Storia e memoria/Capitolo 11

Indice del libro
Daina Skadmane – artwork: "Look", Riga ghetto, 1941

La Shoah, il Sacro e l'Identità Ebraica modifica

  Per approfondire, vedi Interpretazione e scrittura dell'Olocausto.

Identità della vittima ebrea in Germania e Nord America del dopoguerra: la cicatrice senza ferita e la ferita che non si chiude modifica

Nella prima parte di questo Capitolo, discuto della cultura pubblica e della routine della vita quotidiana in Germania che per decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale risuonava ancora degli echi dell'Olocausto. In un intreccio che minava il passaggio sequenziale del tempo storico, il passato di sterminio teneva in ostaggio il presente. Questa presenza del genocidio all'interno della società post-genocida precludeva la sacralizzazione della Shoah che ha caratterizzato invece la cultura ebraica dell'Olocausto in Nord America fin dai suoi inizi.[1]

In un contesto storico in cui gli ebrei furono rimossi dalla Shoah per geografia ed esperienza, il coinvolgimento degli ebrei nordamericani nel genocidio delle loro controparti europee portò a quella che potrebbe essere definita la Passoverization dell'Olocausto. Nella seconda sezione di questo Capitolo delineerò come gli ebrei abbiano mappato il ricordo e la rivisitazione di narrazioni selettive del martirio e dell'eroismo ebraico durante la Seconda guerra mondiale richiamando la storia biblica dell'Esodo dall'antico Egitto durante la festa della Pesach, che è un obbligo religioso. Nella modalità dell'Haggadah pasquale che chiede a tutti gli ebrei di considerarsi liberati personalmente dalla schiavitù egizia, gli ebrei nordamericani arrivarono a pensare di aver sperimentato personalmente la Shoah. Trasposero la campagna genocida dei nazisti nel tempo mitico e effettuarono una profonda identificazione con le vittime del genocidio degli ebrei europei.

Fino a tempi molto recenti in Germania l'Olocausto non era finito; la persecuzione e il genocidio non erano passati, poiché non si erano ritirati nella storia. Facevano parte del presente. Le persecuzioni e le uccisioni erano terminate nel 1945 e nella Germania del dopoguerra gli ebrei erano probabilmente più al sicuro che nella maggioranza delle altre parti del mondo, in particolare, ironicamente, in Israele. Tuttavia, nonostante la caesura politica, il nazionalsocialismo e il tentativo di estinguere gli ebrei europei continuarono per decenni a permeare la cultura politica e la vita quotidiana degli ebrei e dei tedeschi non-ebrei sia nella Germania orientale che in quella occidentale a vari livelli.[2] Nella Repubblica federale del dopoguerra, cioè lo stato successore del Terzo Reich, la questione tedesca e la questione ebraica si intersecarono nel reame dell'alta politica.[3] Quando nel marzo 1951, due anni dopo la fondazione dei nuovi stati tedeschi, l'altrettanto giovane stato israeliano chiese alle potenze alleate i "pagamenti della restituzione", il cancelliere della Germania occidentale Konrad Adenauer si affrettò a dichiarare che il suo governo "intended to place the relationship of Jews to the German people on a new and healthy footing".[4] Tuttavia, solo l'11 per cento dei tedeschi occidentali era in favore dei relativi pagamenti, e Adenauer non nascose che "foreign policy considerations" dettassero questa linea d'azione.[5] In effetti, l'impopolare diplomazia filosemitica del governo Adenauer svolse un ruolo decisivo nel legittimare la sovranità ricercata e alla fine ottenuta dalla Repubblica Federale della Germania Ovest.[6] Fu solo nel luglio 1951, ad esempio, che le potenze occidentali dichiararono la fine dello stato di guerra con la Germania.[7]

La cultura politica degli anni '50 nella Germania occidentale era quindi caratterizzata da una peculiare miscela, da un lato, di filosemitismo ufficiale e promozione pubblica di atteggiamenti filoebraici e, dall'altro, antisemitismo e stereotipi persistenti sugli ebrei. I tedeschi non ebrei idealizzavano gli ebrei e lodavano i contributi che gli ebrei tedeschi avevano dato alla cultura e alla storia tedesca, mentre si riferivano a loro come i loro ebrei Mitbürger (concittadini), e persino lo stesso Adenauer parlò nelle sue memorie del "the power held by Jews ... especially in America".[8]

Nei decenni successivi questa tensione persistette. Con la massiccia assistenza degli Stati Uniti, la capitalista Repubblica Federale conobbe una sbalorditiva ripresa economica e cercò di definirsi un esempio di virtù civica e democrazia parlamentare occidentale. Eppure il passato continuava a sfociare in questo idillio postbellico di aspirata normalità, contaminandola. Dopo il processo Eichmann del 1961 a Gerusalemme, i processi di Francoforte/Auschwitz della metà degli anni '60 portarono alla ribalta non solo le atrocità naziste stesse, ma anche la complicità di una generazione di giuristi tedeschi.[9] Negli scontri particolarmente veementi delle rivolte studentesche del 1968 e nei successivi scontri politici e culturali degli anni '70, i giovani tedeschi non-ebrei continuarono a denunciare il coinvolgimento dei loro genitori, insegnanti e un'ampia gamma di personaggi pubblici nel terrore della regime nazista, e la deportazione e lo sterminio dei loro concittadini ebrei. Allo stesso tempo, il movimento emergente della controcultura arrivò a coltivare i propri miti sulla natura del fascismo tedesco. Negli anni '80 e '90, la cultura pubblica tedesca fu scossa da controversie e scandali come l'affare Bitburg, l’Historikerstreit ("disputa tra storici"), gli aspri conflitti intorno alla mostra della Wehrmacht che tematizzava i crimini dei soldati regolari tedeschi nella Seconda guerra mondiale, e il dibattito Walser-Bubis. In questi e in molti altri affari minori e in accese controversie pubbliche, in cui un tumultuoso passato omicida squarciava la superficie di un presente civico colto e educato, l'incontro ebraico-tedesco ebbe un ruolo di primo piano. In tale groviglio tedesco-ebraico del dopoguerra, che Dan Diner ha definito la simbiosi negativa di tedeschi ed ebrei, i non-ebrei tedeschi elaborarono la loro identità nazionale.[10]

Il nazionalsocialismo e la Judenverfolgung (persecuzione degli ebrei) rimasero ugualmente onnipresenti nella vita di tutti i giorni: nelle strade, nei negozi, nei luoghi di lavoro e nei pub, nella cultura popolare e nel linguaggio comune, quando i tedeschi non-ebrei si parlavano – o parlavano inconsapevolmente con ebrei – nelle loro conversazioni, nelle osservazioni en passant e nelle battute spiritose. In modo malizioso e in qualche modo nostalgico, alcuni tedeschi continuarono negli anni '70 e '80 a fare riferimento all'imposta nazionale sulle vendite con il suo nome nazista. Un commentario simile continuò nel discorso popolare: durante i viaggi si sentiva: "what terrible potholes are in the highway that the Führer [Hitler] built for us"; più esplicitamente: "things would be much better if we had not lost the war"; "if Hitler was still here, these foreigners would not loiter in our parks and leave all that garbage behind" (intendendo gli immigrati turchi); all'improvviso, qualcuno potevva annunciare: "of course Hitler went too far with the Jews, but something needed to be done about them". Non era raro che le persone facessero affermazioni del tipo: "these young people who do not obey the traffic rules should be gassed".[11] Negli schemi del linguaggio quotidiano, la demarcazione tra passato e presente continuava a essere offuscata.

Inoltre, quando i sopravvissuti ebrei interagivano con medici, proprietari immobiliari, datori di lavoro, agenti di polizia e altri funzionari tedeschi, affrontavano individui che erano stati istruiti e formati nella Germania nazionalsocialista, o erano cresciuti sotto il dominio fascista ed erano stati membri delle organizzazioni giovanili naziste, o aveva prestato servizio nell'esercito tedesco. Questi uomini e donne a volte espressero tale eredità in una varietà di commenti razzisti e antisemiti, e quasi sempre pervase il loro modo di vedere, il comportamento, il linguaggio del corpo e il tono di voce. Così, negli anni '70 e '80, il passato nazista era ancora molto vivo nel presente tedesco. Gli ebrei in Germania non ricordavano tanto la persecuzione e il genocidio a distanza, ma vivevano in un ambiente ancora saturo della lingua, dell'habitus e della cultura di una società genocida e omicida.[12]

Mi aspetto che sia vero per tutti i sopravvissuti e le vittime di traumi che il confine tra il passato traumatico e il presente è fragile e che il passato continua a invadere il presente.[13] Tuttavia, in Germania, questa non era solo una dinamica emotiva, ma il passato traumatico non era letteralmente ancora finito. In Germania, gli ebrei rincontravano costantemente la loro vittimizzazione e venivano quindi ritraumatizzati e nuovamente vittimizzati. Ciò include i nati dopo il 1945 che erano profondamente colpiti e trasformati in vittime dall'interazione con il loro ambiente e dal terrore, dalla paura e dal senso di alienazione che avevano assorbito dai loro genitori.[14] Gli ebrei nella Germania del dopoguerra, tuttavia, erano profondamente ambivalenti riguardo ai loro stato di vittima, anche se avevano lottato per il riconoscimento come vittime fin dal momento in cui erano stati liberati dai campi o erano emersi dalla clandestinità.

Funzionari dell'esercito americano riferirono che la popolazione tedesca che viveva in prossimità dei campi di lavoro forzato non solo affermava di non sapere cosa fosse successo all'interno, ma quando fu costretta dalle truppe di occupazione a vedere i campi liberati, la gente del posto "covered their faces and turned their heads away".[15] Allo stesso tempo, i tedeschi non-ebrei dichiararono di essersi sentiti "terrorized themselves" durante il regime nazista, di aver sofferto enormemente durante la guerra e di star ancora affrontando grandi difficoltà.[16] Tuttavia, i rapporti americani sui maltrattamenti dei lavoratori stranieri e lo sterminio di massa di ebrei venivano considerati esagerati dai non-ebrei tedeschi.[17] Di conseguenza, le prime generazioni di libri di testo scolastici della Germania occidentale discussero ampiamente delle sofferenze che i bombardamenti alleati avevano inflitto alla popolazione tedesca, dedicando solo una minima attenzione alla persecuzione dei ebrei.[18] Negli anni '70, quando la cultura pubblica cambiò, la consapevolezza e il riconoscimento del genocidio degli ebrei europei aumentarono e un segmento crescente della popolazione tedesca accettò la responsabilità degli atti della generazione precedente, quella dei propri genitori.[19] In tali anni, diventò meno comune per i tedeschi non-ebrei negare, o almeno ignorare, l'immensità della carneficina antiebraica, smettendo di evidenziare la sofferenza tedesca. Oggi questo approccio, che dominò il panorama politico negli anni del dopoguerra, non è più egemonico.

