Storia della letteratura italiana/Futurismo

Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

Nel panorama letterario e culturale italiano del Primo Novecento, il futurismo svolge un'importante funzione di rinnovamento. Gli artisti di questo gruppo rifiutano ogni compromesso con la tradizione e scelgono di seguire nuove possibilità tecniche, in grado di rappresentare la velocità del reale. Nella letteratura italiana il futurismo porterà alla maggiore diffusione del verso e alla fine di ogni forma di separazione tra prosa e poesia.[1]

Le origini: il Manifesto del futurismo

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Il Manifesto del futurismo, pubblicato su Le Figaro il 20 febbraio 1909

L'atto fondativo del futurismo è la pubblicazione, sul giornale francese Le figaro il 20 febbraio 1909, del Manifesto del futurismo. Il programma scritto dal poeta Filippo Tommaso Marinetti esprime un appassionato disgusto per le idee del passato, specialmente per le tradizioni politiche e artistiche. Marinetti e gli altri sposano l'amore per la velocità, la tecnologia e la violenza. L'automobile, l'aereo, le città industriali hanno tutte un carattere mitico, perché rappresentano il trionfo tecnologico dell'uomo sulla natura. Si auspica inoltre la nascita di una letteratura rivoluzionaria, liberata da tutte le regole, anche quelle della grammatica, dell'ortografia e della punteggiatura. I futuristi sperimentano nuove forme di scrittura per dar vita a una poesia tutta movimento e libertà, negano la sintassi tradizionale, modificano le parole, le dispongono sulla pagina in modo da suggerire l'immagine che descrivono.[2]

I futuristi soprannominarono l'amore per il passato «passatismo», e i suoi fautori «passatisti», arrivando ad attaccarli anche fisicamente nel corso delle loro presentazioni e performance. La critica coinvolge anche tutto ciò che è spirituale e sentimentale, e si allarga al Romanticismo e al decadentismo. A questi viene opposto un individualismo assoluto, in cui è ravvisabile una nuova incarnazione del superuomo nietzscheano; viene inoltre attaccata ogni forma di organizzazione sindacale o politica (compresi il femminismo, il socialismo, il parlamentarismo).[2] La vis polemica appassionata di Marinetti attrae immediatamente alcuni giovani artisti dell'ambiente milanese – Umberto Boccioni, Carlo Carrà, e Luigi Russolo – che estendono le idee di Marinetti alle arti visuali (Russolo è anche un compositore, e introduce le idee futuriste nelle sue composizioni). I pittori Giacomo Balla e Gino Severini incontreranno Marinetti nel 1910.

Futurismo e poesia: il Manifesto tecnico della letteratura futurista

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Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi nel 1912

Nel maggio 1912 compare per le Edizioni Futuriste di Poesia il Manifesto tecnico della letteratura futurista[3], riproposto nel 1914 sulla rivista fiorentina Lacerba di Ardengo Soffici e Giovanni Papini, che può essere definita la rivista ufficiale del futurismo in quel periodo. Negli stessi anni nascono anche le riviste La Difesa dell'arte e Il Centauro.

Il Manifesto del 1912 critica le soluzioni letterarie della tradizione: il futurismo sostituisce l'impianto logico del pensiero, così come era stato utilizzato dalla letteratura precedente, con l'analogia (che viene ripresa dalla poetica simbolista e portata alle estreme conseguenze). Attraverso l'analogia due realtà diverse vengono accostate senza una giustificazione logica, suggerendo però un rapporto di somiglianza fantastica. A questo proposito Marinetti parla di «sostantivo-doppio», sottolineando come l'analogia sia in grado di inglobare realtà anche molto distanti tra di loro, in modo imprevedibile.[4]

 
Copertina del volume Zang tumb tumb (1914)

Anche la parola smette di avere la funzione di indicare l'oggetto a cui si riferisce, e diventa polisemica e allusiva, in grado di cogliere la vastità del reale. All'oggettività del naturalismo viene opposta un'oggettività dinamica, in grado di cogliere la vita della materia: in questo modo, Marinetti prende le distanze dal soggettivismo simbolista e romantico. La parola, con l'avanguardia, finisce per affermarsi come segno arbitrario, indipendente dalla realtà che rappresenta.[4]

