale i racconti dei miracoli di Gesù occupano il 31% del testo globale e giungono al 47% se si escludono gli ultimi 6 capitoli riguardanti la passione di Cristo (cfr. Latourelle, 1990, p. 754). La loro narrazione è talmente intrecciata con l'esposizione di precisi insegnamenti e con la descrizione delle reazioni dei presenti, anch'esse occasione di ammaestramento da parte di Gesù, che sarebbe assai difficile operare una sorta di separazione fra la "predicazione di Gesù" e le "opere di Gesù", attribuendovi un diseguale valore storico od ermeneutico. Il teologo sa bene che questa stretta correlazione è un carattere intrinseco alla Rivelazione stessa, "la cui economia si realizza con eventi e parole intimamente connessi (gestis verbisque intrinsece inter se connexis)", secondo la nota espressione della Dei Verbum, 2. Esempio illustrativo in proposito è la guarigione di un paralitico riportata dai tre sinottici (cfr. Matteo 9:2-7; Marco 2:3-12; Luca 5:18-26), nella quale l'insegnamento di Cristo circa il potere divino che egli ha di perdonare i peccati degli uomini (e la corrispondente fede in tale potere) viene volutamente associato al compimento di un miracolo:
I miracoli di guarigione sono certamente i più numerosi. Fra essi vanno annoverate 3 risurrezioni di esseri umani già cadaveri (la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Naim e Lazzaro di Betania). Non mancano tuttavia numerosi miracoli operati su elementi della natura o in rapporto ad essi: tramutazione di un'ingente quantità di acqua in vino da tavola, almeno due diverse moltiplicazioni di pani in favore di diverse migliaia di persone, pesca di pesce in proporzioni (e circostanze) miracolose, episodi nei quali Gesù interviene per sedare una tempesta, cammina sulle acque, o fa approdare istantaneamente una barca sulla riva. Tranne rari casi nei quali vengono comandate operazioni "supplementari" a completamento di quanto egli opera (cfr. Giovanni 9:7), le guarigioni hanno sempre un carattere immediato e concernono una varietà di patologie: ristabilimento repentino da forti febbri, recupero stabile della vista, dell'udito e della parola, interruzione di emorragie croniche, sospensione di crisi epilettiche, guarigione istantanea dalla lebbra, recupero di funzionalità motorie in seguito a paralisi o a malformazioni congenite (analisi dettagliate in Leone, 1997, pp. 43-133). Fra i miracoli di guarigione andrebbero probabilmente annoverati anche gli esorcismi sui demoni, sebbene sia probabile che la mentalità dell'epoca attribuisse alcune malattie, in particolare l'epilessia, alla presenza invasiva di spiriti maligni. L'esegesi contemporanea non può escludere che alcuni dei miracoli narrati possano essere "riletture post-pasquali" della divinità di Gesù Cristo, alla cui piena consapevolezza i discepoli giunsero solo dopo la sua risurrezione: in questo caso la narrazione di un'opera prodigiosa avrebbe avuto come finalità quella di offrire un contesto letterario in cui trasmettere un particolare insegnamento relativo alle due nature, umana e divina, del Cristo. Ma anche se così fosse (ne sarebbe un classico esempio la seconda pesca miracolosa, aggiunta dopo la prima conclusione del Vangelo di Giovanni: cfr. 21:1-14), la quantità di miracoli di Gesù riportati dagli evangelisti, e la fitta trama narrativa in cui essi si intrecciano con il resto delle opere e della vita del Messia, depongono a favore del fatto che si trattò, per la gran maggioranza di essi, di episodi realmente accaduti, di cui i discepoli furono storicamente testimoni.[1]
Storicità e realismo delle narrazioni evangeliche
modificaNell'analisi della storicità dei miracoli è possibile applicare la medesima criteriologia impiegata nei riguardi delle narrazioni evangeliche nel loro insieme, in modo particolare i criteri di attestazione multipla, di continuità e discontinuità (cfr. anche Latourelle, 1987, pp. 79-97). Dei miracoli si parla in diverse fonti del Nuovo Testamento e secondo differenti forme letterarie: da resoconti dettagliati ed estesi, a riassunti sommari e sintetici; con citazioni parentetiche all'interno di episodi di diversa natura, o con relazioni ad essi espressamente dedicate. Negli Atti troviamo frasi che lasciano intendere come, a prescindere dagli schieramenti a favore o contro il riconoscimento di Gesù come Messia risorto, il fatto che Gesù di Nazareth avesse trascorso in pubblico alcuni anni, operando guarigioni e miracoli in mezzo al popolo, fosse cosa ben nota a tutti (cfr. Atti 2:22: "come voi ben sapete"; Atti 10:38-39). Il criterio di conformità o continuità — che attribuisce cioè maggior valore alle narrazioni che manifestino continuità con l'ambiente storico-contestuale in cui si ritiene siano sorte — pare ben verificato dal legame fra miracoli e "predicazione del Regno", che veniva da tutti considerata l’attività profetica per eccellenza (esemplare, al riguardo, la pericope di Matteo 4:23-25, oltre all’auto-proclamazione messianica di Luca 4:16-21). Il miracolo è assai spesso associato alla richiesta di conversione interiore e si impone pertanto come opera salvifica sul corpo e sull'anima; viene seguito dall'invito di annunciare le opere di Dio, di glorificarlo e testimoniarlo con la vita, tutti elementi che pongono l'attività di Gesù in continuità con quella dei Maestri di Israele (cfr. Matteo 11:20-24; Luca 10:13-15). Al tempo stesso il miracolo rappresenta l'irruzione di qualcosa di nuovo, che interrompe molti degli schemi abituali presso i giudei e non può essere perciò interpretato come semplice costruzione letteraria sorta a partire dalla comunità in cui Gesù visse e operò. Sono infatti elementi di discontinuità il suo accostarsi ai lebbrosi per curarli (una malattia considerata impura presso gli ebrei), le numerose guarigioni compiute in giorno di sabato, l'autorità con cui Gesù realizza tali opere, in nome proprio e in forza di una virtù che appartiene a lui solo.