Eppure, negli ultimi decenni del ventesimo secolo fino ad oggi, la posizione moralmente più reattiva e autocritica dei tedeschi principalmente più giovani è stata costantemente contestata. In uno degli episodi più noti di una catena ininterrotta di provocazioni e scontri – l'affare Bitburg del 1985 – il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan si unì al cancelliere della Germania occidentale Helmut Kohl in una commemorazione che includeva una visita al campo di concentramento di Bergen-Belsen e una cerimonia in un cimitero militare con tombe di SS. Nella Historikerstreit pubblica dello stesso decennio, gli storici tedeschi tentarono di riabilitare l'idea che la guerra di Hitler fosse principalmente di carattere difensivo e che l'Olocausto fosse solo un fratello minore dei maggiori crimini stalinisti.[20] Negli anni '90, la preoccupazione tedesca per la propria sofferenza in tempo di guerra raggiunse un nuovo culmine, quando i conservatori affermarono di rompere un presunto silenzio sul vittimismo tedesco.[21] Pertanto, dalla fine della Seconda guerra mondiale il discorso del vittimismo tedesco non è mai stato completamente eclissato, anche se oggi è tutt'altro che l'unica valida lettura della storia tedesca. Nel corso di questi decenni, gli ebrei in Germania e individui e gruppi critici non-ebrei hanno combattuto una battaglia contro la relativizzazione e la minimizzazione della Shoah.[22] In questo contesto, gli ebrei hanno insistito per essere riconosciuti come vittime di una campagna genocida di portata senza precedenti e di straordinaria completezza. A parte la loro lotta per lo status di vittima in queste battaglie politiche, gli uomini e le donne ebrei in Germania, a volte, hanno anche coltivato un'identità di vittima nei loro scritti più personali. In particolare, i figli dei sopravvissuti hanno creato una letteratura in cui si presentavano al pubblico tedesco e alla comunità ebraica come gravemente danneggiati. In alcune di queste narrazioni degli anni '80 e '90, gli autori descrivono come la persecuzione e le uccisioni di massa, che loro stessi non hanno subito, contaminano e distorcono ogni aspetto della loro vita. Tuttavia, questo stesso corpus di pubblicazioni mostra anche che gli autori ebrei di questi testi hanno lottato per uscire da quella che percepivano come una trappola del vittimismo. Hanno rifiutato una matrice che includa solo le posizioni binarie di agenti disumani da un lato e vittime innocenti e indifese dall'altro. Hanno cercato identità ebraiche più complesse e praticabili. Negli stessi testi in cui donne e uomini ebrei spiegavano come il vittimismo li definisse nell'intimo, si opponevano però all'essere associati principalmente ai campi di concentramento e alle camere a gas. Volevano che i loro parenti fossero riconosciuti come individui dotati di libero arbitrio e dignità piuttosto che come corpi passivi che erano stati assassinati. In effetti, i sopravvissuti ebrei e i loro figli tendevano a sentirsi profondamente a disagio con l'identità della vittima che rappresentavano, spesso loro malgrado, e che dovevano difendere. Sentivano di non meritare di vivere, poiché tanti altri ebrei non avevano meritato di morire. Gli ebrei nella Germania del dopoguerra ritenevano che i loro parenti morti fossero le vittime del genocidio, piuttosto che coloro che erano sopravvissuti.[23]

Curiosamente, infatti, nell'immediato dopoguerra gli ebrei nei campi DP della Germania occupata non ritenevano affatto che tutti i sopravvissuti fossero solo vittime. Al contrario, come documenta Isaiah Trunk nel suo studio magistrale sui Judenrat (Consigli Ebraici) nei ghetti nazisti dell'Europa orientale, nel momento della loro liberazione i sopravvissuti iniziarono a impegnarsi in accese discussioni sulle malefatte di altri sopravvissuti e sulla loro colpevolezza per alcune delle uccisioni che erano avvenute. I detenuti dei campi DP chiedevano giustizia e le comunità di sopravvissuti in tutta Europa istituirono Tribunali d'onore e processarono un numero significativo di loro compagni ebrei, la maggior parte dei quali membri dei Consigli Ebraici e delle forze di polizia ebraiche.[24] Sorprendentemente, quindi, i sopravvissuti nell'immediato dopoguerra, che avevano assistito alla genocidio, operarono partendo dal presupposto che certi leader ebrei avessero collaborato e persino responsabilità nel programma di sterminio nazista; gli studiosi contemporanei considerano questo come un presupposto in gran parte fuorviante. Che non avressero trovato altro sfogo per la loro rabbia e angoscia; che non potessero emotivamente sopportare l'idea che i loro leader fossero stati del tutto impotenti; o perché alcuni di loro erano stati effettivamente vittimizzati da quegli ebrei ai quali i nazisti avevano assegnato posizioni di autorità sui loro correligionari: come gruppo, i sopravvissuti non aderivano comunque al concetto che tutti gli ebrei fossero stati vittime innocenti senza spazio per il libero arbitrio.[25]

Nel giovane stato israeliano alcuni sopravvissuti fecero pressioni sulle autorità affinché assicurassero alla giustizia i membri delle forze di polizia del ghetto, i kapo, supervisori del blocco dei campi e altri ebrei che in qualche modo avevano esercitato autorità sui compagni ebrei o avevano cercato vantaggi nella macchina nazista della disumanizzazione e distruzione. In base alla "Nazis and Nazi Collaborators (Punishment) Law (חוק לעשיית דין בנאצים ובעוזריהם, תש"י-1950)" approvata due anni dopo la fondazione dello stato, negli anni '50 e all'inizio degli anni '60 furono processati una quarantina di sopravvissuti, la maggior parte dei quali "marginal perpetrators". Mentre i tribunali comunemente mostrarono clemenza nei confronti di questi imputati, che erano evidentemente vittime del regime nazista anche se avevano commesso atti riprovevoli o violenti, questi processi rivelarono un inferno morale in cui le vittime non erano innocenti o virtuose.[26]

Quale che fosse la base fattuale, i sopravvissuti erano sospetti in Israele e in Canada alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta. Gli inviati dello Yishuv nei campi DP del dopoguerra in Germania avevano descritto i resti dell'ebraismo europeo come "detriti umani" moralmente carenti. Secondo questi osservatori sionisti, una selezione negativa aveva consentito principalmente agli egoisti di sopravvivere, e negli anni successivi alcuni israeliani continuarono ad accusare i sopravvissuti di aver prevalso a spese di fratelli/sorelle o di genitori perduti.[27] Come la società israeliana, anche gli ebrei canadesi lottavano in questo periodo per integrare e assorbire un contingente relativamente ampio di sopravvissuti all'Olocausto emotivamente e fisicamente sfregiati — in proporzione, un gruppo molto più ampio di quello che raggiunse gli Stati Uniti dopo la guerra. In Canada, la popolazione ebraica affermata sospettava che i recenti immigrati dall'Europa avessero agito male o addirittura commesso crimini nei ghetti o nei campi, e chiedeva ai nuovi arrivati ​​di giustificare la loro sopravvivenza.[28] Durante la guerra, l'UJPO canadese (United Jewish People's Order), un'organizzazione di sinistra con tendenze comuniste, aveva sostenuto la sinistra ebraica e "la strada ebraica" nei ghetti, nella loro lotta contro la leadership rabbinica e gli Judenräte (Consigli Ebraici). Così, in un evento del 1957 in memoria del ghetto di Varsavia, l'UJPO denunciò ancora lo Judenrat di Varsavia e altri presunti collaboratori nazisti.[29] Solo pochi anni dopo, Hannah Arendt prese una posizione altrettanto critica ma molto meno radicale nel suo libro del 1963, Eichmann a Gerusalemme, apparso per la prima volta in una serie di articoli sul New Yorker come rapporto sul processo contro Adolf Eichmann. Nella pubblicazione, Arendt sosteneva che la leadership ebraica aveva contribuito alla riuscita attuazione del progetto di sterminio tedesco mantenendo un'amministrazione comunitaria controllata dai nazisti, piuttosto che abbandonare tutti i servizi comunitari legali e aprire la porta al caos.[30] Tuttavia, se la Arendt presumeva che il mondo ebraico guardasse ancora con disprezzo ai sopravvissuti e nutrisse sfiducia nei confronti dei leader ebrei nell'Europa occupata dai nazisti, ne rimase gravemente delusa. Quando fu pubblicato Eichmann a Gerusalemme, una sacralizzazione delle vittime dell'Olocausto insieme a una demonizzazione degli autori nazisti aveva guadagnato terreno tra gli ebrei nordamericani. In effetti, l'accoglienza pubblica del processo Eichmann e la controversia che circondava l'opera di Arendt svolsero un ruolo importante nel consolidare questa dicotomia. Dopo tre anni di furioso dibattito sulle riflessioni di Arendt, il concetto di "archetypically pure distinction between victim and victimizer" era diventato dominante negli Stati Uniti, in Canada e in Israele.[31] Così, a metà degli anni '60, quando l'immediato dopoguerra era terminato, l'ebraismo mondiale nel suo insieme giunse a respingere categoricamente il suggerimento di Arendt che gli ebrei non fossero stati tutti martiri e santi virtuosi e impotenti, e che Adolf Eichmann fosse un personaggio non eccezionale piuttosto che un mostro. Anche i leader ebrei tedeschi si opposero con veemenza alle affermazioni della Arendt e le chiesero di interrompere la pubblicazione del libro Eichmann a Gerusalemme, tuttavia per ragioni loro personali, gli uomini del Consiglio degli ebrei tedeschi si sentirono attaccati direttamente.[32] Loro e i loro compagni non sopravvissuti avevano agito al meglio delle loro capacità in situazioni orribili. Ma sapevano per dolorosa e amara esperienza che ogni decisione sul se e come rispettare gli ordini nazisti aveva portato alla morte e alla distruzione. Nessuno capiva meglio di loro che sotto il dominio nazista non era esistita alcuna linea d'azione buona e moralmente incontaminata. In Germania, i sopravvissuti a volte si riferivano anche ai compagni ebrei assassinati come a martiri, ma per la maggior parte l'universo orribile e mortale di ambiguità morali e tensioni e contraddizioni strazianti era ancora troppo presente per consentire alle persone di rifugiarsi in nette dicotomie. Tuttavia, questo stato di cose, insieme all'atmosfera di sospetto che regnava nelle comunità di sopravvissuti, non attenuò la loro reazione al lavoro di Arendt. Piuttosto, anche i sopravvissuti sembrano essersi profondamente risentiti per il fatto che la Arendt avesse trasmesso le sue riflessioni di fronte a un pubblico internazionale non-ebreo.[33]

In Israele, una traduzione ebraica del libro di Arendt non apparve per decenni e la controversia su Eichmann a Gerusalemme ebbe luogo all'interno di una ristretta cerchia di intellettuali.[34] Tuttavia, lo stesso processo Eichmann segnò un cambiamento epocale nell'atteggiamento nei confronti dei sopravvissuti all'Olocausto nella società israeliana, come parte di un impegno pubblico con la Shoah drammaticamente alterato. Le accuse e la sfiducia nei confronti dei sopravvissuti avevano raggiunto il loro apice in Israele nel processo contro Rudolf (Rezso) Kastner, accusato di "having sold his soul to the devil" quando aveva negoziato come funzionario sionista con Adolf Eichmann in Ungheria in tempo di guerra.[35] Dopo mesi di ampia attenzione pubblica sui procedimenti giudiziari, Kastner fu condannato per collaborazione con le autorità naziste. Alcuni anni dopo, nel 1958, fu assolto dalla Corte Suprema, dopo essere stato assassinato in una strada di Tel Aviv.[36]

Il processo contro Adolf Eichmann si svolse nel 1961, sullo sfondo di questo disastro giuridico e umano. In effetti, il procuratore generale del processo, Gideon Hausner, riferisce nelle sue memorie di aver progettato il processo in modo che il genocidio, che fino a quel momento aveva suscitato in modo schiacciante ripugnanza tra gli israeliani, toccasse i loro cuori.[37] E il processo riuscì a esorcizzare i fantasmi del passato e pose fine alla cultura del sospetto e del disprezzo dei sopravvissuti in Israele. Come ampiamente riconoscono gli studiosi, il processo Eichmann aprì la strada al sopravvissuto dell'Olocausto come testimone di integrità morale, che acquisì valore col passare del tempo.[38]

In uno sviluppo iniziato alla fine degli anni '50, la società israeliana si è mossa verso la riconciliazione con la recente catastrofe in Europa e ha disinnescato le cariche emotive più dirompenti di ricordi e riflessioni insopportabili, contenendo gli echi della Shoah all'interno di una religione civica commemorativa. In una legge del 1959 e in un emendamento del 1961, la Knesset israeliana ha imposto una commemorazione dell'Olocausto solenne e comprensiva a livello nazionale nella giornata nazionale della commemorazione, Yom HaShoah, che ha chiamato "Giornata Commemorativa dell'Olocausto e dell'Eroismo".[39] Nel decennio successivo, l'osservanza dello Yom HaShoah divenne un importante rituale per il rinvigorimento ed espressione dell'identità israeliana.[40] Come parte dello stesso processo, Yad Vashem, il sito commemorativo nazionale dell'Olocausto a Gerusalemme (fondato nel 1953) coltivò e promosse l'esaltazione delle vittime ebree del genocidio nazista come martiri. Nella società israeliana, di conseguenza, l'attenzione sulla pietosa impotenza degli ebrei nell'Europa occupata dai nazisti, sugli atroci dilemmi della leadership ebraica e sui miserabili accordi che gli ebrei escogitavano per aumentare le miserevoli possibilità di sopravvivenza cedettero il passo a una sacralizzazione dell'Olocausto e venerazione delle vittime dell'Olocausto in un quadro quasi religioso. In questo culto israeliano dell'Olocausto, l'ebreo martire della Diaspora e l'eroico combattente del ghetto sionista hanno confluito, e la loro sofferenza e il loro coraggio complementari sono stati interpretati come se avessero trovato compimento nell'ascesa dello Stato nazionale israeliano.[41]

Come discuterò tra breve, in Nord America si è verificata un'altrettanto massiccia sacralizzazione della Shoah. Al contrario, la creazione di rituali di commemorazione non fu una preoccupazione centrale per gli ebrei in Germania, che ancora affrontavano e lottavano con l'impatto del genocidio nazista nella loro vita quotidiana.[42] Questo spiega perché la letteratura sulla cultura della commemorazione dell'Olocausto in Germania discute quasi esclusivamente monumenti e musei eretti e costruiti da autorità non-ebraiche e iniziative di e per tedeschi non ebrei. Allo stesso modo, gli studiosi tendono a esaminare la funzione delle pratiche commemorative e dei musei per l'identità tedesca (non ebraica), e notano sempre la natura altamente contestata della commemorazione dell'Olocausto nella società tedesca.[43]

Yad Vashem modifica

Martirio, memoria e sacralizzazione modifica

  Per approfondire, vedi Shoah e identità ebraica — L'Olocausto nella letteratura di Primo Levi e Elie Wiesel.

