Interpretazione e scrittura dell'Olocausto/Memoria e compimento

Indice del libro
"Die Plage" di Harley Gaber
"Die Plage" di Harley Gaber




Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

(Primo Levi,
Epigrafe, Se questo è un uomo)






Memoria e compimento
Never forget!
Never forget!
Mai dimenticare!

Dalla caduta del Muro al presente

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Nel 1988 Julian Hilton scrisse: "Qualunque cosa l'Occidente tema nella RDT, non è la rinascita del fascismo di destra.[1] Meno di due anni dopo, tuttavia, la Germania si trovò al centro di una crisi razziale paneuropea. La demolizione del Muro di Berlino il 9 novembre 1989, e il crollo dell'autoritarismo comunista fu accompagnato da un'ondata di violenza xenofoba in Germania e oltre. L'ascesa della Destra Europea, tuttavia, fu in realtà un problema europeo e non specificamente limitato alla Germania. La frammentazione dell'URSS permise a leader di destra come Milosovic, Karadicz e Zhirinovsky di assicurarsi il potere nell'ex blocco orientale mentre, a ovest, la recessione economica in corso diede ai sostenitori dell'immigrazione come Jean-Marie Le Pen,[2] Jorg Haider,[3] e Derek Beackon[4] maggiore credibilità nei confronti degli elettori. Furono comunque le immagini televisive dei tedeschi che sventolavano le bandiere nella notte della riunificazione tedesca nel novembre 1990 e gli skinhead che scendevano in strada, a catturare l'immaginazione dei media. La Germania fu messa a fuoco dai riflettori dei media mondiali e vennero tracciati parallelismi storici.[5]

L'ampliamento delle fessure politiche in Europa aveva consentito a un numero crescente di gruppi neonazisti di ottenere un profilo più elevato. I media internazionali si concentrarono su quelli emergenti in Germania, in particolare nell'ex Est.[6] Come scrive Hermann Kurthen, "L'ansia era diretta in particolare verso i tedeschi orientali perché si sapeva molto poco dei loro atteggiamenti politici.[7] Tuttavia, si verificarono attacchi xenofobi sia a Ovest che a Est. L'8 marzo 1990, un gruppo di vandali attaccò un ostello per richiedenti asilo a Essen. Il 25 novembre, naziskin lanciarono pietre e bombe Molotov in una moschea di Herten (Renania Settentrionale-Vestfalia). Nel gennaio 1991 fu attaccato un ostello a Eisenhüttenstadt. La violenza continuò nel 1992 quando bombardamenti contro i turchi e slavi a Rostock e di nuovo a Eisenhüttenstadt provocarono oltre cinquecento arresti.[8] A settembre pietre e bombe incendiarie vennero lanciate in un ostello per rifugiati a Quedlingburg[9] per tre notti consecutive e il 13 ottobre un ostello venne distrutto da un incendio doloso a Immenstadt. Il 3 novembre, nella città nord-occidentale di Mölln, tre donne turche morirono a seguito di un attacco con bombe incendiarie nella loro casa.[10] Alla fine del 1992 diciassette persone erano state assassinate da estremisti di estrema destra. La violenza venne interpretata come un segno che ben poco distanziava i tedeschi contemporanei dai loro antenati nazisti. Gran parte di questa ansia, tuttavia, fu alimentata dai media, come osserva Hermann Kurthen:

« Quando agli inizi degli anni ’90 brutte immagini di violenza xenofoba, graffiti con svastica e atti vandalici sostituirono le immagini allegre e pacifiche dell'unificazione tedesca, alcuni osservatori ipotizzarono che il terribile passato della Germania sarebbe tornato in superficie. La paura che un esercito di laboriosi e obbedienti Volksgenossen (membri del collettivo nazionale tedesco) avrebbe mobilitato e invaso l'Europa non fu soffocata dalle notizie di milioni di manifestanti che protestavano contro la violenza con fiaccole... Il continuo antisemitismo e risentimento xenofobo in una nazione responsabile dell'Olocausto è stato visto come un'indicazione del fallimento della politica tedesca postbellica nel trattare il passato.[11] »

Gli atteggiamenti non erano uniformi: altri tedeschi protestarono contro la violenza nel 1992 con la dimostrazione della "Catena di luce" e il concerto "Rock contro la Destra".[12] L'interpretazione errata del problema peculiare della Germania sorse perché la coscienza popolare e la copertura mediatica internazionale confusero la xenofobia con l'antisemitismo. Ad esempio, il 7 gennaio 1989, il Memoriale alla Deportazione degli ebrei di Berlino al Pulitzbrücke di Berlino fu imbrattato di sangue di maiale. Nel 1990, i cimiteri ebraici furono profanati a Stoccarda, Monaco e Baden-Wurtemberg. Nel settembre 1991, alla vigilia del Capodanno ebraico, i neonazisti bruciarono le baracche ebraiche di Sachsenhausen (che erano già state attaccate il 5 agosto di quell'anno). Anche i memoriali ebraici a Ravensbrück e la città sul lago di Uberlingen furono profanati. Il 2 marzo 1992 la sinagoga di Lubecca fu distrutta da un incendio doloso. Era la prima volta che una sinagoga era stata distrutta sul suolo tedesco dal tempo della guerra.[13] Nel 1991, furono segnalati in totale 367 incidenti antisemiti. Nel 1992 la cifra venne quasi raddoppiata a 627. Nel 1994 furono segnalati 1.366 incidenti e nel 1995 la cifra raggiunse il picco a 1.155.[14] Queste statistiche vennero prese come prova concreta del crescente neonazismo. Tuttavia Werner Bergmann scrive che queste cifre sono fuorvianti. Venivano segnalati più casi perché vi era una maggiore consapevolezza, in particolare dall'ex settore orientale in cui l'antisemitismo era stato segnalato per la prima volta.[15] Il risentimento antisemita non era mirato contro le persone in quanto tali, ma era espresso in atti simbolici contro le proprietà. Numerosi sondaggi condotti in tutta la Germania negli anni ’90 mostrano che la maggior parte dei suoi cittadini, sia a Est che a Ovest, possiede una notevole conoscenza dell'Olocausto e sostiene giornate commemorative e memoriali. Le indagini indicano anche che molti sono preoccupati per l'antisemitismo.[16] La xenofobia espressa nella Germania riunificata ha ben poco a che fare con la questione ebraica:

« Il rifiuto degli ebrei in Germania oggi deve essere visto nel contesto degli atteggiamenti nei confronti del nazionalsocialismo e della storia tedesca. La colpa, la responsabilità e le riparazioni sono le principali questioni coinvolte, in contrasto con le questioni relative ai diritti civili e ai servizi di assistenza sociale o ai sentimenti di isolamento culturale, che influenzano gli atteggiamenti nei confronti dei lavoratori migranti in Germania. L'estremismo di destra abbina sempre l'antisemitismo alla xenofobia, anche se ognuno svolge una funzione diversa: gli ebrei sono contestati come gruppo politicamente influente che è sospettato di essere dietro agli attacchi statali e mediatici contro la Destra. Gli stranieri (Ausländer), invece, sono considerati concorrenti.[17] »

I commentatori, sia al di fuori della Germania che all'interno, non sono riusciti a distinguere tra xenofobia – causata dalla disoccupazione, da sconvolgimenti politici e da rapidi cambiamenti sociali – e l'antisemitismo reale, derivato da un senso di colpa che è rimasto inespresso a causa dei tabù culturali, e interessa principalmente un piccolo numero dei neonazisti. Inoltre, non hanno differenziato tra le cause basilari della violenza xenofoba nell'Est (isolamento culturale, tradimento, impotenza e povertà) e quelle in Occidente (patriottismo e risentimento).

Gli osservatori, dal 1990, hanno interpretato l'antisemitismo e la xenofobia come sintomi della stessa malattia, la cui radice si trova negli anni 1933-45. L'Olocausto, pertanto, è diventato una pietra miliare grazie alla quale vengono dissezionate le situazioni contemporanee. Ciò non è solo a causa delle apparenti somiglianze, ma perché la situazione, specialmente nei primi anni ’90, sembrava al di là della comprensione. La gente chiedeva semplici formule morali con le quali decifrare le complessità contemporanee.

Con i massacri nei Balcani, l'impulso a comprendere il presente attraverso i detriti del passato acquisì slancio. L'Olocausto divenne un prisma attraverso il quale filtrare gli affari contemporanei. L'attuale situazione indicava che l'umanità era progredita poco dai campi di concentramento di Hitler. Per intellettuali e media era ovvio che il multiculturalismo e la democrazia non funzionavano e che la Storia si ripeteva.[18]

L'idea sbagliata della vera natura della xenofobia tedesca non si limitava agli osservatori esterni. Martin Walser in un articolo su Der Spiegel (1993) si avvicinò alla verità quando sostenne che i leader e gli intellettuali tedeschi, evitando successivamente la questione problematica e persino "imbarazzante" del nazionalismo tedesco, avevano spinto forzatamente il sentimento patriottico in aree pericolose dell'estremismo di destra.[19] Günter Grass, invece, vide un legame diretto tra il nazismo e il problema attuale. Il 2 febbraio 1990 contestò l'euforia della riunificazione con il commento: "Chiunque pensi alla Germania adesso e cerchi risposte alla questione tedesca, deve pensare ad Auschwitz"[20] Grass fece infuriare molte persone in un momento in cui sembrava che gli anni della guerra potessero finalmente essere archiviati definitivamente. La riunificazione voleva apparire come il tanto atteso esonero ufficiale.[21] Ma ora, tali speranze venivano frustrate poiché le critiche sia esterne che interne riportavano i tedeschi all'Olocausto. L'Olocausto definiva ancora una volta l'identità tedesca. Dopo la morte delle tre donne turche a Mölln, Grass si rivolse a una Germania profondamente scioccata e divisa con la domanda: "Siamo condannati a rivivere la nostra storia?"[22] La risposta per la stampa arrivò nel marzo 1994, quando Schindler's List - La lista di Schindler di Steven Spielberg fu proiettato a Berlino. In diversi cinema i neonazisti applaudirono quando gli ebrei furono uccisi sullo schermo.[23]

L'establishment teatrale rispecchiava l'impulso di vedere i conflitti contemporanei attraverso l'obiettivo dell'Olocausto. Quando Das Ghetto—Tryptichon di Joshua Sobol venne diretto da Carl Hermann Rise al Maxim Gorki Theater di Berlino, nell'ottobre 1994, il recensore del Der Nord Berliner commentò: "Ghetto è ancora una pièce rilevante, il che è una deplorevole rivelazione dopo Rostock e Sachsenhausen."[24] La drammaturga austriaca, Elfriede Jelinek ([[w:Premio Nobel per la letteratura|Premio Nobel per la Letteratura, 2004), collegò in modo specifico il razzismo contemporaneo tedesco al Terzo Reich. Il suo dramma Totenauberg (1993) rappresentò, secondo un recensore, "un continuum di oppressione dall'antisemitismo del Terzo Reich alla xenofobia dei giorni nostri".[25]

Memoriale dell'Olocausto a Mosca

Teatro nell'ex-Est

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La crisi tedesca è più che una semplice ripetizione storica. Il problema tedesco deriva dalla riunificazione e dalla divisione di Ossies e Wessies[26] o, come diceva la giornalista Reiner Oschman, "i ragazzi ricchi viziati" dell'Occidente e i loro "parenti poveri". "La festa è finita", dichiarò.[27] La riunificazione non aveva risolto magicamente i problemi della Germania orientale. L'introduzione di un'economia di mercato competitiva portò alla ridondanza e alla povertà in un paese che aveva goduto della piena occupazione sotto i comunisti. Nel 1992, alcune aree dell'ex-Est erano afflitte da tassi di disoccupazione fino al 40%.[28] Senza una dittatura da incolpare, i tedeschi dell'Est dovevano assumersi le proprie responsabilità e lottare per l'autodeterminazione. Non abituati a esercitare le proprie facoltà decisionali, reagirono ritirandosi dalla responsabilità e cercarono un capro espiatorio. E chi, se non gli ebrei?Come dichiarò la scrittrice della Germania dell'Est, Monika Maron, nel 1992, i tedeschi dell'Est si comportarono come se il mondo dovesse loro qualcosa e, quando il sogno di riunificazione divenne amaro, si lamentarono come bambini a cui non era stato dato il regalo che desideravano a Natale:[29]

« A volte penso che gli oppositori dell'unificazione avessero ragione: i tedeschi dell'Est avrebbero dovuto essere lasciati tribolare da soli attraverso tutte le miserie che dovevano seguire al collasso del comunismo, in modo che potessero finalmente imparare che la loro azione e inazione provocano conseguenze, così come la loro precedente passività e silenzio. Invece hanno semplicemente scambiato le nuove autorità con quelle vecchie. Sono stati loro a scegliere questo governo.[30] »

Inizialmente, alcuni osservatori occidentali credevano che anni di propaganda sovietica antiebraica e antisraeliana avessero irrimediabilmente contaminato i tedeschi orientali e che l'Occidente avesse ereditato una polveriera antisemita pronta ad esplodere. Prima della riunificazione solo l'uno per cento della popolazione della Germania dell'Est era di origine "straniera". Questa cifra poi crebbe quando i primi rifugiati in cerca d'asilo fuggirono oltreconfine nel 1990.[31] Fino a quel momento, i giovani della Germania dell'Est erano rimasti senza conoscenza di altre culture. Fondamentalmente, l'afflusso di profughi coincise con la recessione post-unificazione.

Mentre le società occidentali rilevavano le fabbriche nell'ex Est e attuavano la razionalizzazione e la ridondanza, gli ex tedeschi orientali naturalmente si sentivano traditi. Scrittori e storici dell'ex Repubblica democratica continuarono a mettere i loro concittadini nel ruolo di vittime proprio come avevano fatto Karge e Fühmann negli anni ’80. Ciò fu visto nei cambiamenti al Museo Buchenwald nell'ex Est dopo il 1990. Dal 1945 il campo era stato un memoriale dell'antifascismo tedesco sotto Hitler. Con la riunificazione arrivò la percolazione della narrativa ebraica. Prima del 1990, solo una targa dedicata agli ebrei della Kristallnacht indicava la catastrofe ebraica. Dopo il 1990 un nuovo opuscolo fu pubblicato dal centro visitatori di Buchenwald "per superare un certo unilateralismo nella presentazione".[32] I tedeschi orientali dovettero infine accettare la loro complicità storica nell'Olocausto, mentre in precedenza le autorità della Germania orientale avevano sottolineato una narrazione in cui i nazisti, in quanto manipolo di capitalisti pazzi, avevano sfruttato la classe operaia tedesca. Il modo in cui gli Ossies reagirono a questa nuova narrativa può essere visto nella loro reazione alla scoperta che Buchenwald aveva anche operato come campo di lavoro sovietico. Nel 1983 alcuni costruttori trovarono ossa umane fuori dai confini del campo. Il governo della Germania orientale dichiarò chiusa la questione, ma nel 1989 furono scoperte ancor più ossa. Le autorità hanno infine ammisero che Buchenwald, Sachsenhausen e Ravensbrück erano rimasti operativi come campi di prigionia fino agli inizi degli anni ’50. Sotto le autorità comuniste, un terzo dei prigionieri di Buchenwald era morto di fame e malattie.[33] Dopo il 1990 fu allestita una nuova mostra dedicata ai prigionieri tedeschi sotto i Sovietici. Ciò animò parecchie accese discussioni tra gli storici sul "livellamento" della storia della Germania orientale. Le persone vennero presentate come vittime gemelle sotto consecutive dittature totalitarie, con vittime tedesche ed ebree sotto Hitler alla pari con le vittime tedesche sotto Stalin.