Da questo deriva il proposito di distruggere la sintassi tradizionale, la quale riflette l'ordine logico del pensiero di chi scrive. Sono quindi aboliti i segni di interpunzione, e si propone di utilizzare i verbi all'infinito, allo scopo di suggerire il fluire ininterrotto delle sensazioni. Nasce così la teoria delle parole in libertà, secondo al quale i sostantivi devono essere disposti in modo causale.[4]Il miglior esempio delle parole in libertà è il volume Zang tumb tumb (1914). Assume importanza anche la forma grafica delle parole, poiché la parola ha valore anche come segno visibile che deve suggerire impressioni tattili o acustiche. Da qui, la fusione tra pittura e letteratura nelle «tavole parolibere», in cui si mescolano parole, disegni, lettere, segni grafici.[4]

I poeti futuristi si riuniscono attorno alla rivista Poesia fondata da Marinetti nel 1905. Gli esponenti più noti, oltre a Marinetti, sono Aldo Palazzeschi (autore della poesia La fontana malata e della celeberrima La passeggiata)[5] e Paolo Buzzi (almeno per parte della sua produzione). Fra i poeti che partecipano all'esperienza futurista si ricordano Luciano Folgore, Ardengo Soffici e Corrado Govoni. Anche Salvatore Quasimodo aderì, in gioventù, al futurismo (si ricorda la sua poesia Sera d'estate pubblicata nel 1917 sulla rivista fiorentina Italia Futurista).

L'ideologia futurista di glorificazione della guerra come espressione vitalista e purificatrice, unitamente a un aggressivo e convinto nazionalismo, porta nel dopoguerra prima all'ispirazione e poi a un rapporto piuttosto problematico con il fascismo. A quest'ultimo aspetto si deve l'ostracismo culturale subito dal futurismo negli anni del primo dopoguerra. Con la morte di Umberto Boccioni e Antonio Sant'Elia, caduti sul campo dove erano impegnati come volontari nella Grande Guerra, e la successiva defezione di personaggi come Carlo Carrà e Gino Severini, il futurismo vivrà una fase evolutiva denominata «secondo futurismo», fino a chiudere la propria parabola creativa con la morte di Filippo Tommaso Marinetti nel 1944. Molti futuristi continuano a operare nella seconda metà del secolo.

Filippo Tommaso Marinetti

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Filippo Tommaso Marinetti

Di formazione cosmopolita, Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d'Egitto, 22 dicembre 1876 – Bellagio, 2 dicembre 1944) cresce a stretto contatto con l'ambiente parigino, dal quale assimila le istanze del simbolismo. Le sue prime opere sono in francese: Les vieux marins (1897), Le conquête des étoiles (1902), Destruction (1904), Le roi Bombance (1905). Nel 1905, a Milano, fonda la rivista Poesia, sulla quale vengono pubblicati componimenti di poeti italiani e stranieri. Nel 1909 pubblica il Manifesto del futurismo, con cui fonda ufficialmente il movimento.[6] Marinetti però dimostra anche grande capacità organizzativa nella promozione delle opere del gruppo: celebri sono le «serate futuriste», in cui la lettura delle opere prevede il coinvolgimento diretto del pubblico. La sua ideologia antidemocratica influenza tuttavia anche le sue scelte politiche: sostenitore dell'occupazione della Libia e acceso interventista, nel primo dopoguerra aderisce al fascismo, convinto che sia l'unico in grado di mettere in atto i suoi ideali rivoluzionari. Divenuto un intellettuale del regime (nel 1929 è nominato accademico d'Italia), continua la sua attività letteraria rimanendo però ai margini della cultura italiana durante il ventennio. Dopo avere sostenuto anche la partecipazione alla seconda guerra mondiale, muore nel 1944 a Bellagio, nel territorio controllato dalla Repubblica di Salò.