La sacralizzazione non è un aspetto che la letteratura sulla commemorazione dell'Olocausto in Germania evidenzia molto.[44] Nella sua esplorazione dei molteplici significati che sono stati assegnati allo sterminio di massa degli ebrei europei, lo storico Tim Cole osserva che "a sense of closure and an ending" sono necessari perché avvenga la costruzione del mito.[45] Pertanto, la sacralizzazione di un evento spaventoso richiede una distanza – o è un'espressione di distanza – tra l'evento traumatizzante e la vita (successiva) di un soggetto, distanza che gli ebrei nelle società tedesche post-genocidio non potevano sperimentare in modo duraturo. Negli stati tedeschi durante gli anni '70 e '80, la persecuzione e il tentativo di sterminio degli ebrei tedeschi ed europei erano ancora troppo vividi e crudi per essere trasformati in un quadro religioso o quasi religioso. Fino alla fine del ventesimo secolo, l'era nazista penetrò in profondità nel presente tedesco e fino ad oggi non si è completamente ritirata nel passato.

La situazione è stata diversa in Nord America, dove gli ebrei avevano vissuto la Shoah da lontano e all'inizio segnarono le uccisioni nell'ambito di un quadro religioso. Già nella primavera del 1943, in diretta risposta alla notizia della liquidazione del ghetto di Varsavia, il Synagogue Council of America (i cui membri includevano rabbini riformatori, conservatori e ortodossi) indisse una "day of prayer and intercession for the 2 000 000 Jews who have been martyred at the hands of the Nazis within the year". I rabbini chiesero agli ebrei americani di "ricordare" i milioni di morti senza nome, per i quali non si potevano porre lapidi, e uno dei rabbini più importanti d'America, Abba Hillel Silver, spiegò che quindi "our hearts must be their final resting place".[46] Con queste prime dichiarazioni, fu delineato il programma di quella che è diventata la commemorazione nordamericana dell'Olocausto .

 
La Bandiera di Sion e le note della Hatikvah

Dopo che il numero approssimativo delle vittime fu stabilito al Processo di Norimberga nell'autunno del 1945, gli ebrei nordamericani adottarono il termine "sei milioni" per riferirsi al genocidio nazista degli ebrei europei,[47] e allo stesso modo divenne comune nei mesi successivi al fine della guerra per percepire la distruzione degli ebrei europei e l'ascesa di un moderno stato-nazione ebraico come intimamente connessi.[48] Pertanto, uno straordinario resoconto di un sionista non-ebreo nel numero di Pasqua del 1945 del Canadian Jewish Western Bulletin mostrava i combattenti del Ghetto di Varsavia che morivano eroicamente, mentre erano "wrapped in a flag of Zion—and, singing the Hatikvah".[49] Similmente, un'Haggadah americana del 1950 includeva una copia della Dichiarazione d'Indipendenza di Israele e affermava che "six million Jews ... with their saintly lives ... paid the price for the emergence of the State of Israel".[50] In effetti, la storica Hasia Diner osserva che gli ebrei americani costantemente fondevano la memoria dei sei milioni e "the reality and need for Israel" in un'unica idea.[51]

Inoltre, i memoriali dell'insurrezione del Ghetto di Varsavia, che le comunità ebraiche di tutto il continente organizzavano annualmente negli anni '50, erano diventati l'ancora e il veicolo più importante per la commemorazione dell'Olocausto in Nord America. Anticipando gli elementi del culto israeliano dell'Olocausto degli anni '60, gli ebrei combinarono così la commemorazione della morte e del sacrificio con la celebrazione del coraggio e della rinascita nazionale.[52] E collegarono il ricordo dell'Olocausto alla festa della Pasqua ebraica (= Pesach). Già nel 1953, un articolo sulla prima pagina del numero di aprile del Jewish Western Bulletin, si riferiva alla stagione primaverile come a un consolidato "time of special remembrance in the Jewish community", quando l'Esodo dall'Egitto, la rivolta del Ghetto di Varsavia, e la fondazione dello Stato d'Israele vengono commemorati.[53]

I combattenti del Ghetto di Varsavia avevano infatti lanciato la loro rivolta disperata alla vigilia della Pesach e Israele dichiarò la sua indipendenza il 14 maggio 1948, meno di due settimane dopo la fine della celebrazione della Pesach di quell'anno.[54] Tuttavia, questa data di primavera e la rivolta del Ghetto di Varsavia al centro della commemorazione dell'Olocausto non era affatto evidente e non era incontrastata. Come scelta ovvia, sebbene teologicamente problematica, gli ebrei avrebbero potuto lamentarsi della recente tragedia e ricordare i morti il 9 di Av, tradizionale giorno di lutto nel calendario ebraico. In una certa misura, gli ebrei contemporanei lo hanno effettivamente fatto e le comunità Haredi tendono a commemorare esclusivamente la distruzione degli ebrei europei in questo giorno.[55] Al fine di creare un'alternativa al 9 di Av, il Synagogue Council of America in collaborazione con gli organismi in altre parti del mondo, compreso il rabbinato israeliano, nel 1948 istituirono una Giornata della Memoria dell'Olocausto il 10 di Tevet. Gli ebrei americani quindi organizzarono eventi commemorativi in ​​questo giorno in pieno inverno, che nel calendario ebraico è un giorno di digiuno minore, che segna l'inizio dell'assedio di Gerusalemme. Il 10 di Tevet fu infine rimpiazzato dallo Yom HaShoah israeliano, cadde in disuso e oggi è praticamente dimenticato.[56] Il forte orientamento sionista degli ebrei nordamericani nell'era del dopoguerra contribuì certamente alla fine e all'oblio del 10 di Tevet. Tuttavia, negli anni '50 la società israeliana non si interessava ancora molto alla memoria dell'Olocausto e allo Yom HaShoah. E già allora gli eventi nordamericani che commemoravano la rivolta del Ghetto di Varsavia erano in competizione con il 10 di Tevet e creavano il collegamento tra l'Olocausto e la Pasqua ebraica.[57]

Questa connessione della commemorazione di un disastro storico con la Pesach costituiva un'innovazione. In Israele, il rabbinato aveva impedito alla Knesset (parlamento nazionale) di dichiarare il primo giorno della festa della Pasqua ebraica "Yom HaShoah", e come compromesso una data quasi una settimana dopo la Pesach (27 Nisan nel calendario ebraico) era stata proclamata Giornata della Memoria nazionale.[58] Come ha osservato Diner, la Pasqua rappresenta l'"polar opposite" delle uccisioni senza precedenti in Europa, poiché gli ebrei celebrano tradizionalmente la liberazione dalla schiavitù egizia tramite l'intervento divino durante la Pesach.[59] Dio che libera il Suo popolo dall'oppressione e dal pericolo fisico durante l'Esodo è l'atto che definisce il Dio ebraico, il popolo degli israeliti e la religione del monoteismo biblico; tale liberazione fu evidentemente assente nell'Europa del ventesimo secolo.

Le comunità ebraiche nel corso dei secoli non hanno commemorato persecuzioni o tragedie comunali durante la Pesach. Le settimane intorno alla Pasqua ebraica e alle festività pasquali cristiane sono state storicamente un periodo di tensione, quando gli ebrei hanno dovuto affrontare accuse cristicide, accuse del sangue, rivolte antiebraiche e persino massacri. Di conseguenza, il testo che gli ebrei leggono durante la Pesach, l'Haggadah, contiene nella sua versione originale un brano che chiede a Dio di vendicarsi dei gentili per aver ucciso gli ebrei e per aver distrutto le loro case.[60] Le comunità ebraiche, tuttavia, non hanno registrato persecuzioni post-bibliche o massacri nell'Haggadah e non hanno commemorato martiri durante la Pesach. A scopo commemorativo, gli ebrei piuttosto hanno creato memorbuch, composto testi liturgici come slihot (preghiere o poesie penitenziali) e kinot (lamenti), istituito secondi Purim e giorni di digiuno e, a volte, scritto resoconti storici o quasi storici. La Pesach non era il momento per ricordare le tragedie e riflettere su atti di giudizio o punizione divini.[61] Pertanto, il Seder Rituale di Rimembranza di una pagina che l'American Jewish Congress pubblicò nel 1952 e che divenne estremamente popolare nelle comunità ebraiche nordamericane, costituì una deviazione significativa dalle pratiche consolidate della commemorazione ebraica.[62] Il foglio era concepito come un inserto nella Haggadah tradizionale, e i suoi tre paragrafi, sia in ebraico che in inglese, dovevano essere letti in aggiunta al testo stabilito. In tal modo, il Seder Rituale di Rimembranza trasformò il genocidio degli ebrei europei in un rituale e presentò le uccisioni come parte di una storia sacra e significativa. "On this night of the Seder we remember with reverence and love the six million of our people of the European exile who perished at the hands of a tyrant more wicked than the Pharaoh..." dovevano recitare i partecipanti al Seder, in piedi, dopo la terza delle quattro coppe cerimoniali di vino, prima che si aprisse la porta al profeta Elia in attesa messianica. In effetti, il testo del Seder Rituale di Rimembranza racconta poi l'eroica lotta dei combattenti del Ghetto di Varsavia che si diceva avessero portato "redemption to the name of Israel", e si conclude con la canzone Ani Ma’amin ("I believe with perfect faith in the coming of the Messiah").[63] Il ricordo dell'Olocausto in Nord America è stato plasmato da questo tipo di ritualizzazione e sacralizzazione degli eventi, e gli studiosi concordano sul fatto che la Pesach, più di ogni altro giorno, festa o occasione, sia diventata il contesto per ricordare la Shoah e commemorare le sue vittime.[64] Inserendo la commemorazione dell'Olocausto nel paesaggio simbolico della festività della Pesach, gli ebrei nordamericani hanno ancorato nella loro coscienza il genocidio degli ebrei europei. Questa sacralizzazione della Shoah nel contesto della Pesach non ha richiesto una conoscenza molto concreta delle diverse fasi e aspetti dello sterminio di massa nazista in Europa e non ha richiesto alcun coinvolgimento con la specificità storica di eventi particolari, ma ha facilitato una profonda esperienza personale.

