Ebraicità del Cristo incarnato/Logoi giovannei

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"San Giovanni Evangelista", olio di Vladimir Borovikovskij, ca. 1804-1809

I Λόγοι giovannei e la presenza di Dio in Terra modifica

Gli studiosi hanno da tempo notato che i λόγοι (parole) di Gesù occupano un ruolo centrale nel Vangelo di Giovanni, rendendo il suo ritratto radicalmente diverso da quello dei Sinottici.[1] Per esempio, anziché presentare Gesù come un uomo prodigioso che fa miracoli, le cui le azioni parlano più delle parole, nel quarto vangelo i λόγοι di Gesù diventano prominenti.[2] Anche quando descrive i miracoli di Gesù, che Giovanni chiama come σημείων (segni), egli incornicia la narrazione intorno ai λόγοι di Gesù, non alle sue azioni.[3] Quando Gesù trasforma l'acqua in vino (2:1-11), quando guarisce il figlio di un funzionario regio (4:46-54), quando guarisce un paralitico (5:1-14), quando nutre i cinquemila (6:1-14), e anche quando risuscita dalla morte il suo amico Lazzaro (11:1-45), l'autore descrive questi σημείων come realizzati direttamente da ciò che dice Gesù.[4]

Nella sezione precedente, ho confrontato le descrizioni del logos di Filone e di Giovanni. L'ho fatto per sottolineare come entrambi gli autori leghino indissolubilmente il logos all'identità del sommo Dio di Israele, presentando al contempo il logos come capace di entrare nella creazione che Dio ha fatto. Ciò è significativo per gli obiettivi generali del mio studio perché illustra come entrambi gli autori ebrei del I secolo abbiano concepito il logos quale strumento mediante cui il divino poteva incarnarsi sulla terra. Qui continuo tale lavoro comparativo interpretando il Vangelo di Giovanni accanto a Filone d'Alessandria per illuminare il modo in cui lo scrittore del Vangelo rende Dio in forma tangibile anche attraverso la parola, o logoi, che Gesù pronuncia. Vale a dire, dimostro in che modo i λόγοι di Gesù in tutto il Vangelo lo posizionano come il tanto atteso Messia e indicano la sua identità come parte del Dio supremo di Israele, ma allo stesso tempo da Lui differenziato.

Per condurre questo lavoro comparativo, qui mi concentro su due aspetti principali degli scritti di Filone. In primo luogo, guardo alla sua allegorizzazione di Mosè come λόγος ἐνδιαθέτος, o il logos che rimane nella mente, e di Aronne come λόγος προφορικός, o il logos che è parlato, pronunciato, proclamato e incarnato nel mondo (Filone, Det. 38-40; 126; cfr. Abr. 83). Lo faccio per mostrare come Giovanni (alla pari di Filone rispetto alla figura di Aronne) presenta Gesù come uno che pronuncia in esistenza i logoi di Dio. In secondo luogo, esploro le descrizioni da parte di Filone del Dio di Israele come ὁ ὤν, o anche τό ὄν, derivante dalla descrizione di Dio ἐγώ εἰμι ὁ ὤν della Septuaiginta (cfr. LXX Esodo 3:14) per suggerire che l'autore di Giovanni presenta intenzionalmente Gesù come ἐγώ εἰμι, ὁ λαλῶν (Giovanni 4:26: "Io sono, colui che ti parla").

Sostengo che, come in Filone, anche nel Vangelo di Giovanni, il concetto di logos ha un duplice ruolo, che consente all'autore giovanneo di porre Gesù, il Figlio, nel ruolo di portavoce del Dio supremo di Israele. In particolare, quando la Parola (λόγος) diventa carne (σὰρξ) nella persona di Gesù (Giovanni 1:14,18), quelli che prima erano stati solo i pensieri di Dio possono ora improvvisamente essere pronunciati e uditi. In questo modo, Gesù funziona come il λόγος προφορικός di Filone. Cioè, attraverso le parole (λόγοι) che Gesù pronuncia, egli diventa il pensiero di Dio articolato, i pensieri di Dio pronunciati, i pensieri di Dio percepibili dai sensi uditivi, i pensieri di Dio profferiti nel mondo. Prestando attenzione alle parole di Gesù, i lettori vengono quindi ricondotti ai pensieri stessi del sommo Dio di Israele; le parole di Gesù rendono l'ineffabile, incorporeo, increato e sommo Padre Dio del Vangelo di Giovanni sia descrivibile che noto.

Inoltre, come dimostrerò, nel mettere Gesù in questo ruolo di portavoce di Dio, l'autore giovanneo differenzia anche l'identità divina di Gesù, il Figlio, da quella del sommo Padre Dio di Israele. In questo modo, come ho sottolineato nel Capitolo II, anche Giovanni – come altri autori ebrei del primo secolo – vedeva l'unicità di Dio in modo gerarchico, con il suo supremo Dio Padre in cima alla gerarchia divina e Gesù, il Figlio, che partecipava alla divinità del Dio supremo di Israele. In particolare, mentre l'autore del Vangelo presenta Dio Padre come qualcosa di simile a ἐγώ εἰμι ὁ ὤν [cioè I SONO, l'Esistente (cfr. LXX Es. 3:14)], rivelando che reputa il Padre quale divinità suprema di Israele — Giovanni presenta suo 9di Dio) figlio messianico, Gesù, come ἐγώ εἰμι, ὁ λαλῶν [cioè IO SONO, Colui che parla (cfr. Giovanni 4:26)], descrivendo così Gesù in un ruolo minore in termini di gerarchia divina (cfr. Capitolo II). Pertanto, sebbene i due condividano la stessa identità divina, segnalata dall'uso della frase ἐγώ εἰμι (IO SONO), hanno comunque ruoli diversi. Il primo, come "l'Esistente" di Filone, (cfr. Capitolo II), rimane incorporeo e trascendente nei cieli, mentre il secondo, o "Colui che parla", si incarna e si attiva nel mondo creato, indicando agli altri sia la propria identità divina sia suo Padre, il Dio supremo di Israele, mediante le parole che pronuncia. Ciò è significativo perché rende a Gesù il potere della salvezza e del giudizio divini; di conseguenza, attraverso le sue parole, quindi – più che attraverso le sue azioni – il Gesù giovanneo funziona come portavoce della divinità incorporea, increata e suprema di Israele nel mondo creato e corporeo che Dio ha fatto.

Nel fare queste affermazioni, non sto suggerendo che nessuno dei due autori fosse a conoscenza dell'esistenza dell'altro, o che il Vangelo di Giovanni, dal momento che postdata il corpus di Filone, mostri una dipendenza diretta dagli scritti di Filone.[5] Piuttosto, leggendo questi due autori ebrei del primo secolo all'incirca contemporanei alla luce l'uno dell'altro, nonostante abbiano composto le loro opere nel periodo della distruzione del Secondo Tempio nel 70 e.v., spero di offrire una nuova prospettiva sul lungo dibattito riguardante introduzione del logos/cristologia nel prologo del Vangelo e della sua apparente assenza nel resto dell'opera. Con studiosi come Robert Gundry, io sostengo che il logos/cristologia continua chiaramente in tutto il Vangelo tramite le parole di Gesù.[6] Tuttavia, contra Gundry, ciò non suggerisce un forte settarismo da parte dell'autore giovanneo e della sua comunità, o per lo meno, non si può dire che Giovanni abbia fatto una separazione radicale dalla più ampia "ebraicità" dei suoi giorni.[7] Invece, almeno in termini di ideologia, il Vangelo di Giovanni condivide profonde risonanze con Filone, suggerendo che il primo era molto molto abituato e consapevole di un più ampio discorso teologico ebraico su come Dio, il creatore supremo (e incorporeo) di Israele, potesse connettersi con la creazione corporea che Egli aveva fatto. Mentre l'autore giovanneo mappa queste nozioni sopra la figura di Gesù, non è necessario pensare che – al loro inizio – queste idee fossero non ebraiche. Le sottili distinzioni tra Dio Padre e Gesù Figlio, in particolare rispetto al logos, erano già presenti nel mondo ebraico-ellenistico ai giorni di Giovanni, indicando come, sebbene distintivo, il Vangelo di Giovanni presenti un altro mezzo con cui un ebreo del primo secolo capiva che una parte del Dio d'Israele poteva incarnarsi sulla terra, anche se, in questo caso, il nesso di quell'incarnazione non era altro che la figura di Gesù.

