La filosofia greca/Il mondo delle idee. Alla ricerca dell’Unità perduta II parte

Indice del libro

La natura dell’anima è stata così definita. Essa ha le proprietà dell’Essere ma non è Uno, Unità. Come dice Platone stesso, l’anima partecipa dell’Essere, ne fa parte; ma l’Essere può avere delle parti?

Tutto il pensiero platonico si avvita, dialogo dopo dialogo, attorno a questa contraddizione: l’anima è INDIVIDUALE, l’Unità non può che essere ASSOLUTA. La soluzione del problema dev’essere strettamente razionale, anche se il filosofo ricorre molto spesso al mito per farsi capire. L’anima è COME l’Essere, ma non è l’Essere. Detto in altre parole: essa può conoscere il Bene, ma non è il Bene.

A questo punto occorre spiegare lo scivolamento linguistico che Platone compie all’interno del discorso filosofico e metafisico. Il lessico originario della filosofia si è formato tra VII e V secolo attraverso spostamenti graduali; il concetto di Unità non è quello originale greco ma una sintesi successiva necessaria a tenere insieme alcuni termini diversi ma di uguale valore: arché, Uno, Logos, Nous, Essere. Anche Platone si pone il problema dell’Unità ma relega il concetto di Essere in secondo piano. Per motivi evidenti, egli non poteva non tenere conto di un dibattito ormai consolidato che opponeva i sostenitori dell’unità (seguaci di Parmenide) a quelli della molteplicità (materialisti e atomisti). Con grande onestà e concretezza, nei suoi dialoghi (Teeteto, Sofista e La repubblica) la figura di Socrate è faticosamente impegnata a districare le innumerevoli contraddizioni che entrambe le tesi comportano, e la sconfortante scoperta è che da tali contraddizioni non c’è uscita. Il concetto di Essere non è concepibile senza una definizione, ma ogni definizione aggiunge qualcosa al termine da definire, rompendone l’unità. L’Uno non può essere “Uno e…. qualcos’altro”. Tale acrobazia fu osata solo dalla teologia cristiana, con la definizione di Dio come uno e trino, cosa non spiegabile se non nell’ambito del mistero dogmatico. Ma è giusto, a questo punto, aprire una parentesi. La dialettica platonica non è totalmente affidabile sul piano logico. Per fare un esempio, possiamo dire di una mela due cose, che è “un frutto” e/o che è “rossa”; ma “frutto” è sostantivo, “rossa” aggettivo. Nel primo caso passiamo dal singolare all’universale (la mela è solo uno dei frutti), nel secondo ci limitiamo alla singolarità di una mela (non è la sua definizione, anche se usiamo lo stesso verbo “è”). La differenza non è irrilevante. Come dirà Aristotele, la sintassi non è un’opinione. E allora, dire che “l’Essere è” forza la sintassi verso esiti contradditori, perché faccio un uso ambiguo di due voci dello stesso verbo, addirittura trasformando un verbo all’infinito in un sostantivo (vedi: Il mangiare mangia (!?)). È vero che possiamo dire “il mangiare” e “lo scrivere”, ma in questi usi sostantivati del verbo l’articolo è pleonastico, superfluo. Non così invece col verbo “essere”, che i filosofi greci hanno piegato alle loro esigenze argomentative (L’Essere). Il problema dunque sorge dall’uso improprio della sintassi, e all’interno di essa – cioè del discorso sintatticamente corretto – non può trovare soluzione. Dire “l’Essere è” è un errore sintattico, che la logica (il Logos) non può dimostrare.

Quello dell’unità dell’Essere rimase dunque un problema anche per Platone. Questa “sconfitta” costituisce però un punto di merito per il filosofo: salvare la ragione, il ragionamento, anche a prezzo di sacrificare i principi. Se il principio dell’Unità non è dimostrabile logicamente, allora inchiniamoci alla ragione (Logos) che ci ha permesso di scoprire ciò. Ma ogni sconfitta propone un modo diverso di vedere il mondo. A questo punto occorre dunque fare un passo indietro, non dimenticando che il motivo che spinse Platone a filosofare fu la morte di Socrate, una ragione POLITICA. Nei dialoghi il problema dell’Essere scivola, come dicevamo, verso un problema più pratico, quello dello Stato ideale (La repubblica, ovvero il governo dei filosofi). Una questione ETICA. Uno Stato ideale non può che essere uno Stato giusto, e la giustizia presuppone la conoscenza del Bene. Qui non c’è più contraddizione, o meglio: le obbiezioni possibili escono dal campo del Logos per farsi ragioni violente, prevaricanti. Non si può negare la giustizia, bene comune, senza essere ingiusti. Se la ricerca dell’unità dell’Essere porta in un vicolo cieco, il problema dell’unità del Bene è più a portata di mano.

Ma che cos’è IL BENE? Innanzitutto, per Platone è un’IDEA, vale a dire un concetto universale che raccoglie in sé molti casi particolari, tutti riconducibili a un unico modello appunto ideale. Vi sono idee per ogni cosa: l’idea di “uomo”, l’idea del “bello”, l’idea di “giustizia”, ma non sono tutte sullo stesso piano. Anche nel mondo delle idee esiste una gerarchia, un’idea che sovrasta tutte le altre illuminandole: l’idea del Bene. Come a dire: se non si può parlare di Unità, parliamo dell’Uno.