Lo studioso delle religioni Jonathan Woocher descrive il mito dello "Holocaust to rebirth", che collega il genocidio nazista all'ascesa dello stato nazionale ebraico, come centrale nel tessuto dell'identità ebraica americana del dopoguerra, e sostiene che questo mito è modellato ed espande la narrazione della liberazione dell'antico Israele dalla schiavitù egizia che gli ebrei mettono in atto ogni anno al Seder pasquale. Come illustrato da una Haggadah del 1970 che Woocher cita, le celebrazioni della Pasqua ebraica assimilano l'Olocausto a un archetipo immutabile di persecuzione, perseveranza e redenzione nazionale degli ebrei: "We have buried many martyrs. We have stood before many oppressors demanding our freedom. We have learned in terrible places—Egypt, Spain, Bergen-Belsen, Theresienstadt; and from dreaded persecutors—Pharaohs, Inquisitors, Hitlers—that Jews must be concerned for one another".[65] In queste enumerazioni, l'Egitto biblico, la Spagna storica e i campi di concentramento nazisti sono legati in una catena di eventi che richiedono la stessa modalità del ricordo ritualizzato.

Lo studioso di cinema Eric A. Goldman lo spiega in un articolo dei primi anni '80: "Every year at the Passover Seder, we read in our Haggadah that it is the obligation of parents to tell their children of the affliction of our enslaved ancestors in Egypt. So, now, each generation must be told of the Holocaust".[66] Diner ha infatti documentato che gli ebrei americani negli anni '50 concepivano già la commemorazione dell'Olocausto come un adempimento del "sacred obligation to remember"[67] e parimenti Moment, una popolare rivista americana, nel 1978 dichiarò che la visione della miniserie televisiva Holocaust: The Story of the Family Weiss (NBC) aveva "the quality of a religious obligation".[68] Moment pubblicò questi commenti nel suo numero di aprile, in tempo per la festa della Pesach, che fu anche quando Holocaust fu originariamente proiettato.[69] Di conseguenza, lo studioso di Studi ebraici Jeffrey Shandler sottolinea "the ritual nature of American television’s annual Holocaust commemoration" e ha chiamato la proiezione di film relativi all'Olocausto e alla Pesach in quel periodo dell'anno, che diventò comune negli anni Cinquanta, "a new American ‘rite of spring’".[70]

In questi rituali di commemorazione e rimembranza sugli schermi televisivi, sui tavoli dei Seder familiari e nelle riunioni comunitarie, l'imperativo morale di ricordare le vittime dello sterminio di massa nazista è quindi mappato sul comando biblico di ricordare l'Esodo dall'Egitto.[71] Nel processo, Egitto, Spagna e campi di concentramento nazisti diventano siti mitici e transistorici. La sacralizzazione nordamericana dell'Olocausto trasforma la Shoah in un evento che, come la donazione della Torah sul Monte Sinai, non è avvenuto nel tempo storico, ma nel tempo eterno e santo, ed è fondamentale per l'identità ebraica.[72]

Asserisco che questa sacralizzazione della carneficina in Europa sia una funzione della distanza che gli ebrei nordamericani avevano rispetto agli eventi in Europa, e certamente li aiutò anche a sopportare il dolore e l'angoscia che provarono mentre assorbivano le notizie dall'estero. Tuttavia, la Pesachizzazione dell'Olocausto consente anche una vicinanza, immediatezza e una profonda identificazione con il genocidio degli ebrei europei. Forse non molto sorprendentemente, all'inizio degli anni '50, gli studenti della Yeshiva di Flatbush a Brooklyn, New York, fusero la storia biblica ed europea recente in una meta-narrativa ebraica e nei loro contributi all'annuario accademico fecero affermazioni come "from Pharaoh to Hitler, we have stood fast".[73] Più sorprendentemente, in un seminario svolto in una comunità ebraica nel 2011 a Winnipeg, un canadese di sessant'anni spiegò che l'Olocausto aveva svolto lo stesso ruolo nell'identità ebraica di questa persona "that other events of Jewish history play. It is part of my historical memory but not more or less than the Crusades or Purim".[74] Hasia Diner riferisce che nei loro scritti sul genocidio nazista, gli ebrei americani del dopoguerra usavano quasi universalmente il termine "noi" quando si riferivano alle vittime dell'Olocausto e a se stessi.[75]

In tutti questi casi, gli ebrei nordamericani applicano un principio che è fondamentale per la cultura ebraica e radicato nel modo astorico di concepire la realtà che i rabbini talmudici ci hanno lasciato in eredità. I rabbini hanno forgiato un modo di vivere nel mondo che cancella la distinzione tra esperienza personale e memoria di gruppo comandata di eventi che, secondo gli standard accademici contemporanei, potrebbero non essere storici.[76] Veicolo di formazione dell'identità ebraica e di coesione di gruppo, questo principio è esplicitamente e chiaramente enunciato nell'Haggadah: "In every generation each individual is bound to regard himself as if he had gone personally forth from Egypt".[77] Sembra quindi che la grande maggioranza degli ebrei nordamericani sia entrata in questa coscienza trabocchetto che i rabbini hanno escogitato e, ricordando gli eventi come se fossero accaduti a loro, come afferma lo studioso di cultura commemorativa ebraica James Edward Young, "they mistake [their] common memorial experience for a common Holocaust experience".[78]

Il collegamento tra la Pasqua ebraica e i memoriali della rivolta del Ghetto di Varsavia della fine degli anni Quaranta e dell'inizio degli anni Cinquanta, ha certamente giocato un ruolo nel processo che ha portato gli ebrei nordamericani a relazionarsi con il genocidio degli ebrei europei in modo intensamente personale. Questo coinvolgimento emotivo si basa sulla preoccupazione, la solidarietà, il sostegno e, a volte, il grande impegno personale che le comunità ebraiche, spesso lontane, hanno avuto l'una per l'altra nel corso della storia ebraica.[79] Tuttavia, gli ebrei del Nord America hanno costantemente coltivato anche un'identificazione con le vittime della carneficina nazista in Europa. Le più famose sono le carte d'identità ideate dallo United States Holocaust Memorial Museum. Entrando nel museo, ogni visitatore riceveva una tessera con l'identità di una persona che era sopravvissuta o perita nell'Olocausto, e mentre camminava per il museo, il visitatore doveva poter seguire il destino del suo "Holocaust double". Questa pratica e la sua "experiential mode" erano progettate per fare in modo che il visitatore provasse il ​​degrado, la deportazione, la fame e lo sterminio alla maniera del ritornello pasquale "as if it happened to us", e deliberatamente ignora e persino "obscures ... the great distance between then and now, between there and here".[80]

Allo stesso modo, gli educatori ebrei nordamericani negli anni '70 abbracciarono e da allora coltivarono una pedagogia che vuole rendere "Jewish youth ... identify with the victims of the Shoah".[81] La storica Rona Sheramy riferisce che gli insegnanti delle scuole ebraiche negli anni '70 crearono uno "confinement scenario" per i loro studenti e li coinvolsero in un esercizio chiamato "Gestapo".[82] Nel 2011, un professore presso l'Università di Winnipeg "had her students list what items they would pack if they were given just 15 minutes to leave their homes".[83] Quest'ultimo esempio deriva da un contesto che non è specificamente ebraico, e in una certa misura le pratiche qui descritte riflettono tendenze pedagogiche generali che mirano a coinvolgere gli studenti a livello personale ed emotivo. Inoltre, docenti e musei universitari, compreso lo US Holocaust Memorial Museum, cercano di rivolgersi a studenti e pubblico al di là delle divisioni religiose ed etniche.[84] Tuttavia, non c'è dubbio che ciò che è noto oggi con il termine "Holocaust education" è anche un progetto ebraico. Per decenni le organizzazioni ebraiche hanno organizzato e sponsorizzato eventi e attività che costruiscono un'esperienza "‘shared’ experience of the Holocaust and create through simulation an understanding and sense of identification with the Holocaust" come espresso dalla Memorial Foundation for Jewish Culture nella descrizione del relativo programma.[85]

 
La "Marcia dei Viventi" a Auschwitz, 2005

L'apice di questo tipo di pedagogia dell'Olocausto è la March of the Living (Marcia dei Viventi), di cui gli studiosi hanno ampiamente discusso e che per carattere e obiettivi va oltre quanto ho descritto finora.[86] L'educazione all'Olocausto nelle scuole, nelle università e nei musei si impegna a trasmettere informazioni e coinvolgere intellettualmente studenti e visitatori. La "experiential mode" è in misura significativa uno strumento pedagogico a tal fine. La Marcia dei Viventi, invece, ha ribaltato le priorità. I suoi organizzatori dichiarano esplicitamente che più che mirare a trasmettere la conoscenza, cercano principalmente di progettare nei partecipanti "intense emotional experience in Poland and Israel that ‘makes history real’ and enters participants’ ‘memory consciousness’ in order to promote Jewish affiliation and leadership".[87] La Marcia dei Viventi guida i gruppi di giovani ebrei, a stragrande maggioranza dal Nord America, in una settimana attraverso i luoghi di distruzione e sterminio della Polonia. Il viaggio sottopone i partecipanti ad un programma impegnativo con notti brevi; ai giovani viene servito cibo magro e poco appetitoso;[88] e il materiale del programma chiede loro di immaginarsi costantemente nei ghetti, nei campi e nelle marce della morte.[89] La Marcia dei Viventi mette così in scena sistematicamente una rievocazione dell'esperienza ebraica dell'Olocausto, culminata in una marcia drammatica e silenziosa da Auschwitz a Birkenau durante lo Yom HaShoah. Successivamente porta i giovani fisicamente ed emotivamente esausti in Israele per celebrare il Giorno dell'Indipendenza israeliana e rivivere la redenzione sionista. La Marcia dei Viventi offre quindi un'esperienza di immersione totale secondo il principio "as if you had gone personally forth from Egypt", e inoltre ha una dimensione religiosa pienamente sviluppata. Tratta le strutture di sterminio come luoghi sacri e guida i partecipanti in attività di commemorazione ritualizzata, come la collocazione di targhe commemorative preparate individualmente sui binari della ferrovia ad Auschwitz.[90] Nel 1994, un discorso ai pellegrini adolescenti di Auschwitz ha paragonato l'incendio nel crematorio del campo di concentramento al fuoco nel "Holy of Holies in the Holy Temple" nell'antica Gerusalemme.[91] In varie occasioni durante il viaggio, viene suonato lo shofar, si recitano le tradizionali preghiere commemorative del Kaddish o le preghiere di El maalè rahamim, e Oren Baruch Stier riferisce che nel 1994 la melodia della preghiera di Kol Nidre venne suonata da un violinista sopravvissuto ad Auschwitz.[92] Questo è un potente innesco emotivo per gli ebrei che vanno in sinagoga. Tuttavia, sarebbe difficile trovare un significato teologico in questa performance musicale. Quali voti e giuramenti chiederebbero a Dio di salvare preventivamente il sopravvissuto o i giovani visitatori in questo contesto? Eppure, chiaramente, gli organizzatori della Marcia dei Viventi non si occupano di questioni teologiche, ma utilizzano strategicamente il linguaggio liturgico e il simbolismo religioso-mitico. Guidano i giovani in atti di culto attentamente orchestrati al fine di creare un senso di comunità e facilitare l'identificazione degli adolescenti con le vittime del genocidio.