Tuttavia, un gruppo di scrittori criticò la propensione dei loro compagni Ossies a ricoprire il ruolo di vittima. Hauptbahnhof (Stazione Centrale) di Michael Peschke presso lo Studio Karl-Marx-Stadt nel 1990 racconta la storia di un emarginato sociale soprannominato "Stazione Centrale" che ha fatto del buffet della stazione la sua casa negli ultimi quarant'anni. Abbandonata sua moglie durante l'era nazista, si era poi finto membro del partito nel dopoguerra. Per tutta la vita egli aveva negato qualsiasi responsabilità. Come ha scritto un recensore, Peschke mirava a dimostrare che "i tedeschi dell'est stanno ancora scappando dal loro passato".[34]

L'opera teatrale di Stefan Schütz del 1989, Orestesobsession,[35] fu scritta con un intento simile. Venne rappresentata per la prima volta al Kapuziner Theater in Lussemburgo ed ebbe la sua prima tedesca al Freie Kammerspiele di Magdeburgo nell'aprile 1993. La maggior parte dei precedenti drammi di Schütz, scrive Jonathan Kalb, era stata diretta all'ipocrisia dei legami familiari e dei genitori autoritari.[36] Nell'ex Repubblica democratica la metafora era spesso l'unico modo per portare la politica sul palcoscenico e Schütz aveva usato la metafora delle famiglie corrotte e dei genitori "totalitari" per esprimere il proprio punto politico. Comunista impegnato, Schütz emigrò in Occidente nel 1980, non essendo stato in grado di conciliare le sue convinzioni politiche con quelle della Repubblica Democratica.

All'inizio, Orestesobsession sembra essere scritto nella stessa vena di Uomo a uomo di Karge e L'angelo caduto di Fühmann. In tutti e tre i protagonisti sono egomaniaci ossessivi che si considerano "vittime" della storia e della politica. Ad esempio, in Orestesobsession, Schütz descrive la Germania orientale come un "campo di concentramento" e uno "zoo umano". Sotto il direttore dello zoo (di nome Walter Ulbricht) ogni prigioniero guarda oltre il confine e "impallidisce d'invidia". "Guarda con bramosia le cartoline illustrate. Sogna la vita selvaggia nella natura."[37] Come Ella/Max di Karge e il narratore di Fühmann, il protagonista di Schütz, Oreste, condanna il "ruolo" che è tenuto a svolgere nella società. Tuttavia, Schütz utilizza questa tradizione per invertirla. Chiede che i tedeschi dell'Est accettino la loro complicità sia degli orrori storici sia della presente xenofobia. Lo fa rivolgendosi alla propensione della Germania dell'Est a incolpare "l'altro". Electra si lamenta:

« Perché non posso espellere padre e madre morti dal mio cervello? Film per famiglie: nevi di un tempo. Perché aspetto che l'eroe venga e mi liberi? Dov'è la mia libertà? Dov'è il fuoco che mi fa ballare? »

A cui Oreste risponde:

« È perché, nonostante tutto quello che è successo, sei ancora la bambina piagnucolosa di tua madre.[38] »

La madre autoritaria rappresenta il governo totalitario. Sebbene sia madre sia governo esercitino un controllo assoluto, il vantaggio è che il "bambino" non è mai costretto a crescere. Schütz vuole che i tedeschi dell'Est smettano di ricoprire il ruolo di vittime innocenti, rivalutino la loro complicità storica e partecipino attivamente alla costruzione del futuro.

Un'altra produzione che costrinse gli ex tedeschi dell'Est a rivalutare il loro rapporto con il passato fu il revival da parte di Alexander Stillmark di Bruder Eichmann di Heinar Kipphardt. Il Berliner Ensemble aveva rimosso la rappresentazione dal suo repertorio al Deutsches Theater nel 1988. Quando la compagnia lo riprese nel 1992, Stillmark rimosse tutte le scene di analogia e si concentrò sulla figura di Eichmann e sull'evento specifico dell'Olocausto. Questa nuova attenzione focalizzata fu rafforzata dalla posizione geografica della produzione e dalla sua collocazione tematica all'interno di un evento artistico più ampio: il dramma fu rappresentato nello Studio Tacheles, accanto alla sinagoga nell'ex quartiere ebraico di Berlino, nell'ambito dell'esposizione Jewish Spheres of Life. Stillmark notò che c'erano molti giovani tra il pubblico che, dopo il crollo del governo autoritario, stavano indagando sulla storia del loro paese. In particolare stavano rivalutando la loro complicità nella repressione comunista, la narrativa della Germania orientale sull'Olocausto e il ruolo dei loro genitori nella distruzione degli ebrei europei:

« Nella RDT questa domanda fu sempre delegata ai tedeschi occidentali. Ora, apparteneva a noi. La questione del nostro rapporto con le vittime e i morti venne improvvisamente sollevata. Eravamo circondati da morti: di fronte a noi i morti dell'Olocausto e della Guerra, e dietro di noi, sempre più distinti, i morti dei Gulag e le rivoluzioni culturali.[39] »

Dal 1995, la compagnia ha continuato a rappresentare Bruder Eichmann nello spazio/studio di Berlino in questa nuova versione compressa. L'ambiente intimo dello studio, con le sue pareti a specchio, costringe ad uno stretto rapporto tra attore e pubblico, passato e presente. In particolare, la produzione solleva la questione della responsabilità. Alla nuova generazione, attraverso l'esempio dell'identificazione sconsiderata di Eichmann con il dogma politico e la mancanza di compassione per i suoi simili, viene chiesto di rispondere nel mondo odierno in modo proattivo.

« Ci sono molti giovani che non si sono mai preoccupati di questo tema e si confrontano con il mondo in un modo totalmente diverso rispetto a noi anziani. Anche il loro mondo è diverso. La guerra infuria in Europa[40], il problema della fame esiste in tutto il mondo, i rifugiati, le guerre nazionali nei paesi arabi e nel Vicino Oriente. Gli sforzi delle parti in guerra non sono, nella maggior parte dei casi, mirati a soggiogare i gruppi/popoli avversari, ma semplicemente a espellerli o sterminarli il più rapidamente possibile.[41] »

Concentrando il testo di Kipphardt esclusivamente su Eichmann e sull'Olocausto, il regista cerca di sottolineare la colpevolezza tedesca per un momento unico nella storia. La versione compressa di Stillmark evidenzia la questione della responsabilità individuale:

« Dobbiamo imparare ad ascoltare Eichmann con attenzione, a scendere in profondità nelle branche inferiori dei suoi pensieri per poter comprendere la banalità del male come sua verità virulenta.

La comprensione di questa verità ci include poiché Eichmann non è di un altro mondo. È il prodotto del nostro secolo, come noi. Il dramma si chiama BRUDER EICHMANN.[42] »

I tedeschi dell'Est hanno rapidamente recuperato la loro storia. In risposta a timori di antisemitismo e xenofobia latenti della Germania orientale, all'inizio degli anni ’90 sono stati condotti numerosi studi per stabilire i profili degli elettori, le credenze politiche e l'atteggiamento nei confronti degli stranieri. I sondaggi sulla xenofobia (definita come un atteggiamento eccessivamente timoroso, ostile o sprezzante nei confronti degli stranieri) e l'antisemitismo (definito come un atteggiamento sfavorevole e ostile nei confronti degli ebrei) mostrarono risultati sorprendenti: i dati rivelarono solo lievi differenze nell'atteggiamento tra Ossie e Wessie.[43] Sebbene gli ex tedeschi dell'Est fossero frazionalmente più xenofobi e più propensi a votare per i partiti di destra, erano meno antisemiti dei loro cugini occidentali. Un'indagine simile di Der Spiegel nel 1992 mostrò praticamente gli stessi risultati con il sedici per cento dei tedeschi occidentali che si descrivevano antiebraici mentre solo il quattro per cento dei tedeschi orientali rispondeva allo stesso modo.[44] Studi condotti tra il 1994 e il 1997 hanno confermato questi risultati. Inoltre, hanno dimostrato che gli scolari e i giovani adulti della Germania orientale sapevano di più sull'Olocausto e sulla storia dell'antisemitismo rispetto ai loro omologhi della Germania occidentale, austriaca, britannica e americana.[45] Fino agli anni ’80, lo Stato della Germania orientale aveva ignorato Israele e la narrativa sulla guerra ebraica. Successivamente, il primo parlamento liberamente eletto della Germania orientale, Die Volkskammer, approvò all'unanimità la seguente dichiarazione nell'aprile 1990:

« Chiediamo il perdono degli ebrei in tutto il mondo. Chiediamo perdono al popolo di Israele per l'ipocrisia e l'ostilità della politica ufficiale della RDT verso lo stato di Israele e per la continua persecuzione e umiliazione dei cittadini ebrei nel nostro paese dopo il 1945.[46] »

La dichiarazione di cui sopra non testimonia necessariamente un cambiamento schiacciante negli atteggiamenti sociali e politici nei confronti degli ebrei che si verificò improvvisamente nell'Est durante questo decennio. Dal 1945, la tragedia ebraica era stata affrontata tramite le arti, sebbene all'interno della rigida struttura del realismo socialista e della storiografia sovietica. La sorpresa mostrata per i risultati dei sondaggi condotti negli anni ’90, indica piuttosto la diseducazione e il pregiudizio dell'Occidente nei confronti dell'Est.

Teatro nell'ex-Ovest

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Mentre ex scrittori, registi e politici della Germania orientale hanno tentato di venire a patti con il passato e lo stato attuale delle cose, la violenza xenofoba è stata accolta in modo banale dai tedeschi occidentali, vale a dire con negazione, distanziamento e "livellamento" per analogia. Come negli anni ’70, quando la RAF aveva creato una "cattiva stampa", i cittadini "decenti" si allontanarono dagli elementi radicali che associavano esclusivamente agli ex tedeschi dell'Est. Individui di destra, organizzazioni e orientali furono demonizzati come progenie dei nazisti "lunatici". Quando la violenza si verificò in Occidente,vennero incolpati gli Ossie migranti. Tali strategie non sono diverse da quelle dei precedenti cinquant'anni. Le vecchie narrazioni di guerra hanno continuato ad essere perpetuate. Ad esempio, un sondaggio di Der Spiegel nel maggio 1995 indicava che il settantaquattro per cento dei tedeschi di età superiore ai sessantacinque anni credeva che la Wehrmacht non fosse coinvolta nell'Olocausto e che l'espulsione di oltre quattordici milioni di tedeschi etnici dal territorio sovietico fosse un crimine ben più grande.[47] Nel 1997 scene di rabbia e proteste accompagnarono una mostra fotografica a Monaco intitolata Crimini della Wehrmacht. Le lettere ai giornali indicarono che molti credevano che le foto, scattate dai fotografi che avevano accompagnato le truppe, fossero false.[48] Junge Freiheit, un settimanale stampato a Berlino, pubblicava una serie di articoli intitolati "Cinquanta anni dopo" sui ricordi della seconda guerra mondiale che si concentravano quasi interamente sulle sofferenze di giovani coscritti e civili, come se Olocausto e nazisti non fossero mai esistiti.[49] A Berlino, nel novembre 1993, fu eretto il Memoriale per le Vittime della Guerra e della Tirannia, unificando così tutte le vittime della guerra. Questa tattica non era diversa dalla scelta di Borchert di universalizzare tutti i morti di guerra in Fuori davanti alla porta o la cerimonia di Bitburg orchestrata da Kohl nel 1985. Film come Das schreckliche Mädchen (La ragazza terribile; 1990) di Michael Verhoeven e Europa Europa (1991) di Agnieszka Holland rappresentarono un paese che non era ancora completamente riconciliato con il suo passato.

Da Adenauer a Kohl, i politici tedeschi sono stati consapevoli di come le tensioni razziali siano percepite dagli osservatori esterni. Ad esempio, nel 1984, quando Peter Zadek produsse la prima europea di Ghetto di Sobol al Volkstheater di Berlino, si sollevarono dubbi sul fatto che l'opera fosse adatta a un pubblico tedesco.[50] Il fatto che la maggioranza del pubblico nel 1984 fosse nato dopo la guerra non entrò nel dibattito.[51] Dieci anni dopo continuava a sussistere la stessa preoccupazione per il profilo pubblico. Quando un fumetto, progettato per le scuole, su Hitler e l'Olocausto (ispirato a Maus di Art Spiegelman)[52] fu approvato da Simon Wiesenthal, il governo tedesco respinse la sua richiesta sostenendo che banalizzava l'evento. In realtà, i tedeschi erano preoccupati che sarebbero stati loro a sembrare di banalizzare l'Olocausto usando un ausilio didattico così incongruo come un libro di fumetti per approfondire gli studi sull'Olocausto.[53]

Questa preoccupazione per le apparenze derivava da una tendenza autoflagellante endemica tra intellettuali tedeschi, come Grass. Fu in parte generata dall'idea sbagliata che la xenofobia degli anni ’90 e l'antisemitismo storico fossero intrinsecamente collegati e, inoltre, che tale violenza fosse dominio unico della nazione tedesca. Ad esempio, Susan Tebbutt dimostrò che nella letteratura per l'infanzia il fascismo era presentato come un fenomeno tedesco non europeo.[54] Grass sostenne che, storicamente, il potere corrompe i tedeschi. Si è quindi opposto alla riunificazione sin dall'inizio:

« Capisco i tedeschi... L'unità è sempre stata un disastro... L'unità tedesca, da Bismark a Hitler, fu la base di Auschwitz.[55] »

Come commentò un osservatore esterno in merito a Grass:

« I tedeschi moderni non si sfidano di sé stessi... Certo, stanno diventando un po' più assertivi, ma finora la loro vulnerabilità, la loro insicurezza e la loro capacità di autocritica sono più evidenti.[56] »

Uno scrittore tedesco che caratterizza questa "sfiducia" è Hans Magnus Enzensberger. Nel 1964 scrisse che Auschwitz era un prodotto della "civiltà" occidentale, non specificamente della nazione tedesca.[57] Ma nel 1993 vide la violenza xenofoba come espressione della follia collettiva tedesca.[58] Nel suo racconto, Die große Wanderung (1992), Enzensberger usa una carrozza ferroviaria moderna come metafora per collegare la xenofobia tedesca contemporanea e il concetto Lebensraum di Hitler.[59] Nella storia, un viaggiatore siede nello scompartimento. Quando entrano nuovi viaggiatori, si sente "invaso" e invia segnali antagonisti a ogni ondata di "nuova migrazione" per creare un'atmosfera ostile. Enzensberger non è necessariamente d'accordo sul fatto che il popolo tedesco abbia il monopolio del razzismo, ma afferma che il suo popolo mostra una propensione allarmante per questo sentimento. In ultima analisi, scrive che i tedeschi sembrano generare violenza razziale con più facilità e regolarità rispetto agli altri europei.