A favore della storicità, si potrebbero aggiungere ai precedenti criteri alcune considerazioni relative allo "stile di Gesù" nella sua attività taumaturgica. Le sue opere nascono dalla sensibilità verso la sofferenza umana, non dal desiderio di compiere gesti appariscenti: la sua attività è orientata al bene della persona e non ad ottenere riconoscimenti pubblici. Anche quando i miracoli vengono compiuti con la finalità dichiarata che i presenti credano nella sua origine divina dal Padre (come nella risurrezione di Lazzaro: cfr. Giovanni 11:42), il loro scopo ultimo resta la conversione dei cuori verso la nuova logica del Regno di Dio (cfr. Matteo 12:28), non la gloria umana del Cristo. Si tratta di narrazioni piuttosto sobrie, talvolta perfino scarne, all'interno delle quali Gesù si muove secondo la sua abituale personalità, senza necessità di trasfigurarsi (quando lo farà non sarà per compiere miracoli: cfr. Matteo 17:1-8 e paralleli). Significativo, in proposito, il rimprovero di Gesù all'insolita "proposta" di alcuni discepoli di punire con una pioggia di fuoco dal cielo delle città che non avevano accolto la loro predicazione (cfr. Luca 9:54-55). In modo analogo, egli biasima l'atteggiamento di coloro che, per decidersi a credere, cercano soltanto segni e prodigi (cfr. Giovanni 4:48).
A coloro che gli chiedono un segno "fuori contesto", volendo ad esso attribuire l'onere della prova della verità delle sue parole, risponderà parlando del segno per eccellenza, quello della sua risurrezione (cfr. Matteo 12:38-39; Giovanni 2:18-22). Identico atteggiamento sarà mantenuto al momento supremo della morte: lui che ha fatto miracoli per gli altri non accetterà la sfida di compiere miracoli per se stesso, scendendo dalla croce (cfr. Marco 15:29-32).
In merito al realismo delle narrazioni e al rapporto fra esperienza soggettiva e accadimento oggettivo, va rilevato che coloro che, pur presenziando ai suoi miracoli, non vollero credere in Gesù, lo fecero non per scarsa convinzione circa la "verità" degli eventi osservati: le guarigioni non vengono ritenute "trucchi", né Gesù viene accusato di dolo. Le critiche dei presenti seguono altre direzioni: quest'uomo, affermano gli avversari, "non è da Dio" perché il potere di scacciare i demoni gli è stato dato dal demonio stesso, o perché compie miracoli di Sabbath, contravvenendo alla Legge. Coloro che "non credono", non è che non credano ai suoi miracoli: si fermano in realtà proprio ad essi, non andando al di là del prodigio e non cogliendo quanto esso rivela del soggetto che lo compie e della sua missione salvifica. Un realismo tutto particolare lo assume l'episodio della guarigione del cieco nato riportata dal quarto Vangelo (cfr. Giovanni 9:1-39). Il miracolato viene sottoposto ad un minuzioso riconoscimento: prima verificando che si tratti del mendicante a tutti noto, e non di qualcuno che semplicemente gli assomigli; poi interrogando l'interessato circa le precise modalità con cui è avvenuta la guarigione; infine, vengono interpellati i suoi genitori, per ottenere informazioni sulla natura congenita e non transitoria dell’infermità. Una volta assodata, con un nuovo interrogatorio, la realtà dell'evento, il dibattito si sposta sull'identità di Gesù, su come un peccatore che non rispetta il sabato possa aver compiuto un simile prodigio.[1]
Un ulteriore elemento di interesse per un giudizio circa la storicità dei miracoli è che la Chiesa primitiva rifiutò alcune narrazioni della vita di Gesù, qualificandole come "vangeli apocrifi", proprio per via di un'anomala presenza di fatti prodigiosi. Questi ultimi si differenziavano dai miracoli narrati dai Vangeli canonici innanzitutto perché non rispecchiavano la finalità salvifica e la chiamata alla conversione associate al miracolo, insistendo invece su azioni prodigiose realizzate solo per suscitare meraviglia, o senza adeguate motivazioni; i miracoli apocrifi venivano spesso rivestiti di un significato forzosamente simbolico e traslato, oppure si attardavano in descrizioni enfatiche e mirabolanti, distanziandosi dallo stile sobrio e storico-narrativo proprio dei vangeli già accolti dalla Chiesa.
Ricordando infine che il nucleo essenziale del kérygma apostolico (o annuncio primitivo) fu che "Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio morto per i nostri peccati e risorto dai morti" (esempi in Atti 2:22-24;10:36-43; 1 Corinzi 15:3-5), va riconosciuto che i miracoli occupano in tale annuncio l'importante ruolo di attestare l'identità del soggetto. Da questa dipendeva, nell'intenzione degli apostoli, la verità della redenzione ed i suoi effetti universali per il genere umano. Se i vangeli furono scritti per testimoniare la divinità di Gesù Cristo (cfr. Marco 1:1; Luca 1:1-4; Giovanni 20:30-31), le narrazioni dei miracoli costituiscono una parte intrinseca di tale testimonianza; non sembra pertanto possibile potervi prescindere senza perdere allo stesso tempo l'intero contenuto, la credibilità e la portata salvifica di quanto i loro redattori intendessero trasmettere.