Leggere Giovanni alla luce di Filone: Gesù come sia come λόγος ἐνδιαθέτος che λόγος προφορικός modifica

Leggendo il Vangelo di Giovanni alla luce della duplice allegorizzazione di Mosè e di Aronne come λόγος ἐνδιαθέτος e λόγος προφορικός, ciò che viene alla ribalta è una nuova lettura di come Giovanni presenti una forma incarnata di Dio sulla terra, non solo attraverso la sua personificazione (cfr. Giovanni 1:14,18), ma anche attraverso le sue espressioni verbali. In particolare, quando il prologo descrive Gesù come la Parola (λόγος) fattasi carne (σὰρξ) (Giovanni 1:14,18), i pensieri ineffabili di Dio l'Altissimo di Israele vengono improvvisamente uditi attraverso i λόγοι pronunciati da Gesù. Pertanto, il logos/cristologia del Vangelo non si limita al prologo, ma continua a svolgere un ruolo fondamentale per tutta l'opera.

Filone discute spesso del λόγος in tutte le sue opere, ma qui mi occupo dei punti specifici in cui separa il λόγος in due parti in modo che possa funzionare sia come parte del suo Dio supremo, operando come pensieri o razionalità di Dio, sia come parte del mondo creato, dopo essere stato espresso verbalmente in esistenza corporea. Per fare ciò, Filone distingue tra ciò che descrive come λόγος ἐνδιαθέτος e λόγος προφορικός. Filone descrive il primo come il "pensiero [o: discorso], che è concepito interiormente (ὁ ἐνδιάθετος)" (Abr. 83). Cioè, il λόγος ἐνδιαθέτος funziona come i pensieri, o la ragione, che rimangono nella mente di Dio. Poiché Filone concepisce il Dio supremo di Israele come incorporeo e increato (vedere il Capitolo II), anche i pensieri o la ragione di Dio devono, per definizione, rimanere incorporei e non-creati. In contrasto, Filone raffigura il secondo come il "discorso pronunciato (προφορικὸν λόγον)", o parole che Dio enuncia in esistenza. Poiché Filone concepisce tutto ciò che è percettibile ai sensi come corporeo e creato, per definizione anche il discorso pronunciato – che può essere percepito dai sensi, e dal senso dell'udito in particolare – deve essere creato e corporeo. Quando i pensieri di Dio diventano parole pronunciate, il λόγος si trasforma. L'atto stesso di parlare trasforma i pensieri incorporei di Dio in realtà tangibili; tramite il mezzo del suono, entità percettibile dai sensi, essi vengono vissuti corporalmente.

In Abr. 83, in particolare, Filone offre un esempio lampante di come si manifesta questa duplice differenziazione, sottolineando diversi momenti temporali nella vita del λόγος:

« Poiché il discorso concepito all'interno [cioè il pensiero interiore (γὰρ ὁ ἐνδιάθετος)] è per sua natura padre di ciò che viene pronunciato, essendo più vecchio e il segreto meglio delle cose dette (τὰ λεκτέα). »
(Abr. 83)

In questa analogia, Filone concepisce dapprima il λόγος come un'idea incorporea, che rimane nella mente di Dio, e poi la vede entrare nel mondo corporeo, che spesso descrive come il mondo percettibile ai sensi, dove assume nuova vita come espressione parlata, pronunciata. Filone separa così il ruolo del λόγος in due parti: in primo luogo, esiste come parte essenziale e costitutiva del sommo Dio di Israele; e in secondo luogo, entra nel mondo creato attraverso l'atto stesso del discorso. Una divisione temporale separa così le due istanze del λόγος: la prima funziona come genitore della seconda.

Filone spiega ulteriormente il significato di queste due forme di λόγος quando esamina i capitoli 3–4 dell'Esodo. In effetti, Esodo 4:15-16, e il suo più ampio contesto letterario di Esodo 3-4, svolge un ruolo importante per Filone. Nella trama originale di questi due capitoli, dopo che Mosè incontra il Dio vivente in un roveto ardente che non viene consumato dalle sue fiamme (Esodo 3:2-6, cfr. Esodo 3:13-18), Dio recluta attivamente Mosè come suo emissario davanti al Faraone a nome del popolo israelita (Esodo 3:7-10). Mosè, tuttavia, esprime riluttanza a questo compito, offrendo a Dio una serie di scuse secondo cui egli non può avvicinarsi al faraone egiziano in questo modo (Esodo 3:11,13; Esodo 4:1,10). Tali scuse culminano quando Mosè dichiara a Dio che non può andare perché gli manca l'eloquenza (Esodo 4:10):

« Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua. »

In particolare, afferma di essere impacciato nel parlare e nella lingua e chiede che Dio mandi qualcuno al suo posto (Esodo 4:10,13). In risposta, Dio si adira con Mosè e suggerisce poi che suo fratello Aronne lo accompagni (Esodo 4:14). Dato che Mosè non se la sente di andare da solo, i due possono andare insieme; Mosè può informare Aronne di ciò che deve dire, e Aronne può parlare in sua vece (Eso 4:15-16).

Invece di interpretare letteralmente porzioni di Esodo 4, Filone allegorizza i riferimenti a Mosè e Aaronne in questo capitolo di Esodo, in modo che siano esempi di λόγος ἐνδιαθέτος e λόγος προφορίκος, rispettivamente. I suoi commenti in Det. 126, iniziano a suggerire questa direzione:

« E questo sarà chiarito dall'oracolo che era stato dato al saggio Mosè, che comprende queste [parole]; "Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlar bene. Anzi sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo". Poiché il Creatore dice di sapere che il discorso pronunciato (τὸν προφορικὸν λόγον) è un fratello della mente, poiché parla; poiché l'ha creato, proprio come un organo della musica, che è un suono (ἠχήν) articolato di tutto il nostro essere. »
(Det. 126)

Nella prima metà di questo stralcio, Filone fa riferimento alla storia biblica che ho descritto sopra, citando in particolare Esodo 4:14. Nella seconda parte, tuttavia, fa qualcosa di più. Qui, Filone suggerisce che Mosè, come λόγος, rimane nella mente, ma poiché suo fratello AronNE parlerà per lui, le sue parole diventano una forma di "discorso pronunciato (τὸν γὰρ προφορικὸν λόγον)". Una volta che questo discorso (λόγον) diventa suono articolato (ἠχήν), entra nel mondo della percezione sensoriale, immettendosi in questo corpo concreto e quindi non rimanendo più nel reame incorporeo.

In Det. 38–39, Filone rende più esplicita la distinzione tra Mosè e Aronne, riferendosi nuovamente a Esodo 4. Dopo aver accennato brevemente alla mancanza di eloquenza di Mosè (Esodo 4:10), Filone suggerisce che l'esitazione di Mosè nel parlare direttamente al Faraone, che descrive come una sua "mancanza di parole (ἄλογός)" (cfr. Det. 38), non significa che Mosè è simile a un animale che non sa parlare affatto. Filone invece sostiene che tale mancanza di parole in realtà eleva lo status di Mosè in quanto diventa uno che "non ritenne giusto impiegare una parola sonora per mezzo dei suoi organi della parola, (ὁ μὴ δικαιῶν τῷ δὶα τοῦ φωνηρίου ὀργάνου γεγωνῷ λόγῳ χρῆσθαι), ma imprime e segna le cose di vera sapienza sulla sua sola mente" (Det. 38). Cioè, Mosè rappresenta il λόγος ἐνδιάθετος, o il logos che rimane nella mente. In contrasto, Filone raffigura Aronne come il "portavoce, interprete e profeta (στόμα καὶ ἑρμηνέα καὶ προφήτην)" di Mosè (Det. 39). Aronne, quindi, allegorizzato come il λόγος προφορικός di Filone, trasmette i pensieri di Dio in espressioni parlate. Una volta pronunciate, assumono sostanza corporea – essendo apprezzabili dai sensi – e quindi si incarnano nel mondo creato.

In Det. 40, Filone chiarisce ulteriormente la relazione tra questi due, collegando nuovamente Aronne al discorso e Mosè alla mente.

