La filosofia greca/La diaspora socratica
Uno storico francese (François Châtelet) ha definito la morte di Socrate come la “morte della filosofia”[1]. Il riferimento è al prevalere della politica sulla coscienza, al silenzio a cui l’etica fu costretta dal trionfo dell’individualismo sofista.
Nel disorientamento seguito al processo, i seguaci di Socrate si dispersero e si divisero. Alcuni tentarono la strada della radicalizzazione etica, riproponendo gli aspetti più estremi dell’insegnamento ricevuto, moltiplicandosi in scuole e piccoli cenacoli marginali alla vita culturale ateniese. Altri tentarono la via opposta, cercando di riportare la filosofia sui binari di un metodo di ragionamento “alto”, meno “popolare”, capace di unire le ragioni dell’etica e quelle del logos in un sistema più stringente. Da questo tentativo, opera di Platone, nacque la “grande metafisica” occidentale. Le cosiddette “scuole socratiche minori” si diffusero in centri periferici – Megara, Cirene -, accettando come ormai inevitabile quell’esilio che Socrate aveva dignitosamente rifiutato. Il loro tratto comune, conseguentemente, fu il rigetto e la condanna della politica, vista come radicale alternativa a una vita autenticamente filosofica. Il presupposto su cui si fondavano rimase la ricerca del Bene; un presupposto etico, apparentemente socratico. Ma declinato, nello spirito dei tempi, verso una dimensione individualista. Sconfitti, i discepoli di Socrate impugnarono le stesse armi dei loro avversari, convincendosi che l’unico bene possibile sia la propria felicità, intesa come distacco dal mondo, dalle preoccupazioni comuni, dalla collettività sociale. Una felicità non aggressiva, volta non alla sopraffazione politica ma al distacco dal mondo, al solipsismo della coscienza. Di socratico, in Euclide di Megara, Antistene e Aristippo, rimase anche un certo atteggiamento esistenziale, fatto di insegnamento come ”esempio di vita”. Mettere in pratica il proprio sapere vivendolo, proponendo un modello etico di comportamento, una “filosofia pratica” e non teoretica. La solitudine della coscienza individuale doveva pur sempre essere motivata da ragioni “superiori”, da ragioni filosofiche come la rinuncia alle passioni (Euclide), un ritorno alla vita naturale (Antistene), e l’uso della ragione nelle proprie scelte di vita (Aristippo). In tutto questo, il Logos come esercizio di ricerca non aveva però più ragion d’essere. La svalutazione dell’impegno intellettuale fu il prezzo che la filosofia pratica dovette pagare al suo tentativo di radicarsi nella vita dell’uomo comune, a cui questi maestri si rivolgevano. I poveri e gli schiavi furono i loro interlocutori privilegiati (ma non le donne), in una sorta di rivoluzione ideologica che però intendeva allontanare il popolo dalle istituzioni. Con un termine moderno, potremmo definirli “filosofi di strada”. La filosofia pratica, che nella modernità prese il nome di filosofia morale, è dunque l’esito finale dell’insegnamento socratico, del tentativo di calare il pensiero nell’esistenza, nella vita. Una concezione ATTIVA del filosofare parallela a quella CONTEMPLATIVA. Il quesito che la storia della filosofia ci propone è se questa separazione può diventare una sintesi, un sistema coerente, o se è destinata a rimanere, come nel caso delle scuole socratiche, alternativa e divergente. A pochi decenni di distanza dai megarici e dai cinici sorsero nuove scuole, la cui tendenza di fondo fu di confermare la priorità dell’utile (la ricerca della felicità) sul “buono” (la ricerca del bene). Felicità e bene divennero quindi termini alternativi, indicanti due modi diversi di intendere l’esistenza: da un lato la cura di sé, l’”uso” personale della filosofia come stile di vita[2]; dall’altro la cura dell’anima, della parte razionale dell’uomo, della sua componente più elevata e universale.