Conoscibilità del miracolo nel contesto della razionalità scientifica
modificaIl dibattito sulla significatività del miracolo nel contesto della razionalità scientifica si rende difficoltoso per due motivi, ma legati in realtà alla tradizione logico-empirista all'interno della quale buona parte degli scienziati imposta di solito il dibattito fra scienze e religione. Il primo di essi è ritenere che giudizi come "questo evento è (o non è) un miracolo" oppure "questa narrazione circa l’occorrenza di un miracolo è (o non è) credibile" siano formulabili in modo compiuto mediante la sola razionalità scientifica; il secondo è rappresentato dalla minore sensibilità — sebbene oggi in crescita laddove retrocede lo scientismo — verso un'epistemologia che sia al tempo stesso scientifica e personalista, attenta al rigore della logica e capace di riconoscere l’esistenza, oltre l'orizzonte del metodo empirico, di significati e di ragioni aventi valore universale e comunicabile. D'altra parte, la teologia non può omettere, su questo specifico punto, il dialogo ed il confronto con le scienze naturali, risolvendolo semplicisticamente in termini di non-sovrapposizione di ambiti, come sembra oggi richiesto da taluni autori. L'interazione pare inevitabile, sia perché lo "sfondo contestuale" delle leggi di natura (e dunque delle scienze) continua ad essere un riferimento obbligato, sebbene non l'unico, per una riconoscibilità teologica del miracolo che non si esaurisca in mera simbologia o puro evento psicologico, sia perché la comunità credente continua a manifestare la sua fede nei miracoli ed il magistero ecclesiale a giudicarne l'attendibilità anche sulla scorta di pareri richiesti ad uomini di scienza. Riteniamo che il punto in questione, per la teologia, si riassuma nei seguenti termini: una volta chiarito alla scienza che non le si chiede né una definizione né un giudizio sul miracolo, può la teologia, nel suo approccio al miracolo e nelle eventuali definizioni/espressioni che di esso fornisce, prescindere totalmente da un riferimento all'ordine naturale, così come questo viene conosciuto dalle scienze?
Possibilità e riconoscimento del miracolo: implicazioni filosofiche
modificaUn primo importante elemento da rilevare è che un buon numero di teologi e di scienziati preferiscono concepire un'azione di Dio "attraverso" le leggi di natura, già conosciute o in parte ancora sconosciute, piuttosto che sottoscrivere la tesi di un'azione "contraria" oppure "al di sopra" del comportamento della natura. Secondo il biblista Léon-Dufour "Dio sta all'origine del mondo, non lo contraddice: ne è anzi l'autore e il restauratore. Nella prospettiva biblica non si può vedere nel miracolo una ‘deroga alle leggi della natura’, perché sarebbe mettere Dio il Creatore in contraddizione con se stesso. Voler fare di Dio una ‘causa prima’ che soppianta le ‘cause seconde’ sarebbe come collocare Dio fuori del mondo ed in concorrenza con gli elementi naturali".[2] Tale modo di vedere il miracolo sarebbe, per questo autore, espressione di una mentalità pre-scientifica, qualcosa di inaccettabile per l'uomo moderno. In campo interdisciplinare, Arthur Peacocke ha sostenuto la non viabilità di una nozione teologica di miracolo che voglia ergersi in qualche modo sull'ordine naturale, suggerendo pertanto di interpretare in modo esclusivamente simbolico tutto ciò che nella Sacra Scrittura pare alludervi (cfr. Stannard, 1998, pp. 164-168).
In linea con tale concezione, alcuni scienziati credenti ritengono invece di poter difendere la "possibilità" del miracolo — proteggendolo così dalle accuse di "irrazionalità" — semplicemente osservando che il comportamento della natura è assai più complesso e creativo di quanto si possa immaginare, espressione di potenzialità per noi in massima parte sconosciute, cosa che renderebbe plausibile l'idea di eventi apparentemente eccezionali, ma in realtà dovuti al modo ordinario, sebbene per noi insolito, con cui Dio agisce attraverso gli elementi naturali. Dal canto loro, alcune correnti teologiche paiono vedere in questa nuova visione epistemologica una base sufficiente per superare la concezione tradizionale del miracolo come "sospensione" delle leggi di natura o "deroga" al loro stabile funzionamento (cfr. Borasi, 1987). Una variante di tale visione sta nell’affermare che l’analisi delle scienze lascia ampi spazi all'impredicibilità e all’indeterminazione: i processi fisici o biologici non si realizzano secondo leggi ferree ed immutabili, ma avvengono in un mondo di relazioni e di interazioni che è impossibile determinare e conoscere fino in fondo: in questa rete cangiante e sempre creativa di fenomeni, l'azione di un Creatore che sorprende la nostra attenzione con un evento inaspettato non sarebbe contro-natura, né al di sopra di essa, ma sarebbe ancora un’azione con la natura e attraverso la natura. Secondo altri, la scienza potrebbe parlare del miracolo come una "configurazione di eventi", ovvero una serie di coincidenze di fenomeni di per sé naturali, ma che nel loro inaspettato accadimento coordinato trasportano il segno ed il messaggio intenzionale di un Creatore personale; o anche si potrebbe confinare l’azione divina ai nostri processi psicologici e mentali, ritenuti più "duttili" rispetto alle leggi di natura: ciò che esternamente apparirebbe come un miracolo (ad es. la trasformazione di acqua in vino) sarebbe in realtà solo il risultato di una nostra impressione soggettiva causata dall’influenza di Dio sulla nostra sfera psichica o sensibile (cfr. Stannard, 1998, pp. 169-170).
