Storia della letteratura italiana/Vociani

Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

Con il termine "vociani" viene indicato un gruppo di scrittori che, durante il primo Novecento, hanno tentato una nuova sperimentazione di linguaggio allo scopo di superare la tradizione dell'Ottocento. La maggior parte di questi scrittori proveniva dall'esperienza della rivista La Voce e si riconosceva nel suo programma, che esaltava il rinnovamento della cultura e delle lettere. Allo scoppio della prima guerra mondiale, molti di loro si collocheranno su posizioni interventiste.

Il frammentismo

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Prima pagina della Voce, edizione del marzo 1911

Spinti dalla necessità di abbandonare tutti gli schemi tradizionali della narrazione dell'Ottocento, dal naturalismo e dal verismo alla narrazione psicologica, i vociani sperimentano un tipo di scrittura frammentata e di breve misura. Le tematiche affrontate sono di carattere autobiografico e tendono, più che a raccontare, a testimoniare una esistenza che rifiuta l'oggettività e mette in risalto una forte tensione etica e una sentita inquietudine morale. La narrazione è quindi spezzettata, e anche il linguaggio, che utilizza diversi codici linguistici, più che raccontare esprime e testimonia. Come scrivono Giovanna Bellini e Giovanni Mazzoni:[1]

« le tematiche che impegnano questi autori non sono trasferibili in una dimensione narrativa tradizionale, poiché appartengono all'ambito dell'autobiografia morale, del privato. La confessione autobiografica tende a cogliere l'attimo, a fissarlo con grande evidenza in una dimensione temporale che trascura lo svolgimento, i tempi lunghi dello sviluppo delle situazioni; in modo analogo l'impegno descrittivo è spesso una ricerca impressionistica del particolare, che viene avulso dal contesto ed enfatizzato. Oppure il ricordo si materializza in alcune immagini isolate che la coscienza dello scrittore amplia e articola. È chiaro che scelte tematiche di questo tipo comportavano l'impossibilità di trovare espressione in un romanzo tradizionale, anche perché presupponevano un atteggiamento culturale ed esistenziale di rifiuto dell'oggettività. »

Tra gli scrittori vociani possono essere annoverati Piero Jahier, Scipio Slataper, Ardengo Soffici, Giani Stuparich, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Carlo Linati, Alfredo Panzini, Giuseppe Antonio Borgese, Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Dino Campana, Renato Serra e Arturo Onofri. Di seguito si propone un breve profilo dei principali scrittori.

Scipio Slataper

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Scipio Slataper

Tra i primi e più importanti collaboratori della Voce c'è Scipio Slataper (Trieste, 14 luglio 1888 – Monte Calvario, 3 dicembre 1915), che partecipa all'attività della rivista dalla sua fondazione fino al 1912. Si arruolerà poi come volontario e morirà sul campo di battaglia.

Formatosi dalla lettura di autori mitteleuropei, e in particolare tedeschi e scandinavi, Slataper è autore di un importante saggio su Ibsen, che sarà però pubblicato postumo nel 1916. Vive profondamente le implicazioni culturali delle sue origini triestine, diviso tra un orizzonte internazionale e il desiderio di aderire alla nazione italiana. Testimonianza di queste tensioni sono le Lettere triestine che Slataper pubblica sulla Voce nel 1909.

La sua opera principale è però Il mio Carso, opera autobiografica scritta con uno stile frammentato. Slataper vi inserisce momenti lirici e riflessioni morali; il tempo della narrazione passa dal presente al passato, così come il destinatario del discorso cambia nello svolgere del testo.[2]

Giovanni Boine

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Più vicino al modernismo è invece Giovanni Boine (Finale Marina, 12 settembre 1887 – Porto Maurizio, 16 maggio 1917), che nei suoi articoli pubblicati sulla Voce cerca di coniugare la modernità con la tradizione cattolica. Partendo da un punto di vista autobiografico, riflette nelle sue opere su problemi concreti e sulle forme della vita sociale, consapevole del carattere irripetibile di ogni esperienza personale. Oscilla quindi tra l'anarchia individualistica e la necessità di un ordine fondato su valori stabili.