Il programma "Marcia dei Viventi" esprime e promuove un'identità ebraica incentrata sulla Shoah che è stata comune tra gli ebrei nordamericani e israeliani negli ultimi decenni. Già nel 1982, un articolo sull'educazione all'Olocausto in un giornale pedagogico dichiarava: "for all eternity, the awareness of the Holocaust has become a significant factor in Jewish consciousness ... like the Exodus".[93] Come Avraham Hirschson, presidente e fondatore della Marcia dei Viventi, mise in una lettera ai partecipanti alla Marcia un po' più tardi: "We are all survivors".[94]

 
Copertina del libro Witness: Passing the Torch of Holocaust Memory to New Generations dell'educatore sull'Olocausto, Eli Rubenstein (2015)[95]

Questa identificazione con le vittime della violenza e dell'aggressione di massa antiebraiche e il progetto pedagogico di promuovere tale identificazione non sono né nuovi né particolari per l'era post-Shoah. L'ostilità e la persecuzione non sono state onnipresenti nella storia ebraica. Tuttavia, fin dall'antichità, i testi ebraici hanno testimoniato di inevitabili sentimenti e violenze antiebraiche e hanno collegato questa animosità e persino odio contro la pretesa dell'elezione degli ebrei e del loro rapporto privilegiato con Dio. Pertanto, l'enfasi sui disastri ha costituito un elemento determinante dell'autopercezione ebraica sin dai primi giorni della civiltà ebraica.[96] Nella Germania della metà del diciannovesimo secolo, gli studiosi della Wissenschaft des Judentums (ricerca accademica sull'ebraismo, oggi chiamata "Studi Ebraici") si dedicarono ad esaminare i massacri delle Crociate e adottò un programma pedagogico che promuoveva l'identificazione ebraica con "i martiri del 1096".[97] Di fronte agli ebrei moderni che abbandonavano la pratica ebraica e le identità ebraiche, il coinvolgimento con "the spectacle of Jewish suffering" era inteso – così l'insegnante Meir Wiener dichiarò all'epoca – "to confirm [Jews] in their devotion to the faith, for which thousands of our forefathers willingly died".[98]

Tuttavia, per quanto comune e ben consolidata possa essere questa storia di identificazione con la sofferenza e il martirio, non è né evidente né universale. Young cita il professore di architettura di Boston e figlio di sopravvissuti all'Olocausto, Alex Krieger, che spiega le ragioni per cui ha promosso l'istituzione di un memoriale dell'Olocausto nella sua città con le parole: "It’s not for my parents that I pursue this endeavor ... This memorial is for me. Because I was not there, and I did not suffer, I cannot remember. Therefore, I very much need to be reminded".[99] Diversamente dalla combinazione di passato e presente che sembra essere comune nella cultura ebraica nordamericana, Krieger non confonde l'esperienza di persecuzione dei suoi genitori con la propria consapevolezza e conoscenza di ciò che hanno provato. Per usare ancora le parole di Young: "He remains cognizant of the great distance between then and now, between there and here".[100] Similmente, quando qualche anno fa mi è stato chiesto di condurre un seminario "on the Holocaust" per un gruppo di giovani che si stavano preparando per una cerimonia laica di Bnei Mitzvah, l'adulto che era il mio referente chiarì che gli organizzatori di queste lezioni del fine settimana si aspettavano che il mio seminario portasse i ragazzi e le ragazze a identificarsi con le vittime della Shoah, o a consolidare tale identificazione. Fui perplesso da questo approccio; dal mio punto di vista europeo, tale identificazione con coloro che erano stati assassinati mi sembrava quasi immorale.

Nel suo studio sulla religione e i media negli Stati Uniti, Shandler, opportunamente, anche se in modo alquanto mordace, si riferiva a questo stato di cose come "the scar without the wound", la cicatrice senza la ferita, un'espressione che ha preso in prestito da Arthur A. Cohen.[101] Gli ebrei nordamericani sono stati profondamente colpiti dal genocidio degli ebrei europei e spesso si identificano come vittime della carneficina, anche se, certamente a sud del confine canadese, i sopravvissuti all'Olocausto e i loro discendenti costituiscono solo una piccola minoranza della popolazione ebraica. Tuttavia, come parte di una comunità di immigrati, molti uomini e donne ebrei avevano lasciato fratelli, genitori, nonni e una famiglia molto estesa in Europa, che poi erano svaniti nel lontano calderone della morte e della distruzione.[102] Inoltre, Diner descrive come gli ebrei americani fino alla Seconda guerra mondiale si erano concepiti come un avamposto della vita ebraica che, culturalmente, intellettualmente e religiosamente, faceva molto affidamento sul suo centro nell'Europa orientale. Lo sradicamento delle comunità nel Vecchio Mondo lasciò gli ebrei nordamericani desolati e orfani.[103]

Oltre a questa esperienza di perdita negli anni '40, gli stessi ebrei nordamericani avevano subito significative discriminazioni, ostilità e violenze di strada – sebbene non persecuzioni – nel periodo tra le due guerre. Il senso di vulnerabilità che ne era derivato certamente incoraggiò la loro identificazione con la popolazione ebraica europea esposta alla campagna di sterminio nazista. Ciò è particolarmente vero per gli ebrei canadesi, dove l'antisemitismo era più virulento e persistente che negli Stati Uniti.[104] Tuttavia, la distanza geografica dai luoghi dei crimini nazisti consentiva anche agli ebrei nordamericani, compresi i sopravvissuti, di contenere il loro dolore e la loro disperazione trasformando la risultante angoscia in un rituale, in un modo che non era possibile nelle società post-genocide della Germania e dell'Europa. In effetti, anche se nei campi DP dell'immediato dopoguerra i sopravvissuti si erano certamente rivolti a rituali e avevano creato forme commemorative che influenzavano o anticipavano le culture di commemorazione nordamericane e israeliane successive, all'epoca questa ritualizzazione rimase incerta e contestata. Così, all'indomani della guerra, i sopravvissuti non solo formarono circoli di preghiera spontanei per dire Kaddish e parteciparono in gran numero ai servizi di Yizkor nei campi DP, ma fondarono anche accademie secolari di lutto e istituirono giornate comuni di ricordo.[105] Già per la prima celebrazione della Pesach post-liberazione nel 1946, i sopravvissuti crearono anche Haggadot che mappavano la recente persecuzione nazista sulla riduzione in schiavitù degli israeliti nell'antico Egitto.[106] La storica Margarete Myers Feinstein riferisce che già nei campi DP "Passover ... was connected ... to the heroic resistance fighters of the Warsaw ghetto, and to the liberation from the Nazis in spring 1945."[107]

Tuttavia, come illustra un commento durante una commemorazione della rivolta del Ghetto di Varsavia nel 1946, i sopravvissuti potevano essere profondamente consapevoli delle scelte che avevano fatto nelle loro pratiche commemorative comuni. All'evento, il giovane giornalista e detenuto del campo DP di Dachau, Levi Shalitan, riflettè che "a people cannot live off Treblinkas and Maidaneks—only thanks to Warsaw can this people live on".[108] Alcuni sopravvissuti tuttavia espressero disagio per "the heroic myth that had been built around the 6 million victims", e molti rifiutarono la sacralizzazione della propria esperienza.[109] "We are not martyrs but cast-offs", scrisse un sopravvissuto nel 1947, e molti condividevano il sentimento espresso nella sua domanda: "by what right do we continue to live?"[110] Questa dolorosa ambivalenza sul loro status di vittima e sulla sacralizzazione del genocidio degli ebrei europei continuò a prevalere tra gli ebrei rimasti in Germania.

Come già affermato, gli ebrei americani e canadesi, tuttavia, intrapresero con tutto il cuore la Pesachizzazione della Shoah e, con poche riserve ed eccezioni, abbracciarono e coltivarono un'identità di vittima.[111] Il contesto culturale nordamericano certamente giocò un ruolo in questo sviluppo. Durante l'era della cosiddetta "identity politics" degli anni '70 e '80, donne, gay, lesbiche, afroamericani e altri gruppi si organizzarono e acquisirono visibilità rivendicando ciascuno una storia condivisa di discriminazione e vittimizzazione.[112] Nel 1992, l'autore, esperto di ricerca politica e conduttore di talk-show Charles J. Sykes suggerì che l'intera nazione americana era caduta preda di un culto del vittimismo.[113] Non altrettanto sprezzante, lo studioso di filosofia e scienze politiche Laurence Mordekhai Thomas ci ricorda che la sofferenza è considerata una virtù nel cristianesimo. Pertanto, per gruppi come afroamericani ed ebrei, che non erano considerati "full moral creatures" nella società americana, affermare di aver acquisito conoscenza morale sopportando una malvagità enorme era una strategia utile nella ricerca dell'accettazione sociale.[114]

Tutti questi aspetti potrebbero aver contribuito a far concepire gli ebrei nordamericani come vittime del cataclisma in Europa e a sviluppare una profonda identificazione con la Shoah, sacralizzando allo stesso tempo gli eventi. Come ho esposto in questo Capitolo, gli ebrei nordamericani hanno contribuito alla commemorazione degli ebrei assassinati dai nazisti, dai soldati tedeschi e da vari collaboratori nelle festività pasquali, e quindi sono arrivati a trattare il genocidio come un evento mitico che, come l'Esodo, richiede un particolare modo di ricordare. Poiché agli ebrei viene comandato di pensare a se stessi come se fossero stati presenti quando Dio liberò gli israeliti dall'Egitto, gli ebrei americani e canadesi tendono a "ricordare" Auschwitz come se fossero stati lì. Rivivono l'Esodo durante le festività di Pesach e rievocano la loro presenza nei campi di concentramento polacchi nei rituali associati alla Pasqua ebraica e durante i pellegrinaggi come la Marcia dei Viventi.

 
Esodo degli Israeliti dall'Egitto, di David Roberts (1829)

Nella narrazione dell'Esodo, la liberazione nazionale segue l'oppressione e il pericolo in Egitto; e nella comprensione comune e popolare, la distruzione della maggior parte degli ebrei europei ha portato all'ascesa redentrice dello stato nazionale ebraico in Israele. Teologicamente, questo parallelo non è molto fondato e, come ho già detto, commemorare un disastro durante la Pesach costituisce un'innovazione. Tuttavia, come hanno notato sia Diner che Shandler, gli ebrei americani non hanno dimostrato di essere molto preoccupati per questioni di teologia o teodicea, come il problema della giustizia di Dio e la Sua presenza o assenza in un mondo che ha subito una campagna di uccisione a livello industriale del Suo popolo eletto.[115] Le interpretazioni letterarie e religiose del genocidio da parte di Elie Wiesel hanno plasmato la comprensione mondiale dell'assassinio degli ebrei europei da parte dei nazisti, ma opere di teologia e filosofia intellettualmente più rigorose e complesse, impegnate in questioni del significato e delle conseguenze della Shoah, scritte da rabbini, studiosi di studi ebraici e pensatori ebrei di varie discipline, hanno avuto un impatto limitato sulla cultura ebraica americana e canadese.[116]

Molti degli ebrei americani e canadesi che si relazionano all'Olocausto in modo intensamente personale sanno molto poco dei particolari storici del massacro di massa dei loro correligionari in Europa, cosa che mi ha confuso e perplesso, quando sono venuto in Nord America. Come sottolinea l'antropologo sociale Jonathan Webber, un mito per definizione adempie alla funzione di essere "selective and shrink[ing] the complex details of the past down to a manageable size" che poi può essere ricordato in modo ritualizzato.[117] Lo stesso il termine "Olocausto" opera esattamente in questo modo. In quanto categoria storiografica applicata retroattivamente, riassume tutte le morti ebraiche, indipendentemente da dove, quando e come uomini, donne e bambini furono assassinati in un'unica unità presumibilmente significativa, appiattisce tutti i dettagli e svuota gli eventi storici di ogni complessità e ambiguità.[118] La narrazione centrale dei "six million martyrs who died in the Holocaust" impartisce quindi "a symbolic, quasi-liturgical knowledge".[119] In questa interpretazione, i sopravvissuti appaiono come figure simili a sacerdoti e argomenti come la complicità ebraica sono sacrileghi.[120]

Webber inizia il suo saggio sulla Shoah nella coscienza storica ebraica con una discussione sulla Bibbia ebraica quale "a selective and mythologized presentation of the historical past that conveys a sense of historicity".[121] Tuttavia, il testo biblico non si occupa del passato per se stesso o per curiosità degli eventi, ma narra la storia per stabilire verità su Dio, il Suo rapporto con gli Israeliti e la loro missione di essere santi.[122] In un ambiente religioso, gli ebrei non studiano il testo per conoscere le culture dell'antico Medio Oriente, ma in un ciclo annuale, leggono più e più volte gli stessi passaggi per estrarre significato e guida per se e per le loro comunità da quella che è considerata una rivelazione eternamente valida. Quando gli ebrei agli eventi commemorativi del Nord America o ai programmi di educazione all'Olocausto affermano di presentare la storia, non stanno esplorando lo specifico storico o interrogando il passato nei suoi stessi termini, anche quando le loro narrazioni sul passato sono in una certa misura resoconti storici e si riferiscono a eventi storici. In questi contesti, gli ebrei contemporanei sono interessati solo in modo molto selettivo alle circostanze storiche. Il loro ciclo annuale e stagionale del commemorare alcuni eventi storici dell'Europa occupata dai nazisti è più vicino a un uso religioso e mitologico del passato che alla storiografia. In certi momenti dell'anno in cui gli ebrei nordamericani commemorano i morti, ricordano un insieme ben definito di eventi e avvenimenti della metà del ventesimo secolo e indagano sul passato alla ricerca di lezioni morali universalmente valide. "The sacred mystery of the Holocaust" – un'espressione con cui Edward T. Linenthal descrive l'approccio di Elie Wiesel al genocidio degli ebrei europei – funziona in modo molto simile alla storia biblica come un passato senza tempo ed eternamente rilevante a cui si può accedere quando viene evocato.[123] Ebrei in Canada e negli Stati Uniti ricordano "the Holocaust" come se ci fossero stati e lo fanno penetrare in profondità nel loro presente.[124]