Se le precedenti concezioni sembrano avere il vantaggio di presentare il miracolo in termini più intelligibili per la mentalità scientifica, la teologia non avrebbe però più alcun motivo di dirigersi all'osservazione empirica come una delle fonti per il suo riconoscimento. Non si potrebbe in questo caso eludere neanche la critica di Antony Flew in merito alla irrilevanza apologetica dei miracoli, almeno se il dibattito viene confinato all'interno di una razionalità scientifica come Flew la intende: se la scienza "spiega" o "spiegherà" ciò che la teologia chiama "miracoli", non si vede allora quale ruolo essi abbiano nella dinamica della preparazione alla fede o nell'economia della rivelazione divina. Riletti alla luce di questa visione "non-interventista", i tre aspetti caratteristici del miracolo (psicologico, ontologico e semiologico) risulterebbero così reinterpretati. L'aspetto psicologico rimanderebbe in fondo alla sorpresa del soggetto di fronte al miracolo dell'essere, alla bellezza della natura e alla gratuità delle sue leggi o dei suoi processi; quello ontologico risulterebbe pienamente assorbito nella radicale dipendenza da Dio di ogni cosa lungo tutto l’arco dell'esistenza: il miracolo non sarebbe una "nuova" azione creativa di Dio, diversa da quella con cui Egli crea e mantiene in essere tutte le cose; l'aspetto semiologico rimanderebbe invece non tanto ad un determinato contenuto storico e concreto, quanto piuttosto alla lettura che il soggetto farebbe di un certo evento, riconoscendovi l'attualità di una parola divina che rivela e interpella in modo costante e continuo. Ma dalla prospettiva del confronto fra teologia e razionalità scientifica, si vuole affrontare non solo il problema della "possibilità" del miracolo, ma anche quello del suo "riconoscimento". Riassumendo, risolvere il primo (non è irrazionale per la scienza che avvengano cose inconsuete), con certo guadagno rispetto alla posizione di Hume, sembra dover condurre la teologia a rinunciare di risolvere il secondo. Ma già avvertiva Pascal che "se non vi fosse una regola per discernerli [i miracoli] sarebbero inutili, e non ci sarebbe ragione di credere" (Pensieri, n. 823).[3]
Il riconoscimento del miracolo risulterebbe così affidato solo a criteri soggettivisti e difficilmente comunicabili: se tutto, anche gli eventi miracolosi, si snoda e si svolge secondo il corso della natura, non diviene più possibile riconoscere la "firma" di Chi abbia creato la natura stessa, e perciò sia superiore ad essa, riavvicinandoci così alla prospettiva che fu già quella di Spinoza. Ma così facendo, il miracolo perderebbe, paradossalmente, proprio quegli aspetti semiologici e personalisti reclamati da quanti vorrebbero il superamento di una sua comprensione puramente ontologica. Seppur riconoscibile in chiave soggettivista ed emotiva, il suo messaggio verrebbe infatti "spersonalizzato", perché l’intera fenomenologia del miracolo risponderebbe ad un certo automatismo, si giocherebbe entro l'orizzonte chiuso di un rapporto solo filosofico fra la natura e Dio, lasciando da parte proprio l'uomo ed il peso religioso della sua esistenza. Viene così capovolta la richiesta di Blondel che il miracolo non debba essere tanto un segno che riveli l’esistenza della Causa prima — essendo quest'ultima già testimoniata dai "fatti naturali" come tali — quanto una concreta manifestazione della bontà di Dio che interviene in modo speciale nella storia degli uomini "autenticando" i suoi doni. Il fatto che "tutto sia naturale", non equivale a dire che "tutto lo fa la natura": una comprensione soddisfacente del miracolo deve poter puntare ad un soggetto distinto dalla natura. Se una concezione non-interventista (per usare l’espressione prima introdotta), affiancata da un’opportuna articolazione metafisica fra Causa prima e cause seconde, è senza dubbio adeguata per comprendere e illustrare il rapporto fra creazione ed evoluzione, o in generale l'autonomia di un mondo creato, siamo dell'avviso che essa resti ancora insufficiente quando la teologia voglia spiegare, in un contesto significativo anche per la razionalità scientifica, cosa sia il miracolo e quale ruolo esso abbia nella storia della salvezza.
"Teologia del miracolo" e razionalità scientifica
modificaNon potendo qui affrontare la tematica di quale "teologia del miracolo" debba oggi essere sviluppata — sulla teologia del miracolo nei suoi aspetti generali, oltre a quanto prima esposto, il lettore potrà trovare approfondimenti nella Bibliografia — ci limiteremo a segnalare alcuni spunti di maggior interesse per il dialogo con le scienze naturali.
Innanzitutto non andrà mai dimenticato il necessario riferimento cristologico del miracolo, di ogni miracolo. Sia i miracoli evangelici, sia quelli con cui Dio può continuare a rivelarsi e a interpellare l’uomo nella storia, si manifestano in una natura che mantiene un legame progettuale, filosofico e salvifico, col mistero del Verbo incarnato. Essi rivelano il modo con cui il creato "appartiene a Cristo" e riceve da lui senso e consistenza. I miracoli non sono una violenza sulla natura né il risultato di un rapporto di forza fra il Verbo incarnato ed un creato che gli si sottomette; i miracoli manifestano piuttosto l’ordinabilità, semiologica ed ontologica, del creato a Cristo; sono perciò "segno" della futura trasfigurazione cosmica ed anticipo escatologico, quasi una garanzia che la "nuova creazione", che ha in Cristo il suo autore ed anticipatore, sia davvero "ontologicamente possibile". In tal senso ogni miracolo che avviene in natura, e non solo i miracoli evangelici, conserva un rapporto con la Risurrezione di Gesù Cristo, primizia di un nuovo cielo e di una nuova terra (cfr. Isaia 65:17; 2 Pietro 3:13; Apocalisse 21:1).
