Storia della letteratura italiana/Italo Svevo

Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

Trieste all'inizio del Novecento è ancora territorio dell'impero austriaco. La città non ha una propria tradizione come centro culturale, ma è vivacizzata da una borghesia molto attiva e dall'intreccio di popoli di diversa provenienza e cultura. Prende piede anche qui la cultura mitteleuropea, una cultura cosmopolita e problematica, che è alla base della fioritura letteraria e artistica che caratterizza l'ultima fase dell'impero asburgico. È in questo clima che nasce e si forma Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz, uno degli autori più singolari della letteratura italiana. Svevo non è infatti un intellettuale professionista, ma un borghese con la passione per la scrittura, lontano dalle tendenze che all'epoca dominavano la cultura italiana e aperto alle esperienze provenienti dall'Europa, e in particolare dai paesi di lingua tedesca. La stessa scelta dello pseudonimo "Italo Svevo" è indicativa della posizione intermedia assunta dallo scrittore, a cavallo tra la cultura italiana e quella germanica.[1]

La vita

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Italo Svevo

Nasce con il nome di Aron Hector Schmitz a Trieste, nell'allora impero austro-ungarico, la notte tra il 19 e il 20 dicembre 1861 da agiata famiglia ebraica. Il padre Franz è un commerciante tedesco, mentre la madre, Allegra Moravia, è italiana. Nel 1874 è mandato dal padre, assieme ai due fratelli Adolfo ed Elio, al collegio di Segnitz, in Baviera, dove studia il tedesco e altre materie utili per l'attività commerciale. La sua formazione avviene quindi in un ambiente linguistico prettamente tedesco - benché italofono fin dall'infanzia - elemento che influenzerà profondamente il suo stile letterario.

Nel 1878 torna a Trieste e termina gli studi all'istituto commerciale Pasquale Revoltella senza trascurare la cultura letteraria, leggendo prima i classici tedeschi e successivamente quelli italiani. Nel 1880, con il fallimento dell'azienda paterna, inizia a lavorare presso la filiale cittadina della Banca Union di Vienna, impiego che, sebbene mai amato, manterrà per diciotto anni. Nello stesso periodo inizia la collaborazione con L'Indipendente, giornale di posizioni socialiste per il quale scrive 25 recensioni e saggi teatrali e letterari. Riesce anche a far pubblicare, rispettivamente nel 1888 e nel 1890, i suoi racconti Una lotta e L'assassinio di via Belpoggio, scritti in italiano sotto lo pseudonimo di "Ettore Samigli". A questi seguono un altro racconto e un monologo teatrale. Nel frattempo, nel 1886, perde il fratello Elio e inizia a scrivere commedie e un romanzo (i cui primi abbozzi risalgono già al 1887).

Nel 1892, anno in cui muore suo padre, pubblica il suo primo romanzo, Una vita, firmato con il definitivo pseudonimo di "Italo Svevo", un omaggio alle sue doppie radici italiane e tedesche. L'opera è però ignorata dalla critica e dal pubblico. In quell'anno ha una relazione con la popolana Giuseppina Zergol, che ispirerà il personaggio di Angiolina in Senilità. Dopo alcune collaborazioni con il giornale Il Piccolo e una cattedra all'Istituto Revoltella, nel 1895 muore la madre, e un anno dopo, nel 1896 si fidanza con la cugina Livia Veneziani, figlia di un commerciante di vernici sottomarine cattolico. La coppia si sposerà nel 1896 con rito civile e nel 1897 con matrimonio religioso, dopo che lo scrittore avrà abiurato la religione ebraica ed si sarà convertito.

