La filosofia greca/Il filo del Logos
In questo ennesimo tentativo di trovare un filo conduttore, una logica o una coerenza, in quella che viene chiamata “Storia della filosofia”, non ho fatto altro che assumermi la responsabilità di una interpretazione. Com’è sempre stato. L’idea che l’Uno – l’Unità – sia La domanda, o il problema, dipende in gran parte dalla mentalità scientifica dei nostri tempi. La scienza ci ha portati a credere che la molteplicità delle cose, della materia, di tutto ciò che è, sia riconducibile a un unico principio, a un inizio, a un solo modo di essere del tutto: l’infinitesima piccolezza da cui discende il Big Bang. È questa un’ipotesi che ha fondamenti logici e matematici, gli stessi che la grande metafisica classica ha posto a condizione della verità. Come ormai sappiamo, l’immaginazione collettiva dipende dalla Storia, e la nostra Storia è questa e non altra. Né Galileo né Einstein, né Hegel né Heidegger avrebbero potuto “immaginare” le cose diversamente. Se poi esploriamo altre culture e altri modi di essere umani, scopriamo che difficilmente il pensiero ha percorso strade alternative alla ricerca dell’Unità: il Tao cinese ne è un esempio.
Lungo questo filo conduttore sono spuntati alcuni nodi che hanno, di volta in volta, deviato l’attenzione dei pensatori verso ipotesi alternative. Ma ogni nodo non è altro che un attorcigliamento che torna a se stesso. Si può pensare l’Uno come statico o come dinamico, ponendo il divenire come fondamento delle cose, ma il divenire è esso stesso un principio, un’essenza. Non c’è via d’uscita. Tra il VII e il IV secolo avanti Cristo molte cose, naturalmente, sono cambiate. L’immaginazione umana è un’incubatrice di idee, e un numero infinito di esse sono sorte e non hanno avuto durata, a fronte di alcune poche fortunate e tenaci. Perché un’idea sopravviva servono strumenti adatti a comunicarla. Se venga prima lo strumento comunicativo o l’idea è un dilemma simile a quello dell’uovo e della gallina: diciamo che in alcuni casi fortunati (o fortuiti) idea e linguaggio si incrociano, dando forma a un pensiero.
La Storia della filosofia è una dimostrazione di questo fenomeno: l’idea di Unità si è costituita in Grecia a partire da una parola, Archè, che come un seme ha creato una nuova vita: quella della ricerca razionale. “Arché” è una parola antica, che indica l’origine e il potere – la paternità. Il linguaggio della filosofia è nato da uno spostamento di senso: alcune parole hanno cambiato il proprio oggetto di riferimento, passando da un’area semantica ad un’altra; in questo caso, dal mito al logos. Se l’arché mitica era il dio fondatore (archos - archaios), nella nuova visione del mondo nata con la filosofia il termine si sposta a indicare un ente elementare, una qualità della natura che possiede in sé tutto ciò che è possibile.
Ma l’Uno come unicità non è ancora l’Unità. Il dibattito arcaico prosegue lungo il filo degli enti di natura – aria, acqua e anche il fuoco di Eraclito – ma fatica a consolidarsi attorno a un principio assoluto, non confutabile. Ancora una volta, tale principio va cercato in un altro ambito, in un'altra area semantica: quella dei numeri. “Uno” è un concetto ma è anche un numero, Il numero. Con Pitagora, la ricerca filosofica approda a un livello di astrazione che le è più congeniale. Il numero 1 non è un attributo di nulla, ma è ovunque vi sia la possibilità di misurare e di numerare. Il numero raccoglie (leghein) tutto ciò che è – le stelle e la musica – in un ordine superiore di verità non confutabile.