In secondo luogo, operare un certo rimando, per alcuni aspetti del miracolo, al corso abituale dei processi che avvengono in natura, sottolineando la presenza di un’azione divina nel creato che si esprime attraverso il linguaggio ordinario della creazione è un’operazione teologicamente corretta. Già l'Antico Testamento impiegava alcuni dei termini abitualmente associati al miracolo, come le "grandi gesta" (ebr. gedulôt) e le "meraviglie" (ebr. nipla’ôt) del Signore, anche in contesti di carattere cosmico, volendo con ciò porre l'attenzione sul "miracolo" delle opere della creazione o su quello della cura provvidente di Dio su tutte le cose. Tutto ciò è in fondo sempre un segno che colpisce ed attrae il soggetto, una prova della dipendenza ontologica dell'universo dal suo Creatore, il veicolo di un appello, di un richiamo di Dio alla creatura. Non ci pare invece sufficiente, né teologicamente plausibile, che l'intera "teologia del miracolo" venga assorbita all'interno della Provvidenza ordinaria di Dio. Tale visione non darebbe ragione dell’essenza del miracolo, come segno di Dio che si impone, che meraviglia e che scuote, intercettando le vie degli uomini, non semplicemente assecondandone silenziosamente il cammino.
Il discorso si presta certamente a sfumature ed approfondimenti, perché non tutto quanto l'uomo percepisce come un intervento miracoloso di Dio deve necessariamente richiedere azioni divine che sorpassino il corso della Provvidenza ordinaria. Molti degli eventi che soggettivamente (e sinceramente) chiamiamo miracoli, potrebbero avere una spiegazione che non richieda alcun trascendimento dell’ordine naturale. Non vi sarebbe, secondo noi, alcun inconveniente nel pensare che il passaggio del Mar Rosso durante l'esodo degli ebrei dall'Egitto sia stato reso possibile dalla favorevole contingenza di una bassa marea protrattasi per un tempo appena sufficiente, o che una guarigione insperata per la quale un sincero credente ha rivolto la sua preghiera a Dio si sia realizzata grazie alle potenzialità di recupero dell’organismo del malato. La percezione psicologica del miracolo resta in questi esempi inalterata e valida, mentre i suoi aspetti ontologici riconfluirebbero nell'azione di cause ordinarie. Ma applicare questa lettura a tutto quanto la teologia chiama "miracolo" non basterebbe, né sarebbe corretto. L'evento di Cristo, ed i miracoli che a lui puntano o da lui promanano, sono, al pari di tutta la storia della salvezza, un'irruzione di Dio nell’esistenza degli uomini. I miracoli manifestano anche il carattere dell'immediatezza, eventi istantanei che si pongono al di sopra del corso della natura, ponendo l'uomo di fronte alla sua responsabilità di riconoscere in essi la presenza, e come la firma del Creatore. Sono opere compiute anche per sorprendere, ma certamente per muovere verso la fede. È in fondo il senso dei richiami di Gesù raccolti da Giovanni: "credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse" (Giovanni 14:11). O anche: "Se non avessi fatto in mezzo a loro le opere che nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato..." (Giovanni 15:24). Queste "opere potenti" (gr. érga) non sono solo i miracoli — perché si riferiscono a tutto l'evento terreno di Cristo, precipuamente la sua morte e risurrezione — ma esse sono anche i suoi miracoli.[3]
In terzo luogo, sotto il profilo terminologico non vi è necessità di insistere sui concetti di "sospensione delle leggi di natura" oppure di una loro "deroga", né parlare di eventi "contro natura". Alcuni preferiscono impiegare la nozione di "ripristinazione dell'ordine di natura" (cfr. Borasi, 1987, p. 388), che avrebbe il vantaggio di offrire un collegamento con l'azione redentrice di Cristo, che riordina una natura sconvolta dal peccato dell'uomo, ma avrebbe forse lo svantaggio di presentare il normale corso degli eventi naturali come qualcosa di imperfetto (oltre a dover spiegare in modo convincente come il peccato dell'uomo realizzi cambiamenti nell'essere della natura e non solo nei nostri rapporti con essa). Preferiamo suggerire l'impiego di espressioni come "trascendimento" o "trasfigurazione" della natura, la cui causa ultima ed efficiente risiede senza dubbio nella risurrezione di Cristo, ma anche, lecitamente, di "liberazione" o di "levazione". Le "doglie del parto" di cui parla Paolo, nelle quali la creazione intera geme attendendo la manifestazione cosmica e definitiva della redenzione già operata da Cristo (cfr. Romani 8:22), non sono le sofferenze legate ad una guarigione o al recupero di un danno ricevuto, ma quelle di una nuova nascita, di una generazione che libera ricreando. Paul Tillich parlava del miracolo come "estasi della natura"; comunque lo si voglia indicare, esso manifesta la rivelazione delle potenzialità di una natura creata "capace di essere associata al mistero dell'umanità di Cristo", un'umanità che, risiedendo dall’eternità "alla destra del Padre", è norma non solo della creazione naturale, ma anche dell'elevazione e della trasfigurazione che in Lui è prefigurata.