Nella sua attività letteraria Marinetti ha toccato diversi generi. Nella sua poesia è passato dal simbolismo alla ricerca fonosimbolica di Zang tumb tumb. Adrianopoli ottobre 1912 (1914). Nei romanzi, invece, i significati allegorici convivono con forme più tradizionali: Mafarka il futurista (pubblicato in francese nel 1909, tradotto in italiano da Decio Cinti nel 1910), Gli indomabili (1922), Spagna veloce e toro futurista (1931). Marinetti è poi un punto di riferimento per il teatro moderno d'avanguardia, con il suo radicale distacco nei confronti della tradizione.[7]

Ardengo Soffici

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Ardengo Soffici (Rignano sull'Arno, 7 aprile 1879 – Vittoria Apuana, 19 agosto 1964) entra presto in contatto con l'ambiente culturale parigino, dove conosce l'impressionismo e il postimpressionismo. Noto come pittore, è ricordato anche per la sua poesia postsimbolista e per i suoi lavori di critica d'arte (Il caso Rosso e l'Impressionismo, 1909, dedicato a Medardo Rosso; Cubismo e futurismo, 1914; Principi di una estetica futurista, 1920). Dopo avere inizialmente attaccato il futurismo, si prodiga per una fusione tra questo e il cubismo. L'attività pittorica influenza anche la sua poesia: nasce così Bïf & zf+18 (1915), trasposizione libera dei calligrammi di Apollinaire. Soffici è inoltre autore di prose liriche, come Ignoto toscano (1909), Arlecchino (1914), Giornale di bordo (1915), Kobilek. Giornale di guerra (1918), La ritirata del Friuli (1919), La giostra dei sensi (1919). Scrive inoltre un romanzo, Lemmonio Boreo. La sua entusiastica adesione al fascismo nel primo dopoguerra corrisponde all'inaridimento della sua vena artistica e poetica, con il ritorno a forme tradizionali.[8]

Umberto Boccioni

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Umberto Boccioni, Rissa in Galleria (1910): un celebre esempio di pittura futurista

Tra i più rappresentativi pittori futuristi, Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 19 ottobre 1882 – Chievo, 17 agosto 1916) scrive importanti testi teorici e programmatici. Dopo avere conosciuto Giacomo Balla durante un soggiorno a Roma, che gli ha fatto conoscere la corrente del divisionismo, ha compiuto viaggi a Parigi, Venezia e in Russia. Nel 1907, a Milano, entra in contatto con l'avanguardia: nel 1909 firma il Manifesto del futurismo di Marinetti e nel 1910 insieme a Balla, Gino Severini, Carlo Carrà e Luigi Russolo è autore del Manifesto dei pittori futuristi e del Manifesto tecnico della pittura futurista. Negli anni successivi compone anche un Manifesto tecnico della scultura futurista (1912). Nel 1914 pubblica la raccolta di scritti teorici Pittura e scultura futurista, quindi allo scoppio della guerra nel 1915 parte volontario per il fronte, da cui non farà ritorno.[9] La sua Opera completa esce, postuma, nel 1927 a cura di Marinetti.

Corrado Govoni

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Corrado Govoni (Tàmara, 29 ottobre 1884 – Lido dei Pini, 20 ottobre 1965) nasce in un'agiata famiglia di agricoltori e durante la giovinezza ha la possibilità di compiere viaggi e di frequentare gli ambienti letterari di Roma e Milano. Dopo avere venduto nel primo dopoguerra le proprietà paterne, si trasferisce a Roma, dove rimarrà fino alla morte. Pubblica giovanissimo la sua prima raccolta, Le fiale (1903), una serie di sonetti dai toni simbolisti e dannunziani. Con Armonia in grigio et in silenzio (1903) si avvicina alle atmosfere crepuscolari, mentre in Fuochi d'artifizio (1905) e Aborti (1907) opta per il verso libero.

Negli anni dieci aderisce al futurismo, a cui si possono ascrivere le Poesia elettriche (1911), Rarefazioni e parole in libertà (1915), Inaugurazione della primavera (1915). Govoni trova nel movimento fondato da Marinetti la risposta alla sua esigenza di avere piena libertà di sguardo e parola. Ricorrendo a un audace sperimentalismo analizza la realtà industriale e offre, tra stupore e ingenuità, una descrizione della pianura emiliana, attraverso il succedersi di oggetti e immagini.