« Poiché tutte queste cose appartengono al discorso (λόγῳ), che è il fratello della mente (διανοίας); poiché la mente è la fontana delle parole (πηγὴ γὰρ λόγων διάνοια), e il linguaggio è il suo portavoce (στόμιον αὐτῆς λόγος). Poiché tutti i pensieri, come i flussi di una sorgente, si riversano e fluiscono, e la parola è l'interprete del piano deliberato nella sua stessa camera di consiglio. »
(Det. 40)

Come Mosè e Aronne, che sono fratelli, Filone suggerisce che anche la mente e la parola sono fratelli. Inoltre, descrive ulteriormente una relazione temporale specifica tra i due. Innanzitutto, nella mente, c'è il pensiero. In secondo luogo, da quel pensiero fluiscono parole, o il discorso, che Filone descrive come portavoce della mente. Pertanto, l'uno deve, per definizione, venire prima dell'altro. Sebbene Filone non usi esplicitamente le parole λόγος ἐνδιάθετος e λόγος προφορικός in questo brano specifico, la loro presenza è implicita. Allegorizzando Mosè e Aronne in questo modo, Filone chiarisce ulteriormente come il logos possa operare in questo duplice modo. Da un lato, il logos fa parte della divinità suprema di Israele, rimanendo nel reame dell'incorporeità come pensieri o razionalità di Dio. Dall'altro, quando il logos diventa un'espressione parlata, entra nel mondo creato, essendo percettibile ai sensi, e quindi diventa parte della corporeità. Se uno vuole capire la mente, o i pensieri di Dio, allora, il modo per farlo, secondo Filone – almeno in questa particolare allegorizzazione – è di prestare attenzione alle parole di Aronne, perché Aronne funziona come il portavoce di Dio. Cioè, le parole di Aronne rendono il Dio creatore ineffabile e inconoscibile, sia descrivibile che conoscibile.

Leggendo il Vangelo di Giovanni insieme alla duplice allegorizzazione del logos di Filone, diventa chiaro il modo in cui Giovanni vede il logos in un simile modo duplice. Cioè, qui sto costruendo le mie argomentazioni dalla sezione precedente di questo Capitolo, suggerendo che Giovanni, come Filone, presenta il logos come una componente essenziale e costitutiva di Dio l'Altissimo di Israele, che funziona come pensiero o razionalità della divinità suprema di Israele, e come incarnato nel mondo creato che Dio ha fatto, non solo tramite la persona di Gesù (cfr. Giovanni 1:14,18), ma anche – e forse più significativamente – tramite le parole (logoi) che Gesù pronuncia. Rispetto al primo, mentre Gesù, come logos, era ancora con il Dio supremo di Israele (a cui Giovanni spesso si riferisce come il Padre) in cielo, egli funzionava come il λόγος ἐνδιαθέτος di Filone, operando come pensiero e razionalità di Dio. Per questo motivo ha senso che l'autore giovanneo affermi che "Nel principio era il λόγος e il λόγος era presso Dio, e il λόγος era Dio" (Giovanni 1:1). Poiché la ragione o i pensieri di Dio sono sempre con Dio, Gesù – come qualcosa di simile al λόγος ἐνδιαθέτος di Filone – era indissolubilmente legato a Dio per tutta l'eternità. Quando Dio stava creando il mondo, Dio sollecitò l'aiuto di Gesù – il Suo λόγος ἐνδιαθέτος, la Sua ragione – per pensare come doveva essere fatto il mondo. In questa maniera, Giovanni può affermare che "Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui (cioè Gesù, il λόγος), e senza di lui nessuna delle cose fatte è stata fatta" (Giovanni 1:3). Rispetto a quest'ultimo v., quando la Parola (λόγος) divenne carne (σάρξ) nella persona di Gesù (Giovanni 1:14,18), ciò che era stato in precedenza solo pensiero o razionalità di Dio, potè improvvisamente essere pronunciato e udito. In questo modo, Gesù funziona come il λόγος προφορικός di Filone. Cioè, attraverso le parole (λόγοι) che Gesù pronincia in tutto il Vangelo, egli consente a suo Padre – il Dio inconoscibile, ineffabile, trascendente e increato – che esiste nel reame incorporeo, di essere udito e conosciuto nel mondo della corporeità creata.[8]

In questa sezione, ho dimostrato come il Vangelo di Giovanni raffiguri Gesù come una forma incarnata di Dio, non limitadosi solo al prologo del Vangelo, ma estendendosi al resto dell'opera attraverso le parole che Gesù pronuncia. In particolare, l'ho fatto interpretando il Vangelo alla luce dell'allegorizzazione di Mosè e Aronne fatta da Filone che li rappresenta come due diverse forme del logos. Proprio come il logos di Filone non rimane con Dio nel reame incorporeo, ma si incarna nel mondo corporeo attraverso le parole che Aronne pronuncia, così anche per Giovanni, quando la Parola (λόγος) si fa carne nella persona specifica di Gesù (cfr. Giovanni 1:14,18), i pensieri incorporei di Dio si incarnano nel mondo attraverso le parole (λόγοι) dette da Gesù.

In ciò che segue, mi rivolgo di nuovo a Filone per analizzare ulteriormente come l'enfasi di Giovanni sulle parole dette da Gesù lo aiuti a presentare Gesù come una forma di Dio incarnata, specificando una distinzione tra l'identità di Gesù rispetto a quella di Dio Padre. In particolare, confrontando le interpretazioni di Esodo 3:14-15 sia in Filone che in Giovanni, sostengo che, mentre Giovanni presenta Dio Padre come qualcosa di simile allo ἐγώ εἰμι ὁ ὤν di Filone (cioè l'Esistente), rivelando così come il Padre stia al vertice della Sua divina gerarchia — egli ritrae Gesù il Figlio come ἐγώ εἰμι ὁ λάλων (cioè colui che pronuncia i pensieri ineffabili di Dio dando loro un'esistenza corporea), posizionandolo così come minore nella gerarchia divina, seppure simultaneamente lo faccia entrare nella sua più ampia comprensione dell'unità di Dio (vedi Capitolo 2). Pertanto, come altri scrittori ebrei che composero le loro opere agli inizi dell'era volgare, qui Giovanni impiega una figura divina intermedia, cioè Gesù, per consentire a una parte del Dio incorporeo d'Israele di entrare nella corporeità creata. Mettendo insieme queste due ramificazioni di testimonianze, il logos/cristologia del Vangelo giovanneo può essere visto per quello che è: non radicalmente separato dalla più ampia "ebraicità" del suo tempo, ma qualcosa che risuona profondamente e si connette ad altre forme ebraiche di incarnazione divina del primo secolo.

Leggere Giovanni alla luce di Filone: Gesù come ἐγώ εἰμι, ὁ λαλῶν modifica

Leggere Giovanni alla luce di Filone offre anche una nuova lente con cui vedere la presentazione evangelica di Gesù come la parola divina fattasi carne (cfr. Giovanni 1:14), dimostrando come Giovanni presenti Gesù quale parte dell'identità divina, tuttavia differenziandolo dal Dio Padre. In particolare, qui sostengo che Giovanni, come Filone, allude alla versione del nome di Dio presente nella Septuaginta — ἐγώ εἰμι ὁ ὤν — riportata in Esodo Esodo 3:14-15, ma che adatta leggermente per tracciare una distinzione tra Gesù il Figlio e Dio il Padre. Cioè, mentre suggerisce che il Dio supremo di Israele, il Padre, è qualcosa di simile allo ἐγώ εἰμι ὁ ὤν di Filone, cioè Colui che esiste, presenta Gesù il Figlio come ἐγώ εἰμι ὁ λάλων, cioè Colui che parla. Ciò è significativo perché indica che Gesù è sia divino sia parte dell’unicità di Dio, ma lo presenta anche come lo strumento mediante il quale il sommo Dio Padre d'Israele può incarnarsi sulla terra.

Nella versione ebraica originale di Esodo 3:14-15, quando Mosè incontra Dio nel roveto ardente, chiede a Dio direttamente il suo nome. In risposta, Dio fornisce la seguente descrizione:

« "IO SONO COLUI CHE SONO (אֶֽהְיֶ֖ה אֲשֶׁ֣ר אֶֽהְיֶ֑ה)". Poi disse: "Così dirai agli israeliti: ‘IO SONO (אֶֽהְיֶ֖ה) mi ha mandato a voi’". Dio aggiunse a Mosè: "Dirai agli Israeliti: ‘Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione." »
(Esodo 3:14-15)

Il linguaggio che Dio usa qui per descriversi fornisce una visione della natura stessa di Dio. In particolare, Dio afferma che il suo nome è אֶֽהְיֶ֖ה אֲשֶׁ֣ ר אֶֽהְיֶ֑ה (Ehyeh Asher Ehyeh), che molte traduzioni in italiano rendono "IO SONO COLUI CHE SONO" o anche "I SONO COLUI CHE È" o "IO SARÒ CHI SARÒ" (Ex 3:14). Nella riga successiva viene ripreso il senso: "IO SONO (אֶֽהְיֶ֖ה) mi ha mandato a voi" (Eso 3:14). Entrambe le forme del nome ribadiscono il legame tra il nome di Dio e il verbo ebraico היה, che è l'equivalente del verbo italiano "essere". Il nome אֶֽהְיֶ֖ה אֲשֶׁ֣ר אֶֽהְיֶ֑ה intima così la natura enigmatica del Dio di Israele. Contrariamente alle altre divinità delle nazioni circostanti, che venivano definite in termini di attributi o funzioni particolari, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non può essere limitato in questo modo; solo Lui decide cosa e chi Egli è/sarà.

