La filosofia greca/L’anima e le idee
Abbiamo una definizione dell’anima e dell’idea: anima, “la parte immortale o essenza dell’uomo”; idea: “genere massimo o forma unica di un molteplice”. In entrambi i casi, enti che partecipano dell’Essere. Occorre ora stabilire una relazione tra questi due enti.
La cosiddetta “teoria platonica delle idee” attribuisce all’anima il ruolo di soggetto agente, di “spola” tra l’al di là e l’al di qua.
Ancora una volta, il percorso filosofico che ci propone Platone non è scorrevole. Nello stesso dialogo sopra citato il personaggio di Socrate passa funambolicamente dal mito al Logos, dal racconto alla dialettica, il tutto per dimostrare che gli esseri umani non imparano ma sanno. Sanno ciò che l’anima ha già visto. Un altro mito, nel Fedro, spiega come. L’anima è (come) una biga alata, formata da due cavalli, uno docile e l’altro ribelle, il cui auriga è il Nous, l’Intelletto.
L’anima immortale ha contemplato le idee (forme) e quando ricade prigioniera del corpo, a causa del cavallo ribelle, ne porta in sé l’immagine (greco: eidos, idea). La conoscenza è dunque il ricordo di quanto già sappiamo.
Tutto molto semplice e molto poetico. Ma questa è ancora “filosofia”? Rileggiamo attentamente il brano citato. In esso si parla di “teoria”, “essenza”, “intelletto”, “scienza”. Alcuni di questi termini li abbiamo già incontrati, altri entrano con Platone nella conversazione filosofica (essenza, scienza). Possiamo affermare che la filosofia presta al mito una dimensione teoretica (contemplativa, speculativa). Ancora una volta constatiamo che il mito rende più immediato, intuitivo, ciò che la dialettica cerca di dimostrare. Quello che conta dunque non è il contenuto, ma la FUNZIONE del dialogo platonico. Una funzione, come diremmo oggi, divulgativa. Caso più unico che raro nella storia della filosofia. Per essere precisi, dunque, occorre avere ben chiaro che “l’anima” più che un concetto è una metafora; che quando Socrate parla di anima perlopiù ricorre al mito, mentre nel ragionamento dialettico il principio immortale dell’uomo è l’intelletto (Nous, termine ricavato da Anassagora). Il rapporto tra l’anima e le idee è quindi un rapporto intellettuale, fondato sulla possibilità di vedere ciò che non si vede. Ma questa possibilità va coltivata con una vertiginosa salita lungo i livelli della conoscenza, simile a quella del prigioniero della caverna.
La teoria della conoscenza (gnoseologia) platonica evidenzia, proprio nel mito della caverna, una deviazione importante. Quasi una spaccatura, un “tradimento” delle sue origini socratiche. Forse il motivo che fece allontanare Aristotele dall’Accademia, lui che era il più brillante e fedele degli allievi e probabile successore del Maestro. La differenza tra il mito del Fedro e quello della Repubblica è clamorosa: nel primo prevale la teoria della MAIEUTICA, quella secondo cui conoscere è ricordare e compito della filosofia (del filosofo) è suscitare dialetticamente nell’ascoltatore la memoria di ciò che è già innato in lui: l’idea. Nella Repubblica, al contrario, la conoscenza diviene qualcosa di simile ad un esercizio ascetico, a un isolamento progressivo dell’intelletto in una forma di conoscenza che non è neppure più comunicabile ma puramente contemplativa. La trascendenza platonica si colora quasi di misticismo. La causa fu, con una certa probabilità, l’ingresso nell’istituzione accademica di matematici (Teeteto e Eudosso), portatori di una visione speculativa prettamente pitagorica. Platone stesso favorì questa commistione, ritenendo che solo la padronanza della matematica poteva aprire la strada alla vera filosofia. Ma la matematica (in greco: mathesis) non è la dialettica. Di più: la matematica non è dialettica. La dialettica aggredisce i concetti e li scompone nelle loro componenti (genere e specie) per saggiarne la resistenza al principio di non contraddizione; la matematica al contrario fissa i suoi principi in forme eterne e immutabili, che l’intelligenza umana non può fare altro che contemplare nella loro perfezione. Per questo si parla di scoperte matematiche, come se le proprietà dei numeri e delle forme geometriche “esistessero” a prescindere dalla nostra capacità di vederle. Nel mito della caverna l’anima da attiva si fa passiva, da agente della conoscenza si fa “vaso” da riempire, o, meno prosaicamente, scintilla di luce destinata ad annullarsi nell’accecante luminosità del sole.