Dopo essersi allontanato dal futurismo, scrive altre raccolte liriche e libri di narrativa. La sua opera più importante di questi anni è la raccolta Canzoni a bocca chiusa (1938), in cui si ritrovano tutti gli elementi della sua formazione poetica, dal crepuscolarismo al barocco, al bucolico, al simbolismo, alla capacità di creare immagini surreali.

La sua vena poetica viene però sconvolta dai traumi subiti durante la seconda guerra mondiale. Govoni si abbandona ad atmosfere più tenui e, messo da parte il gioco metafisico che aveva caratterizzato la produzione precedente, abbraccia l'impegno civile e si avvicina al neorealismo. Di questo periodo sono opere come Aladino (1946, in cui ricorda il figlio ucciso dai nazisti), Preghiera al trifoglio (1953), Stradario della primavera (1958), La ronda di notte (1966, postumo).[10]

Aldo Palazzeschi

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Aldo Palazzeschi
 
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Su Wikibooks puoi leggere una versione commentata dell'opera Poesie (Palazzeschi)

Aldo Palazzeschi, il cui vero nome è Aldo Pietro Vincenzo Giurlani (Firenze, 2 febbraio 1885 – Roma, 17 agosto 1974), esordisce come Govoni con poesie riconducibili al crepuscolarismo, per passare in seguito al futurismo. Dopo avere frequentato per due anni la scuola di recitazione della città natale, è per breve tempo un attore teatrale, prima di iscriversi alla Scuola commerciale Ca' Foscari di Venezia. Abbandonati gli studi, si dedica alla poesia e pubblica a sue spese le prime raccolte: I cavalli bianchi (1905), Lanterna (1907), Poemi (1909). Entra poi in contatto con gli ambienti futuristi di Milano, dove conosce Boccioni e Marinetti. Contemporaneamente, frequenta il gruppo di intellettuali che si raccoglie attorno alla rivista Lacerta di Papini e Soffici. Nelle sue opere mantiene tuttavia una propria originalità, che lo separano dalle soluzioni marinettiane. Durante un soggiorno a Parigi nel 1913 conosce Apollinaire, Picasso, Braque e Matisse; nello stesso periodo si avvicina al marxismo, maturando posizioni dapprima anti-interventiste e poi anti-fasciste. Allontanatosi dal futurismo, mantiene rapporti con l'ambiente parigino e compone testi ispirati a un audace sperimentalismo. Nel 1941 si trasferisce a Roma, ma la sua vena poetica e inventiva conosce un progressivo impoverimento. Inizia così l'attività di revisione delle opere giovanili, che lo impegnerà fino alla morte.

Le opere futuriste di Palazzeschi (L'incendiario, 1910; Il codice Perelà, 1911; Il controdolore, 1913) si caratterizzano per il libero gioco del poeta e per la sua estrosa leggerezza: un esempio è il componimento E lasciatemi divertire, in cui viene posta l'attenzione sulla poesia come divertimento, attraverso l'accostamento di suoni onomatopeici privi di significato. Nelle opere del primo dopoguerra si rileva l'uso dell'ironia e del registro fantastico: Due imperi... mancati (1920), Il Re bello (1921), La Piramide (1926). In seguito, la sua disposizione per il grottesco si accentua in Stampe dell'800 (1932), Sorelle Materassi (1934), Il palio dei buffi (1937). Meno riusciti sono i successivi I fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953). Negli ultimi anni di vita, nonostante l'esaurimento del suo estro poetico, riesce comunque a comporre opere sorprendenti come Il buffo integrale (1966), Il doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un'amicizia (1971).[11]

  1. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 913.
  2. 2,0 2,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 4.
  3. Manifesto tecnico della letteratura futurista, su classicitaliani.it. URL consultato il 9 agosto 2015.
  4. 4,0 4,1 4,2 4,3 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 5.
  5. Contenuta nella raccolta L'incendiario (Milano, Edizioni Futuriste di Poesia, 1910).
  6. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 71.
  7. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 72.
  8. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 88.
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 91.
  10. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 63-64.
  11. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 52.

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