Quando i redattori della Septuaginta tradussero questi versetti ebraici in greco, tuttavia, resero il nome di Dio come ἐγώ εἰμι ὁ ὤν, o in italiano, qualcosa di simile a "I SONO, l'Esistente", trasformando così il significato del nome di Dio. Come la versione ebraica, la traduzione greca del nome di Dio incorpora una duplice ripetizione del verbo "essere", ma a differenza dell'ebraico, la versione greca coniuga questo verbo in diversi modi. La prima metà del nome di Dio reso in greco contiene la combinazione sostantivo/verbo ἐγώ εἰμι (I SONO), ma la seconda metà consiste del participio presente attivo ὁ ὤν (l'Esistente).[9] Così la versione Septuaginta di Esodo 3:14, in in contrasto con quella dell'ebraico, crea una versione del nome di Dio che si compone di due parti. Piuttosto che leggere il nome di Dio come אֶֽהְיֶ֖ה אֲשֶׁ֣ר אֶֽהְיֶ֑ה (IO SONO COLUI CHE SONO), la traduzione greca di Septuaginta rende il nome di Dio con ἐγώ εἰμι ὁ ὤν (IO SONO l'Esistente), indicando così le concezioni filosofiche greche di Dio come un essere che era increato, incorporeo, ineffabile e completamente rimosso dal reame umano.

Poiché sia ​​Filone che l'autore del Vangelo di Giovanni compongono le loro opere in greco, e non in ebraico, entrambi attingono chiaramente alla versione del nome di Dio presente nella Septuaginta, ma, almeno inizialmente, sembrano enfatizzarne aspetti diversi. Filone, ad esempio, sottolinea la seconda parte dell'equazione nominale, ovvero la parte ὁ ὤν (l'Esistente). Sebbene, come ho sottolineato nel Capitolo II, Filone veda tutti i nomi come rappresentazioni imperfette dell'ineffabile entità della divinità che cercano di nominare, l'appellativo più frequente che Filone usa in riferimento a Dio è ὁ ὤν, oppure τό ὄν, (l'Esistente ) piuttosto che alternative altrettanto valide come θεός (Dio) o κύριος (Signore). In tal modo, Filone presenta il Dio di Israele in un modo che si accorda bene con la concezione di Dio presentata nel Timeo di Platone. Come il dio di Platone, l'alta divinità unica di Filone è incorporea, immutabile, ineffabile e completamente rimossa dal reame materiale creato. Di conseguenza, come "l'Esistente (ὁ ὤν)", il Dio di Filone è semplicemente Colui che esiste, Colui al quale appartiene l'esistenza.

Al contrario, l'autore del Vangelo di Giovanni inizialmente sembra solo enfatizzare la parte iniziale di questa equazione, vale a dire la parte ἐγώ εἰμι (I SONO), al fine di collegare l'identità divina di Gesù con quella del sommo Padre Dio di Israele. In particolare, lo scrittore evangelico descrive Gesù che si identifica ripetutamente con frasi che iniziano con queste parole:[10]

"IO SONO (ἐγώ εἰμι) il pane della vita" – Giovanni 6:48
"IO SONO (ἐγώ εἰμι) la luce del mondo" – Giovanni 8:12
"IO SONO (ἐγώ εἰμι) la porta" – Giovanni 10:9
"IO SONO (ἐγώ εἰμι) il buon pastore" – Giovanni 10:11
"IO SONO (ἐγώ εἰμι) la risurrezione e la vita" – Giovanni 11:25
"IO SONO (ἐγώ εἰμι) la via, la verità e la vita" – Giovanni 14:6
"IO SONO (ἐγώ εἰμι) la vite" – Giovanni 15:5

In Giovanni 8 in particolare, l'autore rende esplicito questo punto quando Gesù allude a Esodo 3:14 nel contesto di una delle sue controversie con gli ebrei sulla sua identità.[11] Qui, quando gli ebrei mettono in discussione la conoscenza che Gesù afferma di riguardo ad Abramo, Gesù risponde affermando provocatoriamente che "prima che Abramo fosse, IO SONO (ἐγώ εἰμι)" (Giovanni 8:58). Alludendo alla prima parte del nome di Dio come descritto in Esodo 3:14, le parole indicano sia la natura preesistente che divina di Gesù. Questa testimonianza illustra come sia Filone che Giovanni attingano intenzionalmente a diversi aspetti del nome di Dio come presentato nella versione di Septuaginta in Esodo 3:14, il primo per enfatizzare la natura incorporea e trascendente di Dio e il secondo per collegare l'identità divina di Gesù con quella di Dio Padre.

Leggendo Giovanni insieme a Filone, diventa evidente qualcosa che non è stato enfatizzato nelle precedenti discussioni su questo argomento: vale a dire, che Giovanni allude anche alla seconda parte della versione di Septuaginta di Esodo 3:14 — ἐγώ εἰμι ὁ ὤν — ma poi la adatta leggermente per fare una distinzione tra Gesù e il Padre.[12] Mentre suggerisce che Dio Padre è ἐγώ εἰμι ὁ ὤν, IO SONO Colui che esiste, egli presenta Gesù come il figlio con ἐγώ εἰμι ὁ λάλων, IO SONO Colui che parla, articolando così il ruolo di Gesù in relazione al Padre. Sebbene i due condividano la stessa identità divina, Gesù il Figlio non è identico al Dio supremo di Israele, il Padre. Mentre Dio Padre rimane nel reame incorporeo, completamente rimosso dalla creazione materiale, Gesù il Figlio incarna la presenza del Padre nel mondo — non solo attraverso la sua identificazione con e come λόγος (Parola), come presentato nel prologo (cfr. Giovanni 1:14,18), ma anche tramite i λόγοι (parole) di cui parla in tutto il corpo del Vangelo stesso.

Giovanni incornicia il suo ritratto di Gesù con ἐγώ εἰμι ὁ λάλων (IO SONO, Colui che parla) in Giovanni 4:24-26 al termine di un lungo scambio tra Gesù e la samaritana. In effetti, questa è la prima volta nel Vangelo che Gesù pronuncia le parole ἐγώ εἰμι. Dopo aver detto alla donna che verrà presto un tempo in cui tutti i veri adoratori di Dio adoreranno in spirito e verità, Gesù fornisce alla donna maggiori dettagli su come egli comprende sia l'identità di Dio sia quella del Messia:

[Gesù disse alla donna], "Dio è spirito (πνεῦμα ὁ θεός), e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità."
Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia (Μεσσίας) [cioè il Cristo (Χριστός )]: quando egli verrà, ci annunzierà (ἀναγγελεῖ) ogni cosa."
Le disse Gesù: "Sono io, che ti parlo (Ἐγώ ἐιμι, ὁ λαλῶν σοι)"
(Giovanni 4:24-26)