~ • ~

Nel 1994 Steve Katz affrontò la questione dell'"unicità" dell'Olocausto.[60] È questo dibattito centrale negli studi sull'Olocausto, egli asserisce, che ha sempre confuso ogni valutazione obiettiva. Storicizzando l'evento, conclude Katz, gli scrittori successivi non hanno proposto argomenti concreti nel dimostrare l'unicità trascendentale dell'Olocausto ed egli rifiuta la tendenza a collocare l'evento alteramente sopra la storia come un evento mistico. Scrive, tuttavia, che l'Olocausto fu singolare per ragioni storiche tangibili. Ammantare l'evento nel misticismo semi-religioso e creare un'aura di "intoccabilità", sostiene Katz, ha confuso la ricerca e la comprensione. Tuttavia, affermando, categoricamente, che l'Olocausto è stato un evento unico, Katz paradossalmente lo rende "intoccabile" negando altri punti di riferimento.

La riapparizione del genocidio europeo ha fatto sì che negli ultimi dieci anni vi sia stata una mossa per individuare e studiare l'Olocausto in una varietà di quadri correlati. Per alcuni, questo parallelismo significa che una struttura semplicistica viene forzata su scenari estremamente complessi. Le analogie storiche corrono il rischio di erodere l'identità dell'Olocausto come evento a sé stante. Ma questa erosione equivale ad un deprezzamento? Ronnie S. Landau scrive che diversi gruppi hanno sottolineato l'unicità dell'Olocausto per evidenziarne il significato. Eppure, come sostiene:

« Nel valutare l'importanza dell'Olocausto, la sua unicità e universalità non dovrebbero essere viste come categorie reciprocamente esclusive: ma, al contrario, come modi complementari ed efficaci di venire a patti con l'Olocausto e le sue lezioni per tutti noi. Dobbiamo affrontare il nostro passato, non scappare via da esso, o elevarlo su un piano misterioso che sia completamente al di là della nostra comprensione.[61] »

Landau sostiene che l'Olocausto dovrebbe essere indagato all'interno di molteplici discorsi: storia tedesca, storia ebraica, storia cristiana e genocidi del ventesimo secolo, tanto per citarne alcuni. Tuttavia, concorda sul fatto che fare confronti nel più generale dei modi tradisca una certa "sciatteria" di pensiero.[62] Il modo in cui il conflitto bosniaco fu descritto dai media è stato uno di questi casi. Il giorno dopo che i giornalisti britannici Ed Vulliamy (The Guardian) e Penny Marshall (ITN) fecero reportage dai campi serbi di Omarska e Trnopolje il 5 agosto 1992, mostrando le immagini fin troppo familiari di detenuti emaciati, Vulliamy si lamentò:

« La reazione fu così tumultuosa, che, con mia irritazione, fui costretto a dedicare più tempo a sottolineare che Omarska non era Belsen o Auschwitz piuttosto che dettagliare l'abominazione di ciò che avevamo trovato.[63] »

ITN proiettò le immagini il 6 agosto e vennero immediatamente riprodotte nelle redazioni di tutto il mondo. Il 7 agosto, il Daily Mirror pubblicò il titolo di testa "Belsen 1992".[64] Alcuni osservatori, tuttavia, commentarono che Penny Marshall e il suo cameraman, Jeremy Irving, scelsero di rappresentare Trnopolje, un centro per rifugiati, alla maniera di un campo di concentramento nella speranza che i politici si sentissero in dovere di intervenire. Le immagini di Irving invitavano lo spettatore a guardare le figure dietro il filo spinato a Trnoplje e a codificare queste immagini in un quadro storico di comprensione che ha un imperativo morale molto chiaro: ebrei (vittime) nazisti (persecutori). Dopo l'approvazione della Risoluzione 96 (1) ONU, dopo Norimberga, le Nazioni Unite si impegnano a intervenire in aree in cui le testimonianze confermano attività di genocidio.[65] La Risoluzione 96 a tutt'oggi non è mai stata invocata una sola volta. Molti credevano che le foto di Irving avrebbero cambiato tale situazione. Inoltre, l'analogia con l'Olocausto fu incoraggiata perché il pubblico, che aveva bisogno di identificare le questioni belliche in bianco e nero, fino a quel momento non aveva avuto un'immagine dei "cattivi". Dopo l'agosto 1992, il tono delle notizie dalla Jugoslavia si spostò sulla narrazione dei barbari serbi e dei musulmani vittimizzati, una strategia che prevedeva un revisionismo storico e contemporaneo:

« La caratteristica chiave qui è la rappresentazione della Serbia come regime fascista; la sinistra è stata in primo piano nel tracciare parallelismi diretti tra serbi e Germania nazista. Ciò ha l'effetto, non solo di demonizzare i serbi, ma anche di mistificare la verità sulla Germania nazista.[66] »

Le ragioni per studiare l'Olocausto nel contesto della storia della "civiltà" umana, e in particolare del ventesimo secolo, rimangono forti. Anche se, ad esempio, il conflitto in Bosnia e l'Olocausto sono separati, non sono del tutto incomparabili. Il problema sorge con le conclusioni tratte da tali parallelismi e l'uso a cui sono posti. Le analogie si avvicinano alla verità solo quando si sottolineano le differenze tanto quanto le somiglianze. Nel caso del testo originale di Kipphardt di Bruder Eichmann o di memoriali pubblici come Bitburg e il Memoriale di Berlino alle Vittime della Tirannia, analogie furono proposte per esonerare le attività di guerra tedesche. Tuttavia questa tecnica era l'unico modo in cui i tedeschi potevano razionalizzare la propria storia mantenendo un certo rispetto per se stessi e, inoltre, dolersi dei propri morti. La narrativa tedesca è caratterizzata da cinquant'anni di soppressione a causa del "peccato" dell'Olocausto. Qualunque siano i peccati dei genitori, i tedeschi devono comunque piangere e seppellire i propri morti. Per i tedeschi, l'ondata crescente di xenofobia unita all'inclinazione dei media a rivisitare l'Olocausto dimostra ancora una volta l'impossibilità di "superare" il loro passato unico. Una scrittrice che tenta di piangere i propri morti è Helke Sander ma, per molti, il suo libro e il film successivo, BeFreier und Befreite, è un esempio di Schadenfreude allo stesso modo di Bruder Eichmann.

BeFreier und Befreite: Krieg, Verwaltigungen, Kinder (= Liberatori si prendono libertà: Guerra, Stupro, Bambini)[67] è una raccolta di interviste fatte con alcune delle circa 1,9 milioni di ragazze e donne tedesche violentate dai soldati alleati nei nove giorni tra il 24 aprile e 3 maggio 1945. Sander considera lo stupro di queste donne come Zeitereignis, un evento la cui enormità lo rende quasi unico nella storia. Non ci sono testimonianze di stupro su una scala comparabile. Nel 1992, quando iniziarono a emergere le prime prove di stupro di massa in Bosnia e le donne coreane iniziarono a parlare della loro prigionia come "donne di conforto" per le truppe giapponesi nella seconda guerra mondiale,[68] Sander pubblicò la versione cinematografica del libro nel 1992, al Festival del Cinema di Berlino. Si aprì con la frase "Proprio come in Kuwait, proprio come in Jugoslavia" e così si svolge la storia dello stupro come sistema militare e maschile di sottomissione.

Sander divise l'opinione pubblica. Alcuni credevano che stesse tentando il revisionismo storico femminista, mentre altri l'elogiarono per aver affrontato un argomento tabù. Il nocciolo del dibattito si concentrò ancora una volta sull'uso dell'analogia e sul fatto che una tale tecnica portasse al livellamento e all'esculpazione tedesca. In particolare, le interviste con donne ebree e tedesche violentate vengono affiancate. Gertrud Koch:

« Il sesso delle donne assume un'importanza transistorica, sia che la donna sia un'ebrea che vive nascosta o una tedesca intervistata..., tutte le donne ora sembrano essere nella stessa barca.[69] »

La narrazione principale presenta le donne come vittime comuni di una guerra maschile o, come propone David J. Levin:

« Il film ci presenta una nuova comunità di vittime non mitigate e indifferenziate: donne tedesche del 1945. In tal modo, formula una nuova Stunde Null o Ora Zero, un momento, cioè, quando la politica nazista del genocidio viene sostituita dalla pratica dello stupro diffuso da parte delle Forze d'occupazione.[70] »

Il film di Sander non era solo attuale ma molto valido. Sollevò la questione se tutte le narrazioni che trattavano della seconda guerra mondiale dovessero mostrare deferenza o ruotare intorno all'Olocausto e se gli ebrei avessero preso il monopolio della sofferenza. Il dibattito intorno al film indicò che molti intellettuali, in particolare tedeschi, erano a disagio col film o in disaccordo con l'analoga interpretazione della Storia da parte di Sander.

Ci sono state pochissime opere teatrali della Germania occidentale sull'Olocausto negli anni ’90, certamente a causa dei profondi cambiamenti politici e territoriali. Ciò non significa che il pubblico tedesco abbia ignorato l'argomento. Ci sono stati diversi importanti eventi teatrali non tedeschi sull'Olocausto. Negli anni ’90, scrittori israeliani (come Sobol) e compagnie (come il Teatro Akko) hanno fatto tournée in Germania. E non sono solo gli israeliani che hanno avuto successo lì. Il gruppo britannico, Towering Inferno, con il loro concerto rock-cum-performance-art Kaddish ottenne un enorme successo al Festival della Cultura Ebraica del 1992 a Berlino e il Berliner Ensemble sta attualmente considerando la produzione della commedia di Roy Kift, Camp Comedy su Kurt Gerron e il suo film del 1944, Il Führer dona una città agli ebrei.

In particolare, nel cuore della trilogia del Ghetto di Sobol e dell’Arbeit Macht Frei del Teatro Akko ci sono domande in competizione tra narrazioni storiche, memorie soggettive e l'uso dell'analogia. Sobol ha sempre posto la nozione di memoria personale al centro del suo lavoro. Ciò è particolarmente vero per la sua sceneggiatura per film di Ghetto, J. Mentre il numero dei sopravvissuti all'Olocausto diminuisce, Sobol si sente obbligato a registrare le loro storie e intrecciarle con il suo testo. J rimane inedito, ma nel 1995 Sobol cercò lo stesso ideale nella sua produzione di Gens-Ghetto Triptychon al Weimar Schauspielhaus. In questa produzione, Sobol affermò di aver concentrato tutti i suoi sforzi per arrivare alla verità su chi fosse Adam e su come operasse il Movimento clandestino.[71] Sobol era stato rimproverato alla televisione nazionale israeliana dalla moglie sopravvissuta di uno dei combattenti del Movimento di Vilna che aveva contestato la sua versione degli eventi. Di conseguenza, egli cercò ancora di più di mettere insieme la realtà storica o, piuttosto, la storia composta da ricordi in contrapposizione alla storiografia israeliana.[72]

Anche David Maayan, il direttore del Teatro Akko, si occupa dei ricordi individuali. Sia lui che Sobol, in quanto israeliani, ritengono che la storia della nazione ebraica sia stata coscientemente spinta in determinate direzioni politiche e che il loro paese sia quello in cui il collettivo è tradizionalmente apprezzato più dell'individuo. Loro, al contrario, hanno sottolineato il soggettivo. Arbeit Macht Frei del Teatro Akko affronta l'Olocausto in un modo simile a quello proposto da Ronnie S. Landau: l'Olocausto presentato da prospettive sfaccettate — una cacofonia di voci individuali, a volte discordanti, a volte complementari, per dare una rapide visione dell'Olocausto nella sua interezza. Maayan ha realizzato con successo la sua visione di Auschwitz nello stesso modo in cui Picasso visualizzò la guerra civile spagnola in Guernica. Per i Cubisti, l'intero quadro emerge solo quando diverse prospettive simultanee sono "concepite" nell'occhio della mente, liberando così l'intelletto e i sensi dai limiti del realismo.

Tradizionalmente, la rappresentazione dell'Olocausto era stata limitata da vari vincoli critici: rappresentare Auschwitz era "barbaro", scrisse Adorno; poiché stava al di fuori dell'immaginazione, era quasi "impossibile" avvertì Lawrence Langer; la rappresentazione dell'Olocausto era una "profanazione" che banalizzava l'evento, sostenne Wiesel.[73] Wiesel fu particolarmente adirato nel suo attacco contro la produzione di Ghetto a New York.[74] Da Hochhuth a Sobol, scrittori e registi si sono astenuti dal presentare gli orrori per paura di essere blasfemi. Come sostiene Howard Jacobson, questa paura ha portato alla perpetuazione di immagini e risposte banali:

« Il filosofo Adorno ci condusse lungo il sentiero del giardino con il suo notoriamente seducente: "Scrivere poesia dopo Auschwitz è barbaro". Il problema non è la poesia, è la poesia quieta. La trappola non è troppo poca riverenza, ma troppa riverenza.[75] »

Grass forse fu il più vicino a rappresentare l'inferno in Terra quando descrisse l'attività mineraria sotterranea di Brauksel in Anni di cani. Eppure il suo linguaggio metaforico velava piuttosto che rivelare realtà storiche. Al contrario, Steven Spielberg diresse i suoi sforzi verso il realismo fotografico nella sua ricostruzione fisica di Auschwitz in Schindler’s List e nello stile documentativo del movimento della cinepresa. Il film non fu messo in storyboard e gli attori vennero diretti a recitare una scena mentre la cinepresa "origliava".[76] Tuttavia, il realismo riproduce semplicemente immagini familiari e quindi logore che non hanno più la capacità di scioccare. Maayan, con il suo "irrealismo", come i Cubisti, ha creato una realtà più elevata e, soprattutto, ha ricreato lo "shock" iniziale che deve essere stato avvertito da molti spettatori quando hanno assistito al primo reportage di Richard Dimbleby da Belsen. Maayan è forse arrivato più vicino a una rappresentazione fisica di Auschwitz ricreando questa esperienza traumatica iniziale.

