Prontuario di diritto romano/Gli elementi del negozio
Gli elementi del negozio
modificaAnche in diritto romano si distingueva tra essentialia, naturalia, e accidentalia negotii. Però, mentre gli accidentalia si prestavano ad una trattazione unitaria, gli essentialia vanno esaminati in riferimento alle singole figure di negozio.
Tra gli essentialia, i Romani ponevano la iuxta causa, cioè un'obiettiva e sufficiente ragione che giustificasse quel negozio in relazione ai fini che le parti si proponevano. La causa, oltre che iuxta, doveva anche essere lecita, per non invalidare il negozio.
I rapporti obbligatori nascevano da conventiones (contractus, pacta, stipulationes). Conventio e causa sono elementi essenziali, costitutivi di tutti i negozi reali o obbligatori. La categoria dei negozi astratti, la cui validità era indipendente dalla causa, scomparve completamente. Dopo la legge di Leone del 472 (epoca del terzo sacco di Roma da parte dei Longobardi), tutti i negozi sono causali, secondo le norme dello ius gentium che Giustiniano fonderà con lo ius civile.
Perciò, ad esempio, il creditore deve provare la causa del suo credito, se essa non apparisce dall’atto (cautio indiscreta). E se l’obbligazione è già costituita per una causa di per sé efficace, ad es. re, consensu ecc., la stipulatio si ritiene fatta ex abundanti, quindi anche la stipulatio era divenuta causale, nel senso comune che la sua esistenza dipende dalla realtà e liceità di una causa.
I naturalia erano elementi previsti dalle norme, o meglio erano effetti giuridici che derivavano dalla natura del negozio. Ad esempio, nella compravendita era elemento naturale la garanzia per evizione e vizi della cosa venduta, garanzia che peraltro poteva essere esclusa su accordo delle parti.
Tra gli accidentalia troviamo la condicio, il modus e il dies: erano autolimitazioni della volontà, che facevano dipendere da un quid estraneo al volere dele parti la produzione degli effetti giuridici del negozio.
La condicio
modificaIl diritto classico conobbe la sola condicio sospensiva, mentre il diritto giustinianeo ammise anche la condicio risolutiva. I Romani distinguevano tra condizioni affermative, negative, potestative e causali, miste, proprie ed improprie.
Principio generale era che la condicio doveva essere possibile e lecita: le condizioni impossibili rendevano nullo il negozio, secondo la regola vitiantur et vitiant, tranne che nei negozi mortis causa nei quali si consideravano come non apposte. Alla condizione impossibile era equiparata quella illecita e quella turpe.
Circa il periodo di pendenza, il diritto classico presentava molteplici regole, difficili da ricondurre sotto un principio unitario; e tuttavia, si riscontrava la tendenza ad escludere (in pendenza di condizione) tutti gli effetti del negozio. Furono elaborate in particolare tre regole per il periodo di pendenza:
- Ogni atto che intaccasse il valore del bene pendente condicione generava responsabilità in chi l'aveva compiuto;
- Il negozio era efficace, ma lasciava intatte le aspettative derivanti dalla condizione, mentre erano validi i trasferimenti della cosa dovuta (analogamente a quanto previsto nel diritto moderno);
- La condizione non verificatasi ad opera di chi avrebbe potuto subirne dei danni, si considerava verificata.
In diritto classico, l'avverarsi della condizione non faceva retroagire gli effetti del negozio, trattandosi di efficacia ex nunc, mentre in diritto più tardo esso aveva effetto retroattivo, cioè dal momento in cui il negozio era stato stipulato.
Il problema della condicio risolutiva fu così risolto: o si trasformava questa condizione in una normale condicio sospensiva, o si apponeva al negozio una clausola accessoria.
