Ebraicità del Cristo incarnato/Introduzione 5

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"Dio Architetto dell'Universo", miniatura su pergamena, ca. 1220-1230

Il Logos divino incarnato

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Introduzione

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Papiro 52, contenente una parte del Vangelo di Giovanni

Nell'ultimo capitolo, ho esplorato come uno degli attributi di Dio, vale a dire Sofia, sia stato prima personificato e infine materializzato nella prima tradizione ebraica. Nel fare ciò, mi sono occupato in modo specifico dell'implicazione di genere di quella forma di materializzazione, concentrandomi su come due scrittori ebrei alessandrini del I secolo rappresentavano la figura di Sofia in modi sempre più maschili per farla diventare uno strumento più adatto con cui una parte di Dio poteva entrare nel mondo che Egli aveva creato. Come ho notato in quel Capitolo, questa forma di incarnazione divina è diversa da quelle che ho esaminato nei Capitoli III e IV, non solo perché Sofia è un attributo di Dio (e quindi non sinonimo della suprema divinità increata di Israele), ma anche perché non entra esclusivamente negli umani, ma la sua natura sempre fluida la posiziona ad entrare più ampiamente nel reame creato. Pertanto, sebbene significativo per la mia più ampia discussione su questo fenomeno, il modo in cui Sofia opera quale forma di incarnazione divina è piuttosto distintivo.

In questo capitolo, propongo un mezzo diverso con cui gli ebrei del I secolo immaginavano che una parte di Dio potesse prendere forma corporea. In particolare, mi concentro sui modi paradossali che due autori ebrei del I secolo, vale a dire Filone di Alessandria e l'autore del Vangelo di Giovanni, descrivono la figura enigmatica del logos — variamente tradotto come parola/verbo, ragione, razionalità o pensiero di Dio. Lo faccio perché, come ho sottolineato nell’Introduzione, per gran parte della storia cristiana, gli studiosi hanno ipotizzato che la nozione paradossale di una figura incarnata divina fosse un problema solo per il cristianesimo. Tuttavia la mia analisi in questo Capitolo complica tale ipotesi rivelando che ci sono sorprendenti somiglianze nella lingua usata da entrambi gli autori ebrei – e considero il Vangelo di Giovanni come un testo ebraico – sia che descrivano il logos divino o il Cristo incarnato. Questo non vuol dire che i due condividano la stessa teologia. Ognuno delimita come il logos divino può incarnarsi o entrare nel mondo creato, nel suo modo unico. Eppure, le somiglianze sono così sorprendenti che la credenza in una figura divina incarnata sembra già aver avuto una preistoria nell'ebraismo ellenistico. In particolare, al tempo di Filone, se non prima, esisteva una tradizione che credeva che una parte del Dio creatore potesse incarnarsi nel mondo creato attraverso il mezzo specifico del logos di Dio.

Nel fare queste affermazioni, situo il Vangelo di Giovanni – e la sua descrizione di Gesù come parola divina fattasi carne (ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο) – in un particolare momento della storia ebraica. Sebbene gli studiosi abbiano a lungo indicato Giovanni 1:14 come il punto in cui la "narrativa cristiana" si è differenziata dalla sua ebraicità,[1] io sostengo che il versetto e le risonanze relative al concetto di λόγος incorporato in tutto il Vangelo, furono solo uno dei molti modi in cui gli ebrei che vivevano verso il I secolo e.v. credettero che Dio potesse assumere una forma corporea. Ambientato in questo contesto storico, l'articolazione di Gesù data dal Vangelo di Giovanni come divino "logos fattosi carne" assume un nuovo significato (Giovanni 1:14). Cioè, lungi dall'essere antitetico all'ebraismo come presumevano gli studiosi,[2] o dall'essere il caso in cui il Vangelo di Giovanni si differenziava dal suo "Koine ebraico" e iniziava invece ad articolare un caratteristico "kerygma cristiano, una proclamazione",[3] la descrizione di Giovanni della divina "Parola fattasi carne" era in realtà un modo alquanto ebraico di concepire come il divino potesse materializzarsi sulla terra.

Ora, ad essere certi (come sottolineo nella seconda parte di questo Capitolo), sebbene simili, ci sono chiare differenze tra il modo in cui Filone comprende l'incarnazione di Dio tramite il logos e come il Vangelo di Giovanni concepisce la stessa idea. Ma parte di ciò che sto proponendo qui (e che dimostrerò nella prima parte del Capitolo) è che solo perché la versione di Giovanni è distintiva non significa che non sia più ebraica. Piuttosto, le due diverse descrizioni del logos riflettono semplicemente la diversità del pensiero ebraico rispetto a questi argomenti. Inoltre, (come suggerirò ulteriormente nella terza parte di questo Capitolo) quando le descrizioni di Gesù fatte dall'autore giovanneo presentandolo come logos vengono interpretate alla luce di Filone, uno dei problemi di lunga data tra gli studiosi neotestamentari riguardo al rapporto tra il prologo del Vangelo e il resto del Vangelo può essere letto con occhi nuovi. Vale a dire, sostengo che lo scrittore giovanneo non solo presenta Gesù come l'incarnazione di Dio sulla terra attraverso la sua descrizione di Gesù come il "logos fattosi carne" (cfr. Giovanni 1:14,17-18), ma anche in tutto il resto del Vangelo mediante le parole, o logoi, che egli pronuncia. Ciò che spero che questo Capitolo illumini, insieme a quelli che lo hanno preceduto, è come la nostra comprensione storica della nozione di "incarnazione divina", di cui i logos di Filone e del Vangelo di Giovanni sono solo due esempi, sia stata più limitata da come noi abbiamo definito il termine rispetto a un fine teologico particolare nella teologia cristiana, vale a dire l'Incarnazione, che non dal concetto paradossale stesso.

  Per approfondire, vedi Biografie cristologiche.
  1. Da notare che la citazione proviene da Boyarin, Borderlines, 105. Una prospettiva simile, tuttavia, si può trovare in Dunn, Christology in the Making, 213.
  2. In effetti, alcuni studiosi hanno asserito che gli ebrei non potessero mai concepire Dio in forma corporea, umana. Si veda, per esempio, Schoeps, The Jewish-Christian Argument; Parrinder, Avatar and Incarnation.
  3. Le citazioni sono di Boyarin, Borderlines, 105. Si vedano anche Dunn, Christology in the Making, 213; Casey, Jewish Prophet, 23–40. Sebbene Casey non si concentri esclusivamente su questo particolare versetto, egli vede chiaramente il prologo del Vangelo di Giovanni come presentasse "una dichiarazione esplicita dell'incarnazione in senso forte" (23) e considera "la redazione finale di Giovanni 1-20" (38 ) come "la prima prova della divinità e dell'incarnazione di Gesù" (38), uno "sviluppo" che non poteva avvenire entro i limiti del "monoteismo" ebraico (37–38), quindi doveva avvenire "nell'ultima parte del primo secolo in una comunità che aveva un'autoidentificazione gentile" (38).