La filosofia greca/La filosofia e la vita quotidiana

Indice del libro

Questa micro-storia della filosofia è iniziata con la domanda: “chi è il filosofo?”. La risposta fu: è un pensatore che non si pone scopi immediati, se non quello di indagare la realtà in quanto tale, il perché di “tutte le cose”. Alla luce di quanto visto finora, tale risposta appare sufficientemente adeguata. La Grecia pre-classica ebbe poeti, politici illustri, matematici, e poi filosofi, non classificabili altrimenti. Uomini cioè dediti alla pura speculazione. In realtà questa narrazione storica è frutto più di incertezza che di fatti. Dei cosiddetti “presocratici” infatti conosciamo molto poco, se non nulla. Allo stato delle cose, di nessuno di essi sappiamo chi realmente sia stato, né tanto meno cosa abbia fatto. Della loro vita possediamo narrazioni postume, molto spesso confuse e “di maniera”. Con l’Atene del V secolo a.C. entriamo a tutti gli effetti nella Storia. Aumentano cioè i documenti storici attendibili e certificabili, le testimonianze reali circa eventi e persone; le diverse narrazioni si moltiplicano e si intrecciano, dandoci un quadro più concreto del contesto in cui operarono personaggi divenuti famosi, uomini politici, artisti e intellettuali. Ciò può spiegare come mai, “ad un tratto”, sembra che la filosofia entri nella vita quotidiana dei Greci.

Trattandosi dell”Età di Pericle”, di un’epoca cioè fatta di grandi innovazioni sociali, non può stupire il fatto che teatro della nuova filosofia diventi la politica. La Polis per antonomasia, Atene, diviene il centro di un’intensa attività “politica” (il termine stesso nasce come concetto filosofico): la partecipazione democratica al governo della città generò necessariamente un potente dibattito intellettuale, uno scontro tra idee e visioni del mondo alternative, teorie filosofiche volte alla definizione circa la natura del “cittadino” (l’uomo come Essere politico(greco:politikòn zôon), secondo la definizione di Aristotele[1]). Il problema dell’Origine viene temporaneamente oscurato da una domanda più urgente: chi è l’Uomo (l’essere umano)? Dobbiamo a Protagora la risposta più stringente e innovativa: «L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono». In questa affermazione c’è tutta la forza di una città uscita vittoriosa dallo scontro titanico contro i Persiani e da una rivoluzione politica e culturale senza precedenti. L’Uomo e non più il Mondo (la totalità, l’assoluto), il soggetto e non più l’oggetto. In poche parole: la verità non dipende dalla cosa ma da come la si guarda. Affermazione che, al giorno d’oggi, appare familiare e convincente. Ma occorre riflettere molto sul suo senso.

Intanto, chi è l’essere umano (greco: anthropos) posto da Protagora al centro della nostra attenzione? Ci sono tre possibilità: 1) il singolo individuo; 2) il cittadino ovvero il membro di una comunità; 3) l’essere umano in quanto tale (tutti gli uomini). Sono tre possibilità abbastanza differenti.

  • Il singolo (è misura di tutte le cose). Di tutte e tre, questa è sicuramente l’interpretazione più radicale. Con essa si arriverebbe ad affermare che non esiste una verità, ma solo opinioni, cioè interpretazioni diverse e, attenzione, tutte valide.
  • Il cittadino (di Atene, di Sparta, Persiano, Egizio, ecc.). Ogni individuo fa parte cioè di una comunità di pensiero con i propri valori e le proprie verità. C’è uguaglianza nella differenza. Non per caso Erodoto, il primo storico propriamente detto, fu un contemporaneo di Protagora.
  • 3) L’essere umano in quanto tale. Questa ipotesi di senso giustificherebbe la definizione di rivoluzione antropologica attribuita al pensiero protagoreo. Non è più l’Essere il principio di ogni cosa, ma la mente umana, la sua capacità di attribuire un significato alle cose. La verità deriverebbe così dal modo in cui l’uomo conosce.

In tutti e tre i casi, comunque, notiamo una particolarità essenziale: il Logos (la ragione) non è più una forza indotta nell’uomo e uguale per tutti; esso diviene una forza umana che agisce nella realtà, modellandola. Non un meccanismo innato, utile a ragionare, ma uno strumento utile ad agire. Soprattutto, ad agire politicamente. L’agire democratico è uno scontro di opinioni, nessuna delle quali ha più diritto delle altre a dominare. Quello di Protagora è un capovolgimento di prospettiva destabilizzante. L’essere umano non è determinato da alcun principio, ma è il creatore dei suoi principi. Una rivoluzione la cui causa non poté essere che la storia, il ribaltamento di vita e di abitudini di una comunità, l’esigenza di affermarsi in una realtà completamente mutata. Succede quando la vita reclama la sua priorità sul pensiero, quando la filosofia deve mettersi al servizio dell’uomo. Un concetto, quest’ultimo, che prese corpo nell’attività svolta da un nuovo tipo di intellettuale: il sofista.

Protagora e Gorgia, con Prodico e Ippia, furono la punta dell’iceberg di una generazione di nuovi “sapienti” (in greco: sophoi) dediti ad una attività pubblica, ad un impegno intellettuale proposto come professione. Un lavoro, il loro, collaterale all’attività politica dei cittadini di Atene. Filosofi ma praticanti al servizio di chi poteva permettersi di ricompensare quella che oggi chiameremmo una “consulenza” professionale. Al sofista era richiesto di definire il nuovo orizzonte delle relazioni umane e di insegnare una “tecnica” politica, quella necessaria a convincere l’assemblea circa il valore delle proprie opinioni. Saper argomentare, in politica, è spesso più importante che conoscere e dire la verità. La verità, per i sofisti, è ciò che è utile per il bene comune, non è né eterna né immutabile; non è Unica, non è Assoluta. Essa si esprime vivendo e ha i suoi confini nella condivisione.

Note modifica

  1. Politica I, 2, 1253a