La filosofia dunque astrae; Eraclito scrive: «la natura ama nascondersi», con l’atteggiamento di chi sa che ciò che appare non è la verità. La ricerca filosofica è questa ricerca di una via d’uscita dall’incertezza, dall’ambiguità, dalla contraddittorietà delle esperienze puramente sensibili. La ricerca della verità, di qualcosa che non è una volta questo e una volta quello, di qualcosa che è sempre. Il filosofo sa che l’esperienza non offre nulla di simile, che anche la riduzione più materialistica dell’universo (l’Atomismo di Democrito) astrae dai sensi e si fonda sul ragionamento, sull’astrazione. Anche l’atomo, per quanto materico sia, è un’ipotesi nata da un ragionamento. E se la verità fosse “nel” ragionamento? Questa possibilità la intravede Parmenide, pur nell’ambiguità profetica del suo poema. La svolta della filosofia classica ruota attorno a un enunciato - «[che] è e non può non essere» - tanto oscuro quanto fondamentale: la proclamazione del principio di non contraddizione. Un fondamento logico tanto universale quanto lo sono i numeri. Qualcosa che la ragione non può aver inventato ma ha scoperto perché radicato nel suo stesso modo di essere. Da Parmenide, immaginare e ragionare non sono più la stessa cosa: si può mentire persino sugli dei, ma non si può mentire ragionando. Un’osservazione: Parmenide non parla dell’Essere; il verso del suo poema infatti suona: «ἠ μἐν ὃπως ἒστιν τε και ὡς οὐκ ἔστι μἡ είναι» (e men òpos èstin te kai ouk èsti me einai) – letteralmente: “la prima [due punti] che è e che non è non essere”. Il contenuto di questo verso non ha nulla di metafisico: è semplicemente la constatazione logico-sintattica che se di qualcosa dici che “è”, non puoi contemporaneamente affermare che “non è”. Il problema dell’Essere in quanto Essere è posteriore a Parmenide… se mai è esistito.
L’avvento della Polis, e di Atene in particolare, nello scenario storico, trasforma la conversazione filosofica in modo piuttosto pesante. Da discorso erudito il pensiero filosofico si fa polemica – polemos – nel senso politico del termine. Con Socrate la filosofia “si impegna” nella città, nel mondo, piegando le esigenze del ragionamento sotto quelle più stringenti della convivenza. La vita civile insegna che nel mondo umano non c’è unità ma contraddizione, divergenza, relatività (sofistica). È un passo di lato della filosofia che apre un nuovo orizzonte di ricerca: quello del Bene o della felicità. Un orizzonte che non coincide strettamente con quello delle origini pur intrecciandosi anche in modo indistricabile con esso, come in Platone. In effetti, la filosofia platonica (che investe, come modo di pensare, diversi secoli di storia), è il più possente tentativo di stringere in un unico sguardo la verità e il bene, l’unità e la felicità. Poi, venne Aristotele.
Raffaello, nella sua visionaria Scuola di Atene, ha dato corpo al giudizio della storia, che ha voluto separare in modo addirittura divergente le due colonne del pensiero occidentale: il platonismo delle idee e l’aristotelismo delle cose (degli enti). Una delle tante superficialità del “passa-parola”. In realtà, tra i dialoghi di Platone e la Metafisica di Aristotele il filo del Logos si avvolge su se stesso come una molecola di DNA, la molecola fondamentale alla base di tutte le teorie filosofiche successive. Tra la matematica del maestro e la logica del discepolo la differenza non sta nel modo in cui guardare al problema, ma negli strumenti da utilizzare; come oggi sappiamo, i numeri e le parole sono regolati da un principio comune, quello combinatorio, che permette di ordinare le conoscenze lungo il filo del discorso e della dimostrazione. Le descrizioni dell’universo fatte attraverso i numeri o i termini della fisica coincidono; possiamo “vedere” nelle formule matematiche un esperimento galileiano e descrivere in modo appropriato qualcosa che è al di fuori della nostra portata (la galassia, la velocità della luce, gli atomi). Sono proprietà del pensiero che ci investono radicalmente e che non conosceremmo senza il Timeo di Platone o il Libro Gamma della Metafisica. Ma tutto questo non chiude il discorso della filosofia. I geni di Socrate hanno lavorato lungo i testi dei suoi successori, aprendo – come dicevo – una seconda via di ricerca. Quella dell’Etica. Vediamo dunque dove ci ha condotti.