Alla ricerca di Marcel Proust/Capitolo 28

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La Sortie du lycée Condorcet, di Jean Béraud (1903)

Modernismo

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Leggere Proust oggi, più di cento anni dopo la sua morte, significa incontrarlo avvolto nella celebrità, appesantito da risme di commenti critici, addomesticato dalla ricchezza di fatti e griglie ermeneutiche di cui ora possiamo armarci mentre interpretiamo le complessità del suo mondo immaginato. Proust è diventato così famoso che potrebbe essere difficile per noi lettori moderni immaginare quanto rivoluzionario sia apparso il suo stile in prosa alla maggior parte del pubblico europeo di lettori nel periodo che va dal 1913 (quando Du côté de chez Swann fu pubblicato per la prima volta) al 1927 (quando Le Temps retrouvé apparve finalmente, cinque anni dopo la morte dell'autore). Proust ebbe difficoltà a essere pubblicato, in parte perché, come la tetralogia di Wagner, À la recherche du temps perdu peccava contro l'ordine di grandezza accettato per le opere d'arte: le frasi erano troppo lunghe, i pensieri troppo contorti, gli obiettivi tematici generali non abbastanza evidenti nella loro ampia estensione. In poche parole, ciò che Proust proponeva come romanzo era insolito, strano, inquietante. Perfino il più intelligente dei lettori trovò l'opera difficile da classificare, impossibile da discutere entro i parametri dati della narrativa del primo Novecento. Uno di questi lettori, particolarmente abile nel riconoscere il genio di Proust, fu Walter Benjamin, il filosofo e saggista ebreo-tedesco. La sua descrizione della Recherche merita di essere citata, sia per la sua incisività lapidaria che per la brillantezza della sua formulazione metaforica. Ecco le prime frasi del suo saggio "L'immagine di Proust", pubblicato inizialmente nel 1929:

« I tredici volumi di À la recherche du temps perdu di Marcel Proust sono il risultato di una sintesi incomprensibile in cui l'assorbimento di un mistico, l'arte di uno scrittore di prosa, la verve di un autore satirico, l'erudizione di uno studioso e l'autocoscienza di un monomaniaco si sono combinati in un'opera autobiografica. È stato giustamente detto che tutte le grandi opere letterarie stabiliscono un genere o ne dissolvono uno, che sono, in altre parole, casi speciali. Tra questi casi, questo è uno dei più insondabili. Dalla sua struttura, che è allo stesso tempo finzione, autobiografia e commentario, alla sintassi di frasi sconfinate (il Nilo del linguaggio, che qui trabocca e feconda le pianure della verità), tutto trascende la norma. »
(Walter Benjamin, ‘The Image of Proust’, in Illuminations, trad. Harry Zohn, cur. Hannah Arendt (Londra: Pimlico, 1999 [1970]), pp. 197. Mia traduzione)
 
Walter Benjamin verso il 1928

Pochi scrittori hanno espresso più felicemente di Benjamin le varie ragioni che militano contro gli sforzi che un lettore o un critico potrebbero fare per inserire l'opera di Proust in un dato movimento letterario. Si può dire che un testo che combina assorbimento mistico, satira, erudizione e autocoscienza monomaniacale possa essere definito un "romanzo" nel senso comune, o è meglio chiamarlo un "caso speciale" e rinunciare a qualsiasi tentativo di includerlo sotto un grande ombrello teorico o concettuale onnicomprensivo? L'immagine sorprendente con cui Benjamin conclude la sua descrizione, che paragona la sintassi di Proust a un traboccante "Nilo di linguaggio", funge da avvertimento particolarmente ben espresso contro la tentazione di includere uno scrittore in possesso di doni così specifici e inimitabili all'interno di una rubrica storico-letteraria più ampia.

Tuttavia, è naturale che il critico letterario soccomba a una simile tentazione. Appena due anni dopo che Benjamin scrisse "L'immagine di Proust", il critico americano Edmund Wilson incluse Proust tra i sei scrittori che, a suo avviso, potevano essere studiati come un gruppo in quanto i loro rispettivi stili di scrittura derivavano tutti dal fondamento teorico e dalla pratica testuale del simbolismo francese. Pubblicato nel 1931, Axel's Castle: A Study in the Imaginative Literature of 1870–1930,[1] inizia con un capitolo sul simbolismo in sé (con particolare enfasi sulla scoperta di Edgar Allan Poe da parte di Charles Baudelaire nella fase iniziale del movimento), quindi passa a singoli capitoli su W. B. Yeats, Paul Valéry, T. S. Eliot, Marcel Proust, James Joyce e Gertrude Stein. Nel capitolo conclusivo, “Axel e Rimbaud”, Wilson si allontana dalle opere dei primi del Novecento che aveva appena esaminato e stabilisce un netto contrasto tra l’isolamento e il ritiro dalla società che permeano Axel (1890) di Villiers de l’Isle-Adam e la decisione di Arthur Rimbaud di smettere di scrivere poesia dopo averla rivoluzionata, scegliendo l’azione nel mondo rispetto all’alchimia della parola.