Gli ebrei nella Germania del dopoguerra lavorarono decenni per non soffocare nell'abbraccio di un passato genocida che continuava a prorompere e invadere il loro presente. Le pratiche commemorative erano relativamente di poco interesse per loro. Quando organizzavano eventi commemorativi pubblici, lo facevano in date come l'anniversario della Kristallnacht il 9 novembre, l'inizio della Seconda guerra mondiale il 1 settembre o il giorno della liberazione dal dominio nazista l'8 maggio, e per questi incontri si univano spesso con le vittime non-ebree del fascismo tedesco. Non c'era motivo per gli ebrei nella Germania del dopoguerra di individuare la rivolta del Ghetto di Varsavia come occasione di commemorazione e, di conseguenza, non fecero della Pesach un momento di rimembranza; si astenevano da innovazioni liturgiche o teologiche radicali come l'inclusione di riferimenti ad Auschwitz nelle Haggadah che usavano.[125]

Per gli ebrei nordamericani, invece, la rivolta del Ghetto di Varsavia è diventata il simbolo della Shoah e il prisma attraverso il quale vedono gli eventi terrificanti. Ha plasmato la loro concezione della campagna di persecuzione e sterminio dei nazisti e dell'eroica resistenza degli ebrei che non ha potuto fermare il genocidio ma che – secondo l'interpretazione redentrice sionista degli eventi – ha trovato compimento nell'ascesa del moderno Stato israeliano. Così nel martirologio e nella sacralizzazione delle vittime viene racchiusa la disperazione più totale, la provocazione intellettuale e morale, e la sfida essenziale alla capacità umana di comprendere e di assorbire ciò che comporta lo sterminio in scala industriale di un intero popolo. L'attenzione sulla rivolta del Ghetto di Varsavia è andata anche di pari passo con un collegamento tra la Pasqua ebraica e la Shoah che gli ebrei nordamericani hanno stabilito in uno sviluppo altamente innovativo.

Mappando la commemorazione dell'Olocausto sul comando di ricordare l'Esodo come se ogni individuo fosse stato liberato personalmente dall'Egitto, il genocidio degli ebrei europei è stato reso personalmente e durevolmente rilevante per ogni ebreo americano e canadese, e la commemorazione dell'Olocausto è stata intesa come un obbligo quasi religioso. Sostenuti da una serie di fattori aggiuntivi, gli ebrei americani e canadesi hanno abbracciato un'identità di vittima che non richiedeva loro di impegnarsi ampiamente con i dettagli storici del genocidio. In effetti, la mitizzazione della Shoah ha protetto gli ebrei nordamericani dalle inquietanti complessità e ambiguità morali degli eventi. L'Olocausto è diventato parte integrante dell'identità, della coscienza e della cultura ebraica americana e canadese, in una lettura in cui l'innocenza e la santa virtù si confrontano con il male assoluto e la redenzione segue la distruzione. Gli ebrei nordamericani trattano "the Holocaust" come un evento che ha avuto luogo in un tempo sacro e mitico e quindi comprende tutto il tempo, compreso il loro presente.

Al contrario, gli ebrei nella Germania del dopoguerra erano dolorosamente consapevoli del fatto che non tutte le vittime sono innocenti e pure, e che nella Germania nazista non solo i loro vicini non-ebrei e persone con varie combinazioni di origini parzialmente ebraiche, ma a volte anche loro e i loro correligionari ebrei, erano stati presi in reti di corruzione morale e perfino di complicità. Il disordine delle realtà storiche non si prestava alla sacralizzazione, e l'essere stato vittima e rivivere continuamente la vittimizzazione nell'interazione con l'ambiente tedesco non era un aspetto attraente della vita ebraica nella Germania post-genocida.

Pertanto, gli ebrei nella società tedesca post-1945 e nel Nord America della fine del ventesimo secolo si relazionarono al genocidio degli ebrei europei in modi radicalmente diversi. Ciononostante, in entrambi i luoghi, in Germania così come oltreoceano negli Stati Uniti e in Canada, la Shoah non era solo storia. In entrambi i luoghi, sebbene in modo diverso in ciascuno di essi, gli ebrei vivevano in una distorsione temporale. In Germania, il passato genocida non ha cessato di intromettersi nel presente e in Nord America la sacralizzazione dell'Olocausto ha trasportato gli eventi in un reame di presenza senza tempo. Sia in Germania che in Nord America, le persecuzioni, le uccisioni di massa senza precedenti e il tentativo di sterminio degli ebrei europei avevano effettuato una sovversione del tempo lineare e storico.

Yom Ha'atzmaut virtuale coi cantanti leader della Marcia dei Viventi, 2020 (virtuale causa COVID-19!)