Alcuni punti riguardanti questo stralcio sono in ordine. Innanzitutto, all'inizio Giovanni rappresenta Gesù che immagina il Dio supremo di Israele a livello dell'essere stesso di Dio. "Dio è spirito (πνεῦμα ὁ θεός)", afferma (Giovanni 4:24). Come Dio l'Altissimo di Filone, a cui spesso si riferisce con ὁ ὤν oppure τὸ ὄν, l'autore giovanneo descrive il suo sommo Dio Padre, al quale spesso si riferisce con ὁ θεός, come entità incorporea, che è sia ineffabile sia inconoscibile. Di conseguenza, per entrambi gli autori la divinità suprema di Israele ha bisogno di qualcuno o qualcos'altro – un tipo di figura mediatoria – che è sia collegato a questo Dio l'Altissimo sia connesso al mondo che Dio ha fatto, per far sì che Dio sia udito, incarnato, corporeo, e conosciuto. Secondo, la risposta della donna samaritana a Gesù suggerisce che sia lei che i suoi compagni samaritani anticipano una figura, un Messia, che fungerà da vero portavoce di Dio. In particolare, come articola la samaritana, è il Messia, o il Cristo, che "ci annunzierà (ἀναγγελεῖ) ogni cosa" (Giovanni 4:25). Pertanto, il testo presenta il Messia come colui che è in grado di formulare i pensieri ineffabili di Dio conoscibile. Terzo, a un livello letterario basilare, quando Gesù risponde alla donna, "Sono io, colui che ti parla (ἐγώ ἐιμι, ὁ λαλῶν σοι)", egli suggerisce alla donna che lui, in realtà, è questa forma messianica di Dio incarnato sulla terra che sia la donna che i suoi compagni samaritani hanno atteso da tempo.[13] Pertanto, come ho sottolineato rispetto al sommo sacerdote ebreo nel Capitolo IV, così anche qui il Vangelo di Giovanni presenta i samaritaniche attendono una figura umana, messianica, che renderà Dio in forma corporea. Quarto e ultimo, uno sguardo più attento alle parole greche che Gesù impiega in Giovanni 4:26 per affermare questo status suggerisce qualcosa di più profondo. Descrivendo Gesù come ἐγώ εἰμι ὁ λάλων, l'autore giovanneo si avvicina al modo in cui Gesù condivide l'identità di Dio IO SONO (ἐγω είμι) e rende quel Dio corporeo, facendo udire e conoscere la divinità suprema di Israele sia ascoltata parlando (ὁ λάλῶν) alla donna.[14] Condividendo l'identità divina, ma allo stesso tempo in grado di portare i pensieri ineffabili di Dio in esistenza corporea, i λόγοι di Gesù indicano quindi ai lettori la mente stessa di Dio.

L'autore giovanneo sviluppa ripetutamente questo punto in tutto il Vangelo sottolineando come Gesù non parli da solo, di sua iniziativa, ma funge piuttosto da portavoce di suo Padre che lo ha inviato.[15] In Giovanni 12, ad esempio, Gesù è rappresentato come tale portavoce quando afferma:

« Chi mi respinge e non accoglie le mie parole (τὰ ρήματα μου), ha chi lo giudica; la parola (ὁ λόγος) che ho annunziata (ἐλάλησα) sarà quella che lo giudicherà nell'ultimo giorno. Perché io non ho parlato (οὐκ ἐλάλησα) da me stesso, ma il Padre stesso mi ha mandato e mi ha comandato ciò che io devo dire (τί ἔιπω) ed annunziare (τί λαλήσω). Ed io so che il suo comandamento è vita eterna; le cose dunque che io dico (λαλῶ) le dico cosí come il Padre me le ha dette (εἴρηκέν). »
(Giovanni 12:48-50)

La ripetizione settupla di varie coniugazioni del verbo greco λαλέω (parlare) in questo breve estratto sottolinea l'enfasi di Giovanni sulla parola pronunciata. L'impiego da parte dell'autore delle parole τὰ ρήματα (parole) e ὁ λόγος (parola) in v. 48 trasmette un effetto simile. Tuttavia, due volte in vv. 49 e 50, Giovanni fa un collegamento esplicito tra il Dio supremo di Israele, il Padre, e le parole che Gesù pronuncia. Gesù non parla per conto suo, ma trasmette il messaggio che il Padre gli ha dato (cfr. Giovanni 5:19-24). Di conseguenza, quando le persone rifiutano Gesù non riuscendo a percepire il suo messaggio, non lo rifiutano di per sé, ma piuttosto rifiutano la divinità più alta di Israele, Dio Padre, che lo ha mandato (Giovanni 12:49). Prestando attenzione alle parole di Gesù, i lettori sono attratti dalla mente stessa del sommo Dio l'Altissimo di Israele.

Il ruolo di Gesù come portavoce di Dio, tuttavia, gli rende qualcosa di più: gli conferisce l'autorità di giudicare e salvare, rivelando in tal modo come egli partecipi alla divinità divina di Dio e attui la volontà di Dio in qualcosa di simile al mondo sensoriale filonico, mondo che Dio ha realizzato. Per quanto riguarda l'argomento del giudizio, sebbene in precedenza nel Vangelo di Giovanni il Padre sia raffigurato che dà a Gesù, il Figlio, l'autorità di giudicare (cfr. 5:22, 26-27), nel succitato brano, Giovanni chiarisce questo punto sottolineando che in realtà è "la parola che [Gesù ha] detto (ὁ λόγος ὅν ἐλάλησα)" che servirà da giudice (Giovanni 12:48). Poiché le parole di Gesù provengono direttamente dal Dio supremo di Israele, il Padre, e i due condividono la stessa identità divina, il giudizio di Gesù e quello del Padre non sono separati l'uno dall'altro. La corporeità del primo permette al giudizio di Dio Padre incorporeo di manifestarsi nel mondo creato. Per quanto riguarda il tema della salvezza, come chiarisce Giovanni 12:47, l'intenzione di Gesù non è di giudicare il mondo, ma di salvarlo. Invece, tramite il "comandamento" che pronuncia, che è "vita eterna", egli guida gli altri al Dio supremo di Israele (cfr. Giovanni 12:50). Secondo l'autore del Vangelo di Giovanni, quindi, ascoltando i λόγοι (parole) di Gesù, i lettori ascoltano il messaggio del Dio supremo di Israele riguardo alla vita eterna: solo tramite Gesù, Figlio del Padre, forma incarnata di Dio su terra, possono essere salvati.

Lo scopo del ruolo di Gesù come portavoce del Dio incorporeo l'Altissimo di Israele diventa così chiaro: consente a coloro che ascoltano, osservano e credono nelle sue parole, di passare dalla morte alla vita. Alcuni estratti di Giovanni 5 aiutano a chiarire questo punto:

In verità, in verità vi dico: chi ascolta (ὁ ἀκούων) la mia parola (τὸν λόγον μου) e crede (πιστεύων) a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita (Giovanni 5:24).
In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio (οί νεκροὶ ἀκούσουσιν τῆς φωνῆς τοῦ Υἱοῦ τοῦ θεοῦ), e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno (οἱ ἀκούσαντες ζήσουσιν) (Giovanni 5:25).
Non vi meravigliate di questo, poiché verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce (πάντες οἱ ἐν τοῖς μνηείοις ἀκούσουσιν τῆς φωνῆς αὐτοῦ) e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna (Giovanni 5:28-29).

In ciascuna delle citazioni di cui sopra, l'autore abbina un derivato del verbo "ascoltare (ἀκούω)" con un'allusione alla parola pronunciata da Gesù per sottolineare il significato dell'ascolto delle parole di Gesù. Coloro che ascoltano e credono riceveranno la promessa della vita eterna. Poiché Gesù come il verbo divino fattosi carne (cfr. Giovanni 1:14,18), viene da Dio (Giovanni 1:1), ha udito direttamente da Dio, e persino condivide la Sua identità divina, tramite le sue parole partecipa alla stessa divinità di Dio, garantendo la salvezza che solo Dio può dare, rendendo così articolato e conosciuto il cuore dell'ineffabile e inconoscibile Dio Padre.

