La filosofia greca/La fisica (e oltre) – Il movimento
Prima parte
modificaIl rigoroso naturalismo del pensiero aristotelico dovette ben presto fare i conti con l’inflessibile logicità delle sue stesse basi. La storia della filosofia ci ricorda spesso che il voler essere intransigentemente coerenti porta il pensiero a deragliare. Questo “deragliamento” avvenne nel passaggio dalla Fisica alla Metafisica, ovvero tra le due opere maggiori (forse) di tutta la storia del pensiero.
Gran parte della Fisica si occupa di una delle due forme possibili di mutamento, quello, potrei dire, nel tempo. In tale ottica, Aristotele distingue il mutamento secondo la sostanza: nascere e morire; secondo la quantità (notate l’uso delle Categorie): l’aumentare (il crescere) e il diminuire; secondo la qualità: il trascolorare degli alberi, dei capelli e via dicendo. Ma c’è un mutamento che avviene NELLO SPAZIO, il movimento vero e proprio (greco: kìnesis) da un luogo all’altro. Naturalmente, si parla sempre di enti di natura e delle proprietà che ineriscono necessariamente ad essi. Se avete notato, parlando del mutamento degli esseri di natura ho taciuto di tutto ciò che non è propriamente “vivente” ma che appartiene alla Natura: mi riferisco agli elementi che compongono la struttura dell’universo. Aristotele non propone nulla di diverso da ciò che la scienza del suo tempo dava per scontato, ovvero l’esistenza di quattro elementi – la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco – posti a fondamento delle cose. Ma non dice, a differenza dei suoi predecessori, come essi interagiscano nella composizione dei corpi, se non di sfuggita in alcuni trattati minori (I problemi: greco: ta problemata).
Affrontando il problema del movimento Aristotele porta a compimento tutte le osservazioni e le deduzioni possibili relative a ciò che è natura, uscendo dallo stretto ambito dei viventi. Dunque, anche gli elementi hanno la possibilità di mutare, ovvero di muoversi nello spazio, ciascuno secondo il suo modo di essere. Per seguire il filo di questo ragionamento dobbiamo però lasciare momentaneamente la Fisica e aprire un altro fondamentale trattato del grande filosofo: il De caelo (il titolo latino è dovuto al fatto che l’opera venne letteralmente ricostruita in epoca romana dagli scopritori dei manoscritti aristotelici a partire da appunti sparsi). Nell’opera, il nostro filosofo traccia le linee generali di quella che divenne in breve tempo la cosmologia ufficiale del mondo antico e medievale, fino alla grande rivoluzione copernicana. Nel De caelo si esce infatti dall’ambito di ciò che è strettamente “terrestre” per abbracciare l’intero universo. Ma ancora una volta, più che la descrizione di questo ente Aristotele si occupa della giustificazione del suo essere com’è. Che esistano le stelle e i pianeti è di per sé evidente; che cosa siano è qualcosa di deducibile; il problema è: perché si muovono.
Anche la cosmologia si riduce alla deduzione dell’ordine strutturale degli enti. L’universo è il luogo – il contenitore – nel quale ogni elemento occupa lo spazio che gli è proprio. Prima di tutto, è evidente che l’universo è sferico. Già da secoli la speculazione filosofica aveva dato per certo che la terra, e il cosmo, fossero sferici; come ancora oggi accade nel campo della ricerca fisica, la teoria venne dimostrata ufficialmente (ovvero matematicamente) solo molto dopo, e precisamente in epoca ellenistica (nel III-II secolo a.C.). In questo “sfero” devono esistere dunque un centro e una superficie; il centro non può essere che la Terra, ma se vogliamo parlare della superficie allora occorre tenere presente anche ciò che è “esterno” al cosmo. Ma facciamo un passo alla volta. La posizione centrale della Terra ha una spiegazione che, a ben vedere, appare autoreferenziale. In breve, la Terra è al centro perché è composta… di terra, che è l’elemento più pesante dei quattro. Il peso stesso dell’elemento lo porta necessariamente verso il basso, ma dov’è il basso di una sfera? Ovviamente al centro, il punto cioè equidistante da ogni altro punto della superficie. Immediatamente sopra la terra si posiziona l’acqua, e così via per l’aria e il fuoco (che ardendo tende a salire oltre l’aria). Se questo è l’ordine naturale, ne consegue che il movimento degli elementi è quella qualità che li porta ad occupare il luogo di loro competenza, una volta che ne siano stati rimossi. Se alziamo una pietra e la lasciamo andare, questa ritorna al suo luogo d’origine cadendo verso il basso; l’acqua versata da un bicchiere si deposita sopra la terra… e il resto ne consegue. Questi sono i moti naturali degli elementi che spiegano la struttura stessa del cosmo. C’è tuttavia un’obiezione: tutti questi movimenti sono rettilinei, mentre oltre la Terra, nel cielo, gli enti – pianeti e stelle – si muovono di un moto circolare. Come si spiega tutto ciò?