Infine, il giudizio di "riconoscimento" del miracolo, come prima accennato, non è di pertinenza della scienza, semplicemente perché il miracolo è nozione teologico-religiosa, non scientifica. Per sincerarsene basterebbe pensare che qualunque definizione si dia di "miracolo", essa conterrà sempre un riferimento a Dio come soggetto agente, e ciò è sufficiente per dispensare la scienza dall’onere della prova, trattandosi di un agente che non appartiene al suo dominio di indagine. Cosa può concludere allora la scienza in merito alla loro eventuale occorrenza? Riteniamo che essa può giungere non solo alla conclusione di trovarsi di fronte ad un evento le cui cause le sono ignote — sebbene ciò sia il requisito minimo richiesto per l'accertamento di un miracolo nei processi canonici, va anche ricordato che le cause della maggior parte delle patologie mediche sono tuttora sconosciute — ma può spingersi anche un po’ più oltre. In alcuni casi infatti, il riconoscimento scientifico potrebbe concludere di trovarsi di fronte ad un evento inusitato, che contraddice l'esperienza comune, che sorprende ben al di là di quanto suggerirebbe una semplice ignoranza nell’ordine delle cause: è quanto avverrebbe, ad esempio, nella guarigione istantanea di una grave malformazione congenita o nell'osservazione della reversibilità di un fenomeno certamente irreversibile. Se invece la fenomenologia in questione non è, in generale, ben conosciuta, lo scienziato potrà solo suggerire un giudizio prudente, nel quale si affermi semplicemente che, in base alle conoscenze oggi acquisite, un certo evento resta inusitato ed inspiegabile.
Il giudizio delle scienze, e prima ancora di esse quello del senso comune, viene così proposto alla persona. È quest'ultima, nella ricchezza della sua esperienza intellettuale e nella varietà delle sue fonti di sapere — che non si esauriscono in quella della razionalità scientifica di tipo empirico-sperimentale — a dover prendere una decisione, ponendosi con la sua coscienza e la sua responsabilità di fronte al mistero dell'esistenza e dell'Assoluto. La persona può riconoscere tale segno sufficiente o insufficiente per individuarvi una rivelazione di Dio, ma se ne assume al contempo la corrispondente responsabilità. Questa sarà tanto maggiore quanto più chiaro appaia il segno proposto alla sua attenzione. Vi sono infatti eventi la cui causa oggi non si conosce ma potrebbe conoscersi in futuro, altri che si impongono per il loro carattere immediato e contrario alla comune esperienza, ed altri ancora i quali, assai ragionevolmente, non potranno né oggi né mai essere spiegati ricorrendo a cause naturali, ma che per la loro stessa fenomenologia si impongono come un’azione di Dio nella storia. È questo il caso, fondamentale ed essenziale, della risurrezione di Gesù Cristo, il segno per eccellenza, di fronte al quale ogni uomo è responsabilmente tenuto a prendere posizione.
Azioni di Dio secondo natura e contro natura
modificaUn ultimo spunto riguarda la critica mossa dal pensiero filosofico, e poi raccolta da parte del pensiero scientifico, circa la supposta contraddittorietà di un'azione di Dio che superi l'ordine naturale, essendo tale ordine creato e sostenuto da Dio stesso. Quanto osservato da Voltaire e dal deismo e poi implicitamente ripreso da coloro che trovano poco logico vedere nei miracoli "nuovi interventi" di Dio nella natura, era stato già oggetto di riflessione da parte di Tommaso d'Aquino (1224-1274). Secoli prima Agostino (354-430) ne aveva offerto una soluzione parziale, semplicemente ricordando che "norma" della natura è Dio stesso, introducendo al contempo una distinzione tra prodigiosità dell'evento in se stesso e prodigiosità che dipende della conoscenza che noi abbiamo di esso, puntualizzazione quest'ultima che verrà utilizzata poi da altri autori, fra cui Antony Flew, per mostrare la "provvisorietà" del concetto di miracolo. Agostino aveva affermato:
Sviluppando il pensiero di Agostino, Tommaso sosterrà la tesi che l'operare di Dio non può mai dirsi "contro natura":
La quaestio 6 del De Potentia Dei, interamente dedicata al tema dei miracoli (cfr. anche Summa Theologiae, I, q. 105, aa. 6-8; Contra Gentiles, III, cc. 101-102), partendo dall'affermazione agostiniana che Dio non fa nulla contro natura, perché ciò che Dio fa è la natura di ogni cosa, si propone di mostrare che i miracoli non sono effetto di una volontà volubile, ma una sorta di interplay fra azione di Dio nella sua provvidenza ordinaria e azione di Dio fuori di essa, senza che ciò generi tensione o contraddizione nell'operare divino:
Il miracolo non è una "correzione" della creazione, come ironizzato dal deismo settecentesco, ma una manifestazione e quasi una continuazione del medesimo potere creatore:
L'insistenza di Tommaso sulla dimensione ontologica del miracolo può essere spiegata come tentativo di aiutare l'interlocutore a riconoscere, nel miracolo, la presenza dello stesso Creatore. È la natura di alcune opere determinate, possibili esclusivamente a Colui che ha creato il mondo, a motivare meglio di altri criteri, di ordine personale o soggettivo, la preparazione dell'uomo ad accogliere la rivelazione di Dio (praeambula fidei). L'appello ad un "superamento" delle forze e delle potenzialità della natura è, in conseguenza di ciò, esplicito, secondo una gradualità di forza probante:
Si tratta di riflessioni che mantengono ancor oggi una certa attualità in merito al dialogo con le scienze, per la loro ordinata sistematicità. Sono le scienze naturali che, pur non dovendo formulare alcun giudizio su cosa sia o non sia un miracolo, possono invece conoscere e descrivere le "forze della natura" al punto di segnalare in modo non ambiguo ciò che "le supera per la sostanza stessa del fatto", ciò che pare inusitato nel soggetto e ciò che pare contraddire l'esperienza comune in quanto al modo con cui tali eventi si realizzano. Siamo di fronte ad un moderno approccio statistico alla plausibilità di una certa affermazione, il cui "intervallo di confidenza" può essere valutato in modo crescente: spetta alla responsabilità della persona in ricerca (in questo caso in ricerca di Dio e delle sue rivelazioni nella storia), stabilire il grado di certezza sufficiente per motivare un suo interesse ragionevole verso il miracolo, riconosciuto come significativo per preparare l'opzione libera della fede.[3]
Il miracolo nella dinamica del rapporto fra scienza e fede
modificaI miracoli, e ci riferiamo in primo luogo alla resurrezione e ai miracoli di Gesù Cristo, dal cui peculiare rapporto con il cosmo discende anche la comprensione di ogni altro miracolo, sono e restano segni di credibilità della fede ed insieme segni di salvezza. Una loro interpretazione puramente simbolica, soggettivista o metaforica sarebbe teologicamente insufficiente e si distanzierebbe dal contenuto della Rivelazione cristiana, come essa ci viene trasmessa dalla Chiesa. Da questo punto di vista, ritengo che le affermazioni del Concilio Vaticano I (1870) mantengano ancor oggi la loro attualità: "Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua rivelazione: cioè fatti divini e in primo luogo i miracoli e le profezie che, manifestando in modo chiarissimo l’onnipotenza e la scienza infinita di Dio, sono segni certissimi della divina rivelazione adatti ad ogni intelligenza" (DH 3009). Quel medesimo Concilio ritenne non conforme al deposito rivelato reputare che "i miracoli non possono mai essere conosciuti con certezza, né servire per provare efficacemente l'origine divina della religione cristiana" (DH 3034).
La relativa problematicità dell'epistemologia scientifica circa l'interpretazione delle leggi di natura non è tale da obbligare la teologia ad una cesura con le scienze, orientandola verso definizioni o comprensioni del miracolo che perdano ogni riferimento con l’osservazione scientifica della natura. Questo riferimento "dalla teologia verso le scienze" non è qualcosa che "sta o cade" con le leggi di natura (o con la comprensione che noi possiamo avere di esse). Piuttosto, sta o cade con il realismo della nostra conoscenza della natura, cioè con la nostra capacità di porci di fronte al reale come qualcosa di non ambiguo, sul cui comportamento la nostra intelligenza può trarre conclusioni senza dubbio parziali e perfezionabili, ma vere, ed in certa parte anche irreformabili. È questa l'epistemologia, a nostro avviso, con cui "sta o cade" una spiegazione teologica del miracolo che si rivolga anche alla razionalità delle scienze.
Nella dinamica fra fede e ragione, i miracoli non bastano, da soli, a determinare l'opzione della persona umana verso la fede. I Vangeli mostrano una chiara "circolarità fra fede e segni": i segni sono compiuti affinché si creda, ma per riconoscerli come segni occorrono opportune disposizioni del cuore. Come già segnalava Blaise Pascal, i miracoli danno prove ma non sono assolutamente probanti, scuotono ma da soli non bastano alla fede. È necessario il giudizio del cuore, non solo la razionalità della logica, ed occorre il dono della grazia (cfr. Pensieri, nn. 803, 843). Tuttavia, si potrebbe precisare meglio che le disposizioni necessarie per "riconoscere i miracoli" sono un'apertura alla fede, non una manifestazione di fede già formata: essi mantengono il loro appello come preamboli alla fede. Sebbene da soli siano insufficienti né sono determinanti, la persona può ragionevolmente impiegarne l'appello nella logica di quella "strategia per convergenza di indizi" che così bene seppe esporre J.H. Newman. L'itinerario della ricerca di Dio è quello di non fermarsi ai miracoli, ma di saperne cogliere l'intimo nesso e dai "miracoli", risalire pazientemente e con passione verso il "Miracolo" di Gesù Cristo stesso, della sua identità e credibilità, della sua resurrezione; solo questo "miracolo" può, da solo, qualificare come pienamente "ragionevole e umanamente adeguata" un'opzione verso la fede il cui prodursi compiuto resta sempre un dono di grazia.