Tuttavia Maayan non era interessato solo ai singoli spettatori che partecipavano alla costruzione del "passato" assistendo a frammenti delle memorie individuali. Si preoccupava anche del presente: come esso sia determinato dal modo in cui il passato è stato codificato. In Arbeit Macht Frei, egli chiede se sia possibile creare una rappresentazione dell'Olocausto che possa fornire preziose lezioni per analogia e, allo stesso tempo, mantenere l'integrità dell'Olocausto come evento storico atipico. Possono essere presentate analogie che non siano né reduttiviste, né dannose, né un caso di "pensiero sciatto"? Inoltre, un'opera d'arte può rappresentare la magnitudine dell'Olocausto come una "lacerazione" nella Storia, mentre allo stesso tempo "ripara" lo squarcio in modo che l'identità nazionale israeliana sia liberata dalla sua relazione amore-odio con il passato e la persecuzione ?

Arbeit Macht Frei

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Arbeit Macht Frei — Immagine costruita con alcuni nomi delle vittime della Shoah, presi dal Database Centrale Yad Vashem

Contesto

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La situazione in Israele nei primi anni ’90 era caratterizzata da crescenti complessità politiche e dal continuo terrorismo. In particolare la violenza aveva origine da gruppi esterni all'OLP e, per la prima volta, anche da cittadini israeliani. L'OLP alla fine degli anni ’80 era diventato l'organismo rappresentativo accettato del popolo palestinese incaricato di negoziare una patria indipendente palestinese. Dalla fine degli anni ’70, ha fornito fondi per sostenere le infrastrutture della Cisgiordania, l'assistenza sanitaria, l'istruzione e i programmi agricoli. Arafat divenne il campione del popolo. Tuttavia, riconoscendo il diritto di Israele a esistere e favorendo un accordo attraverso la negoziazione piuttosto che il terrorismo, aveva alienato molti dei suoi sostenitori. Dalla fine degli anni ’80 l'OLP declinò in potere e, quando Arafat fece concessioni agli israeliani, i palestinesi iniziarono a rivalutare le sue capacità. Lo stesso Arafat era a conoscenza della sua calante popolarità e aveva adottato l'Intifada[77] come sua causa per paura di essere oscurato dalla popolarità del movimento e dei suoi leader emergenti. I gruppi arabi militanti stavano togliendogli sostegno, in particolare Hamas, Jihād e Hezbollah, un gruppo terrorista musulmano sciita, sponsorizzato dall'Iran.

La Guerra del Golfo del 1990-1991 approfondì le divisioni tra israeliani e palestinesi poiché molti di quest'ultimi sostenevano apertamente Saddam Hussein il cui obiettivo politico a lungo termine era di sradicare Israele. I palestinesi erano quindi visti collettivamente dagli israeliani come nemici all'interno. Ciò fu visto nella distribuzione di maschere antigas, gratuitamente, ai cittadini ebrei ma non ai palestinesi. Alla fine il governo accettò di vendere le maschere agli arabi per l'equivalente di novanta dollari al pezzo.[78] Naturalmente molti palestinesi, essendo all'estremità inferiore della scala salariale, non potettero permettersi tali spese.

Come in tutte le guerre precedenti, le paure israeliane erano state alimentate dal deliberato parallelismo dell'Olocausto con la minaccia in atto. Come scrive Freddie Rokem:

« Moshe Zuckermann in Shoah in the Sealed Room: the 'Holocaust' in Israeli Press during the Gulf War (Tel Aviv Authors Press, 1993) ha dimostrato come l'equazione "Sadam = Hitler" fosse stata sviluppata quale reazione alla minaccia dei missili Scud iracheni e come le paure furono accentuate dal fatto che alcune componenti per la produzione del gas iracheno erano state fornite da società tedesche.[79] »

Dopo la Guerra del Golfo la società israeliana divenne sempre più polarizzata tra coloro che favorivano una pace negoziata e coloro che desideravano una soluzione militare. La situazione per i palestinesi in Israele generalmente declinò. Nel 1992 David Grossman pubblicò נוכחים נפקדים (ebr. Nokhehim Nifkadim, 1992), una raccolta di interviste con i palestinesi e un documento sulle loro condizioni di vita. Grossman rivelò che nei primi sei mesi erano morti il doppio dei bambini palestinesi rispetto a quelli israeliani e che il novantadue percento dei lavoratori arabi era nella metà inferiore della scala sociale. La metà della popolazione palestinese viveva al di sotto della soglia di povertà.[80] Grossman sosteneva che ci fosse un tentativo sistematico di creare una sottoclasse araba incoraggiata da un sistema di istruzione arabo sottofinanziato. Ad esempio, Grossman sottolineò che non c'erano programmi professionali in elettronica e computer per gli arabi, ma numerosi corsi di automeccanica per ragazzi e cucito per ragazze.[81] Inoltre, la loro scarsa istruzione era stata ulteriormente interrotta da prolungate detenzioni durante l'Intifada. L'Intifada si era guadagnata il soprannome di "Guerra dei bambini". Molti degli arrestati per sospetto da parte della polizia israeliana avevano meno di diciotto anni ed erano tenuti in detenzione amministrativa in attesa di processo. Alcuni aspettarono due o tre anni in custodia durante i quali venne loro negato l'accesso a libri didattici e materiale di scrittura.[82] Il libro di Grossman fu considerato infiammatorio e venne bandito nei centri di detenzione dalle autorità israeliane.

L'indebolito "processo di pace", inaugurato da Rabin e Arafat nel 1993, ha fatto ben poco per migliorare le cose. Nel 1994 Arafat espresse i suoi dubbi sul fatto che si potesse realizzare un vero progresso quando così tanti israeliani e palestinesi erano contrari a fare le concessioni necessarie per la pace.[83] Naturalmente, non tutti gli israeliani erano favorevoli a negoziare un accordo con i palestinesi, in particolare se coinvolgeva l'abbandono di parte dei territori occupati. Un certo numero di cittadini israeliani nazionalisti fecero quindi ricorso essi stessi al terrorismo. Nel marzo 1994, il colono israeliano-americano Baruch Goldstein, entrò in una moschea nella città di Hebron in Cisgiordania e aprì il fuoco sugli arabi in preghiera. Nel novembre 1995 Rabin fu assassinato da un giovane patriota israeliano, Yigal Amir, che dichiarò:

« Non ho commesso tale atto per fermare il processo di pace, perché non esiste un concetto come il processo di pace; è un processo di guerra.[84] »

Come il personaggio immaginario di Yitzhak Dvir nel dramma di Yossi Hadar del 1986, Biboff, Amir considerava Israele come un ghetto assediato e aveva diretto la sua ira contro il "collaboratore". Goldstein fu visto spesso indossare una stella gialla di David come un segno di ricordo.[85] Come sottolineò il poeta palestinese Anton Shammas, il peso dell'Olocausto stava paralizzando la progressione nazionale:

« Il mio dolore – e quello dei palestinesi nei campi profughi – non sarà mai ascoltato, perché deve sempre passare attraverso il filtro dell'Olocausto.[86] »

Il teatro in Israele reagì alla crescente situazione affrontando direttamente le questioni o fornendo evasione a un pubblico politicamente stanco. Da Sindrome di Gerusalemme nel 1987 e Adam nel 1989, entrambi di Sobol, il teatro di protesta israeliano è nato ai margini o ha avuto luogo all'estero. Ad esempio, Underground di Sobol fu presentato in anteprima allo Yale Repertory Theatre e Sobol trascorse gran parte dei primi anni ’90 a lavorare all'estero. Il teatro politico sull'Olocausto e sull'identità ebraica venivano dall'estero, in particolare dalla Germania. Dal 1984, quando Theatre Khan produsse il Jubiläum di Tabori, un flusso costante di stimolanti scritti tedeschi è stato accolto favorevolmente dalla critica israeliana.[87] Schuldig geboren (Nato colpevole) di Sichrovsky, Der deutsche Mittagstisch (= Tavola da pranzo tedesca) di Bernhard e Madre Coraggio di Tabori sono stati prodotti in Israele. L'accoglienza di Mein Kampf nel 1991 fu particolarmente significativa. In modo cruciale, Haaretz dichiarò che Hitler poteva essere superato solo se uno fosse "disposto a identificare le sue caratteristiche dentro di sé".[88] Come Shimon Levy propone:

« Drammi ebrei-tedeschi contemporanei come Mein Kampf o Schuldig geboren... possono essere considerati dai critici teatrali israeliani come convenienti sostituti di ciò che il dramma ebraico è invitato a fare, ma non a presentare, vale a dire una seria discussione dell'esclusività della sofferenza.[89] »

La tendenza di Tabori a combinare vittima e vittimizzatore nello stesso ruolo, condivide un'affinità con il lavoro di Sobol, Lerner e Hadar. Per gli israeliani "progressisti", le opere di Tabori hanno importanti implicazioni per la comprensione dell'identità israeliana contemporanea. Giornali come Al HaMishmar e il defunto Davar, tuttavia, non apprezzando l'ambiguità della pièce e le immagini ebraiche negative, protestarono che Mein Kampf paragonava le sofferenze delle vittime e dei vittimizzatori per ottenere un effetto spurio.

Il teatro di protesta indigeno era nato ai margini. Akko (Acri), una città mista arabo-ebraica nel nord di Israele, divenne il centro del teatro politico. Il suo festival teatrale annuale offrì a molti gruppi più piccoli l'opportunità di ottenere il riconoscimento nazionale. Nel 1985, Gingham Cohen’s Dance, alla maniera di Hanoch Bartov, raccontò la storia del fantasma di un ex-internato che si vendicava senza pietà su una ex-guardia. Nell'ottobre 1990 il primo premio all'Akko Theatre Festival fu assegnato a Reulim (Masked Faced Terrorists) di Ilan Hatzer. Secondo Linda Ben Zvi, questa fu la prima opera teatrale a occuparsi interamente dell'Intifada.[90] Il regista scelse tre attori israeliani come palestinesi nel tentativo di far entrare il pubblico israeliano in empatia con "l’altro". Fu anche un mezzo per diffondere la natura esplosiva dell'opera teatrale. L'obiettivo era di incoraggiare il dialogo e non il confronto. Reulim ebbe successo e si trasferì per due anni nella seconda sala teatrale del Cameri (1990-92). L'Akko Festival fu determinante nel portare il teatro e le questioni palestinesi al pubblico israeliano. Il 1991, ad esempio, fu il primo anno in cui opere in arabo furono eseguite da attori arabi per un pubblico prevalentemente ebreo.

Una produzione teatrale che mirava a spezzare il divario tra palestinesi e israeliani fu Arbeit macht frei vom Toitland Europa (= Il lavoro rende liberi nella Terra di morte d'Europa) di David Maayan che vinse il primo premio ad Akko nel 1991. Ironicamente, usando l'analogia Maayan intendeva infrangere il tradizionale parallelismo politico dell'Olocausto con eventi contemporanei per giustificare l'azione del governo. Maayan sostenne che gli israeliani avevano tratto lezioni "sbagliate" dall'Olocausto. Credeva che ci fossero "altre" lezioni da imparare. Arbeit Macht Frei mostrò come l'analogia potesse essere sia costruttiva che distruttiva, abilitante e proibitiva.

Arbeit macht frei vom Toitland Europa [ארבייט מאכט פריי]

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Nel 1985 David Maayan fondò un teatro di laboratorio misto ebraico/palestinese ad Akko. Ruota intorno a quattro membri principali: David Maayan, Smadar Maayan, Moni Josef e l'attore palestinese Khaled Abu Mi. Arbeit Macht Frei (1991) è stata la seconda produzione del gruppo. Veniva ancora eseguita dallo stesso gruppo di base sette/otto anni dopo, mutando per riflettere i cambiamenti politici contemporanei. Per quanto ne so, viene tuttora rappresentata all'Akko Theatre.[91] Non esiste una sceneggiatura in quanto tale. Molti momenti vengono improvvisati a seconda della composizione del pubblico. Ad esempio, quando fu eseguito in Germania, vennero incorporate modifiche per riflettere sia il pubblico tedesco che gli eventi di attualità. Anche la lingua utilizzata dipende dal pubblico. Generalmente, viene eseguito in a miscela di yiddish, polacco, ebraico, tedesco, arabo e inglese. La seguente analisi è basata sulla mia partecipazione come spettatore ad Akko, primavera 1996, cinque mesi dopo l'assassinio di Rabin. A quel tempo, il Primo Ministro, Shimon Peres, stava cercando di salvare il processo di pace e il proprio governo contro la montante agitazione della destra, in particolare da parte di Benjamin Netanyahu, a quel tempo leader dell'opposizione.

Arbeit Macht Frei impiegò tre anni per svilupparsi. Maayan e i suoi attori idearono la produzione da informazioni raccolte da musei, monumenti e storie familiari, o storie che avevano sentito o letto da sopravvissuti. Il dramma è un amalgama delle memorie degli attori e intende riflettere la coscienza collettiva della società israeliana:

« Arbeit Macht Frei è un dramma sui ricordi dell'Olocausto e il loro posto nella realtà israeliana. I suoi materiali sono la biografia collettiva dei suoi attori e dei loro spettatori, la maggior parte dei quali sono sopravvissuti dell'Olocausto di seconda generazione. Questa è il dramma più sperimentale mai eseguito sul palcoscenico israeliano.[92] »

Durante lo spettacolo, che dura circa cinque ore e mezza, il pubblico è sommerso da immagini, canzoni, odori, ambienti in rapida evoluzione e rapporti contrastanti di "storia", "fatto" e "realtà" che attivano i sensi e stimolano l'intelletto. È deliberatamente frammentario e immaginifico.

Arbeit Macht Frei è interpretato come un stationendrama. La produzione inizia in un museo dell'Olocausto, o museo di guerra, a seconda della produzione individuale. Ad Amburgo, ad esempio, il pubblico fu accompagnato in autobus al campo di Neuengamme. A Berlino, la produzione iniziò nella Villa Wannsee di Hitler. Momenti teatrali secondari si svolgono sul bus. Il fatto che questi momenti siano "teatrali" diventa evidente al pubblico solo in una fase successiva. Ad Akko la maggior parte della produzione si svolge in un complesso sotterraneo appositamente costruito in cui attori e pubblico si mescolano e si scambiano pensieri. È qui che inizia il dramma "vero e proprio", contrassegnato dalla raccolta dei biglietti all'ingresso. All'interno di questa catacomba simile all'Ade, il pubblico assiste e partecipa a diverse scene mentre viene condotto in spazi sempre più limitati che ricordano le baracche di Auschwitz. Attraverso un percorso male illuminato e tortuoso all'interno del complesso, il pubblico è disorientato e "esplorato" dagli attori. È il pubblico che sta al centro di questa esperienza teatrale. Poiché la pièce riguarda la percezione israeliana dell'Olocausto e come è stato impiantato nella società israeliana, il pubblico, in quanto rappresentante di tale società, deve necessariamente essere messo al microscopio.