Note modifica

  Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni, Serie letteratura moderna e Serie misticismo ebraico.
  1. Sui termini "Olocausto" e "Shoah", il loro significato, le implicazioni e la storia della loro divulgazione, cfr. Zev Garber e Bruce Zuckermann, "Why Do We Call the Holocaust ‘the Holocaust’?: An Inquiry into the Psychology of Labels", in Double Takes: Thinking and Rethinking Issues of Modern Judaism in Ancient Contexts, cur. Zev Garber e Bruce Zuckermann (Toronto: University Press of America, 2004), 3–30; James Edward Young, Writing and Rewriting the Holocaust: Narrative and the Consequences of Interpretation (Bloomington: Indiana University Press, 1990), 83–98. Nonostante la natura problematica del termine, occasionalmente uso "Olocausto" in questo Capitolo come abbreviazione, scambiabile con il termine "Shoah" che è un po' meno traumatico e sconcertante, per quanto la parola ebraica Shoah (שואה‎, lett. "catastrofe, distruzione") identifichi più correttamente il genocidio degli ebrei e trovi ragioni storico-politiche nel diffuso antisemitismo secolare.
  2. La descrizione e gli esempi che seguono si riferiscono principalmente al contesto della Germania occidentale nella Repubblica Federale di Germania. Alcune delle dinamiche si applicano anche alla Repubblica democratica tedesca, ma anche il contesto della Germania orientale era significativamente diverso. Per una prospettiva comparativa, si veda ad esempio Gabriele Rosenthal, The Holocaust in Three Generations: Families of Victims and Perpetrators of the Nazi Regime (Londra: Cassell, 1998). Per una prospettiva comparativa non-ebraica, cfr. Mary Fulbrook, German National Identity after the Holocaust (Cambridge: Polity Press, 1999).
  3. Diversamente dalla Repubblica Federale, la Repubblica Democratica Tedesca si intendeva come lo Stato che rappresentava la direzione socialista delle classi lavoratrici tedesche e il movimento operaio dei comunisti tedeschi che erano stati sconfitti negli anni '30 nella loro lotta contro il fascismo e che avevano subito persecuzioni nel regime nazista. Cfr. Fulbrook, German National Identity, specialmente 31, 35.
  4. Frank Stern, The Whitewashing of the Yellow Badge: Antisemitism and Philosemitism in Postwar Germany (New York: Oxford University Press, 1992), 364, 366 (citazione).
  5. Ibid., 366 (citazione), 382.
  6. Ibid., 373.
  7. Ibid., 364.
  8. Ibid., 383 (citazione), 386–414. Ad esempio, per un articolo del 1946 che mette in guardia contro l'antisemitismo riproducendo allo stesso tempo una serie di stereotipi antisemiti, cfr. ibid., 296.
  9. Rebecca Wittmann, Beyond Justice: The Auschwitz Trial (Cambridge: Harvard University Press, 2005); Rebecca Wittmann, "Tainted Law: The West German Judiciary and the Prosecution of Nazi War Criminals", in Atrocities on Trial: Historical Perspectives on the Politics of Prosecuting War Crimes, curr. Patricia Heberer e Jürgen Matthäus (Lincoln: University of Nebraska Press, 2008), 211–229.
  10. Dan Diner, "Negative Symbiose: Deutsche und Juden nach Auschwitz", Babylon: Beiträge zur jüdischen Gegenwart 1 (1986): 9; Dagmar Herzog, Sex after Fascism: Memory and Morality in Twentieth-Century Germany (Princeton: Princeton University Press, 2005); Sandra Lustig, "‘The Germans Will Never Forgive the Jews for Auschwitz.’ When Things Go Wrong in the Jewish Space: The Case of the Walser-Bubis Debate", in Turning the Kaleidoscope: Perspectives on European Jewry, curr. Sandra Lustig e Ian Leveson (New York and Oxford: Berghahn Books, 2006), 205–222; Anson Rabinbach, "The Jewish Question in the German Question", New German Critique 44 (1988): 159–192. Per ulteriori informazioni sull'affare Bitburg e il dibattito Walser-Bubis, si veda di seguito.
  11. Cfr. Herzog, Sex after Fascism, 223–257. Naturalmente ci sono paralleli, forse meno gravi, con il Fascismo e l'Italia, del tipo "Quando c'era Mussolini i treni arrivavano in orario" e via dicendo.
  12. Cfr. Lynn Rapaport, Jews in Germany after the Holocaust: Memory, Identity, and Jewish-German Relations (Cambridge: Cambridge University Press, 1997), 23–24. Sulla comunità ebraica nella Germania postbellica, cfr. Michael Bodemann, cur., Jews, Germans, Memory: Reconstructions of Jewish Life in Germany (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1996); Michael Brenner, After the Holocaust: Rebuilding Jewish Lives in Postwar Germany (Princeton: Princeton University Press, 1995); Ruth Gay, Safe among the Germans: Liberated Jews after World War II (New Haven, CT: Yale University Press, 2002); Anthony Kauders, Unmögliche Heimat: Eine deutsch-jüdische Geschichte der Bundesrepublik (Munich: Deutsche Verlags-Anstalt, 2007).
  13. Si veda per esempio, Flora A. Keshgegian, "Finding a Place Past Night: Armenian Genocidal Memory in Diaspora", in Religion, Violence, and Place, curr. Oren Baruch Stier e J. Shawn Landres (Bloomington: Indiana University Press, 2006), 100–112.
  14. Lea Fleischmann e Henryk M. Broder, Dies ist nicht mein Land: Eine Jüdin verlässt die Bundesrepublik (Hamburg: Hoffmann und Campe, 1980); Jessica Jacoby, Claudia Schoppmann, e Wendy Zena-Henry, curr., Nach der Shoa geboren: Jüdische Frauen in Deutschland (Berlino: Elefanten Press, 1994); Peter Sichrovsky, Strangers in Their Own Land: Young Jews in Germany and Austria Today (New York: Basic Books, 1986). Per un'ulteriore discussione di questi testi da parte della seconda generazione, si veda di seguito e il mio wikilibro Interpretazione e scrittura dell'Olocausto.
  15. Stern, Whitewashing, 49–50, citazione 50.
  16. Ibid., 49 (citazione), 88–92.
  17. Ibid., 88.
  18. Ibid., 202–203.
  19. Elisabeth Domansky, "A Lost War: World War II in Postwar German Memory", in Thinking About the Holocaust after Half a Century, cur. Alvin H. Rosenfeld (Bloomington: Indiana University Press, 1997), 233–274.
  20. Robert Moeller, "War Stories: The Search for a Usable Past in the Federal Republic of Germany", American Historical Review 101, no. 4 (1996): 1041–1046.
  21. Stefan Berger, "On Taboos, Traumas and Other Myths: Why the Debate About German Victims of the Second World War Is Not a Historians’ Controversy", in Germans as Victims: Remembering the Past in Contemporary Germany, cur. Bill Niven (New York: Palgrave Macmillan, 2006), 210–224; Paul Cooke e Marc Silberman, curr., Screening War: Perspectives on German Suffering (Rochester, NY: Camden House, 2010); Helmut Schmitz, cur., Nation of Victims?: Representations of German Wartime Suffering from 1945 to the Present (New York: Rodopi, 2007); Ruth Wittlinger, "Taboo or Tradition? The ‘Germans as Victims’ Theme in the Federal Republic until the Mid-1990s", in Germans as Victims: Remembering the Past in Contemporary Germany, cur. Bill Niven (New York: Palgrave Macmillan, 2006), 62–75.
  22. Oltre all'altra letteratura citata in questo paragrafo, si vedano anche Atina Grossmann, "Feminist Debates About Women and National Socialism", Gender and History 3 (1991): 350–358; Elizabeth Heineman, "The Hour of Woman: Memories of Germany’s ‘Crisis Years’ and West German National Identity", American Historical Review 101, no. 2 (1996): 354–395; Robert Moeller, "Germans as Victims?: Thoughts on a Post-Cold War History of World War II’s Legacies", History & Memory 17, no. 1/2 (2005): 147–194; Robert Moeller, War Stories: The Search for a Usable Past in the Federal Republic of Germany (Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 2001).
  23. Fleischmann, Dies ist nicht mein Land; Jacoby, Nach der Shoa geboren; Sichrovsky, Strangers in Their Own Land.
  24. Isaiah Trunk, Judenrat: The Jewish Councils in Eastern Europe under Nazi Occupation (New York: Macmillan, 1972), 548–561. Cfr. anche Zeev W. Mankowitz, Life between Memory and Hope: The Survivors of the Holocaust in Occupied Germany (Cambridge: Cambridge University Press, 2002), 204–208.
  25. Si veda anche Edgar Hilsenrath, Night: A Novel (Garden City, NY: Doubleday, 1966); Edgar Hilsenrath, The Nazi and the Barber (Garden City, NY: Doubleday, 1971).
  26. Idith Zertal, Israel’s Holocaust and the Politics of Nationhood (Cambridge: Cambridge University Press, 2005), 62–79, citazione 64. Cfr. anche Trunk, Judenrat, 561–569.
  27. Tom Segev, The Seventh Million: Israelis and the Holocaust (New York: Hill and Wang, 1993), 116–120, 160, citazione 117.
  28. Franklin Bialystok, Delayed Impact: The Holocaust and the Canadian Jewish Community (Montreal: McGill-Queen’s University Press, 2000), 81–82; Paula J. Draper, "Canadian Holocaust Survivors: From Liberation to Rebirth", Canadian Jewish Studies 4–5 (1994–95): 49–50. Secondo Bialystok, i sopravvissuti comprendevano dal 13 alo 15 percento della popolazione ebrea canadese degli anni '50, e Gerald Tulchinsky osserva che nel 1990 i sopravvissuti e loro discen denti comprendevano dal 30 al 40 percento degli ebrei canadesi, in confronto all'8 percento negli Stati Uniti. Gerald Tulchinsky, Branching Out: The Transformation of the Canadian Jewish Community (Toronto: Stoddard, 1998), 283.
  29. Barbara Schober, "Holocaust Commemoration in Vancouver, B.C., 1943–1975" (tesi MA, University of British Columbia, 1998), 70–71.
  30. Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil (New York: Penguin Books, 1994), 124–125, 283–285; Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt: For Love of the World, II ediz. (New Haven, CT: Yale University Press, 2004), 343.
  31. Steven E. Aschheim, "Archetypes and the German-Jewish Dialogue: Reflections Occasioned by the Goldhagen Affair", German History 15 (1997): 248 (citazione); Young-Bruehl, Hannah Arendt, 339.Cfr. anche Steven E. Aschheim, cur., Hannah Arendt in Jerusalem (Berkeley: University of California Press, 2001).
  32. Young-Bruehl, Hannah Arendt, 347–348. Sulla reazione ebraica tedesca a Eichmann in Jerusalem, si veda anche Richard I. Cohen, "A Generation’s Response to Eichmann in Jerusalem", in Hannah Arendt in Jerusalem, cur. Steven E. Aschheim (Berkeley: University of California Press, 2001), 259–261.
  33. Si veda il dibattito del 1946 sulla stampa in lingua yiddish di due leader ebrei che avevano discusso in pubblico della loro cooperazione con i nazisti. Mankowitz, Life between Memory, 207–209.
  34. Segev, Seventh Million, 465; Zertal, Israel’s Holocaust, 131. Eichmann in Jerusalem was finally published in 2000 by Bavel in Tel Aviv.
  35. Leora Bilsky, "Between Justice and Politics: The Conception of Storytellers in the Eichmann Trial", in Hannah Arendt in Jerusalem, cur. Steven E. Aschheim (Berkeley: University of California Press, 2001), 232–252, spec. 250, citazione 233; Segev, Seventh Million, 257.
  36. Segev, Seventh Million, 276, 305, 308.
  37. Ibid., 338. Cfr. anche Bilsky, "Between Justice and Politics", 244.
  38. Jeffrey Shandler, While America Watches: Televising the Holocaust (New York: Oxford University Press, 1999); James Edward Young, The Texture of Memory: Holocaust Memorials and Meaning (New Haven, CT: Yale University Press, 1993), 213; Young, Writing and Rewriting, 157–171.
  39. Young, Texture of Memory, 271–272. Per la storia e i dibettiti sullo Yom Hashoah israeliano dai primi anni '50 in poi, cfr. anche 263–271.
  40. Ibid., 272–280.
  41. Ibid., 212–217, 247–260.
  42. Bodemann, Jews, Germans, Memory. Sul carattere riservato, comunitario o addirittura familiare della cultura ebraica della commemorazione si veda il capitolo di Y. Michal Bodemann, "Reconstructions of History: From Jewish Memory to Nationalized Commemoration of Kristallnacht in Germany", 190–193, 203–204; inoltre cfr. Brenner, After the Holocaust; Kauders, Unmögliche Heimat; Rapaport, Jews in Germany.
  43. Bodemann, "Reconstructions of History", 179–223, spec. 196, 211–212; Henryk Broder, "The Germanization of the Holocaust", in A Jew in the New Germany, curr. Sander L. Gilman e Lilian Friedberg (Urbana and Chicago: University of Illinois Press, 2004), 102–12; James Edward Young, At Memory’s Edge: After-Images of the Holocaust in Contemporary Art and Architecture (New Haven, CT: Yale University Press, 2000), 184–223; Young, Texture of Memory, 17–112. Sul Museo Ebraico di Berlino, cfr. Noah Isenberg, "Reading ‘between the Lines’: Daniel Libeskind’s Berlin Jewish Museum and the Shattered Symbiosis", in Unlikely History: The Changing German-Jewish Symbiosis, 1945–2000, cur. Leslie Morris e Jack Zipes (New York: Palgrave, 2002), 155–179; Young, At Memory’s Edge, 152–183. Il Museo fu pianificato da un noto architetto ebreo e sviluppato con un certo coinvolgimento della comunità ebraica berlinese, ciononostante gli studiosi lo considerano quasi esclusivamentebut in rapporto di funzione commemorativa per il pubblico non ebreo. Lo storico Michael Meng discute persinbo le sinagoghe e le rovine di sinagoghe nella Germania postbellica da una prospettiva non ebraica: Michael Meng, Shattered Spaces: Encountering Jewish Ruins in Postwar Germany and Poland (Cambridge: Harvard University Press, 2011).
  44. Per un saggio sulle pratiche di commemorazione e sacralizzazione nel sito di un campo di concentramento in Germania, che aveva tenuto prigionieri principalmente non-ebrei, cfr. Insa Eschebach, "Ashes, Soil, Commemoration: Processes of Sacralization at the Former Ravensbrück Concentration Camp", History & Memory 23, no. 1 (2011): 131–56.
  45. Tim Cole, Selling the Holocaust: From Auschwitz to Schindler, How History Is Bought, Packaged, and Sold (Londra: Routledge, 1999): 11, 153 (citazione).
  46. Hasia R. Diner, We Remember with Reverence and Love: American Jews and the Myth of Silence after the Holocaust, 1945–1962 (New York: New York University Press, 2009), 50–51.
  47. Cfr. per esempio Schober, "Holocaust Commemoration", 23. La parola "Olocausto" come termine del genocidio degli ebrei europei venne diffuso solo negli anni '60. Diner, We Remember, 376; Garber, "Why Do We Call", 9.
  48. Schober, "Holocaust Commemoration", 25–25, 31–32.
  49. Ibid., 31–32.
  50. Diner, We Remember, 315.
  51. Ibid., 311, 316.
  52. Ibid., 75–76.
  53. Schober, "Holocaust Commemoration", 149. Cfr. anche ibid., 26.
  54. Diner, We Remember, 58. Per la sequenza della date nel calendario ebraico, si veda Young, Texture of Memory, 264–273.