Yeats, Valéry, Eliot, Proust, Joyce e Stein rappresentano, per Wilson, quel filone di letteratura che oggi chiameremmo "modernista", sebbene il critico non utilizzi questo termine nel suo libro. Ciò che caratterizza il testo modernista è un grado eccezionale di autocoscienza, una forte enfasi sull'individuo rispetto alla società e la capacità di creare un mondo immaginario che non si riferisce direttamente o mimeticamente alla realtà esterna, ma richiama l'attenzione su se stesso. Sebbene la modalità retorica delle analisi di Wilson possieda un'ampia gamma, da letture ravvicinate tecnicamente precise ad attacchi ad hominem e pura scontrosità, pochi critici del ventesimo secolo lo hanno eguagliato nella sua sensibilità alle innovazioni moderniste: dall'uso particolare di miti e leggende da parte di Yeats, alla sensibilità drammatica di Eliot, all'attenzione di Proust per la struttura romanzesca, alla singolare creazione di Joyce di "a new phase of the human consciousness"[2] in Ulysses e le sezioni di quello che sarebbe diventato Finnegans Wake che erano apparse nel 1931. Eppure, nonostante il suo talento per l'interpretazione di testi raffinati e altamente introspettivi, Wilson conclude che la letteratura modernista, con questi sei scrittori, si è esaurita e ha raggiunto un punto morto: "Axel’s world of the private imagination in isolation from the life of society seems to have been exploited as far as for the present is possible. Who can imagine this sort of thing being carried further than Valéry and Proust have done?"[3] Wilson, che aveva una coscienza sociale fortemente sviluppata e che avrebbe composto il trattato ampiamente letto sullo sviluppo del socialismo europeo, To the Finland Station (1940), lesse Proust e gli altri modernisti con meno palese ammirazione di Benjamin; sebbene Wilson possedesse un orecchio fine per la musica testuale modernista, sottolineò, in modo più esplicito ed enfatico di altri critici, i limiti oltre i quali il carattere autoriflessivo e incentrato su se stesso del modernismo non poteva, o non doveva, avventurarsi.

Sebbene il termine "modernismo" sia utilizzato nei circoli intellettuali angloamericani in modo più pervasivo che in Francia, il legame tra modernismo e il suo stretto cugino linguistico, "modernità", è ovvio e, dal punto di vista della storia letteraria, non privo di significato. Non è una coincidenza che Edmund Wilson collochi Baudelaire all'origine degli scritti introspettivi post-simbolisti che si è impegnato ad analizzare in Axel's Castle.[4] L'autore delle poesia innovative e scandalose contenute in Les Fleurs du mal era anche un importante critico letterario e culturale che sposava l'idea che la bellezza potesse essere trovata nel presente: nell'evanescenza della moda, negli stili mutevoli dell'architettura e nel rinnovamento delle forme artistiche. In un saggio apparentemente dedicato all’acquarellista e illustratore di giornali Constantin Guys (1802-1892) intitolato “Le peintre de la vie moderne”, Baudelaire, che è tra i primi scrittori di lingua francese ad usare il termine, definisce la parola modernité immaginando M. Guys nelle sue quotidiane peregrinazioni artistiche:

 
 
200pxBaudelaire, firma
« E così lui [Constantin Guys] cammina, corre, cerca. Cosa sta cercando? Certamente quest'uomo come l'ho descritto, questo individuo solitario dotato di un'immaginazione attiva... ha uno scopo più alto di quello di un semplice osservatore errante [flâneur], uno scopo più generale, diverso da quello che le circostanze presenti, fugaci come sono, gli offrono. Sta cercando quel qualcosa che spero mi sia concesso di chiamare modernité; non c'è parola migliore per esprimere l'idea in questione. Ciò che desidera fare è districare dalla moda l'essenza poetica all'interno del momento storico, per estrarre l'eterno dal transitorio. »
(Charles Baudelaire, "Le peintre de la vie moderne", in OEuvres complètes, cur. Claude Pichois, 2 voll. (Parigi: Gallimard, 1976), ii, p. 696; mia traduzione)