Lohamei HaGeta’ot: Museo dei Combattenti del Ghetto, visto dall'Acquedotto Ottomano del XVIII secolo (Israele)

Nell'aprile 1996, io e altri ventidue spettatori ci siamo incontrati in un parcheggio ad Akko. Il pubblico era volutamente piccolo, non solo, come dovevamo scoprire, a causa dei confini dello spazio di scena, ma perché il discorso generato tra gli attori e gli spettatori e tra gli spettatori stessi è la parte più importante dello spettacolo. Cinque ore e mezza dopo sapevamo delle cose l'uno dell'altro che in condizioni normali non avremmo mai divulgato a totali estranei. Nel parcheggio fummo accolti da Moni Josef che ci accompagnò ad un autobus. Una guida ci informò che saremmo andati a Lohamei HaGeta’ot (לוֹחֲמֵי הַגֵּיטָאוֹת, "Combattenti del Ghetto"), un museo dell'Olocausto, istituito da un gruppo di sopravvissuti dell'Olocausto, molti dei quali furono leader della rivolta del ghetto di Varsavia. Tutti i temi esplorati in Arbeit Macht Frei sono stabiliti nel museo e ampliati nella seconda parte del dramma.

Il primo tema riguarda l'illusione e la realtà, la narrativa e la contro-narrativa. "Il testo è organizzato come una serie di inganni", scrive Dan Urian, che attiva la vigilanza del pubblico. La percezione da parte del pubblico della realtà e della "verità" viene ripetutamente attaccata nel tentativo di stimolare domande su altre "verità" riguardanti la natura dell'Olocausto, i racconti storici e le percezioni politiche. Ad esempio, al museo il pubblico è stato accolto da "Selma", che ci fu comunicato essere una sopravvissuta dell'Olocausto. La sua identità iniziale fu confermata dal suo aspetto ma, mentre ci guidava nel museo, divenne evidente che era una donna molto più giovane di quanto avessimo immaginato e quindi un'attrice (il cui vero nome era Smadar Maayan).

Il secondo tema, simile a quello esplorato nel Biboff di Hadar, ruota attorno a quello che Anton Shammas chiamò "giudaismo tormentato": la tendenza sado-masochista a risvegliare il dolore dell'Olocausto nell'infliggere un analogo degrado legato alla razza dell'"altro". "Selma", una vittima dei nazisti, paradossalmente sembra ammirare i successi nazisti. Il suo fascino è feticista. Tocca e accarezza i reperti su cui i suoi occhi indugiano intensamente. Il suo atteggiamento è molto sensuale, persino sessuale. Si crogiola in immagini di morte e torture. Ad esempio, ad un certo punto il pubblico fu portato in un piccolo cinema per guardare un film polacco, Ambulans ("Ambulanza", Janusz Morgenstern; 1955). Raffigura un gruppo di bambini che camminano inconsapevolmente verso un furgone/camera a gas mobile. Mentre Selma parla del film, cammina davanti allo schermo e quindi lascia cadere su di sé le immagini proiettate dei bambini. Si crogiola nelle loro immagini, sempre in modo sensuale. Come scrive Freddie Rokem, è un atto di "scrittura sul corpo".[93] Il passato ha lasciato ben più di cicatrici. C'è stata una decisione volontaria di avere le ferite indelebilmente incise sulla pelle. Questo tema è sviluppato più avanti nel dramma, dalla rivelazione che il tatuaggio portato da Smadar nella parte di Selma in effetti è reale.

Il terzo tema ruota attorno a questo atto di iscrizione, in particolare allo scopo di preservare queste ferite infettanti, prometeiche, piuttosto che "sanarle". Quando l'atto di ricordare dà fede alla vita e quando è autodistruttivo e esteriormente aggressivo? È possibile dare a queste domande delle risposte definitive? Ad esempio, Selma all'inizio indossa un fazzoletto attorno al polso per nascondere il tatuaggio del campo. Sceglie di non rimuovere questo marchio significativo del passato anche se ovviamente desidera nasconderlo. La sua relazione con il passato, che voglia ricordarlo o dimenticarlo, è molto ambigua. Come il personaggio di Yosel in Not of This Time, Not of This Place (1963) di Yehuda Amichai, che sfoggia un tatuaggio di sirena per coprire quello inflitto ad Auschwitz, la situazione di Selma sul "ricordo" e il "lasciar perdere", come quella di Israele, è forse insolubile.

Temi del ricordare e del dimenticare inevitabilmente toccano la natura della narrazione. Il tatuaggio, come iscrizione del passato, sul corpo di Smadar (rappresentante dell'attuale corpo politico di Israele) è necessariamente una buona cosa? È finanche legato alla ricerca di integrità storica? Uno ad uno, "Smadar/Selma" sfida preconcetti e narrazioni del pubblico: l'Olocausto, l'imperativo del collettivo israeliano e, soprattutto, gli atteggiamenti israeliani verso i palestinesi. Dopo tutto, sono i palestinesi a sopportare il peso della rabbia generata dalle ferite di un passato che non andrà via. Arbeit Macht Frei è un'indagine sulla narrativa sionista basilare, più o meno allo stesso modo di Cherli Ka Cherli di Danny Horowitz. Per molti versi, l'opera di Horowitz è il precursore stilistico e tematico di Arbeit Macht Frei. In entrambi i brani, il pubblico è guidato da una serie di reperti e guide che pongono domande per costringere gli spettatori a interrogare le immagini e le storie proposte. In particolare, Arbeit Macht Frei utilizza la fotografia del ragazzo nel ghetto di Varsavia, le braccia in alto (visto in Cherli Ka Cherli e in Ha Patriot di Hannover Levin). Selma, in piedi davanti a questa fotografia, espone e spiega la gerarchia della sopravvivenza nell'Olocausto. "Ognuno afferma di essere questo ragazzo", dice, insinuando che la narrativa israeliana ha enfatizzato il ruolo dei partigiani ebrei nel continuum dell'identità ebraica e stigmatizzato convenientemente coloro che si sono comportati con acquiescenza "da pecora". Ecco perché Selma, una "vittima" dei campi, nasconde il suo tatuaggio: è lo stigma di un codardo piuttosto che le stimmate di un martire.

Il quarto tema è la politica aggressiva che Israele ha adottato per garantire che l'Olocausto non si ripeta mai. In termini contemporanei questo si manifesta nel trattamento israeliano della minoranza araba. Fermandosi davanti ad un modello del ghetto di Varsavia, Selma chiese agli spettatori se sapessero di altri ghetti odierni. Qualcuno offrì l'analogia dei campi profughi palestinesi. Selma non approvò né disapprovò la risposta, anche se sembrava fosse quella che si aspettava. L'analogia di israeliani come nazisti e arabi come ebrei espropriati è evidenziata con altri mezzi, in particolare attraverso la musica militare. In Cherli Ka Cherli, Horowitz aveva fatto lo stesso parallelo descrivendo i suoi soldati israeliani e nazisti che ripetevano lo stesso ritornello di "sinist, destra, sinist, destra". Nel museo Selma e successivamente Khaled stabiliscono il Leitmotiv della musica nazionalistica, sottolineandone l'impatto drammatico ed emotivo. Mentre guardava Ambulans, ad esempio, "Selma" chiese al pubblico di notare la drammatica qualità della musica, la facilità con cui può essere utilizzata per manipolare la risposta del pubblico. "Perché suonavano musica nei campi?" Khaled chiese in seguito. "Per nascondere le urla degli ebrei', ci disse. La musica militare e nazionalistica copre una profonda bestialità. Copre l'orrore della guerra. Funziona allo stesso livello dell'eufemismo linguistico e distoglie l'attenzione popolare dalla ferocia del nazionalismo.

Il quinto livello, che fu ulteriormente sviluppato ad Akko, è l'esperienza di essere una vittima, in particolare una vittima del Terzo Reich. Selma depone la prima "mina" per questa discussione quando il pubblico passa davanti ad una raccolta di interpretazioni artistiche contemporanee dell'Olocausto. Osservandole, ci disse, "la vera creatività è dove nascondere un pezzo di pane quando non hai né capelli e né vestiti". La fame, il disorientamento, l'ambiente stesso e la privazione saranno usati in seguito per costringere il pubblico a mettersi nei panni dei perseguitati di Hitler. Ad esempio, un altro punto in cui questa strategia entrò in ballo fu quando Selma chiese al pubblico di scendere una rampa di scale per incontrare Khaled. "Tenete la destra', avvertì. Mentre scendevamo, si fermò in cima alle scale, sorridendoci consapevolmente. Stavamo rievocando l'arrivo degli ebrei ad Auschwitz. Eravamo i fortunati, a differenza di "quelli a sinistra" che passarono dal processo di selezione giù per la "scala del paradiso" e nelle camere a gas.

Selma ci aveva condotto sui gradini con la frase "Ora andiamo da Khaled che sa tutto sui campi di concentramento". Ancora una volta le percezioni furono messe alla prova: cosa può mai un arabo insegnare a un pubblico israeliano sull'Olocausto? Khaled, parlando con un forte accento arabo, stava di fronte a un grande modello tridimensionale di Treblinka con un bastone in mano e istruiva il pubblico sui meccanismi di un campo di sterminio. Il tour di Selma era stato strutturato in modo approssimativo sulla storia della ricerca nazista per affinare l'eliminazione di "un segmento alieno della società". Khaled ci informò che i campi costituivano il metodo "finale". L'immagine di un arabo in piedi davanti a un modello di Treblinka, ci ricordò l'immagine precedente del ghetto di Varsavia, in particolare l'analogia con i campi profughi palestinesi. La domanda sollevata dall'immagine di Khaled e Treblinka sollevò la questione se una simile soluzione finale spettasse anche ai palestinesi.

Arbeit Macht Frei propone un diverso tipo di nazionalismo basato sulla comprensione e il rispetto reciproci in una società multiculturale. Khaled ci disse di non aver mai saputo nulla dell'olocausto fino a quando non andò al Yad Vashem, dove fu così scioccato che si mise a piangere. Descrisse quindi le sue successive reazioni. Prima odiò i tedeschi, poi iniziò a odiare l'Uomo. Ora, ci disse, si riferisce alle persone solo come esseri umani piuttosto che come gruppi o tipi. Il suo atteggiamento rifletteva la necessità di distruggere gli stereotipi. Il pubblico venne incoraggiato a capire, non solo gli ebrei e gli arabi, ma anche l'un l'altro. La comprensione può venire solo mediante il contatto individuale nella vita quotidiana. Ci fu un tentativo deliberato di far condividere agli spettatori le proprie storie, i ricordi e la compassione. Ad esempio, nel museo, Selma si fermò alla cabina di vetro di Eichmann. Uno degli spettatori rivelò che suo padre era stato una delle guardie di Eichmann. Un altro infine ammise di essere un turista tedesco. Questi due estranei condivisero quindi un legame e si formò tra loro un rapporto.

Il pubblico fu quindi riportato ad Akko in autobus. Al centro teatrale fummo condotti in un'anticamera buia. Una guida con una torcia ci disse bruscamente di lasciare le nostre cose e andare in bagno perché questa sarebbe stata la nostra ultima opportunità. Ancora una volta il pubblico venne posto nella posizione di vittime. Era un "gioco" teatrale in cui eravamo ora molto consapevoli di essere coinvolti. Nessuno di noi "protestò" e "da pecora" ci incamminammo verso quello che sarebbe diventato il nostro percorso verso Auschwitz.

Fummo condotti in una stanza ancora più buia e profumata di incenso. L'unica luce proveniva dalla torcia dell'usciere mentre ci metteva bruscamente contro il muro. Di nuovo, la questione della narrazione e della natura dei memoriali come generatori di identità nazionale fu evidenziata quando lo spazio in cui ci trovavamo ricordava il memoriale dei bambini a Yad Vashem. Questo particolare monumento è una caverna buia attraverso la quale lo spettatore si fa strada afferrando un corrimano e l'unica guida è un numero apparentemente infinito di candele che brillano e si riflettono in una miriade di specchi. Ogni luce riflessa rappresenta un bambino ucciso nell'Olocausto ed è progettata per creare un profondo impatto emotivo. Nello spazio corrispondente ad Akko, la luce tremolante era fornita dalla torcia dell'usciere e da una proiezione cinematografica che caddeva su Selma seduta al centro della stanza. Ancora una volta, Selma permetteva al suo corpo di essere iscritto. Lentamente e sensualmente Selma si tolse il fazzoletto dal polso per esporre il suo tatuaggio del campo. Sputando sul tessuto, cercò di cancellare il tatuaggio dalla sua pelle, il passato dal suo presente. Il tatuaggio, come il passato, rimase. L'azione dello sfregamento espresse il desiderio di dimenticare il passato. Tuttavia avrebbe potuto farsi rimuovere chirurgicamente il tatuaggio. Invece, come Yosel, ella rimane in un dilemma insolubile tra il ricordare e il dimenticare. Il dilemma la sfinì. Cadde in avanti, a faccia in giù sul pavimento, rimanendo lì mentre ci trascinavamo nella stanza accanto.

Lo spazio successivo aveva un'atmosfera di decadenza. La carta si staccava dalle pareti. Banchi di scuola giacevano contro una parete. Ci venne detto di sederci. Un modello in scala più grande di Treblinka era posto sul pavimento davanti a noi. Intorno ai suoi bordi correva un trenino. Le capanne in miniatura erano diventate dei piedistalli su cui stavano gli attori e si esibivano. Ai lati del "palcoscenico" c'erano schermi televisivi. Uno mostrava le guardie donne costrette a seppellire i cadaveri in un campo di sterminio, l'altro era un film documentario su Smadar che si faceva fare il tatuaggio e il pubblico allora si rese conto che il tatuaggio dell'attrice era reale. Fu inoltre rivelato che la sequenza di numeri che Smadar aveva scelto per il tatuaggio era la data della morte di suo padre, un dolore che, come l'Olocausto, non vuole sradicare del tutto né ricordare del tutto. Smadar entrò poi nella stanza e si fermò accanto a una tastiera elettronica. La guida femminile dell'autobus (l'attrice Miri Tsemach), Moni e Khaled apparvero vestiti da scolari. Procedettero a satirizzare una cerimonia scolastica della Yom HaShoah. I bambini, annoiati da questo vuoto rituale, si prendevano in giro a vicenda e scherzavano con una trombetta giocattolo. Iniziarono a suonare le sirene e un monitor sulla sinistra mostrò una vera cerimonia scolastica, con bambini altrattanto annoiati. Le sirene si mettono ad ululare in tutto Israele nel Giorno del Milite Caduto e in altri giorni di lutto nazionale, come al funerale di Rabin. Il pubblico venne quindi invitato a riflettere sul proprio patrimonio culturale, la sua socializzazione e la natura ritualistica della memoria collettiva israeliana. Smadar accompagnò la scena suonando canzoni nazionaliste kitsch sulla tastiera.

