La filosofia greca/Logica e scienza

Indice del libro

Molto di quanto ho scritto nel capitolo precedente merita di essere ulteriormente approfondito. Innanzitutto la confutazione aristotelica del mondo delle idee non è una semplice presa d’atto (del tipo: le idee non esistono perché non si vedono) ma un processo deduttivo assai articolato e complesso. D’altronde, il giovane allievo non fu espulso dall’Accademia alla stregua di un indesiderato, ma vi rimase per molti anni portando avanti le sue argomentazioni logiche. In secondo luogo, l’affermazione che la verità è in ciò che si dice (è vera o falsa una proposizione, non un fatto) richiede alcuni passaggi intermedi che ora cercherò di chiarire.

Aristotele non rinnegò mai il metodo dialettico; piuttosto, se ne allontanò progressivamente approfondendo l’osservazione della natura e progredendo nella sua metafisica. Oltre al fatto che egli stesso fu autore di alcuni dialoghi, poi andati perduti, occorre dire che la sua stessa teoria logica pone le basi nel principio dialettico della confutazione. Per Aristotele, in questo fedele all’insegnamento accademico, l’oratoria dialettica ha lo scopo di sottoporre una tesi alla rigorosa ricerca delle sue contraddizioni attraverso il confronto tra due punti di vista opposti. Se una tesi è confutabile, allora è falsa. Qualcosa di simile a quanto affermò nel Novecento il filosofo inglese Karl Popper in merito alla scienza: una teoria scientifica è corretta finché non viene dimostrato che è falsa (che contiene degli errori). Il punto è questo: come dev’essere formulata la tesi iniziale? Si può partire da un’affermazione qualunque? È necessario confutare che “la luna è un formaggio”? Per i Sofisti la confutazione è un gioco retorico fine a se stesso, è la dimostrazione del principio secondo cui nulla è conoscibile o, al massimo, che un’opinione è vera quando si dimostra utile per qualcuno. Non così per Aristotele. Una tesi è sempre un principio rilevante “per la maggior parte degli uomini”, almeno per quelli “saggi” e la sua confutazione deve mirare a una conoscenza più alta, certa, non al vantaggio personale. Si può discutere così se “le idee esistono”, perché tale è la convinzione dei più “sapienti”, allo scopo di mettere alla prova la consistenza di tale convinzione. Come disse lo stesso Aristotele, “Amicus Plato, magis amica veritas”: tutto il rispetto per Platone, ma la verità è più importante.

Ma la dialettica, come si intuisce da quanto ho detto, non giunge a nulla di nuovo. Al massimo distrugge una falsa idea, ma non fornisce alcuna nuova certezza oltre a quella di scoprire che ci eravamo sbagliati. Il cammino della conoscenza non può girare a vuoto. Almeno, non è questa la vocazione della filosofia. Platonicamente parlando, la conoscenza è un cammino verso l’alto, è un progredire dell’intelletto verso certezze sempre più inconfutabili. Una tesi (inconfutabile) per Aristotele deve produrre nuove conoscenze. Il cammino della logica non vuole giungere a una tesi, ma partire da essa, come da una premessa che va poi sviluppata per ricavarne nuove verità. Per riuscire in ciò, ci vuole del metodo. La conoscenza deve divenire scienza (greco: epistheme) e la scienza è logica applicata. Una tesi è vera dunque solo quando è evidente per tutti. Come il famoso enunciato “tutti gli uomini sono mortali”. Certo, affermare che “tutti noi moriamo” non è una grande scoperta; ma per il momento non conta lo spessore di quanto si afferma, quanto sviluppare il metodo che porta da questa evidenza a qualcosa di diverso da essa ma altrettanto certo e inconfutabile. A qualcosa di “nuovo”. Questo metodo è il SILLOGISMO SCIENTIFICO, una procedura logica che, attraverso un corretto calcolo proposizionale, possa dimostrare che da un enunciato deriva necessariamente un altro enunciato e solo quello. Per secoli e secoli il sillogismo è stato il metodo logico (e scientifico) per eccellenza; per tutto il medioevo esso ha, potrei dire, imperversato in ogni campo del sapere, invadendo non solo le discussioni relative allo studio della natura ma anche quelle teologiche, portando all’affermazione estrema che fede e ragione si equivalgono (Abelardo, san Tommaso). Ma su questo torneremo al momento opportuno. Prima cerchiamo di capire cosa si intende per calcolo (o logica) proposizionale.

Non è necessario qui ricorrere ai complicati studi attualmente noti col nome di logica formale o proposizionale. Questa è una disciplina relativamente recente, sviluppatasi soprattutto nel Novecento in ambito logico e linguistico, e la sua trattazione ci porterebbe decisamente molto lontano da una normale storia della filosofia. È sufficiente dire che ogni linguaggio formale deve possedere delle regole di calcolo che permettano di associare i suoi simboli (le sue parole) a degli operatori, in modo tale che i dati iniziali vengano elaborati per produrre nuovi dati. Ad esempio: se “2” è un simbolo del linguaggio matematico e “+” è un suo operatore, associando “2” e “+” con un altro simbolo (un altro “2”) otteniamo un nuovo simbolo o una nuova parola di quel linguaggio: “2+2 = 4”. Secondo Aristotele, e secondo una parte importante della linguistica contemporanea (la “linguistica generativa” di Noam Chomsky), il linguaggio è un sistema formale che genera i suoi enunciati grazie ad un complesso calcolo combinatorio. I simboli sono i componenti di base del linguaggio (soggetto, predicato, complemento), le regole sono quelle della sintassi (soggetto “x” + predicato “y” = frase “xy”). Per tornare dunque all’esempio precedente, “tutti gli uomini sono mortali” è: a) un enunciato evidente, b) logicamente (o sintatticamente) corretto. Le due cose insieme lo rendono vero. Opportunamente rivisto, il concetto aristotelico di “verità” va dunque definito così: un enunciato (una tesi o premessa) è vera se (e solo se) dice correttamente qualcosa di evidente. Di più: che non è necessario dimostrare ulteriormente. Ciò che discende da una tesi è invece vero se applico correttamente le regole del calcolo sillogistico, le regole della dimostrazione. Se la scienza è conoscenza della verità, allora ogni scienza deve discendere da premesse necessariamente vere (che non è necessario dimostrare) attraverso l’applicazione formalmente corretta di alcune precise regole combinatorie. Nulla di più e nulla di meno.