La filosofia greca/Numero o parola?
Per Platone, “matematico” (in greco, incline ad apprendere) era praticamente sinonimo di “filosofo”. È stato ampiamente sottolineato lo spostamento dell'interesse platonico verso la scienza del numero, con la costruzione di una metafisica aritmetica non del tutto esplicitata nei suoi dialoghi. Fin dal Timeo (erroneamente classificata come l’ultima opera del Maestro) la concezione dell’idea come modello matematico (meglio, geometrico) definisce in modo netto l’abbandono della concezione verbale del logos, a favore di quella numerica. Nel dialogo Timeo l’antica dottrina dei “quattro elementi”, che comunque all’epoca era il fondamento della scienza fisica e medica, subisce una radicale revisione di tipo schiettamente razionale: contrariamente alla concezione originale, il comun denominatore dei quattro elementi è una figura geometrica, il triangolo; dall’unione dei triangoli sorgono i quattro solidi che formano gli elementi materiali: il cubo (la terra), l’ottaedro (l’aria), l’icosaedro (l’acqua) e il tetraedro (il fuoco). Sottovalutare questo aspetto fu l’errore fatale della storiografia moderna (dal XIX secolo alla metà del Novecento), che vide in Platone l’ideatore di una filosofia idealista del tutto estranea ai fondamenti fortemente razionalistici della matematica. Per Platone la matematica era, ed è rimasta, «un insieme di entità e di proprietà ideali»[1] trasformatosi poi in un linguaggio.
Come è stato detto, Aristotele si distaccò fin dall’inizio da questa visione del logos, scegliendo di potenziare l’uso verbale del ragionamento. Per l’illustre discepolo, l’unico linguaggio adatto alla conoscenza della verità rimane quello della lingua naturale, della parola; esso tuttavia va razionalizzato in un modello scientifico di tipo FORMALE. Ma cos’è un linguaggio formale? Sinteticamente, è un sistema di segni formato da simboli la cui correlazione è strettamente condizionata da regole. Ogni linguaggio formale ha le proprie regole, e le “frasi” di questo linguaggio (propriamente, i suoi teoremi) devono essere dedotte esclusivamente da tali regole. I linguaggi formali per eccellenza sono la matematica e tutti i suoi derivati (2 + 2 = 4 è una “frase” matematica, così come il teorema di Pitagora è una “frase” geometrica). Lo scopo di tali linguaggi è quello di “creare” sempre nuovi teoremi la cui validità dipende esclusivamente dal rispetto delle regole. Un teorema è vero, valido, giusto, se rispetta le regole di base; è falso, sbagliato, se contiene degli errori nell’applicazione di tali regole. Per verificare la verità di un teorema occorre dimostrarlo, decostruirlo cioè nei suoi componenti essenziali, esplicitandone le regole, per risalire dalla singolarità del caso alla sua generalità. È facile capire quindi come mai un calcolatore (o un computer) può generare dei teoremi (Macchina di Turing): per scrivere le sue frasi, il calcolatore deve “semplicemente” combinare tra loro dei simboli precostituiti secondo delle regole (calcolo combinatorio); tali regole sono inscritte nella sua struttura, ovvero costituiscono la sua struttura meccanica (oggi, elettronica). Le prime calcolatrici risalgono addirittura al XVII secolo: i risultati delle loro operazioni (addizione e sottrazione) erano esclusivamente il frutto delle relazioni fra gli ingranaggi, sul modello dell’orologio, il cui procedere distingue i secondi dai minuti e dalle ore. Torniamo dunque ad Aristotele.
Fin dai primi anni in Accademia la sua esigenza fu quella di formalizzare il linguaggio verbale, di individuare cioè le regole che ne permettano l’uso dimostrativo. L’approccio alla parola non poteva più essere quello puramente etimologico usato comunemente dalla cultura del suo tempo. L’approccio etimologico, ovvero lo studio della storia delle parole (ad esempio: “libro” dal latino liber, propriamente la scorza interna dell’albero), è ampiamente illustrato nel dialogo platonico Cratilo. In esso il problema da risolvere è relativo alla correttezza naturale dei nomi: il nome che attribuiamo alla cosa è quello giusto? In tal caso, il nome corrisponde alla cosa? Un problema non da poco, alla luce di quanto avverrà nella conversazione filosofica tra i secoli XII e XIII con la cosiddetta disputa sugli universali. In breve: il nome della rosa ne indica autenticamente la sostanza o è una semplice convenzione linguistica? Abbandoniamo per il momento la questione e torniamo al punto. Come si evince dall’opera platonica, l’approccio etimologico non conduce ad alcuna certezza, ma è anzi in balia di interpretazioni incerte se non del peggior senso comune. Per dotare il linguaggio di un fondamento di verità indiscutibile occorre, secondo Aristotele, darne un modello formale simile a quello utilizzato dalle scienze naturali: un modello classificatorio legato ad alcune precise e inderogabili regole. Regole che ne evidenzino la struttura logica, non diverse da quelle che guidano il ragionamento matematico: la scomposizione deduttiva dei termini nei loro componenti impliciti (vedi l’analisi del termine “uomo” in “bipede”, “animale”, “essere vivente”). Torneremo al momento opportuno a parlare di quella che è divenuta nota, nella storia della filosofia, come logica aristotelica.
Per concludere, la strada imboccata da Aristotele portò la filosofia greca ad allontanarsi progressivamente dalla matematica, ritenuta una tecnica specialistica volta alla soluzione di problemi pratici. Il suo valore razionale e formativo fu rifiutato dall’aristotelismo e dimenticato dalle scuole filosofiche dell’epoca ellenista. La divaricazione tra Numero e Logos allontanò la matematica da quella radice comune che la legava al ragionamento come principio ordinatore universale.
Note
modifica- ↑ [P. Zellini, ibid.]