Ciò che Baudelaire esprime qui costituirà un nucleo centrale di preoccupazione estetica per gli scrittori modernisti che seguiranno la sua scia: come si può rappresentare la vita moderna nella sua quotidianità variegata e fluttuante e allo stesso tempo consentire a verità più profonde ed essenziali – ciò che Baudelaire chiama "l'eterno" – di irrompere attraverso la superficie del mondo immaginario dello scrittore? Nelle opere che ora occupano un posto d'onore nel canone modernista – l’Ulysses di Joyce, To the Lighthouse di Woolf e la Recherche di Proust – c'è una forte tensione organizzativa alla base della costruzione narrativa di ogni libro: da un lato, ogni scrittore cerca di ricreare un universo immaginario altamente particolareggiato pieno di dettagli fisici e psicologici (la cacofonica Dublino di Joyce, le lontane Ebridi di Woolf e gli eleganti salotti parigini di Proust sono diventati parte del nostro patrimonio letterario); ma dall'altro, ognuno di loro punta oltre il panorama letterario stesso verso preoccupazioni estetiche ed etiche più ampie, dotando gli spazi narrativi che hanno creato di una stratificazione temporale quasi geologica. La Dublino di Ulysses attraverso cui le figure di padre e figlio Bloom e Stephen Daedalus passano durante un singolo giorno è allo stesso tempo lo specchio della storia della civiltà occidentale, da Omero in poi; le Ebridi spazzate dal vento, lungi dall'essere isolate dagli orrori della Grande Guerra, diventano il teatro su cui scorre il Tempo stesso — ne ho avuto io stesso sensazione visitandole; e il mondo dell'arguzia, della moda e dell'inclusione ed esclusione sociale, diventa, alla fine della Recherche, semplicemente una scenografia stilizzata su cui scrittore e lettore sono costretti a contemplare il prestigio dell'arte minacciato dalle devastazioni della mortalità umana.

Forse non è una coincidenza che Joyce, Woolf e Proust abbiano ciascuno ideato termini e particolari modalità di scrittura per esprimere i modi in cui l'essere umano individuale, pur essendo intrappolato nell'esistenza comune e nell'inesorabile movimento verso la morte e l'oblio, sperimenta anche certi momenti privilegiati che aprono (per prendere in prestito da Wordsworth) "intimations of immortality". All'inizio della carriera di Joyce, queste erano chiamate "epiphanies" (la rivelazione improvvisa del proprio sé autentico); per Woolf, erano "moments of being" (la rivelazione della realtà che avviene in un momento particolare che cancella temporaneamente il solito "non-being" della propria esistenza quotidiana); e per Proust, erano i souvenirs involontaires, o ricordi involontari, che emergono dall'inconscio del Narratore nella sua mente cosciente in un freddo e cupo giorno d'inverno quando, "sconvolto da una giornata triste con la prospettiva di un deprimente domani" (1: 51; i, 44), accetta l'invito di sua madre a bere una tazza di tè in cui intinge uno di quei piccoli dolcetti, che si trovano in tutte le pasticcerie francesi che si rispettino, con il nome evocativo: petites madeleines. L'effetto sul Narratore è immediato; l'effetto sui lettori di Proust è profondo. Questo particolare momento, che inizia come segue, è diventato un'icona della letteratura modernista:

« E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un triste domani, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? »
(1: 51–2; i, 44)

Con la sua impressionante combinazione di brevità e intensità drammatica, la scena della petite madeleine colloca il Narratore in una posizione liminale, o di soglia. Come essere umano è soggetto alle "vicissitudini della vita" – che, nel suo caso, includeranno una progressiva disillusione per la superficialità e la crudeltà della società aristocratica, molta sofferenza nei suoi amori per Gilberte, la Duchessa di Guermantes e Albertine, e sentimenti di inadeguatezza come scrittore in erba. Eppure, allo stesso tempo, tirando nella direzione opposta, c'è una "gioia onnipotente" che sembra essere il segno di qualcosa di trascendentale. Solo due pagine dopo le domande mozzafiato – "Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?" – il Narratore ci offre la sua memorabile risposta. L'impressione di qualcosa situato oltre i limiti assegnati all'esistenza umana deriva dalla qualità relazionale della memoria stessa, la sua capacità di unificare presente e passato in un'unica impressione sintetica, riunendo così sotto una singola struttura totalizzante non solo le esperienze di vita dell'individuo, ma anche la sua coscienza e il potere della sua immaginazione. L'essenza del passato, che non può essere raggiunta da un atto di richiamo volontario o di intellezione, è accessibile a tutti noi in quei rari momenti in cui siamo in sintonia con l'ambiente temporale in cui si immergono tutte le azioni umane. Il Narratore di mezza età si rende presto conto che il sapore del dolce intinto nel tè è una ripetizione euforica di un'esperienza infantile, l'offerta abituale di una petite madeleine da parte della sua Tante Léonie la domenica mattina nella cittadina di provincia di Combray.