In uno scambio diretto tra Gesù e il suo discepolo Filippo, l'autore del Vangelo di Giovanni ribadisce ulteriormente come Gesù, tramite la sua persona e le sue parole – essendo contemporaneamente parte del Dio supremo incorporeo e presente nel mondo creato che Dio ha fatto – sia in grado di far conoscere l'inconoscibile Dio Padre:

« Gli disse Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gli rispose Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico (τὰ ρήματα ἅ ἐγω λέγω), non le dico da me (ἐαυτοῦ οὐ λαλῶ); ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me. »
(Giovanni 14:8-11)

Per tre volte all'interno di questo breve estratto, l'autore sottolinea come l'identità di Gesù e quella del Padre siano indissolubilmente legate. In particolare, quando Giovanni fa ripetere due volte a Gesù che "Io sono nel Padre e il Padre è in me" (Giovanni 14:10 e 11, rispettivamente), o il suo stretto corollario, "il Padre che è in me" (Giovanni 14:10), spiega come i due condividano un aspetto della stessa identità: non c'è separazione temporale. Ciò è significativo perché segna una differenza dalla duplice interpretazione da parte di Filone del λόγος ἐνδιαθέτος, vale a dire i pensieri che rimangono nella mente di Dio, e il suo λόγος προφορικός, vale a dire i pensieri di Dio pronunciati, e rivela come, sebbene per entrambi gli autori il logos operi come un mezzo con cui il divino si incarna, vedono queste espressioni della corporalità divina in modo diverso. Per Filone, questa duplice differenziazione del logos implica una separazione temporale. In primo luogo, Filone concepisce il logos quale parte del Dio Creatore come pensiero di Dio. Quindi Filone immagina che il logos entri nella realtà corporea creata dall'atto stesso del discorso. In contrasto, per Giovanni questo processo è più dinamico. Sebbene, come Filone, le "parole che [Gesù] dice (τὰ ρήματα ἅ ἐγω λέγω)" non sono sue, ma provengono direttamente dal Padre, Giovanni afferma inoltre che il Padre contemporaneamente "rimane in [Gesù]", cosicché Gesù è in realtà nel Padre e il Padre è in lui (Giovanni 14:10). È per questa ragione che Gesù può affermare al suo discepolo, Filippo, che "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Giovanni 14: 9). Per l'autore giovanneo, quindi, Gesù non è inizialmente concepito come parte del Dio Creatore supremo di Israele e poi in seguito ritratto che entra nel mondo creato che Dio ha fatto. Invece, il rapporto tra Gesù e il Padre è più dinamico. Sebbene in tutto il Vangelo Gesù operi sulla terra (e quindi nel regno creato), c'è sempre un elemento del divino, del Padre, che dimora continuamente in lui. Quindi, quando gli altri ascoltano Gesù che parla, in realtà stanno ascoltando anche Dio l'Altissimo di Israele, Dio Padre.

La relazione dinamica tra la divinità suprema di Israele, il Padre, e Gesù, il Figlio divino in terra – specialmente di fronte al modo in cui le parole di Gesù possono mediare tra il reame terreno e quello celeste – è particolarmente evidente in Giovanni 6 e suggerisce che l'autore di questo Vangelo potrebbe essere stato a conoscenza di altre forme ebraiche "concorrenti" di incarnazione divina che ho esposto nel corso di questo studio. Inoltre, indica che Giovanni potrebbe aver rivendicato intenzionalmente il modo in cui Gesù incarnò in modo univoco il Dio di Israele sulla terra. Vale a dire, suggerisce che Giovanni potrebbe aver cercato intenzionalmente di mettere insieme queste altre forme di incarnazione divina sostenendo che solo Gesù poteva occupare questo ruolo. Durante tutto il capitolo giovanneo, a partire da v. 25, i lettori apprendono sia la relazione tra Gesù e il Padre, sia il modo in cui Giovanni inquadra questa relazione in termini esclusivi. Solo il Figlio, Gesù, è stato con il Dio supremo di Israele, il Padre (Giovanni 6:36). Solo il Figlio ha udito direttamente dal Padre (cfr. Giovanni 6:45-46). Solo il Figlio, come il pane dal cielo, è sceso sulla terra (Giovanni 6:41,48-51,58). In altre parole, qui Giovanni fa di tutto per sottolineare la posizione unica di Gesù, il Figlio di Dio incarnato. Poiché solo lui è stato con Dio, il Padre, e solo lui è disceso dal Padre, solo lui può far conoscere il Padre. Cioè, contrariamente a suggerire che Mosè (vedi Capitolo III), o il Sommo sacerdote ebreo (vedi Capitolo IV), o altre figure giuste nella tradizione di Israele possano mediare la presenza di Dio, Giovanni afferma che solo Gesù è una forma di Dio incarnato sulla terra. A causa di questa logica, il modo in cui il Gesù giovanneo interpreta la versione Septuaginta di Isaia 54:13 in v. 45 di questo capitolo è significativo:[16]

« Sta scritto nei profeti: "E tutti saranno ammaestrati da Dio". Chiunque ha udito (ὁ ἀκούσας) il Padre e ha imparato (μάθὼν) da Lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne (ἡ σάρξ μού) per la vita del mondo. »
(Giovanni 6:45-51)

Nella prima metà del versetto 45, l'autore ricorda ai suoi lettori l'insegnamento della LXX, che le persone imparano direttamente da Dio. Ma poi nella seconda metà di questo verso e in v. 46, accenna al modo dinamico con cui interpreta l'unità di Dio in termini di gerarchia dinamica, che comprende sia la divinità suprema di Israele, il Padre, sia la Sua forma incarnata sulla terra, Gesù il Figlio. All'inizio, nel v. 45, sembra suggerire che le persone possano udire direttamente da Dio Padre, ma poi nel v. 46 qualifica questa affermazione. Solo Colui, "che viene da Dio" (cioè Gesù) ha visto il Padre e quindi, per estensione, è solo lui che sarà in grado di far udire e conoscere il Dio supremo di Israele. Da notare qui la profonda relazione tra Gesù e il Padre. La pedagogia di Gesù non è la sua propria, ma è direttamente collegata a quella del Padre. Dal momento che condividono la stessa identità divina – e solo Gesù la condivide, secondo l'autore giovanneo – Gesù solo può far conoscere l'insegnamento del Padre.

Poco dopo nel testo, al capitolo 7 del vangelo giovanneo, Gesù rende più esplicito il legame tra se stesso e il Padre quando, nel contesto del suo insegnamento nel Tempio di Gerusalemme, gli ebrei si chiedono dove abbia ottenuto le sue conoscenze e su quale autorità si basi. Giovanni registra l'incidente nel modo seguente:

« Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e vi insegnava. I Giudei ne erano stupiti e dicevano: "Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?". Gesù rispose: "La mia dottrina (ἡ ἐμή διδαχὴ) non è mia, ma di colui che mi ha mandato (τοῦ πέμψαντος). Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l'ha mandato è veritiero, e in lui non c'è ingiustizia. »
(Giovanni 7:14-18)

L'implicazione qui è che Gesù non parla da sé, ma piuttosto le sue parole – anzi tutta la sua pedagogia – sono indissolubilmente legate a quella del Dio Supremo di Israele, il Padre, Colui che lo ha mandato sulla terra per incarnare la presenza di Dio nel mondo. Ancora una volta, Gesù svolge una funzione importante essendo sia parte di Dio, sia allo stesso tempo l'incarnazione di quello stesso Dio tramite le sue parole. Qui il suo insegnamento, in particolare, funziona come il vero portavoce di Dio.

Prima di lasciare questa sezione, desidero esaminare un ultimo brano prose da Giovanni 16, perché ribadisce sia il modo in cui il discorso di Gesù nel Vangelo lo differenzia da Dio Padre, sia il modo in cui lo collega al Dio l'Altissimo di Israele:

« Queste cose vi ho dette in similitudini (Ταῦτα ἐν παροιμίαις λελάληκα ὑμῖν); ma verrà l'ora in cui non vi parlerò più in similitudini (ὅτε οὐκέτι ἐν παροιμίας λαλήσω), ma apertamente vi parlerò del Padre (ἀλλὰ παρρησίᾳ περὶ τοῦ παρτὸς ἀπαγγελῶ ὑμῖν). In quel giorno chiederete nel mio nome e io non vi dico che pregherò il Padre per voi: il Padre stesso vi ama, poiché voi mi avete amato, e avete creduto che io sono venuto da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre". Gli dissero i suoi discepoli: "Ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini (Ἴδε νῦν ἐν παρρησίᾳ λαλεῖς καὶ παροιμίαν οὐδεμίαν λέγεις)! Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno t'interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio". »
(Giovanni 16:25-30)

Qui, Gesù ribadisce che è venuto dal Padre (cioè come il logos divino del prologo, cfr. Giovanni 1:14) e ritornerà al Padre (cfr. Giovanni 16:28). Di particolare importanza è il modo in cui i discepoli inquadrano ciò che dice Gesù. Poiché Gesù sta parlando chiaramente, non con figure retoriche (16:29),[17] loro sanno e credono che sia venuto da Dio (16:30). Cioè, le parole che Gesù ha pronunciato rivelano ai suoi seguaci che è venuto da Dio, anzi che è Dio: è proprio Gesù il Dio che parla.