La parte migliore della produzione di Boine sono le prose liriche, dove il suo furore espressionistico si consuma nel breve spazio del frammento. Queste saranno raccolte nel volume Frantumi, pubblicato postumo nel 1918. Nel 1914 tenta anche la forma del romanzo con Il peccato, in cui costruisce una sorta di "autobiografia indiretta". Acuto critico letterario, tra il 1914 e il 1916 ha poi curato per la rivista La Riviera Ligure la rubrica Plausi e botte, in cui venivano pubblicate recensioni letterarie.[2]

Piero Jahier

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Figlio di un pastore protestante, Piero Jahier nasce a Genova l'11 aprile 1884. Intraprende gli studi teologici, ma li interrompe e trova impiego presso le ferrovie. Ostile al regime fascista, vive isolato, riprende gli studi e si laurea in legge e letteratura francese. Le sue poesie, pubblicate per lo più su riviste, saranno riunite in un volume unico, uscito per l'editore Vallardi poco prima della scomparsa dell'autore. Muore a Firenze il 10 settembre 1966.

Nel 1015 pubblica la sua prima opera, le Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi, in cui rappresenta la vita di un impiegato dando sfogo alla sua insofferenza verso la burocrazia e il mondo borghese. Questa insofferenza è ben visibile sia nei suoi scritti comparsi sulla Voce, sia nelle prose raccolte in Ragazzo (1919), in cui alterna la confessione autobiografia a momenti di slancio vitalistico e di fervore religioso.

All'esperienza come ufficiale degli alpini durante la Grande guerra è legato il volume Come me e con gli alpini (1919), che contiene prose e liriche in cui si abbandona a una celebrazione del sacrificio delle classi subalterne durante il conflitto. È animato da un sincero slancio umanitario che lo porta a fondare due riviste per dare voce ai congedati e aiutare il reinserimento dei reduci nella società civile.

In generale, la sua è una scrittura sperimentale, in cui mescola realismo e lirismo, linguaggio quotidiano e lingua della tradizione, allo scopo di rendere l'essenza di tutte le cose, dall'animo umano ai luoghi e ai paesaggi.[3]

Dino Campana

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Dino Campana

Nato a Marradi il 20 agosto 1885, Dino Campana accusa turbamenti psichici fin dall'adolescenza. In seguito a un ricovero in manicomio nel 1906, interrompe gli studi universitari in chimica e inizia una lunga serie di viaggi, che lo portano a vagabondare per l'Europa, arrivando persino in Argentina. Nel 1913 consegna il manoscritto di una raccolta Il giorno più lungo a Soffici e Papini, all'epoca direttori della rivista Lacerba. Il manoscritto tuttavia andrà perduto, e Campana dovrà riscrivere i versi affidandosi alla propria memoria. Il volume vede alla fine la luce nel 1914, quando viene pubblicato a spese dell'autore con il titolo Canti orfici. Nel 1915 vorrebbe partire come volontario al fronte, ma viene riformato. In seguito compie altri viaggi e intreccia una relazione con Sibilla Aleramo. Negli stessi anni è però sottoposto a nuovi ricoveri, fino all'internamento definitivo nel manicomio di Castel Pulci, presso Firenze, dove muore il 1º marzo 1932.

Molte opere di Campana verranno pubblicate postume; tra queste si ricordano le liriche dei Versi sparsi, i taccuini e le lettere. Estremamente importante è stato il ritrovamento del manoscritto perduto nel 1913, rivenuto dopo la morte di Soffici tra le sue carte.