Alla fine di questa breve rappresentazione, la tenda al retro del "palco" si alzò rivelando un altro spazio. Tra i due spazi c'era un grande cancello metallico con sopra la scritta Arbeit Macht Frei. Fummo condotti oltre la grata e istruiti di andare a destra o a sinistra. Io andai a destra. I due gruppi di spettatori vennero pilotati lungo due corridoi stretti che correvano paralleli tra loro, con un terzo spazio nel mezzo. Gli spazi dei corridoi erano delimitati da valigie e da scarpe che penzolavano dall'alto. Molti si dovettero piegare mentre camminavano. Il muro alla nostra sinistra (cioè quello più vicino all'altro gruppo di spettatori) era un amalgama di vetro e filo spinato che sporgeva sullo spazio vuoto intermedio. Uno stretto banco di legno si allungava al lato della parete alla nostra destra. Ci venne detto di sederci. Attraverso la nostra partizione, si poteva percepire affievolita la presenza dell'altro gruppo di spettatori nella stessa posizione, dall'lato opposto oltre lo spazio vuoto. Nella semi-oscurità sentimmo la voce da un altoparlante che istruiva gli attori ad andare alle varie finestre. E così iniziò il nostro interrogatorio. Miri Tsemach si affacciò alla nostra finestra e chiese a ciascuno di noi perché fossimo lì e quale fosse la nostra connessione con l'Olocausto. Ci furono estratte storie di famiglia e personali e, attraverso questa condivisione, diventammo un gruppo più unito ed intimo. Ciò che non sapevamo era che alcune delle nostre storie sarebbero state usate in seguito, durante i momenti più improvvisati.

Dopo l'interrogatorio, il pubblico fu riunito nella stanza successiva che era circa un metro e mezzo scarso, con banchi ai margini. Sembrava una baracca di un campo di concentramento, eccetto per l'inclusione incongrua di Smadar che si appoggiava ad un pianoforte, invitandoci a sedere. Si mise a cantare una canzone israeliana nazionalista a lume di candela e al pubblico venne offerto cognac o acqua. Di nuovo, la musica attirò la nostra attenzione. Smadar parlò dell'effetto socialmente unificatore della musica, mentre cantava una canzone ebraica. Poi, tranquillamente, si mise a cantare una canzone nazista, in tal modo collegando nazisti e israeliani. In questo spazio ristretto, furono rappresentate una quantità di scene. La stanza divenne l'"appartamento" di Selma in un "ghetto" israeliano dove si raggruppava l'ultima ondata di immigranti. Un immigrante russo arrivato recentemente in Israele si avvicinò ad incontrare Selma (sua vicina) e fu sorpreso di scoprire che lei non aveva mai accettato denaro riparatore. Questa scena era accompagnata dal suono di immigrati oltre i muri che vociferavano in una cacofonia di lingue. Gli immigrati russi che erano venuti in Israele nei tardi anni ’80 e primi anni ’90 furono l'ultima ondata. Poiché avevano una propria cultura e lingua, non si assimilarono. I sabra li considerano estranei e déclassé. Ma anche la classe inferiore deve crearsi un certo grado di rispetto denigrando "l'altro". Nella nostra scena per esempio, l'immigrato russo condanna gli arabi, particolarmente il ragazzo arabo che sua figlia sta attualmente frequentando. La scena dimostra come tutti, alla pari dei nazisti, abbiano il proprio Untermensch.

La scena tra Selma e il russo si intensificò e apparve un cavolo. Le due donne litigarono per prenderselo, con Selma che cercò di nasconderne le foglie tra i capelli e dentro le calze. Nel frattempo il pubblico diveniva consapevole dell'odore di cibo. Erano passate circa quattro ore e mezza da quando eravamo saliti sull'autobus ad Akko. Molti di noi erano alquanto affamati. Smadar e l'immigrato si inseguirono fuori dalla stanza e una parte del soffitto cadde in basso per formare una tavola apparecchiata con un pasto. Tuttavia, il cibo ci venne negato.

'Selma' dopo aver cacciato il russo dal suo appartamento, ritornò con Moni che ora recitava il ruolo del figlio adulto, Menashe. Ci invitò a mangiare nella loro "casa", ma divenne evidente che il suo personaggio era tutt'altro che ospitale. Menashe era un ufficiale di riserva nei paracadutisti, sciovinista e di estrema destra, che fece l'occhiolino ai suoi vecchi "amici del Mossad" nel gruppo e suggerì lascivamente alle donne straniere del pubblico cosa un bravo israeliano potesse fare per loro. Ripetutamente, il personaggio sfacciato di Moni, strappò di mano al pubblico il cibo mentre elaborava vari argomenti, in particolare le storie che gli attori avevano raccolto durante il nostro interrogatorio. Ne seguì una discussione politica tra Moni e Selma. Moni, espandendosi sul conflitto libanese, incolpò gli arabi perché "l'avevano iniziato". La sua ripetuta domanda retorica, "chi l'ha iniziata?" divenne sempre più ridicola mentre la sua argomentazione andava sempre più indietro nel tempo fino a quando madre e figlio si tyrovarono a discutere di chi aveva iniziato la Rivoluzione Francese. Questo approccio satirico evidenziò come i conflitti attuali siano radicati in animosità obsolete. Sottolineò inoltre la natura fatua dell'analogia storica.

Arbeit Macht Frei non evidenzia i parallelismi tra gli arabi e gli ebrei dell'Olocausto o tra i nazisti e gli israeliani per far avanzare una causa a scapito dell'altra. Né cerca di fare facili confronti per imporre un quadro onnicomprensivo di interpretazione. Comprendere la situazione israelo-palestinese attraverso l'obiettivo dell'Olocausto sarebbe miopico. Lo scopo del parallelismo è consentire la comprensione reciproca. Solo quando entrambe le parti sono state educate è possibile progredire. Ciò fu reso evidente nella scena successiva.

La tavola si alzò di nuovo verso il soffitto. Khaled venne rivelato in attesa sul pavimento con un vassoio di caffè e dolcetti. Doveva essere stato seduto sotto il nostro "tavolo" per un bel po' di tempo. Ci fu silenzio e poi chiese: "Cosa state aspettando? Vi aspettate che un arabo vi porti il vostro caffè? Ci furono risate immediate. Stava deridendo la percezione israeliana degli arabi come cittadini di seconda classe. Khaled poi parlò della sua vita da palestinese mentre bevevamo il nostro caffè. Il suo tono non era né aggressivo né autocommiserante. Non cercava né di condannare né di condonare.

Dopo averci lasciato a mangiare i dolcetti, l'atmosfera geniale terminò bruscamente e ci fu ricordato che eravamo in viaggio verso Auschwitz. Il soffitto si abbassò di nuovo per rivelare Smadar distesa nuda e a gambe aperte sulla tavola. Il suo corpo ora esposto era dolorosamente magro. Estraendo un pezzo di pane dalla sua vagina, cominciò a mangiarlo. Il commento che ci aveva fatto al museo sulla "vera creatività" in relazione all'occultamento del cibo tornò a perseguitarci. Era di per sé un'immagine scioccante, ma arrivando subito dopo che avevamo finito di mangiare, ci sentimmo responsabili delle sue condizioni. Avevamo mangiato. Smadar, che pesava trentanove chili, non l'aveva fatto.[94] La tavola e Smadar poi svanirono e, dopo un'ulteriore scena che coinvolgeva fanatici arabi e israeliani, delle botole si aprirono sopra le nostre teste e fummo invitati a salire e arrampicarsi, un'impresa che richiese agli spettatori di aiutarsi a vicenda. Avevamo condiviso le nostre storie, il nostro spazio personale e il nostro cibo. Ora condividevamo un aiuto reciproco mentre ci arrampicavamo attraverso le piccole aperture.

Una volta attraversato il "soffitto" ci trovammo in un inferno simile a quello di Dante. Ci assalirono musica ad alto volume, luci lampeggianti e fumo. Miri Tsemach giaceva nuda in una vasca di metallo girevole, coperta dai resti del nostro pasto. Usando le mani, si riempì la bocca di cibo che vomitò immediatamente. Era un'immagine che funzionava su due livelli: incapsulava lo spettacolo della sottoclasse israeliana (i palestinesi) che viveva di sussidi israeliani; e commentava la distanza percorsa dall'immagine dell'ebreo in cinquant'anni, dalla fame (Selma, la povertà dell'Olocausto e della Diaspora) alla gozzoviglia, avidità e bulimia (la società dei consumi israeliana e il relativo materialismo).

Nel frattempo Smadar, in piedi in una buca sabbiosa, si esibiva come un fenomeno da baraccone. Ci invitò a fissare ancora una volta il suo corpo magro. Ma l'immagine centrale e più ambigua era quella di Khaled. Se ora stesse rappresentando un ebreo o un arabo era incerto. Correndo nudo[95] sul posto, teneva in mano un manganello di gomma con il quale si batteva ripetutamente. Al collo, attaccato a una corda, c'era un apribottiglie. Ci consegnarono bottiglie di birra e incoraggiarono a goderci lo "spettacolo". Khaled quindi offrì il manganello in giro, invitandoci a picchiarlo. Uno spettatore imbarazzato, nello spirito di partecipazione del pubblico, accettò, ma colpì Khaled solo leggermente. Il modo in cui questo spettatore partecipò al "gioco" aveva lo scopo di evidenziare quanto fosse facile, in una società collettiva, diventare il persecutore. Sullo sfondo, Moni come Kommandant di un campo di concentramento, sollevato in alto da una cintura contro la parete opposta, conduceva il procedimento come se dirigesse un'orchestra. La posizione di questo inferno artificiale era ambigua. Eravamo ad Auschwitz o una visione da incubo di Israele? La musica e l'azione si intensificarono con Khaled che si batteva freneticamente. La scena era insopportabile. Non c'era via d'uscita ovvia. Alla fine fummo rilasciati mentre la scena continuava dietro di noi. Mentre venivamo condotti via, Khaled collassò e Smadar lo confortò in un abbraccio simile alla Pietà: ebrei e arabi come vittime gemelle dell'Olocausto — "Selma" a causa della sua tortura sotto Hitler e Khaled a causa del modo in cui l'Olocausto era stato impiantato e utilizzato in Israele per reprimere i non-ebrei. Poi ci ritrovammo nell'anticamera dove avevamo lasciato le nostre cose e venimmo espulsi nell'aria della sera israeliana. Non fu effettuata chiusura di sipario, ma ci diedero dei programmi. Molti di noi singhiozzavano in modo incontrollabile, alcuni volevano restare da soli, la maggior parte aveva bisogno di soffermarsi a parlare con le persone che avevamo incontrato durante il percorso "teatrale".

Arbeit Macht Frei opera su molti livelli e tocca molti temi, tutti correlati. In primo luogo, tratta della memoria dell'Olocausto, di come sia stata inclusa nella narrativa sionista e utilizzata dai politici israeliani. "L'Olocausto è una nuova religione, è l'oppio delle masse in Israele", ha detto Maayan. "Per me questo tipo di teatro è una forma di blasfemia. Sto profanando un santuario."[96] La ritualizzazione sociale, sostiene, ha creato un abisso profondo tra un vero senso di lutto e la realtà politica dell'Olocausto nella memoria collettiva israeliana. Come Dani Horowitz che voleva "ricominciare dall'inizio e decidere", Maayan disse che "poteva solo concepire Arbeit Macht Frei attraverso la totale cecità, impotenza e oblio".[97] Come Horowitz, egli concentra il suo attacco su simboli, immagini e narrazioni. L'Olocausto è "avvolto in tabù, cliché, modelli di pensiero e sentimenti ideologizzati".[98] Sobol disse che voleva prendere un'ascia "per frantumare l'oceano ghiacciato delle lacrime" e Arbeit Macht Frei raggiunge questo obiettivo confrontando direttamente gli spettatori e rendendoli il soggetto del dramma, come aveva fatto Horowitz in Cherli Ka Cherli e Zio Arthur. Arbeit Macht Frei assale fisicamente gli spettatori, li bombarda e li costringe a partecipare. "Il cinquanta per cento della responsabilità di una performance spetta al pubblico", ha detto Maayan: "Lo spettatore passivo non esiste".[99] Lo scopo della produzione è provocare la catarsi tramite il confronto con l'Olocausto e forzando fisicamente il pubblico nei panni della vittima. Lo spazio è deliberatamente disorientante. Gli interrogatori e l'uso delle nostre storie personali sono volutamente invasivi. La privacy viene eliminata. Un gruppetto di persone, in un ambiente così claustrofobico, non può nascondere le proprie reazioni, specialmente quando sono loro che stanno al centro della rappresentazione e del discorso.

Gad Kaynar scrive che, tradizionalmente, il dramma israeliano era stato un "generatore di identità". Sin dalla fondazione dell'Habima, che si reputava un forum ebraico/sionista, i teatri israeliani furono concepiti come aule per la diffusione di ideali politici, codici morali, modelli di comportamento e narrazioni della Storia. Con Arbeit Macht Frei, il pubblico è costretto a guardare il tipo di teatro e gli schemi di risposta che ha generato. Come scrive Kaynar, gli stessi spettatori sono "i creatori di quei presupposti che hanno portato a questa risposta artistica".[100] Lo spettatore è invitato a chiedersi fino a che punto egli sia un prodotto della sua società senza nemmeno saperlo.

La produzione chiede al pubblico di mettere in discussione la sua narrazione dell'Olocausto e il suo sottoprodotto: la sottomissione del non-ebreo alla società israeliana. La consegna del manganello nella scena finale rende il pubblico complice di questa oppressione. Ma Khaled non esiste nel dramma puramente per protestare col pubblico israeliano. Khaled cercava di educare se stesso sull'Olocausto e scelse di partecipare alla rappresentazione. Dimostrò la sua disponibilità a comprendere e ad entrare in empatia con l'"altro". Col suo esempio, al pubblico israeliano viene chiesto di fare lo stesso.

Arbeit Macht Frei illustra l'Olocausto come una "frattura" nella storia e, allo stesso tempo, cerca di guarire le ferite. È veramente catartico e, come vuole Tabori per il suo teatro, funziona allo stesso modo del teatro greco: ricrea la tragedia per poter piangere i morti e poi fermare il dolore. Prepara il terreno per un futuro positivo ed epurato:

« Il passato è commemorato, il ricordo rimane vivo, ma trattato come qualcosa di finito e concluso.[101] »

Quando Arbeit Macht Frei venne presentato in anteprima in Israele, fu condannato dalla critica come privo di gusto e blasfemo. Solo gradualmente fu accettato dall'establishment come un pezzo fondamentale nello sviluppo del teatro israeliano.[102] La compagnia non ha sponsor e non riceve sussidi statali. Il teatro di protesta esiste ancora ai margini.[103] Eppure sia Arbeit Macht Frei che l'Akko Theater Festival sono rimasti influenti coi nuovi scrittori israeliani. Ad esempio, Piwnica (1994) di Avishai Milstein ripercorre la vita di tre giovani cineasti israeliani ambiziosi, Joel, Mark e Beatrice che usano la vera storia delle esperienze del padre di Joel in un campo di concentramento per lanciare le loro carriere a Hollywood.[104] In tal modo il dolore viene utilizzato per fini egoistici. È importante sottolineare che uno dei temi del dramma è la natura della "rappresentazione" dell'Olocausto. Il direttore dello studio di Hollywood si sforza di ideare la rappresentazione cinematografica più appariscente e più innovativa dell'Olocausto a tutt'oggi.