Sebbene il Narratore sia ormai invecchiato e abbia sperimentato le delusioni della vita, e sebbene non si possa certamente dire che sia la stessa persona del ragazzo che incontriamo all'inizio della cronologia del romanzo (una cronologia lineare che è stata messa in sospeso da questa particolare scena e da altre due precedenti), la sensazione gustativa del piccolo dolce intinto nel tè, per quanto fragile e apparentemente insignificante, assomiglia al muro di sostegno di un vasto edificio, l'edificio della memoria stessa:

« Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo. »
(1: 54; i, 46)

In tutta la Recherche, Proust insiste su ciò che si potrebbe chiamare, parafrasando Pascal, la giustapposizione di grandeur et misère della condizione umana. Anche in quei passaggi del romanzo come quello che abbiamo appena letto, che possiedono un tono trionfante e che sembrano promettere una forma di redenzione estetica, Proust ci ricorda le realtà quotidiane a cui, nonostante tutti i nostri sforzi e aspirazioni, restiamo legati: la creatura umana è sia grandiosa che miserabile. Penso che sia con questo in mente che dobbiamo leggere la frase finale del romanzo in cui il Narratore afferma la sua vocazione di scrittore, rievocando non solo il suo inizio e la sua fine, che glorificano il nostro destino temporale espansivo, ma anche il suo centro, in cui ci viene ricordato, abbastanza delicatamente, lo spazio ristretto in cui viviamo, ma che senza dubbio preferiremmo negare:

« Se mi fosse concessa la forza abbastanza a lungo per portare a termine la mia opera, non mancherei, anche se i risultati dovessero farli somigliare a mostri, di descrivere gli uomini prima di tutto come occupanti un posto, un posto molto considerevole rispetto a quello ristretto che è loro assegnato nello spazio, un posto al contrario prolungato oltre ogni misura – poiché simultaneamente, come giganti immersi negli anni, toccano epoche immensamente lontane tra loro, separate dal lento accrescimento di molti, molti giorni – nella dimensione del Tempo. »
(6: 451; iv, 625)
Vanité, di Constantin Guys (1885)
  1. Edmund Wilson, Axel’s Castle: A Study in the Imaginative Literature of 1870 to 1930 (New York: Charles Scribner’s Sons, 1931).
  2. Wilson, Axel’s Castle, p. 221.
  3. Wilson, Axel’s Castle, p. 292.
  4. Wilson non è affatto l'unico critico a collocare Baudelaire all'origine del modernismo o della modernità. Nel suo Struktur der modernen Lyrik (Hamburg: Rowohlt, 1956) [The Structure of Modern Poetry from the Mid-Nineteenth to the Mid-Twentieth Century (Evanston, IL: Northwestern University Press, 1974)], Hugo Friedrich, alludendo al "the poet of modernity", ha scritto: "With Baudelaire, French poetry became a matter of concern for all Europe . . . Mallarmé admitted that he had begun where Baudelaire had had to leave off. Valéry, nearing the end of his life, traced a direct line of communication from Baudelaire to himself. T. S. Eliot called Baudelaire’s work “the greatest example of modern poetry in any language”’ (The Structure of Modern Poetry, p. 19). In Mélancolie et opposition: les débuts du modernisme en France (Parigi: Corti, 1987) [The Writing of Melancholy: Modes of Opposition in Early French Modernism (The University of Chicago Press, 1993)], Ross Chambers mette tre scrittori francesi degli anni '850 – Baudelaire, Flaubert e Nerval – "at the forefront of a type of ‘oppositional’ writing that he characterizes as early modernist. Modernist self-reflexivity can be reconciled with history and with concrete social life. The modernist literary text opens itself to history through the instance of reading presupposed by the text’s self-figuration; it is the text’s readability that guarantees its interpretive history (or “fortune”, one might say) among successive groups of future readers" (The Writing of Melancholy, p. 13). E Peter Gay, in quello che è senza dubbio il più ambizioso tentativo recente di scrivere una storia sintetica del modernismo, ha affermato: "I am casting Charles Baudelaire, in preference to all other heretics, as modernism’s first hero" (Peter Gay, Modernism, The Lure of Heresy: From Baudelaire to Beckett and Beyond - New York: Norton, 2008, p. 5). Secondo Gay, "the two defining qualities of modernism are ‘the lure of heresy’ and ‘the commitment to a principled self-scrutiny" (pp. 4–5). Sebbene la portata del lavoro di Gay sia troppo vasta perché egli possa analizzare in dettaglio un artista in particolare, la breve sezione che dedica a Proust, in cui confronta la sezione "Intermittences of the Heart" della Recherche con l'illuminazione di Lily Briscoe in To the Lighthouse, è ben argomentata e convincente (pp. 208–14).