Seconda parte
modificaLa prima crepa nel principio di evidenza si apre nel momento in cui urge una risposta sulla natura intrinseca del mondo celeste. Fino ad un certo punto Aristotele riuscì a costruire un sistema deduttivo estremamente coerente introducendo variabili nel metodo o meglio, creando elementi di metodo capaci di integrare in esso la maggior parte della realtà (vedi il concetto di sostanza-soggetto). Come avviene sempre nella speculazione matematica, le risposte a nuovi problemi vengono alla luce con nuovi teoremi, introducendo variabili di calcolo prima impensate. Mai, prima, il filosofo aveva fatto ricorso ad IPOTESI. Nulla di ciò che troviamo scritto sugli esseri viventi fuoriesce dall’ambito dell’esperienza visiva, dalla diretta constatazione. Ovviamente, ciò non è più possibile volendo indagare su fenomeni che escono dal nostro orizzonte immediato, come il mondo celeste. La sua determinazione a confutare la dialettica platonica fondata sulla pura matematica (mi riferisco al dialogo Timeo e alla teoria platonica della creazione) porta il nostro filosofo a dare per certo ciò che non si vede, ovvero l’esistenza di un quinto elemento – l’ETERE – che permea tutto ciò che è tra la luna e le stelle. I corpi celesti, composti di una materia purissima (quale e perché?), sono incastonati in una serie di sfere eteree che ruotano di un eterno moto circolare attorno alla Terra. Come sempre, ad Aristotele interessa il processo più che la verifica, la logica causale più che l’analisi sperimentale dei fatti. Che i pianeti, visti dalla Terra, non ruotino di un perfetto moto circolare era già noto ma Aristotele non era un astronomo, così come non era un biologo, e il calcolo matematico era estraneo al suo metodo. Poco dopo di lui, l’astronomia ellenista chiamò «gli erranti» i pianeti allora conosciuti, proprio a causa del loro moto assai complesso che traccia nel cielo notturno percorsi contorti e retromarce apparenti; la meccanica celeste divenne in breve tempo uno dei problemi più controversi della scienza astronomica e il sistema aristotelico dovette subire diversi attacchi.
Il punto è questo: la coerenza logica della deduzione non può essere disturbata dall’apparire di fattori secondari che ne minino la rigidità. Ciò apparve evidente molto tempo dopo, nel canto secondo del Paradiso di Dante Alighieri: giunto nel cielo della luna, il Poeta interroga Beatrice sulla causa delle macchie visibili sulla superficie dell’astro (nota: per tutta l’antichità la luna fu considerata un pianeta, come Marte e il sole stesso). La domanda è: come può un astro purissimo essere deturpato da imperfezioni? Intriso di scienza scolastica – ovvero delle dottrine pseudo scientifiche della teologia cattolica desunte dai trattati aristotelici – Dante non si dà letteralmente pace su questo paradosso. Il presupposto era che Aristotele non può mentire: come vedremo, la sua Metafisica offriva una felice dimostrazione filosofica della natura trascendente e perfetta di Dio, ma soprattutto la deduzione sillogistica non permetteva di dubitare dell’evidenza delle conclusioni, pena l’essere tacciati di pazzia (insipienza). Se sulla luna appaiono delle macchie è perché la nostra vista è imperfetta. In conclusione: la ferrea logica aristotelica divenne, col tempo, una gabbia soffocante capace di trasformare ciò che era stato scritto dal Maestro di color che sanno (Aristotele nel canto IV dell’Inferno) in un dogma inconfutabile dalla stessa ragione.
Naturalmente il filosofo greco non era responsabile di tutto questo. Altre volte accadrà nella storia del pensiero che a una dottrina filosofica venga attribuita la responsabilità di eventi successivi (accadrà a Marx, a Hegel e a Nietzsche); nel caso di Aristotele occorre tenere ben presente che il De caelo ci è giunto sotto forma di appunti per lezioni e che la stessa Metafisica è composta da una serie di “quaderni” molto distanti tra loro nel tempo e a volte anche leggermente contradditori. La ricerca aristotelica fu un autentico cammino progressivo, fatto di ripensamenti e aggiustamenti, volto certamente alla definizione di un sistema coerente, ma mai giunto ad essere definitivo, cioè rappresentato da un testo compiuto. Sia la Fisica che la Metafisica come le conosciamo noi sono opera di svariate ricostruzioni successive, di ipotesi basate su una interpretazione del suo pensiero.
Tornando dunque al problema, il moto dei corpi celesti è circolare perché, secondo Aristotele, non possiamo confutare ciò che è evidente, anche se questa evidenza appariva già allora, agli occhi degli specialisti, un tantino superficiale. L’opinione meno contradditoria e più diffusa circa la forma dell’universo costringe, possiamo dire, il nostro filosofo a chiudersi in una “camicia di forza” di dimostrazioni che portano il suo sistema dall’ambito della fisica a quello della metafisica, approdando così a un universo puramente intellegibile. La causa del movimento rettilineo degli elementi (il cosiddetto “moto sub-lunare”, cioè di tutto ciò che appartiene all’ambito terrestre) ha una sua logica intrinseca (ogni elemento torna al luogo di sua competenza naturale se ne viene rimosso); ma quale può essere la causa di un moto tanto diverso e imponente come quello degli astri?