La teologia può superare gli opposti scogli dell'interventismo e di un anonimo naturalismo, oltre i quali è possibile continuare il suo percorso di intellectus fidei. Il giudizio che "esistono fatti che superano l'ordine naturale" continua ad essere significativo anche per la razionalità scientifica. Il discernimento del miracolo resta un'importante, per certi versi attraente, attività interdisciplinare, non perché orientata alla ricerca di stranezze, ma per comprendere fino a che punto Dio può trasfigurare ed elevare una natura che ha creato in Cristo e in vista di Cristo, e fino a che punto la natura è capace di "rivelare" tale ordinamento e centralità cristocentriche.[3]
Concludo questo Capitolo con due domande finali. Possiamo dire che la vita è un miracolo? O, anche, che l'universo è un miracolo? Se, come abbiamo rilevato, non riteniamo sia lecito "assorbire" la nozione di miracolo nei processi complessi, emergenti, e sempre imprevedibili e creativi della natura, quando consideriamo l'universo e la vita "nella loro singolare e sorprendente unicità" — l’universo in quanto "la totalità di ciò che è posto in esistenza" e la vita come "la mia vita personale ed irripetibile" — si fa allora strada una nuova riflessione. Gli aspetti psicologici, ontologici e semiologici, caratteristici del miracolo, paiono tutti verificati. Si tratta in ambedue i casi di fatti sensibili, sperimentabili, ma certamente straordinari, la cui "gratuità" sorprende al di là dell’ordine della natura: lo diciamo nel senso che l'universo rimanda oltre se stesso e la mia esistenza personale rimanda oltre la vita come tale; il loro autore è Dio, perché di Lui portano entrambi la firma, anzi l'immagine; entrambi sono per noi un segno che attraverso due itinerari della ragione, cosmologico ed antropologico, ci recano un messaggio: quello della presenza del Creatore, anzi del mio Creatore:
Uso dei miracoli
modificaTutti i miracoli indicano il grande miracolo della risurrezione di Cristo. Allo stesso tempo, ogni miracolo è unico. E alcuni miracoli per la loro unicità possono suggerire più efficacemente applicazioni ad alcune situazioni di vita specifiche. Ad esempio, Gesù trasformò l'acqua in vino durante un banchetto di nozze. Quindi il tema delle nozze e del matrimonio lo collega più strettamente alle relazioni romantiche del mondo d'oggi. La moltiplicazione dei pani a nutrimento dei 5000 solleva la questione del modo migliore per vivere la vita in abbondanza. Gesù è "il pane della vita". Pertanto, quella storia potrebbe servire come punto di partenza quando si parla delle speranze future per vivere una vita appagante. La guarigione del lebbroso da parte di Gesù in Matteo 8:1-4 solleva il tema di ciò che è puro rispetto a ciò che è impuro. Quindi potrebbe essere il punto di partenza per riflessioni personali sul proprio lavoro e/o occupazione.
Possiamo trovare molto potenziale per molte applicazioni, perché ogni miracolo incarna i principi generali della redenzione. Indica le verità centrali della realizzazione di Gesù. E tutti abbiamo bisogno di redenzione. Ne abbiamo bisogno non solo in senso lato, come popolo intero; ne abbiamo bisogno nelle piccole fessure di circostanze particolari come la nostra vita quotidiana individuale.
Allora, cominciamo ad esaminare il Vangelo di Matteo e cerchiamo di capire il significato dei miracoli ivi registrati. Useremo i principi che abbiamo già sviluppato soprattutto con riferimento al Vangelo di Giovanni.
Note
modificaPer approfondire, vedi Ecco l'uomo, Gesù e il problema di una vita, Indagine Post Mortem e Serie cristologica. |
- ↑ 1,0 1,1 1,2 Per questa sezione e tutte le successive del Capitolo, sono state consultate e stralciate le seguenti opere: Giuseppe Tanzella-Nitti, Miracolo, Documentazione Interdisciplinare Scienza e Fede, 2002; A. Michel, "Miracle", in DTC, vol. X, 2, coll. 1798-1858; C.S. Lewis, Miracles, London 1947; V. Marcozzi, Il miracolo, in "Problemi e orientamenti di teologia dommatica", Marzorati, Milano 1957, vol. I, pp. 105-142; W. Grundmann, "Dynamai e Dynamis", in GLNT, vol. II, 1966, coll. 1473-1556; J. Morales, El milagro en la teología contemporanea, "Scripta Theologica" 2 (1970), pp. 195-220; K.H. Rengstorf, "Semeîon", in GLNT, vol. XII, 1979, coll. 17-171; R. Latourelle, "Miracolo", in NDT, 19823, pp. 931-945; R. Guardini, Miracoli e segni (1959), Morcelliana, Brescia 1985; G. Segalla, La cristologia soteriologica dei miracoli nei sinottici, "Teologia" 5 (1987), pp. 147-151; R. Latourelle, Miracoli di Gesù e teologia del miracolo, Cittadella, Assisi 1987; F. Uricchio, "Miracolo", in NDTB, 1988, pp. 954-978; H. Verweyen, Il miracolo in teologia fondamentale, in "Gesù rivelatore", a cura di R. Fisichella, Piemme, Casale Monferrato 1988, pp. 196-207; J.Y. Lacoste, Miracle, in "Dictionnaire critique de Théologie", Puf, Paris 1998, pp. 733-738; G. Lorizio, Una prospettiva teologico-fondamentale, in "Interpretazioni del reale", a cura di P. Coda e R. Presilla, PUL-Mursia, Roma 2000, pp. 27-54.
- ↑ Xavier Léon-Dufour, I miracoli di Gesù secondo il Nuovo Testamento, Brescia 1980, p. 24.
- ↑ 3,0 3,1 3,2 3,3 Per questa Sezione si vedano anche i seguenti: P.C. Landucci, La verità dei miracoli, "Divinitas" 20 (1976), pp. 204-208; D. Composta, Il miracolo: realtà o seggestione? Città Nuova, Roma 1981; C. Borasi, Un’analisi epistemologica del miracolo, "Asprenas" 34 (1987), pp. 375-395; S.L. Jaki, Miracles and Physics, Christendom Press, Front Royal (VA) 1989; R. Swinburne, Miracles, Macmillan, New York 1989; P. Delooz, Les miracles, un défi pour la science?, Duculot, Bruxelles 1997; S. Leone, La medicina di fronte ai miracoli, EDB, Bologna 1997; R. Stannard, La scienza e i miracoli. Conversazioni sui rapporti fra scienza e fede, Longanesi, Milano 1998; J. Earman, Hume’s Abject Failure. The Argument against Miracle, Oxford Univ. Press, Oxford-New York 2000.