Il mio obiettivo nella sezione finale di questo Capitolo è stato triplice. In primo luogo, leggendo il Vangelo di Giovanni attraverso l'obiettivo di Filone, ho cercato di far luce su un vecchio dibattito negli studi giovannei al fine di sostenere che il logos/cristologia introdotto nel prologo di Giovanni si estende davvero lungo tutta l'opera evangelica tramite le parole che Gesù pronuncia. In secondo luogo, sempre impiegando Filone, ho dimostrato come la scelta di Gesù in questo ruolo di portavoce di Dio consente all'autore di differenziare in modo sottile, ma efficace, l'identità divina di Dio Padre da Gesù Figlio. Sebbene entrambi siano Dio, l'IO SONO, solo quest'ultimo è il Dio che parla. In terzo luogo, sebbene studiosi del passato, come Gundry, abbiano preso il primo punto come prova dell'estremo settarismo del Vangelo, il confronto con Filone complica questa tendenza. Queste idee, che Giovanni applica al suo discorso cristologico, erano già presenti in Filone. Sebbene l'autore del Vangelo di Giovanni li associ alla figura di Gesù, e questo ha implicazioni radicali per il successivo sviluppo del cristianesimo, nel momento in cui le righe furono scritte o redatte, l'ideologia insita al loro interno aveva già una chiara presenza nel pensiero ebraico del I secolo. Pertanto, le idee cristologiche presenti in Giovanni fanno parte del discorso ebraico del tempo, non separate da esso. In effetti, al loro inizio queste nozioni cristologiche nel Vangelo di Giovanni relative al modo in cui Gesù funziona come una forma di Dio incarnata sulla terra erano, in effetti, ebraiche, anche se oggi, a posteriori, possono sembrare controintuitive.