Dalla donna ha una figlia, Letizia. Il matrimonio segna una svolta fondamentale nella vita di Svevo: in primo luogo l'«inetto» trova finalmente un terreno solido su cui poggiare e di conseguenza può arrivare a coincidere con quella figura virile che sembrava irraggiungibile, il pater familias. Nel 1898 pubblica il secondo romanzo, Senilità; anche quest'opera passa però quasi sotto silenzio. Questo insuccesso letterario lo spinge quasi ad abbandonare del tutto la letteratura. Dimessosi dalla banca, nel 1899 Svevo entra nell'azienda del suocero, accantonando la sua attività letteraria, che diventa marginale e segreta.

Costretto per lavoro a viaggi all'estero, trova il tempo per comporre qualche pagina teatrale e alcune favole. Frequentando un corso d'inglese alla Berlitz School di Trieste nel 1907, conosce lo scrittore irlandese James Joyce, suo insegnante, che lo incoraggia a scrivere un nuovo romanzo. Intorno al 1910, grazie al cognato Bruno Veneziani, che su consiglio di Edoardo Weiss si reca a Vienna e cerca di farsi curare da Sigmund Freud, entra in contatto con la psicoanalisi freudiana. Per parte sua Svevo nel 1911 conosce e frequenta Wilhelm Stekel, allievo di Freud che si sta occupando del rapporto tra poesia e inconscio. Questi eventi influenzeranno la sua successiva produzione letteraria.

Allo scoppio della prima guerra mondiale l'azienda nella quale lavora viene chiusa dalle autorità austriache (il suocero morirà nel 1921). Joyce si allontana e torna a Trieste solo nel 1919, per poi recarsi definitivamente a Parigi, dove Svevo lo andrà a trovare più volte. Durante la guerra lo scrittore rimane nella città natale, mantenendo la cittadinanza austriaca ma cercando di restare il più possibile neutrale di fronte al conflitto.

In questo periodo approfondisce la conoscenza della letteratura inglese. Si interessa inoltre alla psicoanalisi e traduce La scienza dei sogni di Sigmund Freud, che influenzerà notevolmente la sua opera successiva. In seguito accetta di buon grado l'occupazione italiana della città e, dopo la guerra, con il definitivo passaggio di Trieste al Regno d'Italia, collabora al primo importante giornale triestino italiano, La Nazione, fondato dall'amico Giulio Cesari. Prende la cittadinanza italiana e italianizza il suo nome in Ettore Schmitz.

Nel 1919 collabora con il giornale La Nazione, e inizia a scrivere La coscienza di Zeno, poi pubblicata nel 1923. Il romanzo però conosce il successo solo nel 1925, quando l'amico Joyce la propone ad alcuni critici francesi in particolare a Valéry Larbaud che ne scrive sulla Nouvelle Revue Française e a Benjamin Crémieux. In Italia, Eugenio Montale, in anticipo su tutti, ne afferma la grandezza: scoppia così il "caso Svevo", una vivace discussione attorno allo scritto su Zeno.

Nel dopoguerra non aderisce al fascismo, ma nemmeno si oppone, a differenza del genero Antonio Fonda Savio, futuro antifascista e partigiano del Comitato di Liberazione Nazionale.[2] Nel 1926 la rivista francese Le navire d'argent gli dedicò un intero fascicolo, nel 1927 tenne una famosa conferenza su Joyce a Milano, e nel marzo 1928 venne festeggiato a Parigi tra altri noti scrittori, tra cui Isaak Emmanuilovic Babel'.

Il 12 settembre 1928, mentre tornava con la famiglia da un periodo di cure termali a Bormio, il sessantasettenne Svevo è coinvolto in un incidente stradale presso Motta di Livenza, in cui rimane ferito, apparentemente in maniera non grave. Nella vettura c'erano il nipote Paolo Fonda Savio, l'autista e la moglie Livia. Secondo la testimonianza della figlia, Svevo si fratturò solo il femore, ma, mentre veniva portato all'ospedale del paese, ebbe un attacco di insufficienza cardiaca con crisi respiratoria, anche se non morì immediatamente. Raggiunto il nosocomio peggiorò rapidamente: in preda all'asma, morì 24 ore dopo l'incidente, alle ore 14:30 del 13 settembre. La causa del decesso fu asma cardiaco, sopraggiunto per l'enfisema polmonare di cui soffriva da tempo e lo stress psicofisico dell'incidente. Il quarto romanzo, Il vecchione o Le confessioni del vegliardo, una "continuazione" de La coscienza di Zeno, rimarrà incompiuto.[3]

