La filosofia greca/Le origini dello scetticismo
Il relativismo sofista non è solamente etico, ma anche gnoseologico. La necessaria conclusione dell’idea per cui non esiste una verità assoluta non può che essere quella per cui non esiste una conoscenza che sia valida per tutti. Questa capriola retorica però sposta l’argomentazione sofistica su un altro piano: se ciò che so vale solo per me, allora devo dubitare di ciò che conosco, non posso esserne certo. Fino al paradosso secondo cui “nulla è conoscibile”. Tipico esempio di argomentazione retorica.
Il dubbio circa il proprio potere conoscitivo, la negazione della possibilità di conoscere le cose in modo oggettivo è passato alla storia della filosofia col nome di scetticismo. A ben vedere, il dubbio che i sensi non bastino a dare una corretta rappresentazione della realtà era già implicito nei pensatori presocratici, da Talete in poi. Ciò che appare non è ciò che è: questa affermazione è alla base della filosofia stessa, della sua faticosa ricerca dell’Essere necessario e immutabile (ma non immediatamente conoscibile). Essere filosofi implica sempre una certa dose di dubbio e, soprattutto, implica una continua ricerca. La particolarità dello scetticismo sofista non è dunque nell’atteggiamento critico, ma in quello che potremmo definire un “nichilismo radicale”. La negazione assoluta di ogni possibilità di sapere e di agire in modo univoco porta a un circolo vizioso che non ha sbocchi, a una non-teoria, a un non-modello. Se tutto è possibile allora nulla è veramente possibile. La ragione stessa del filosofare – l’argomentare logico e non contraddittorio – viene improvvisamente meno sotto i colpi di un uso soggettivo del Logos, della sua strumentalizzazione retorica, della sua manipolazione “tecnica”. La domanda è: il Logos può essere soggettivo? Possono davvero sussistere un “discorso” mio e un “discorso” tuo, riferiti allo stesso oggetto, entrambi veri anche se opposti? Sappiamo che il fondamento della logica sta nel principio secondo cui non posso affermare, di una stessa cosa, che è e nello stesso tempo che non è. Se ciò avvenisse non ci sarebbe più comunicazione, conoscenza, sapere, ma un mondo di individui slegati e incomunicanti. Semplicemente, il parlarsi non avrebbe più scopo alcuno. Per accettare questo occorre presumere una società fondata sul conflitto, sulla prevaricazione, sull’individualismo. Il carattere della democrazia ateniese a meno di un secolo dalla sua nascita. La difesa del Logos assunse quindi, ed assume ancora oggi, un carattere politico: la necessità di un “discorso giusto” come fondamento di una società giusta[1]. Si può pensare, alla luce di questi fatti, che i “veri” filosofi, i sostenitori del Logos, non avessero più spazio ad Atene. Il relativismo etico, tutto sommato, è un atteggiamento che richiede meno fatica, un minore sforzo intellettuale. È una giustificazione nichilista della propria impotenza. A riprova di ciò sta la vicenda di Socrate, condannato a morte per la sua opposizione a una tale deriva intellettuale e politica. Sia ben chiaro: Protagora e Gorgia furono per Socrate avversari di grande livello intellettuale, a volte “imbattibili”, come si narra in uno dei massimi capolavori di Platone, nel dialogo intitolato a Gorgia. Ma la loro eccellenza non ha confronto con la moltitudine dei piccoli imitatori che riempivano le piazze di Atene con le loro chiacchiere scadenti e a volte francamente ridicole, come ancora si può leggere in un altro dialogo platonico, l’Eutifrone. Smontare le argomentazioni retoriche dei sofisti non era difficile, a volte con la semplice ironia, di cui Socrate fu maestro; altre, mettendo in mostra tutta la forza pregnante di una corretta applicazione della logica. Vediamone un esempio. Nel dialogo intitolato a Protagora, Platone sottopone ad una ferrata argomentazione logica le contraddizioni del grande sofista. Platone sostiene che affermare che nessuno conosce niente, cioè che l’ignoranza è assoluta, è falso, perché se affermo che c’è l’ignoranza assoluta, cioè l’assoluto non sapere, PRETENDO DI SAPERE QUALCHE COSA, cioè pretendo di sapere che c’è il non sapere. Quindi qualcosa so. E ancora: se affermo che tutto è falso (specularmente al fatto che tutto è vero), potrò accettare che anche la mia affermazione sia falsa? Se dico che “tutto è falso”, come minimo pretenderò che la mia affermazione sia vera. Ma attenzione: se ammetto che anche la mia affermazione è falsa, allora non è vero che tutto è falso. Insomma: al principio di non contraddizione non si sfugge. Anche quella che Platone utilizza è naturalmente una “tecnica”, la tecnica del ragionamento; ma la differenza è sostanziale. Mentre la retorica sofistica non ha sbocchi conoscitivi, non si preoccupa di formulare una teoria, la logica è sempre al servizio di una ricerca, di una teoria volta alla definizione di concetti e leggi universali[2].