Note modifica

  Per approfondire, vedi Biografie cristologiche.
  1. Per la prominenza delle parole di Gesù in tutto il Vangelo giovanneo, cfr. int. al., Robert H. Gundry, Jesus the Word According to John the Sectarian: A Paleofundamentalist Manifesto for Contemporary Evangelism, especially its Elites, in North America (Grand Rapids: Eerdmans, 2002), partic. 3–50.
  2. Per confronti statistici tra i Sinottici e Giovanni in termini di quali percentuali di ciascuno tratti dei miracoli — che sono tipicamente descritti come σημείον ma, a volte, come ἔργον — cfr. Gary M. Burge, The Anointed Community: The Holy Spirit in the Johannine Tradition (Grand Rapids: Eerdmans, 1987), 74–80.
  3. Anche Rudolf Bultmann descrisse questi σημείων come "verba visibilia", descrivendo inoltre come "le opere di Gesù (o, viste collettivamente come un tutto: il suo operato) sono le sue parole". Cfr. Bultman, Theology of the New Testament, trad. (EN) Kendrick Grobel; 2 voll. (New York: Scribner’s, 1955), 2:60. Altrove, Bultmann fa un'affermazione simile quando scrive: "Se in Gesù il λόγος divenne carne, allora l'azione di Dio viene eseguita nelle parole di Gesù". Cfr. Rudolf Bultman, The Gospel of John. A Commentary, trad. (EN) G. R. Beasely-Murray; cur. R.W.N. Hoare & J.K. Riches (Oxford: Basil Blackwell, 1971), 163.
  4. Rispetto ai suoi σημείων, per esempio, quando Gesù trasforma l'acqua in vino alle nozze di Cana, non compie questa impresa mediante atti fisici; non mescola l'acqua né applica pozioni magiche (Giovanni 2:1-11). Piuttosto, due volte, rispettivamente in Giovanni 2:7 e 2:8, Gesù istruisce gli altri, tramite le sue parole pronunciate, dicendo "riempite d'acqua le giare", e successivamente "ora attingete e portatene al maestro di tavola". L'acqua viene successivamente trasformata in vino perché i servitori ascoltano le parole che Gesù dice (λέγει) (Giovanni 2:7-8). Questo particolare "segno" si presenta quindi perché i servi presenti alle nozze seguono le istruzioni di Gesù; altrove nel Vangelo, simili "miracoli" si manifestano direttamente dopo che Gesù li annuncia. Nel caso della guarigione del figlio del funzionario regio, lo scrittore evangelico sottolinea come sia stata proprio in "quell'ora in cui Gesù gli aveva detto (εἶπεν) ‘Tuo figlio vive’" che, di fatto, suo figlio si rianima (Giovanni 4:53). Parimenti, nel caso della guarigione del paralitico, l'autore sottolinea che immediatamente dopo che "Gesù gli disse (εἶπεν), ‘Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina’", che "subito l'uomo guarì" (Giovanni 5:8). In questi ultimi due esempi, l'autore collega indissolubilmente il discorso di Gesù e i rispettivi miracoli che ne conseguono; in entrambi i casi, neppure un lasso di tempo si verifica tra il comando di Gesù e il risultato desiderato. Certamente, come argomenterò più avanti, un'insistenza sulle parole pronunciate da Gesù rispetto alle sue azioni fisiche è significativa in quanto segnala come l'autore giovanneo realizza il suo ritratto di Gesù in un modo distinto da quello degli autori sinottici. Sottilmente, ma ricorrentemente, raffigurando Gesù come colui che parla, Giovanni – come Filone di Alessandria – afferma come Gesù, quale logos, sia intrinseco all'identità del Dio Creatore incorporeo e increato, ma anche differenziato da quel Dio, il Padre, tramite i logoi (cioè le parole) che pronuncia.
  5. La maggior parte degli studiosi datano la vita di Filone verso il 20 p.e.v.–50 e.v., ma è stata proposta anche una datazione più ampia Si vedano Schenck, A Brief Guide to Philo, 9; Sterling, "Philo of Alexandria Commentary Series", ix; Runia, Philo of Alexandria, 3 nota 3. Ma certamente tutte le stime pongono gli scritti di Filone perlomeno mezzo secolo prima della datazione della composizione finale del Vangelo di Giovanni, con gli anni 90–110 e.v. quale possibile lasso di tempo per la forma finale di detto Vangelo. Cfr. Brown S.S., An Introduction to the Gospel of John, 199–215.
  6. Gundry, Jesus the Word, 3-50.
  7. 438 Gundry ha affermato che "Il Quarto Vangelo è inalterabilmente controculturale e settario, poiché una setta è un gruppo religioso che rifiuta l'ambiente sociale in cui esiste." Vedi Gundry, Jesus the Word, 63–64, ma 51–70 per contesto. La mia difficoltà con la sua argomentazione è duplice:
    In primo luogo, seguendo il modello reso popolare da James Dunn negli anni ’90 di una precoce separazione tra ebraismo e cristianesimo all'indomani della distruzione del Secondo Tempio nel 70 e.v. (cfr. Dunn, The Partings of the Ways), Gundry suppone che al momento della composizione del Vangelo di Giovanni ci fosse già un distinto gruppo di "cristiani" che si erano separati dagli "ebrei". Vedi, per esempio, il suo uso non qualificato della parola "cristiani" (Jesus the Word, 58), o più in generale, la sua totale mancanza di considerare la questione degli "ebrei". Tuttavia, studi più recenti hanno contestato l'ipotesi di una prima separazione. Come ha sottolineato Annette Yoshiko Reed, questi studiosi hanno eluso "la semplicità sociologica e metodologica dell'idea di una singola, separazione precoce", e invece hanno dimostrato che "gli sforzi ebraici e cristiani di autodeterminazione rimasero intimamente interconnessi, carichi di ambivalenza e sorprendentemente fluidi, molto tempo dopo la cosiddetta ‘separazione delle vie’". Cfr. "Cristianesimo ebraico ", 225. Di conseguenza, molti studiosi – me compreso – ora riconoscono l'innegabile complessità e fluidità all'interno di questa condivisa tradizione religiosa e sostengono che le due religioni non si separarono formalmente, almeno in alcune località geografiche, come la Siria romana, fino al IV secolo e.v., se non ben oltre. Cfr. Forger, "Interpreting the Syrophoenician Woman", 132-166; Reed e Vuong, "Christianity in Antioch", 105-132; Reed & Becker, "Introduction", 1–33; Schremer, Brothers Estranged, 3–24; Boyarin, Dying for God, 1–21; idem, Borderlines, 17–33; idem, "Rethinking Jewish Christianity", 7–36; Reed, "‘Jewish Christianity’ after the ‘Parting of the Ways’", 189–232; idem, "‘Jewish Christianity’ as Counter-history?" 191–94; idem, "Parting Ways over Blood and Water?" 227–59; idem, "Rethinking (Jewish-)Christian Evidence", 349–377; Zetterholm, "Alternative Visions of Judaism", 127–53; Fiano, "From ‘Why’ to ‘Why Not’", 343–346; Fonrobert, "The Didascalia Apostolorum", 488–89.
    In secondo luogo, dal momento che Gundry opera tacitamente sotto questo presupposto di una separazione precoce tra "ebraismo" e "cristianesimo", egli non tiene conto delle testimonianze di altra letteratura ebraica esistente all'epoca, tra cui i Manoscritti del Mar Morto, Filone, e i cosiddetti Apocrifi dell'Antico Testamento e Pseudepigrapha, il che complicherebbe la sua tesi. Invece fa avanzare la sua tesi dalle prove interne ai soli vangeli canonici, spesso confrontando il Quarto Vangelo con quello dei Sinottici. Nel fare ciò, prende la retorica dell'autore giovanneo come prova della realtà della situazione sul campo. Tuttavia, come ha affermato Lieu, è spesso proprio nei momenti in cui i primi "ebrei" e "cristiani" cercavano di tracciare dei confini tra loro, che si vede l'instabilità intrinseca di quelle stesse definizioni: "selettività, fluidità, dinamismo, permeabilità sono tutti intrinseci alla costruzione di confini... Laddove la retorica costruisce il confine come immutabile e impenetrabile, possiamo invece sospettare invasione e penetrazione effettive." Vedi Judith Lieu, "‘Impregnable Ramparts and Walls of Iron’: Boundary and Identity in Early ‘Judaism’ and ‘Christianity,’", NTS 48.3 (2002): 297–313, partic. 309; idem, Image and Reality: The Jews in the World of Christian Identity in the Jewish and Graeco-Roman World (Oxford: Oxford University Press, 2004). Solo leggendo il Vangelo di Giovanni nel contesto di altra letteratura e testimonianze si può valutare il "settarismo" presente negli scritti dell'autore giovanneo e della sua comunità. Certamente, come dimostrerò in questo Capitolo, una lettura del Quarto Vangelo alla luce di Filone complica le forti affermazioni di Gundry.
  8. In effetti, anche le parole di Gesù (qui descritte come τὰ ῥήματα) sono, a volte, descritte come le opere (τὰ ἔργα) del Padre (cff. Giovanni 14:10). Pertanto sarebbe interessante considerare ulteriormente come anche le opere di Gesù lo collegano direttamente al Padre (cfr. Giovanni 4:34;5:17,36;9:3-4;10:32,37;14:10;17:4). Per alcune considerazioni iniziali su tali collegamenti potenziali, si veda Burge, Anointed Community, 79–80.
  9. Sia εἰμί che ὁ ὤν derivano dalla stessa radice greca, εἰμί, ma sono coniugati differentemente. In contrasto, sebbene אֶֽהְיֶ֖ה e אֶֽהְיֶ֖ה derivino dalla stessa radice, היה, sono coniugati esattamente nello stesso modo.
  10. Per varie prospettive sulle affermazioni "IO SONO", specialmente rispetto a Giovanni 4:26, cfr. Gail R. O’Day, Revelation in the Fourth Gospel: Narrative Mode and Theological Claim (Philadelphia: Fortress Press, 1986), 50, 72; David Mark Ball, “I AM” in John’s Gospel: Literary Function, Background, and Theological Implications. JSNTSup 124. (Sheffield: Sheffield Academic Press, 1996), 60–67, 176, 178–181. Si noti che David Mark Ball, in particolare, dimostra come ci sia una connessione esplicita tra Giovanni 4:26 e Isaia 52:6. poiché Isaia 52:6 si riferisce a Yahweh, giustamente Ball asserisce: "Quando Gesù dice ‘Io sono colui che parla’ egli prendi quindi le parole di Yahweh e le applica a se stesso... L'identità di Gesù come messia è quindi un'identità che include un'identificazione con Yahweh" (180).
  11. Cfr. Giovanni 8:3, 13, 22, 46, sebbene si noti che, negli ultimi due casi, il Vangelo si riferisce agli "ebrei" più in generale e non a sottosezioni più specifiche degli ebrei, come gli "insegnanti della legge" e i "farisei".
  12. Una possibile eccezione a questo punto si può trovare nell'opera di Francis Moloney, che traduce Giovanni 4:26 con "IO SONO Colui che ti parla". Cfr. Francis Moloney, Belief in the Word: Reading the Fourth Gospel: John 1–4 (Minneapolis: Fortress Press, 1993), 154–156. Per prospettive simili, cfr. David Mark Ball, che suggerisce – come faccio io supra – che Giovanni 4:26 opera su un duplice livello e fa riferimento a Isaia 52:6, che descrive come in quel giorno il popolo saprà che il Signore (cioè Yahweh) parla. Cfr. Ball, "I AM", 179–180. Si veda anche Gundry, Jesus the Word, 18–20, che — in aggiunta ai suoi commenti su Giovanni 4:26 — asserisce che l'autore del Vangelo giovanneo crea un parallelismo intenzionale in Giovanni 4:10 tra la descrizione Che Gesù fa di se stesso come "il dono di Dio" e la sua descrizione come "Colui che ti parla" (ὁ λέγων σοι), sostenendo che anche questo riferimento possa avere un significato cristologico.
  13. Si veda, per esempio, John Painter, che evidenzia questo punto e anche la peculiarità di presentare una donna samaritana che parla del Μεσσίας, piuttosto che del ὁ Χριστός. Cfr. John Painter, The Quest for the Messiah: The History, Literature, and Theology of the Johannine Community (Edinburgh: T & T Clark, 1991), 168, partic. nota 117. Si noti anche che, in contrasto con la chiara affermazione di Gesù circa il suo ruolo messianico, il personaggio di Giovanni il Battista enfaticamente lo nega (οὐκ εἰμι ἐγὼ ὁ Χριστός, Giovanni 3:28; cfr. 1:20).
  14. Da notare che Gesù fornisce una descrizione simile di se stesso in Giovanni 9:37, quando, dopo che l'uomo nato cieco è stato guarito, egli gli dice "lo hai visto [cioè il Figlio dell'Uomo, cfr. Giovanni 9:35], ed egli è colui che ti parla (ὁ λαλῶν μετὰ σοῦ)". Per una discussione del suo importante significato, si veda Gundry, Jesus the Word, 19–20.
  15. Per altri esempi dove l'autore giovanneo suggerisce che, poiché Gesù ed il Padre condividono la stessa identità divina, e poiché Gesù fu inviato dal Padre sulla terra, Gesù funziona come portavoce di Dio, cfr. Giovanni 7:16-17, dove Gesù afferma: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato (τοῦ πέμψαντός με). Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso (ἐγὼ ἀπ’ ἐμαυτοῦ λαλῶ)." Si veda anche Giovanni 14:10-11, dove Gesù chiede ai suoi discepoli: "Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico (τὰ ρήματα ἅ ἐγω λέγω), non le dico da me (ἐαυτοῦ οὐ λαλῶ); ma il Padre che è con me compie le sue opere". Anche in Giovanni 14:24, in cui Gesù insiste coi suoi interlocutori: "la parola che voi ascoltate non è mia (καὶ ὁ λόγος ὅν ἀκούετε οὐκ ἔστιν ἐμου), ma del Padre che mi ha mandato (ἁλλὰ τοῦ πέμψαντός με πατρός)". Anche Giovanni 15:15: "Tutto ciò che ho udito (ἤκουσα) dal Padre l'ho fatto conoscere a voi". Infine, si veda Giovanni 17:8, dove Gesù afferma che "le parole che tu [cioè Dio] hai dato a me io le ho date a loro (ὅτι τὰ ῥήματα ἅ ἔδωκάς μοι δέδωκα αὐτοῖς); essi le hanno accolte e sanno veramente che io sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato". Si veda anche Gundry, Jesus the Word, 3–50.
  16. La formulazione specifica di Isaia 54:14, secondo la versione della LXX è: "πάντας τοὺς υἱούς σου διδακτοὺς θεοῦ", quindi porta le stesse connotazioni di Giovanni 6:45, ma la dicitura non è identica. Per una descrizione simile delle persone che apprendono direttamente da Dio, si veda Geremia 31:34.
  17. Vedi anche Giovanni 18:20, in cui Gesù informa il Sommo sacerdote: "Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto." Ciò segna una deviazione significativa dagli altri Vangeli canonici, e in particolare da Marco, in cui l'identità messianica di Gesù è tenuta segreta.