Il paese in cui Arbeit Macht Frei ebbe il maggiore impatto fu la Germania. Venne rappresentato a Berlino (aprile 1992), Amburgo (luglio 1993) Recklinghausen (giugno 1995) e anche in Austria, a Vienna (maggio 1995), prevalentemente in una miscela di tedesco, yiddish ed ebraico. Fu anche realizzato un film documentario tedesco, Balagan. Durante le scene degli interrogatori nelle produzioni tedesche, gli attori posero al pubblico domande altrettanto invadenti come "cosa ha fatto tuo padre durante la guerra?"[105] Secondo Heike Roms, Arbeit Macht Frei "avviò una discussione sulla politica della commemorazione".[106] Ad esempio, nel campo di concentramento di Neuengamme, fuori Amburgo, la politica di colpa ed espiazione venne messa in scena durante una cerimonia di deposizione di corone parallela alla cerimonia Yom HaShoah di Akko. Spettacoli sia in Israele sia in Germania cercarono di enfatizzare l'effetto paralizzante sul presente di un passato safruttato politicamente. Hermann Kurthen scrive: "La questione di come affrontare adeguatamente il passato ha afflitto la Repubblica Federale Tedesca sin dalla sua fondazione cinquant'anni fa". La questione di come ricordare, commemorare e affrontare l'Olocausto rimane una questione delicata:

« Dalla fondazione della Repubblica Federale Tedesca, i tedeschi hanno percorso una linea sottile tra soppressione e ricordo, tra il desiderio di prendere le distanze dalle azioni del passato e l'accettazione di colpa collettiva, vergogna e responsabilità. Per alcuni il passato imbarazzante è stato una ragione per ignoranza, revisionismo o amnesia provocatoria. Per altri è un costante imbarazzo e un conflitto morale che porta a un serio esame di coscienza.[107] »

Kurthen conclude: "L'Austria ha esternalizzato il passato come un problema tedesco; la Germania orientale comunista universalizzò il fascismo nazista come parte di una lotta globale; e la Germania occidentale interiorizzò normativamente (cioè accettandola pienamente) responsabilità morale e materiale per i crimini nazisti."[108] Il successo percepito o il fallimento del ricordo è importante perché è preso ad indicare il reinserimento della Germania nella comunità delle nazioni civili.

Dalla metà degli anni ’80 in Germania si è assistito a un flusso costante di opere teatrali e film non tedeschi riguardanti l'Olocausto. Quando Ghetto venne rappresentato al Volkstheater di Berlino, Sobol disse che il dramma ricevette la più straordinaria reazione emotiva che avesse mai visto: "Fu quasi spaventoso", disse, "il pubblico applaudì per un quarto d'ora, in piedi, gridando e chiamando gli attori... ho pensato che fosse una reazione schietta, non falsa."[109] Dal 1984, la trilogia Ghetto è stata rappresentata al National Theater Mannheim, al Maxim Gorki Theater di Berlino, a Stoccarda, a Weimar e in altre città tedesche. Il Maxim Gorki Theater scelse di organizzare la trilogia per celebrare il suo quarantesimo anniversario.[110] Dopo la caduta del Muro, la guerra e l'Olocausto sono ora reinvestigati da una nuova generazione che da sola sta cercando di riscoprire la storia. Con un afflusso di 8000 ebrei dall'URSS, la cultura ebraica è stata riproposta soprattutto lungo la Oranienbergstrasse di Berlino, l'ex quartiere ebraico. Nel 1994 fu aperta la prima scuola media ebraica del dopoguerra in Germania, cinquantadue anni dopo la chiusura dell'ultima. E nell'aprile del 1992 ha avuto luogo il Festival della cultura ebraica di Berlino. Tra le attrazioni c'era il gruppo musicale inglese Towering Inferno che eseguì la propria opera rock, Kaddish, descritta dalla rivista tedesca ZAP come un montaggio di "canzoni popolari ebraiche, chitarre metal, discorsi di Hitler, suoni industriali". Brian Eno proclamò che i compositori di Towering Inferno, Richard Wolfson e Andy Saunders, avevano scritto la colonna sonora "più spaventosa" mai prodotta.[111]

 
Oskar Schindler, ca. 1946

Ma l'evento artistico più singolarmente importante degli anni ’90 fu Schindler’s List:

« Se uno degli obiettivi di Steven Spielberg era quello di scuotere la coscienza tedesca, allora c'è riuscito nel modo più evidente di chiunque altro.[112] »

L'esempio di Oskar Schindler, l'imprenditore cattolico tedesco che salvò i suoi operai ebrei dalle camere a gas, servì da esempio di "buon tedesco" come Gerstein in Il Vicario o il personaggio di Meryl Streep in Holocaust. Tuttavia, Schindler fu un personaggio moralmente complesso con molte carenze morali. Ciò venne sottolineato da un diretto parallelismo con il suo malvagio Dopplegänger, l'ufficiale delle SS Amon Göth. Schindler non era un angelo. Inoltre, a differenza del Gerstein di Hochhut, o dell'Harras di Zuckmayer, l'esempio di Schindler mostra che era possibile resistere con successo al regime.[113] Pertanto, Schindler’s List non servì a giustificare l'inazione dei tedeschi ordinari come, ad esempio, Il Vicario, ma servì a evidenziare la scelta individuale allo stesso modo del Dr Korczak e i bambini. Come scrisse il Frankfurter Aligemeine: "Lo spettatore è costretto a chiedersi «perché gli altri non hanno provato a fare quello che fece lui?»"

Dieter Stolz scrive che la vera identità nazionale può essere derivata solo dall'interno, dalla cultura e non imposta dai politici: "L'arte dà spiritualità laddove i politici hanno fallito".[114] Dal 1945, l'identità nazionale nella Germania orientale e occidentale fu generata dall'esterno — dagli americani e dai russi. Secondo Wim Wenders, i tedeschi diventarono "stranieri" dopo il novembre 1989. Dovevano "colonizzare" la propria terra e diventare i propri generatori di identità.[115] L'identità tedesca e le narrazioni tedesche della Storia sono gli argomenti principali degli scritti tedeschi negli anni ’90. Ad esempio, Wessis in Weimar di Hochhuth, diretto da Einar Schleef nel 1992 per il Berliner Ensemble, esamina le questioni di "Est incontra Ovest". Schulz & Schulz, una serie televisiva in cinque parti, parlava dei fratelli gemelli Wolfgang e Walter Schultz, che crebbero in parti opposte del Muro. La serie fu girata tra agosto e settembre 1987 e proiettata nel dicembre 1989, un mese dopo il crollo del Muro. Fu un tale successo che una sequel, Aller Anfang ist schwer, entrò in produzione immediata e fu trasmessa nel 1991.[116] La Germania, per la prima volta, affrontava il passato alle sue condizioni... per conto suo.

Conclusione

modifica

Col passaggio al terzo millennio, le persone hanno ormai fatto il punto della situazione, selezionando le narrazioni che ora accompagnano l'umanità nel ventunesimo secolo. Settantacinque anni dopo la liberazione dei campi, i contesti storici che "contenevano" la storia dell'Olocausto sono stati smantellati e la memoria soggettiva sembra aver sostituito le formali strutture storiciste. "Negli ultimi cinquant'anni abbiamo fatto del tutto per non sentire ciò che i sopravvissuti avevano da dirci", scrive Hank Greenspan, drammaturgo e psicologo. Il suo dramma, Remnants (= Rimanenze), una serie di monologhi di sopravvissuti, è un "dramma vocale di mezz'ora che è il frutto di quindici anni di conversazione tra il suo autore e i sopravvissuti dell'Olocausto".[117]

Parte di questa spinta verso la raccolta della memoria deriva dal semplice fatto che tale processo di raccolta è ora una corsa contro il tempo. L'Olocausto sarà presto al di là della memoria vivente. Gli ultimi superstiti (allora bambini) stanno gradualmente spegnendosi. La serie di audiolibri della British Library con testimonianze di sopravvissuti, le interviste video che accompagnano le mostre sull'Olocausto e in particolare i database video di Spielberg e della Yale University di testimonianze di sopravvissuti, confermano questo desiderio travolgente di conservare la memoria soggettiva. Al Museo dell'Olocausto a Washington D.C., ad esempio, viene consegnata ai visitatori una carta d'identità con il nome di una vittima dell'Olocausto e un pacchetto che traccia la sua vita durante la guerra. Il visitatore segue una singola narrazione dell'Olocausto dall'ingresso fino all'uscita del museo, narrazione che è guidata cronologicamente e storicamente. La storia del singolo individuo è quindi contrapposta alla narrazione storica più convenzionale: il soggettivo contrapposto al peso dell'evidenza storica; la singola vittima contrapposta a numeri sensa senso. Solo alla fine, il visitatore scopre se la sua vittima è sopravvissuta o è morta. Inoltre, l'ultima sala mostra continuamente testimonianze video che enfatizzano nuovamente la memoria individuale rispetto alla narrazione storicamente guidata del resto della mostra.

Con la scomposizione degli storicismi arriva la possibilità multinarrativa della rappresentazione. La presentazione simultanea dell'Olocausto da diverse angolazioni contrastanti non solo mette in evidenza l'entità dell'evento, ma illustra la possibilità che l'evento possa davvero non essere affatto comprensibile. Tale rappresentazione consente anche una scelta da parte dello spettatore. L'Imperial War Museum di Londra, ad esempio, suddivide la sua mostra sulla Seconda Guerra Mondiale in diverse "arene" che non hanno un particolare ordine di importanza. Pertanto, al visitatore è consentito creare la propria narrazione attraverso i percorsi che sceglie arbitrariamente. Quindi nessuna singola narrativa domina sulle altre.

Eppure la scelta è anche ambigua e potenzialmente pericolosa. La responsabilità morale della rappresentazione storica e soprattutto artistica è di certo aumentata nel terzo millennio. Nella nostra era di sovraccarico di informazioni una percentuale crescente dei "fatti" che riceviamo sul mondo e la sua storia sono basati sulla finzione, in particolare quelle immagini registrate su celluloide e video, spesso prodotti di fake news. Spero che le possibilità della tecnologia informatica e di Internet risolvano questo squilibrio, ma ho i miei dubbi: per ora l'immagine di John Wayne sta sostituendo quella del vero pioniere del West; Ben Hur e Spartacus quello dei romani. Proprio come la storia della strage degli indiani del Nord America e dei primi cristiani è stata consumata dalle narrazioni di tali film, così i veri volti dell'Olocausto corrono il rischio di essere erosi. Qualsiasi interpretazione immaginaria dell'Olocausto comporta quindi un onere morale. La Storia sarà sempre articolata da un punto di vista soggettivo e, attraverso il consenso, da una narrazione principale. La funzione delle arti dovrebbe sempre essere quella di mettere in discussione tale narrativa e fornire altre possibilità, mantenendo in vita le storie personali dell'Olocausto.

Quando chiesi a Elie Wiesel [118] quali sarebbero stati i testimoni della Shoah dopo la scomparsa dei sopravvissuti, chi avrebbe mantenuto vivo il ricordo, mi rispose:

« Tu»
Yad Vashem, Sala dei Nomi: parte delle 600 foto e biografie di alcune delle vittime della Shoah
  1. Julian Hilton, "Volker Schlöndorf: Back to the Future", in W. G. Sebald, cur., A Radical Stage. Theatre in Germany in the 1970s and 1980s, Oxford, New York, Berg Publishers, pp. 124-44; p. 126.
  2. Jean-Marie Le Pen in Francia, chiedendo il rimpatrio degli immigrati, ottenne un ampio seguito dai primi anni ’90 in poi, vincendo circa un sesto dei voti alle elezioni parlamentari francesi del 1997. Nel 1996 Le Pen venne però condannato da un tribunale francese per il reato di incitamento all'odio razziale per aver definito le camere a gas, in cui vennero sterminati gli ebrei, "un semplice dettaglio nella storia della seconda Guerra Mondiale". Nel 2012 venne condannato a 10.000 euro di multa per la frase: "almeno in Francia l'occupazione tedesca non era particolarmente disumana". Nel marzo 2018 Le Pen fu condannato, in via definitiva, a pagare una multa di 30.000 euro per aver nuovamente definito, nell'aprile del 2015, le camere a gas naziste come un "dettaglio" della storia della seconda guerra mondiale.
  3. Denis Staunton, "Nazi Echoes Haunt Austrian Elections", The Observer (3 dicembre 1995), p. 26. Jorg Haider, era stato il Primo Ministro dello stato austriaco della Carinthia fin quando non ebbe a commentare nel 1990 sulle "ragionevoli politiche del Führer" e dovette dimettersi. Cinque anni dopo, durante le elezioni nazionali, chiese pubblicamente che l'immigrazione venisse bloccata e che tutti gli immigrati residenti venissero rimpatriati.
  4. "Nazis. Danger on the Isle of Dogs", in Journalist - Magazine of the National Union of Journalists (Aprile/Maggio 1994), p. 6; After Miliwall, BBC2 (2 ottobre 1993): Nel 1993 il candidato del BNP, Derek Beackon, fu eletto democraticamente nella circoscrizione del Tower Hamlet a Londra. Un quinto dei bianchi della zona affermò che gli immigrati avevano causato la disoccupazione e la recessione. Dopo la vittoria elettorale del BNP, vennero presentate denunce contro la polizia che era stata riluttante ad agire dopo che un giovane asiatico era stato duramente picchiato da teppisti razzisti. In questi ultimi anni, programmi politici simili al BNP sono stati presentati da altri partiti dell'estrema destra, di solito capeggiati da Nigel Farage, ma di basso seguito.
  5. Hermann Kurthen, Werner Bergmann, Rainer Erb, curr., Antisemitism and Xenophobia in Germany after Unification, Oxford University Press, 1997, pp. 8-28: Questa attenzione fu alimentata da un problema di rifugiati unico che improvvisamente travolse la Germania coi problemi in Bosnia-Erzegovina. L'Articolo 16 della Legge Federale Tedesca Basilare concede automaticamente l'asilo politico a qualsiasi individuo in fuga da persecuzioni religiose o politiche. Nessun altro stato europeo è così generoso. Nel 1986, il numero di richiedenti asilo nella Germania occidentale ammontava a poco più di 100.000. Nel 1990, nella nuova Germania, la cifra quasi si raddoppiò a 193.000. Nel 1992 questa cifra di nuovo si più che raddoppiò a 438.000. L'assimilazione di così tanti profughi inevitabilmente prosciugò risorse e portò ad una tensione razziale. Nel 1990 vennero segnalati alla polizia 1.848 incidenti xenofobi. Nel 1992, la cifra salì a 7.684 e nel 1993 raggiunse il picco a 10.561.
  6. James Dairymple, "Holocaust Lies of the Neo-Nazis", Sunday Times (News Review 2) (26 luglio 1992), pp. 1-2: Dalrymple notò che dal 1982 i movimenti neonazisti erano aumentati in numero, forza e organizzazione non solo in Germania ma in tutta Europa.
  7. Kurthen Antisemitism and Xenophobia in Germany, p. 3.
  8. Catherine Field, "Violence Shatters a Tourist Paradise", The Observer (13 settembre 1992), p. 11.
  9. Reiner Oschmann, "A Wall Goes Up Again in German Hearts", The Observer (13 settembre 1992), p. 11. Oschmann è il redattore-capo del giornale Neues Deutschland.
  10. Catherine Field, "Violence Shatters a Tourist Paradise", p. 11.
  11. Hermann Kurthen, "Antisemitism and Xenophobia in United Germany. How the burden of the Past Affects the Present", in Kurthen, Antisemitism and Xenophobia, pp. 39-61; p. 39.
  12. Wolfssohn, Eternal Guilt? p. ix.
  13. Mary Fullbrook, The Two Germanies 1945-90: Problems of Interpretation, Macmillan, 1992.
  14. Kurthen "Antisemitism and Xenophobia in United Germany", p. 34.
  15. Ibid.
  16. Ibid., pp. 46-8.
  17. Bergmann, "Antisemitism and Xenophobia in Germany since Unification", in Kurthen, Antisemitism and Xenophobia, pp. 21-38, p. 21.
  18. Si veda per esempio, Günter Grass, Unkenrufe, (IT) Il richiamo dell'ululone, Feltrinelli, 1992; (EN) The Call of the Toad trad. Ralph Manheim, Secker and Warburg, 1992.
  19. Stuart Parkes, "Postmodern Polemics: Recent Intellectual Debates in Germany", in Durrani, Good, Hilliard, curr., The New Germany, pp. 92-108; p. 100.
  20. Günter Grass, "Losses", trad. (EN) Michael Hoffman in Granta: "Krauts!", Vol. 42 (Inverno 1992), pp. 97- 108.
  21. La data dell'unificazione – 9 novembre 1990 – non solo segnò l'anniversario dell'apertura del confine tedesco con la Germania dell'Est, ma coincise con l'anniversario della Kristallnacht. La scelta della data servì quindi a sostituire una narrazione (l'oppressione tedesca degli ebrei) con un'altra (la Liberazione dei tedeschi).
  22. Grass, "Losses", p. 100.
  23. Kaleidoscope, BBC Radio 4, (6 aprile 1994) e Adrian Bridge, "Spielberg brings the Holocaust Home to Berliners", The Independent (5 marzo 1994), p. 7.
  24. Der Nord-Berliner (29 gennaio 1994): "Ghetto ist, und das ist nach Rostock und Sachssenhausen eine jämmerliche Erkenntnis, schon wieder em aktuelles Stück."
  25. Katrin Sieg, Theatre Journal, Vol. 45 (marzo 1993), pp. 35-47; p. 43.
  26. Gergo per indicare "Orientali" e "Occidentali" rispettivamente.
  27. Oschmann, "A Wall Goes Up Again in German Hearts", p. 11.
  28. Ibid.
  29. Monika Maron, "Zonophobia", trad. (EN) Shaun Whiteside, in Granta 42: "Krauts!" (Inverno 1992), Vol. 42,pp. 117-24; p. 121.
  30. Ibid., p. 123.
  31. Wilfried Schubarth, "Xenophobia Among East German Youth", in Kurthen, Antisemitism and Xenophobia, pp. 143-58; pp. 144-5.
  32. Ian Burma, Buchenwald, in Granta 42: "Krauts!" (Inverno 1992), Vol.42, PP. 65-75; p. 70.
  33. Ibid.
  34. Hugh Rorrison, Plays International (luglio 1990), p. 31.
  35. Stefan Schütz, Orestesobsession, tradotto (EN) in Theatre Forum, No. 3, (Primavera 1993), pp. 41-53.
  36. Ibid., p. 41.
  37. Ibid., p. 44.
  38. Ibid., p. 47.
  39. Alexander Stillmark, "Brother Eichmann. The Story of an Awkward Relationship", p. 5.
  40. Qui, considerando la data del succitato documento, ci si riferisce alla Guerre jugoslave 1991-2001.
  41. Stillmark, "Brother Eichmann. The Story of an Awkward Relationship", p. 7.
  42. Ibid., p.8.
  43. Kurthen, Antisemitism and Xenophobia, p. 3.
  44. Ibid., p. 23.
  45. Kurthen, "Antisemitism and Xenophobia in Germany", pp. 40-57; p. 47.
  46. Kurthen, Antisemitism and Xenophobia, p. 12.
  47. John Linklater, "Great Peace Tour Rolls into Germany", The Glasgow Herald (9 maggio 1995), p. 7.
  48. The Guardian (25 febbraio 1997), p. 16.
  49. Elliot Neaman, "A New Conservative Revolution? Neo-Nationalism, Collective Memory and the New Right in Germany since Unification", in Kurthen, Antisemitism and Xenophobia, pp. 190-208; p. 202.
  50. Wolfssohn, Eternal Guilt, p. 200.
  51. Conversazione con Yehoshua Sobol, Weimar, dicembre 1995.
  52. Art Spiegelmann, MAUS Racconto di un sopravvissuto I e II, traduzione di Ranieri Carano, Milano Libri, 1994.
  53. Steve Crashaw, "Hitler Comic For German Schools Raises Only a Grim Smile", The Independent (18 ottobre 1993), p. 1.
  54. Susan Tebbutt, "The Representation of Right-wing Extremism in Post-unification German Jugendliteratur", in Durrani, The New Germany. Literature and Society after Unification, pp. 302-20; pp. 304-5.
  55. The Independent (18 ottobre 1993), p. 13.
  56. Ibid.
  57. Hans Magnus Enzensberger, "Am I German?", in Encounter, Vol. 22, No. 4 (1964), p. 16.
  58. Hans Magnus Enzensberger, "Ausblicke auf den Bürgerkrieg", in Der Spiegel (1993) trad. (EN) in Parkes, Postmodern Polemics, p. 101.
  59. Hans Magnus Enzensberger, "The Great Migration", trad. (EN) Martin Chalmers, in "Krauts!", Granta, (Inverno 1992), Vol. 42, pp. 15-51 (ital. La grande migrazione, 1993, Einaudi, trad. di Paola Sorge).
  60. Steve Katz, The Holocaust in Historical Context. Volume 1: The Holocaust and Mass Death Before the Modern Age, Oxford University Press, 1994.
  61. Ronnie S. Landau, "The Nazi Holocaust: Its Moral, Historical and Educational Significance", in Monica Bohm-Duchen, After Auschwitz. Responses to the Holocaust in Contemporary Art, pp. 17-24; p. 17.
  62. Ibid.
  63. Ed Vulliamy, Seasons in Hell. Understanding Bosnia's War, Simon & Schuster, 1993, p. xii.
  64. Joan Phillips, "Bosnia: a Mess Made in the West", in Living Marxism, No. 56 (gfiugno 1993), pp. 20-8; p.28. Phillips accusò i media occidentali di rappresentare "esagerazioni grossolane" allo scopo di incoraggiare le potenze occidentali ad intervenire. ITN ha poi fatto causa a Living Marxism per le sue asserzioni. Si veda Mick Hume, "Good Lies Make Bad News", in Living Marxism (marzo 1997), pp. 4-5; e Living Marxism (ottobre 1997), pp. 20-1.
  65. UN Risoluzione 96 (1), (11 dicembre 1946). Per un contesto della continua battaglia legale tra Living Marxism e Channel 4, si veda to Guy Westwell, "Reading Trnopolje Camp, Bosnia-Herzegovina, August 5, 1992".
  66. Ibid., p. 28.
  67. Helke Sander e Barbara John, BeFreier und Befreite: Krieg, Verwaltigungen, Kinde, Verlag Antje Kunstmann, 1992 (trad. ingl. Liberators Take Liberties: War, Rape, Children).
  68. Keith Howard, cur., True Stories of the Korean Comfort Women, Cassell, 1995.
  69. Gertrud Koch, "Blood, Sperm and Tears", trad. (EN) Stuart Liebman in October, Vol. 72 (Primavera 1995), Massachusetts Institute of Technology Press, pp. 26-41; p. 35.
  70. David J. Levin, "Taking Liberties with Liberties Taken. On the Politics of Helke Sander's BeFreier und Befreite", in October, Vol. 72, pp. 65-77, p. 76.
  71. Conversazione con Yehoshua Sobol, dicembre 1995, Weimar.
  72. Ibid.
  73. Ibid.
  74. Ibid.
  75. Howard Jacobson, "Jacobson's List", in The Independent II (2 febbraio 1994), p. 19.
  76. ...o forse meglio dire "spiava"? Quentin Curtis, "Lest We Forget", Independent on Sunday (13 febbraio 1994), p. 19: circa 40% del film fu girato con cinepresa da mano.
  77. L'Intifada richiedeva la creazione di una patria palestinese nella Striscia di Gaza.
  78. Said K. Aburish, Cry Palestine. Inside the West Bank, Bloomsbury, 1991, p. 12.
  79. Freddie Rokem, "Cultural Transformations of Evil and Pain: Some Recent Changes in the Israeli Perception of the Holocaust", in Hans Peter Bayerdorfer, cur., German-Israeli Theatre Relations, Niemeyer Verlag, 1996. pp. 217-41; p. 219.
  80. David Grossman, Sleeping on a Wire: Conversations with Palestinians in Israel [נוכחים נפקדים / Nokhehim Nifkadim, 1992], Farrar, Straus, & Giroux, 1993, trad. (EN) Haim Watzman, Farrar, Strauss, Giroux & Jonathan Cape, 1992, p. 110.
  81. Ibid., p.295.
  82. Aburish, Cry Palestine, p. 13.
  83. "Arafat in the Storm", in Vanity Fair (maggio 1994), pp. 71-7, 129-35, 137.
  84. The Independent (7 novembre 1997), p. 3.
  85. Rokem, "Cultural Transformations", p. 223.
  86. Grossman, Sleeping on a Wire, p. 227.
  87. Shimon Levy, "German Plays on Hebrew Stages: Israelisch-deutsche Theater-bezeihung", in Bayerdorfer, German Israeli Theatre Relations, pp. 36-46.
  88. Ibid., p. 45.
  89. Ibid.
  90. Ben Zvi, Theatre in Israel, p. 41.
  91. "Time and Time Again ‘Arbeit macht frei vom Toitland Europa’: Akko Theatre Centre (Israel)", consultato 6 marzo 2020.
  92. Dan Urian, "Arbeit Macht Frei in Toitland Europe (Work Through Freedom in the Deathland of Europe), Theatre Centre, Akko, Israel", in Theatre Forum, Vol. 3 (1993), pp. 60-6, p. 61.
  93. Rokem, "Cultural Transformations of Evil and Pain", pp. 26-7.
  94. Lo stato fisico dell'attrice fu una decisione consapevole. Aveva deliberatamente perso peso per il suo "ruolo". Ciò era stato ulteriormente aggravato da una forma di anoressia che l'aveva afflitta a causa della sua esperienza nel recitare la parte di Selma.
  95. Di certo il nudismo fu essenziale nello spettacolo: prima o poi, tutti gli attori si presentarono nudi.
  96. Hannah Hurtzig, "An Interview with David Maayan, Hamburg 1993", in Theaterschrft (5 giugno 1993), pp. 248-63, p. 256.
  97. Ibid., p. 252.
  98. Ibid.
  99. Ibid., p. 248.
  100. Kaynar, "Get Out of the Picture, Kid in the Cap", in Ben Zvi, Theatre in Israel, p. 286.
  101. Heike Roms, Time and Time Again, Routledge, 1996, pp. 59-62; p.59.
  102. Intervista con Neil Wallace, dicembre 1994.
  103. Rebecca Rovit, "The Theatre Akko Centre Opens its Gates to Auchwitz", in The Drama Review, Vol. 37. (Estate 1993), pp. 161-73; p. 16
  104. Gad Kaynar, "What's Wrong with the Usual Description of Extermination?", p.201.
  105. Heike Roms, Time and Time Again, p. 59.
  106. Ibid., p. 60.
  107. Hermann Kurthen, "Antisemitism and Xenophobia in United Germany", p.40.
  108. Ibid., p. 41
  109. Sobol intervistato su The Daily Telegraph (24 aprile 1989).
  110. Süddeutsche Zeitung (6 ottobre 1992).
  111. Bernard McMahon, cur., Towering Inferno Press Pack.
  112. Adrian Bridge, "Spielberg Brings the Holocaust Home to Berliners", The Independent (5 marzo 1994), p. 7.
  113. Anche se si può sostenere che la posizione finanziaria di Oskar Schindler gli rese più facile imbrogliare il regime e dare rifugio agli ebrei in un modo che molti tedeschi all'epoca non potevano.
  114. Dieter Stolz, "Deutschland - em Literarischer Begriff: Günter Grass and the German Question", in Arthur Williams, Stuart Parkes e Roland Smith, curr., German Literature at a Time of Change 1989-1990. German Unity and German Identity in Literary Perspective, Peter Lang/University of Bradford, 1991, pp. 207-24; p. 207.
  115. Anthony S. Coulson, "New Land and Foreign Spaces: the Portrayal of Another Germany in Postunification film", in Durrani, Literature and Society After Unification, pp. 213-30; p. 213-4.
  116. Andrea Rinke, "From Motzki to Trotzki: Representations of East and West German Cultural Identities on German Television after Unification", in Durani, Literature and Society After Unification, p. 234.
  117. Hank Greenspan, Remnants, inedito, 1991. Rappresentato nel 1992 come dramma radiofonico su "Michigan Radio Theater", diretto da Hank Greenspan e Ann K. Lautsch, Radio Michigan WUOM-FM Ann Arbor, Michigan. Da allora è stato messo in scena nei teatri degli Stati Uniti e del Canada.
  118. Gli rivolsi questa domanda nel febbraio del 2000, durante una sua lezione talmudica presso l'Aula Magna dell'Università di Bologna. La lezione faceva parte di una serie, poi raccolta in volume: Sei riflessioni sul Talmud, traduzione di Valentina Pisanty, Cristina Demaria e Ifat Nesher, con una nota di Ugo Volli e introduzione di Umberto Eco (lezioni pronunciate fra gennaio e febbraio 2000 presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell'Università di Bologna), Bompiani, 2000.