Le più note delle clausole accessorie applicate in diritto romano sono:
- in diem addictio: il contratto sospeso cessava di avere efficacia, in favore del venditore, venditore se entro lo scadere del giorno fissato questi avesse ricevuto un'offerta migliore;
- lex commissoria: il bene rientrava nella disponibilità del venditore se il compratore non pagava il prezzo entro un certo termine;
- cautio Muciana: apparsa nel I° secolo a.c., venne inizialmente introdotta per risolvere il problema del legato che il testatore avesse sottoposto a condizione potestativa negativa (ad es.: lascio a Tizio il piatto d'argento se non venderà mai il servo Sticho); con la cautio il legatario acquistava subito la cosa, ma prestava garanzia obbligandosi a restituirla se la condizione si fosse verificata. Si veniva ad introdurre così nel sistema romano la condizione risolutiva potestativa negativa.
Nello ius civile Romanorum vi erano atti che non ammettevano la presenza di condizioni: erano i cosiddetti actus legitimi, come la datio tutoris, mancipatio, cretio, in iure cessio, ecc.
Il dies
modificaIl termine era noto al diritto romano sia come dies a quo che come dies ad quem. Le fonti riportano che "tutte le stipulazioni possono essere costituite puramente o a termine"; naturalmente, gli actus legitimi erano esclusi dall'apposizione di termini.
Erano sottratte al dies ad quem i trasferimenti di proprietà e le eredità. Per i Romani infatti, era inconcepibile una proprietà temporanea, come anche la qualità di erede (semel heres semper heres) e la costituzione di servitù a termine.
Il modus
modificaL'onere era una clausola accidentale apposta come limite alle liberalità.
Il problema del negozio modale era quello di assicurare in qualche modo che il destinatario della liberalità ottemperasse all'onere.
Il diritto classico non conosceva mezzi per imporre l'osservanza del modus, ma escogitò vari espedienti per singoli casi pratici: ad esempio, se l'onere era a vantaggio di persone determinate, il pretore aveva facoltà di accordare ai destinatari le azioni fedecommissarie, fingendo che il modus avesse natura di fedecommesso.
Fu il diritto giustinianeo ad accordare le azioni riconosciute per i contratti innominati: la condictio causa data causa non secuta (per recuperare il bene trasmesso con donazione modale) e l' actio praescriptis verbis (per pretendere l'adempimento del modus).
La rappresentanza
modificaAnche i Romani conobbero il concetto della rappresentanza, nel suo duplice aspetto volontario e legale.
Casi tipici di rappresentanza legale furono il curator furiosi e il tutor impuberis.
Della rappresentanza volontaria nelle fonti troviamo due applicazioni: il mandatum e la negotiorum gestio, che si differenziavano per il fatto che nel mandato vi era un esplicito incarico a compiere l'atto, mentre tale incarico mancava nella gestio.
Il mandatum poteva essere costiutito sive nostra gratia sive aliena. Regola comune era che il mandatario non doveva superare i limiti del mandato per non perdere l'esperibilità dell' actio mandati, che il mandato non fosse contra bonos mores, e che fosse del tutto gratuito e rinunziabile.
Come le altre obbligazioni consensuali, anche il mandato poteva essere soggetto a termine o condizione.
Il diritto romano conobbe la sola rappresentanza indiretta, tranne poche eccezioni: di conseguenza, gli acquisti effettuati dai soggetti sottoposti alla patria potestas si intendevano fatti direttamente dal pater, con effetti identici alla rappresentanza diretta.
Nel caso che taluno avesse compiuto negozi giuridici per conto di altri senza averne l'autorizzazione, il rappresentato poteva far sorgere retroattivamente nei suoi confronti gli effetti della rappresentanza, mediante una successiva manifestazione di volontà che prendeva il nome di ratihabitio.
In epoca postclassica, si affermò la regola ratihabitio mandato comparatur, nel senso che la ratifica fu ritenuta idonea a porre le parti nella posizione in cui si sarebbero trovate ove ci fosse stato un mandato preventivo.
In generale, gli effetti del negozio gestito dal rappresentante ricadevano su di lui, salvo a riversarli sul rappresentato con altro negozio.