La poetica

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Sigmund Freud

In Svevo confluiscono filoni di pensiero contraddittori e difficilmente conciliabili: da un lato il positivismo, la lezione di Charles Darwin, il marxismo; dall'altro il pensiero negativo e antipositivista di Arthur Schopenhauer, di Friedrich Nietzsche e di Sigmund Freud. Ma questi spunti contraddittori sono in realtà assimilati da Svevo in un modo originalmente coerente: lo scrittore triestino assume dai diversi pensatori gli elementi critici e gli strumenti analitici e conoscitivi piuttosto che l'ideologia complessiva.

Così dal positivismo e da Darwin, ma anche da Freud, Svevo riprende la propensione a valersi di tecniche scientifiche di conoscenza e il rifiuto di qualunque ottica di tipo metafisico, spiritualistico o idealistico, nonché la tendenza a considerare il destino dell'umanità nella sua evoluzione complessiva. Del rapporto di Svevo con il marxismo è testimonianza il racconto-apologo La tribù nel 1897. Anche da Schopenhauer riprende alcuni strumenti di analisi e di critica, ma non la soluzione filosofica ed esistenziale: non accetta cioè la proposta di una saggezza da raggiungersi attraverso la noluntas, la rinuncia alla volontà, e il soffocamento degli istinti vitali.

Lo stesso atteggiamento Svevo rivela nei confronti di Nietzsche e di Freud. Il Nietzsche di Svevo è il teorico della pluralità dell'io, anticipatore di Freud, e il critico spietato dei valori borghesi, non il creatore di miti dionisiaci. Quanto a Freud, che Svevo studia con passione, è per lui un maestro nell'analisi della costitutiva ambiguità dell'io, nella demistificazione delle razionalizzazioni ideologiche con cui l'individuo giustifica la ricerca inconscia del piacere, nell'impostazione razionalistica e materialistica dello studio dell'inconscio. Ma Svevo rifiuta sempre di aderire totalmente al sistema teorico di Freud: accetta la psicoanalisi come tecnica di conoscenza, ma la respinge sia come visione totalizzante della vita, sia come terapia medica.

Il rifiuto della psicoanalisi come terapia rivela nello Svevo della Coscienza di Zeno una difesa dei diritti dei cosiddetti "ammalati" rispetto ai "sani". La nevrosi, per Svevo, è anche un segno positivo di non rassegnazione e di non adattamento ai meccanismi alienanti della civiltà, la quale impone lavoro, disciplina, obbedienza alle leggi morali, sacrificando la ricerca del piacere. L'ammalato è colui che non vuole rinunciare alla forza del desiderio. La terapia lo renderebbe sì più "normale", ma a prezzo di spegnere in lui le pulsioni vitali. Per questo l'ultimo Svevo difende la propria "inettitudine" e la propria nevrosi, viste come forme di resistenza all'alienazione circostante. Rispetto all'uomo efficiente ma del tutto integrato nei meccanismi inautentici della società borghese, egli preferisce essere un "dilettante", un "inetto", un "abbozzo" aperto a possibilità diverse.

Negli anni in cui elabora La coscienza di Zeno e la sua ultima produzione narrativa e teatrale, la letteratura è da lui concepita come recupero e salvaguardia della vita. L'esistenza vissuta viene sottratta al flusso oggettivo del tempo. Soltanto se l'esistenza sarà narrata o «letteraturizzata» sarà possibile evitare la perdita dei momenti importanti della vita e rivivere nella parola letteraria l'esperienza vitale del passato, i desideri e le pulsioni che nella realtà sono spesso repressi e soffocati. Su questa tesi di fondo si aprono Le confessioni del vegliardo. La vita può essere difesa solo dall'«inetto», dall'ammalato o dal nevrotico, da chi nella società è un "diverso", e dunque dallo scrittore.