Come molti poeti della sua generazione, anche Campana si confronta con D'Annunzio. Nelle sue liriche prende le distanze dalle atmosfere sensuali del poeta abruzzese, così come dai toni intimisti e rassegnati dei crepuscolari. Il suo lirismo riprende invece gli slanci più estremi della poesia ottocentesca (in particolare Poe, Baudelaire e Rimbaud), che vengono uniti con il vitalismo nietzscheano. Ponendosi a distanza dalla società, rompe l'equilibrio della composizione con improvvise aperture oniriche, attraverso le quali trasfigura la realtà allo scopo di catturarne le convenzioni borghesi e gli aspetti più misteriosi. Lo stesso titolo Canti orfici rimanda peraltro a una concezione della poesia come qualcosa di magico, un aspetto che avrà largo seguito nella poesia italiana del Novecento.[4]

Clemente Rebora

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Clemente Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885. Dopo la laurea in lettere si dedica all'insegnamento nelle scuole. Tra il 1909 e il 1913 è collaboratore della Voce, sulle cui pagine pubblica la raccolta dei Frammenti lirici (1912). Negli stessi anni matura un desiderio che lo spinge all'impegno sociale. Partecipa alla prima guerra mondiale come sottufficiale, ma viene congedato per un trauma nervoso; una testimonianza di questa esperienza si trova nelle Poesie sparse, composte tra il 1913 e il 1918.

Rebora è impegnato anche in una ricerca spirituale, che lo porta dapprima ad avvicinarsi al pensiero di Mazzini (visto come un "evangelismo" laico), quindi si interessa alle religioni orientali, e in particolare al buddhismo. Infine approda al cattolicesimo: entrato nell'ordine rosminiano, è ordinato sacerdote nel 1936. Di questo travaglio interiore si trova traccia nei Canti anonimi, scritti tra il 1920 e il 1922. La sua produzione poetica diventa più sporadica negli anni trenta, come conseguenza della sua attività pastorale, e tra il 1936 e il 1947 compone le otto Poesie religiose. Torna alla poesia negli ultimi anni, in seguito a una paralisi e all'aggravarsi delle sue condizioni di salute, quando pubblica i Canti dell'infermità (1955-1956). Muore a Stresa il 1º novembre 1957.

Nella poesia di Rebora è centrale la tematica esistenziale: la ricerca della verità è un modo per dare una risposta ai problemi più urgenti dell'uomo. Nei Frammenti lirici il poeta tenta di trovare un significato e uno scopo all'esistenza dell'uomo, confrontandosi con la frenesia della vita cittadina. Quello con la realtà è un rapporto tormentato che trova espressione nel linguaggio, in cui i riferimenti concreti vengono distorti da una deformazione espressionistica. Ma la stessa poesia rischia di finire soffocata dal mondo moderno: nella raccolta sono quindi dedicate aspre critiche al progresso e alla modernità. Il presente è inafferrabile e delude il desiderio di rinnovare la solidarietà tra gli uomini. Il poeta è solo e la ricerca di risposte deve spostarsi in un altrove metafisico, in grado di sanare i dubbi e le angosce dell'uomo.

Il senso di incertezza verrà poi acuito dall'esperienza bellica. Nei Canti anonimi la ricerca prosegue, lasciando intravedere una possibile risposta. Nelle Poesie religiose viene quindi indicata nella fede l'elemento in grado di risolvere il dissidio. Nei Canti dell'infermità la fede è però ancora accompagnata da un tormento fisico e spirituale, che vede la contrapposizione tra l'amore divino e la sofferenza umana.[5]

Camillo Sbarbaro

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Camillo Sbarbaro

Personalità schiva, Camillo Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. Dopo avere interrotto gli studi, lavora presso alcune imprese siderurgiche. In seguito è tra i collaboratori della Voce e partecipa alla prima guerra mondiale, pur non condividendo l'entusiasmo dimostrato da altri intellettuali interventisti. Trascorre il resto della vita lontano dalla scena pubblica, dedicandosi a una collezione di muschi e licheni. Muore a Savona il 31 ottobre 1967.