  55. Joel Sisenwine, "The Ritualization of Yom Hasho’ah: Confronting the Holocaust" (tesi rabbinica, Hebrew Union College, 1995), 49.
  56. Diner, We Remember, 51, 53–56, 58–59.
  57. Young, Texture of Memory, 270.
  58. Ibid., 269.
  59. Diner, We Remember, 62.
  60. Questo brano si trova subito dopo il rendimento di grazie che conclude il pasto comunitario.
  61. Per il testo classico sulla memoria ebraica e i modi di commemorazione, cfr. Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor: Jewish History and Jewish Memory (Seattle and London: University of Washington Press, 1982). Per uno sviluppo più recente di questi argomenti che si basa sul lavoro di Yerushalmi ma si impegna anche in modo critico, cfr. Dean Phillip Bell, Jewish Identity in Early Modern Germany: Memory, Power and Community (Aldershot, Hampshire, England and Burlington, VT: Ashgate, 2007). Cfr. anche David G. Roskies, Against the Apocalypse: Responses to Catastrophe in Modern Jewish Culture (Cambridge: Harvard University Press, 1984).
  62. Secondo Jeffrey Shandler, nei primi anni del dopoguerra gruppi ebraici progressisti e laici, come lo Yiddishist Workmen's Circle e lo Jewish People’s Fraternal Order, avevano iniziato a "incorporate references to the Nazi persecution of European Jewry into their communal Passover celebrations". Jeffrey Shandler, "The Holocaust on Television: A New American ‘Rite of Spring’", in Freedom and Responsibility: Exploring the Dilemmas of Jewish Continuity, curr. Rela Mintz Geffen e Marsha Bryan Edelman (Hoboken, NJ: Ktav, 1998), 269 n. 15.
  63. Diner, We Remember, 18–19, 62.
  64. Ibid., 61–63. Cfr. anche Schober, Holocaust Commemoration, 44–46, e la discussione che segue, in questo Capitolo.
  65. Jonathan S. Woocher, Sacred Survival: The Civil Religion of American Jews (Bloomington: Indiana University Press, 1986), spec. 132–136, citazione 134.
  66. Eric A. Goldman, "Film as Haggadah for the Holocaust", Shoah 4, no. 1–2 (1983–1984): 4.
  67. Diner, We Remember, 84.
  68. Jeffrey Shandler, Jews, God, and Videotape: Religion and Media in America (New York: New York University Press, 2009), 102.
  69. Shandler, "Holocaust on Television", 264.
  70. Ibid., 264–265, citazioni 264 e titolo dell'articolo.
  71. Sulla frase "the sin of not thinking about the Holocaust enough", cfr. Diner, We Remember, 357–364, citazione 358.
  72. Ibid., 265. Cfr. anche Shandler, Jews, God, and Videotape, 123. Qui, Shandler discute come, durante la Marcia dei Viventi in Polonia "the Holocaust is configured as a formative, panhistoric event for all Jews". Cfr. anche Oren Baruch Stier, Committed to Memory: Cultural Mediations of the Holocaust (Amherst and Boston: University of Massachusetts Press, 2003), spec. 153–154.
  73. Diner, We Remember, 137–138, citazione 138.
  74. "Jewish Life after the Holocaust: Europe and North America, Then and Now" (written contribution by participant in workshop, Limmud Winnipeg, Winnipeg, March 12, 2011).
  75. Diner, We Remember, 328.
  76. Yerushalmi, Zakhor, spec. 10, 17, 34, 43, 50–51.
  77. Edizione Deluxe della Maxwell House Haggadah (General Foods Corporation, 1986), 25.
  78. Young, Texture of Memory, 281. Cfr. anche Liora Gubkin, Shall Tell Your Children: Holocaust Memory in American Passover Ritual (New Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 2007), 161–162.
  79. Il sostegno intercomunitario è spesso inteso come basato sul principio rabbinico: "Tutto Israele si sostiene l'un l'altro" (Talmud babilonese, Shavuot 39a – cfr. epigrafe in testata). Per esempi di questo principio nell'era moderna, si veda l'intervento europeo nell'Affare di Damasco, la creazione di organizzazioni filantropiche ebraiche internazionali come l'Alliance Israélite Universelle e gli sforzi degli ebrei occidentali a favore delle popolazioni dell'Europa orientale durante la Prima guerra mondiale in letteratura come Hasia R. Diner, The Jews of the United States, 1654 to 2000 (Berkeley: University of California Press, 2004), 169–186; Jonathan Frankel, The Damascus Affair: ‘Ritual Murder,’ Politics, and the Jews in 1840 (Cambridge: Cambridge University Press, 1997); Aron Rodrigue, French Jews, Turkish Jews: The Alliance Israelite Universelle and the Politics of Jewish Schooling in Turkey, 1860–1925 (Bloomington: Indiana University Press, 1990).
  80. Young, Texture of Memory, 343–344. Cfr. anche James E. Young, "America’s Holocaust: Memory and the Politics of Identity", in The Americanization of the Holocaust, cur. Hilene Flanzbaum (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999), 72–80. La pratica di far "rivivere" ai visitatori un'esperienza dell'Olocausto mentre camminano per il museo è stata interrotta, poiché l'aggiornamento delle carte d'identità ai terminali dei computer in varie fermate del museo si è rivelato tecnicamente impossibile. Eppure le carte sembrano essere ancora in uso in una forma modificata e meno prominente. Shandler, Jews, God, and Videotape, 119.
  81. Rona Sheramy, "Defining Lessons: The Holocaust in American Jewish Education" (tesi PhD., Brandeis University, 2001), 85.
  82. Sheramy, "Defining Lessons", 86.
  83. Love, Myron, "University of Winnipeg Education Prof Introducing Innovative Approach to Teaching Holocaust Literature", Jewish Post & News, November 2, 2011, 24.
  84. Young, Texture of Memory, 337.
  85. Sheramy, "Defining Lessons", 119.
  86. David M. Gitlitz e Linda Kay Davidson, Pilgrimage and the Jews (Westport, CT: Pareage Publishers, 2006), 172–179; Rona Sheramy, "From Auschwitz to Jerusalem: Re-Enacting Jewish History on the March of the Living", Polin: Studies in Polish Jewry 19 (2007): 307–325; Stier, Committed to Memory, 150–173.
  87. Sheramy, "From Auschwitz to Jerusalem", 314.
  88. Sheramy, "Defining Lessons", 135; Stier, Committed to Memory, 157.
  89. Sheramy, "From Auschwitz to Jerusalem", 314.
  90. Stier, Committed to Memory, 161, 166–167.
  91. Ibid., 157–158, citazione 158.
  92. Gitlitz, Pilgrimage and the Jews, 174–177; Stier, Committed to Memory, 159–160, 168.
  93. Sheramy, "Defining Lessons", 94.
  94. Sheramy, "From Auschwitz to Jerusalem", 308 (citazione); Stier, Committed to Memory, 243 n. 2. Secondo Tom Segev, uno studio del 1992 ha rilevato che quasi l'80% degli studenti universitari israeliani era d'accordo con la dichiarazione "We are all Holocaust survivors". Segev, Seventh Million, 516.
  95. Nell'ambito del progetto March of the Living Digital Archive Project
  96. Amos Funkenstein, Perceptions of Jewish History (Berkeley: University of California Press, 1993), 201–206. Per un'interessante eccezione a questo modello tra gli ebrei nel mondo musulmano medievale, cfr. Mark Cohen, Under Crescent and Cross: The Jews in the Middle Ages (Princeton: Princeton University Press, 1994), 180–189.
  97. Nils Roemer, "Turning Defeat into Victory: Wissenschaft des Judentums and the Martyrs of 1096", Jewish History 13, no. 2 (1999): 71–72.
  98. Roemer, "Turning Defeat into Victory", 72. Su Meir Wiener, si veda Cyrus Adler, et al., cur., The Jewish Encyclopedia: A Descriptive Record of the History, Religion, Literature, and Customs of the Jewish People from the Earliest Times, vol. 12 (New York: Ktav, 1906), 516.
  99. Young, Texture of Memory, 285.
  100. Ibid., 344.
  101. Shandler, Jews, God, and Videotape, 95. Per la citazione completa di Arthur A. Cohen, cfr. ibid., 110.
  102. Persino Peter Novick, il quale sostiene che gli ebrei americani non furono eccessivamente colpiti dal genocidio degli ebrei europei fino a quando non abbracciarono un'identità di vittima negli anni '60, ammette: "in immigrant centers like the Lower East Side of Manhattan families were in distress about the fate of their loved ones in Europe during the war". Afferma inoltre che "the Holocaust was a private, albeit widely shared, Jewish sorrow". Peter Novick, The Holocaust in American Life (Boston: Houghton Mifflin, 1999), 35, 98.
  103. Diner, We Remember, 321–323.
  104. Henry L. Feingold, A Time for Searching: Entering the Mainstream 1920–1940 (Baltimore and London: John Hopkins University Press, 1992), 1–34; Tulchinsky, Branching Out, 172–203, 264–276.
  105. Margarete Myers Feinstein, Holocaust Survivors in Postwar Germany, 1945–1957 (Cambridge and New York: Cambridge University Press, 2010), 68–70, 73–85; Mankowitz, Life between Memory, 192–203.
  106. Feinstein, Holocaust Survivors, 211–212; Mankowitz, Life between Memory, 85–87; Yosef Dov Sheinson, A Survivors’ Haggadah (Philadelphia: Jewish Publication Society, 2000); Yosef Hayim Yerushalmi, Haggadah and History: A Panorama in Facsimile of Five Centuries of the Printed Haggadah from the Collections of Harvard University and the Jewish Theological Seminary of America (Philadelphia: Jewish Publication Society of America, 1974), 83, plates 172–181. Sui Seders che venivano tenuti nei campi nazisti, con almeno uno dei quali servì da commemorazione in una celebrazione familiare postbellica, cfr. Gubkin, You Shall Tell Your Children, 46–51.
  107. Feinstein, Holocaust Survivors, 212.
  108. Mankowitz, Life between Memory, 40, 209.
  109. Ibid., 213. Sul sostegno e l'ambivalenza sulle commemorazioni della rivolta del Ghetto di Varsavia tra i detenuti dei campi DP, cfr. anche Feinstein, Holocaust Survivors, 78–81 e Mankowitz, Life between Memory, 209–214.
  110. Mankowitz, Life between Memory, 224.
  111. Sono necessarie molte più ricerche sull'influenza delle culture di commemorazione dei sopravvissuti su questo sviluppo, considerando sia i campi DP che le comunità nordamericane dei sopravvissuti . Attualmente, cfr. Beth Cohen, Case Closed: Holocaust Survivors in Postwar America (New Brunswick, NJ, and London: Rutgers University Press, 2007), 156–172; Diner, We Remember, 212–215.
  112. Sheramy, "Defining Lessons", 108; Young, Texture of Memory, 347–348.
  113. Charles J. Sykes, Nation of Victims?: The Decay of the American Character (New York: St. Martin’s Press, 1992).
  114. Laurence Mordekhai Thomas, "Suffering as a Moral Beacon: Blacks and Jew", in The Americanization of the Holocaust, cur. Hilene Flanzbaum (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999), 198–210, spec. 202, 204, 208 (citazione). Sugli ebrei americani che si identificano come vittime, cfr. anche Novick, Holocaust in American Life.
  115. 115 Diner, We Remember, 338–339; Shandler, Jews, God, and Videotape, 142.
  116. Per un'introduzione a tale letteratura, cfr. Steven Katz, Wrestling with God: Jewish Theological Responses during and after the Holocaust (New York: Oxford University Press, 2007). Si veda anche Roskies, Against the Apocalypse. Possediamo inoltre un corpo enorme di testi liturgici di vario genere, composto da capi di una vasta gamma di movimenti religiosi ebraici. Per una rassegna e un'introduzione a materiale liturgico eccellente, anche se un po' datato, si veda Sisenwine, "Ritualization of Yom Hasho’ah", spec. 48–64, 83–92. Per testi liturgici nei principali libri di preghiere, cfr. per il Movimento Conservatore, Rabbi Jules Harlow, cur., Siddur Sim Shalom: A Prayerbook for Shabbat, Festivals, and Weekdays (New York: The Rabbinical Assembly, 1989), 828–842, e per il Movimento Riformato, Chaim Stern, cur., Sha’arey Tefillah: The New Union Prayerbook; Weekdays, Sabbaths, and Festivals; Services and Prayers for Synagogue and Home (New York: Central Conference of American Rabbis, 1975), 573–589, e Elyse D. Frishman, cur., Mishkan T’filah: A Reform Siddur; Weekdays, Shabbat, Festivals and Other Occasions of Public Worship (New York: Central Conference of American Rabbis, 2007), 521–533. Per un Servizio di culto completo sull'Olocausto, cfr. David G. Roskies, cur., Nightwords: A Liturgy on the Holocaust (New York: CLAL, 2000), e Avidgor Shinan, Megillat HaShoah: The Shoah Scroll. A Holocaust Liturgy, trad. (EN) Jules Hrlow (Gerusalemme: The Rabbinical Assembly, 2004). Liora Gubkin ha sostenuto una commemorazione non redentrice dell'Olocausto negli Haggadot della Pasqua ebraica. Ma si attiene all'idea che la Pasqua ebraica sia un veicolo appropriato per ancorare la coscienza dell'Olocausto nell'identità ebraica contemporanea e si aspetta che gli ebrei americani si identifichino con le vittime della Shoah. Gubkin, You Shall Tell Your Children.
  117. Jonathan Webber, "Lest We Forget! The Holocaust in Jewish Historical Consciousness and Modern Jewish Identities", in Modern Jewish Mythologies, cur. Glenda Abramson (Cincinnati, OH: Hebrew Union College Press: 2000), 124–125, citazione 124.
  118. Webber, "Lest We Forget", 118.
  119. Ibid., 125.
  120. Ibid., 126.
  121. Ibid., 111.
  122. Ibid., 110–111. Cfr. anche Yerushalmi, Zakhor, 10–11.
  123. Edward Tabor Linenthal, Preserving Memory: The Struggle to Create America’s Holocaust Museum (New York: Columbia University Press, 2001), 122.
  124. Sostengo quindi che ciò che propone lo studioso di Studi ebraici Yehuda Kurtzer, vale a dire, "that Auschwitz ... should move out of historical time and become mythically significant, so that it can inform the Jewish present", è successo da tempo. Lo stesso vale per il suo suggerimento che gli ebrei dovrebbero "start remembering the Holocaust in the ways that our tradition instructs". Yehuda Kurtzer, Shuva: The Future of the Jewish Past (Waltham, MA: Brandeis University Press, 2012), 81–98, citazioni 95, 98. Questo sviluppo non è molto sorprendente, poiché gli studiosi hanno perfezionato la nozione di Yosef Hayim Yerushalmi di una divisione radicale tra, da un lato, l'esclusiva dedizione dell'ebraismo premoderno alla memoria e agli scritti liturgici a scapito della coscienza storica e, dall'altro, l'impegno intransigente dell'ebraismo moderno per la storiografia e l'erudizione razionale. Sembra che gli ebrei abbiano sempre posseduto una certa consapevolezza della storicità degli eventi, pur non avendo mai completamente abbandonato il modo mitico e senza tempo di concepire la realtà che la testualità ebraica sostiene. Cfr. per esempio Bell, Jewish Identity; Funkenstein, Perceptions of Jewish History; David Myers, "Mehabevin Et Ha-Tsarot: Crusade Memories and Modern Jewish Martyrologies", Jewish History 13, no. 2 (1999): 49–64.
  125. Cfr. Bodemann, "Reconstructions of History", 208.