Già nella sua prima raccolta di poesie, intitolata Resine (1911), è riconoscibile la cifra stilistica di Sbarbaro: prendendo le distanze da D'Annunzio, degrada la materia eroica a un livello basso e prosaico. Il tutto si staglia sull'arido paesaggio ligure, che diventerà una costante della sua produzione. Questo è ancora più evidente nella successiva Pianissimo (1911), la sua più importante raccolta, pubblicata per i tipi della Voce. Tra i motivi dominanti c'è quello del deserto, simbolo dell'incapacità di relazionarsi con un mondo privo di speranza. La città moderna è il luogo della solitudine e dell'alienazione, e viene paragonata a un carcere di pietra. Il dolore però non produce lacrime, ma diventa un segno della consapevolezza esistenziale del poeta.

Sono inoltre prive di consolazione sia l'infanzia sia la natura, così come è evidente nelle liriche raccolte nelle Rimanenze (1918-1921). Allo stesso modo, nei Versi a Dina (1931-1932) nemmeno il ricordo della donna riesce a ricomporsi nel presente.[6]

Renato Serra

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Renato Serra

Renato Serra ha con gli intellettuali della Voce un rapporto che oscilla tra la simpatia e la diffidenza. Nato a Cesena il 5 dicembre 1884, si forma alla scuola di Carducci e nel 1909 diventa direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Collabora brevemente con la Voce, su cui pubblica pochi articoli e su cui cui appare, nel 1915, l'Esame di coscienza di un letterato. Interventista, si arruola nella prima guerra mondiale. Muore a Monte Podgora il 20 luglio 1915.

In Serra il classicismo, visto come attenzione alle forme, si confronta con il vitalismo diffuso in quegli anni, prendendo anche lui le distanze da D'Annunzio. Osservando la realtà da un punto di provinciale (trascorre gran parte della propria vita a Cesena), vede la lontananza che separa la classicità dai ritmi di vita della modernità. L'equilibrio tra tradizione classica e passionalità, che Serra ritrova in Carducci, gli appare irrimediabilmente distrutto nel mondo del primo Novecento. Decide tuttavia di non rinunciare a questo equilibrio, rifugiandosi in un angolo riparato e sicuro. Diffidente verso l'estetica crociana e le poetiche del primo Novecento, Serra si limita a osservare la letteratura dalla provincia, riflettendo su di essa e dialogando con il fondo umano che i testi nascondono. In una seconda fase, Serra rinuncia però al suo distacco critico e vede nell'andare insieme verso la guerra uno scatto di passione, un momento di solidarietà umana.[7]

Sibilla Aleramo

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Sibilla Aleramo fotografata da Mario Nunes Vais nel 1917

Nell'orizzonte vociano si può collocare anche l'esperienza letteraria di Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta "Rina" (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960).[2] Poetessa e narratrice, vive una vita intensa, segnata da amori e amicizie con diversi letterati (in particolare ricordiamo il carteggio con Dino Campana). Nelle sue poesie, nelle prose liriche e in alcune pagine di diario è riconoscibile l'influenza delle poetiche del frammentismo e della poesia pura. Tra le sue raccolte di poesie, in cui trova spazio la sua tensione alla confessione autobiografica, si ricorda Selva d'amore, pubblicata nel 1947.

Nei suoi romanzi risente invece dell'influenza dannunziana, come è osservabile in Il passaggio (1919), Amo, dunque sono (1927) e Il frustino (1932). Nel romanzo autobiografico Una donna (1906) ricorrono tematiche femministe, legate all'attivismo a cui si era dedicata la poetessa nei primi anni del Novecento. Le sue ultime opere, pubblicate negli anni cinquanta, presentano tematiche sociali di ispirazione marxista: Aleramo si interessa alla vita degli umili e alle posizioni del socialismo umanitario.[8]

  1. Giovanna Bellini e Giovanni Mazzoni, Letteratura italiana. Storia Forme Testi. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 127, ISBN 88-421-0218-0.
  2. 2,0 2,1 2,2 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 909.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 111-112.
  4. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 108-109.
  5. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 99-100.
  6. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 104-105.
  7. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 911-912.
  8. Aleramo, Sibilla, Treccani.it. URL consultato il 22 aprile 2017.

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