Dalla letteratura realista e naturalista Svevo deriva il "bovarismo" degli atteggiamenti da sognatore romantico che caratterizza i protagonisti dei primi due romanzi, e una struttura narrativa che risente ancora dell'impianto narrativo tradizionale. Da Dostoevskij e da Sterne desume la spinta all'analisi profonda dell'Io e a un rinnovamento radicale delle strutture narrative. Caratteristica della poetica di Svevo è il contrasto tra ciò che è razionale e ciò che è ideale. Su questo piano agisce anche l'influenza di Joyce. Essa si risolve però in molteplici gestioni culturali (l'attenzione all'inconscio) e nella tendenza a correlare l'analisi del profondo alla ricerca di un nuovo impianto narrativo più che in una effettiva analogia di soluzioni formali. La confessione di Zeno resta ben lontana dal flusso di coscienza dell'Ulisse, il capolavoro di Joyce.[4]

Il primo romanzo: Una vita

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Veduta di Trieste negli anni ottanta dell'Ottocento

Svevo comincia a scrivere il suo primo romanzo nel 1888. La pubblicazione avviene, a spese dell'autore, nel 1892 presso un piccolo editore triestino, Vram, dopo che Treves aveva rifiutato il manoscritto. Il titolo originale doveva essere Un inetto, ma è stato poi cambiato in Una vita su richiesta dell'editore.[5][6]

  Trama

L'opera si presenta come il racconto di un vinto, cioè di un uomo sconfitto dalla vita. Alfonso Nitti, trasferitosi dalla campagna a Trieste, trova un impiego in banca, ma non riesce a stabilire contatti umani e vede le sue ambizioni economiche e letterarie frustrate. Vive una relazione con Annetta Maller, figlia del proprietario della banca. Sposando Annetta, potrebbe veder realizzate le proprie ambizioni, ma Alfonso, preso dall'inettitudine, fugge al paese natale, dove trova la madre gravemente ammalata. In seguito alla morte della madre è convinto di aver trovato finalmente il suo modus vivendi, che consiste nel dominare le passioni. In realtà il protagonista è ben presto ripreso da queste ultime. Ritornato a Trieste, rivede Annetta e le scrive una lettera. Questa però è promessa sposa a Macario, giovane appassionato di letteratura conosciuto in casa Maller. Annetta non risponderà alla lettera. Nel frattempo il fratello di Annetta sfida a duello Alfonso. Il protagonista preferisce suicidarsi con una pistola, conscio del proprio fallimento.

L'impianto del romanzo rivela legami con i più importanti modelli del romanzo moderno. È la storia della "scalata sociale" di un giovane di provincia che aspira ad affermare il proprio successo nella città, un tema affrontato da autori francesi come Balzac (Illusioni perdute), Stendhal (Il rosso e il nero) e Maupassant (Bel Ami). Ritorna però anche il modello del romanzo di formazione, che segue le vicissitudini di un giovane nel suo percorso di crescita (si pensi al Wilhelm Meister di Goethe). Risente poi anche dell'influsso di Zola e della letteratura naturalista, con il tentativo di ricostruire minuziosamente il quadro sociale in cui si svolge la vicenda.[7]

Tuttavia, l'indagine sociale rappresenta solo una cornice al romanzo, che si concentra anzitutto nell'analizzare la coscienza del protagonista. È un tema che tornerà in tutti i romanzi successivi di Svevo, insieme alla figura dell'inetto. Come altri personaggi della narrativa tardo-ottocentesca (si pensi alle opere di D'Annunzio e Fogazzaro), anche Alfonso si confronta con la concretezza del mondo borghese, che svuota di ogni valore l'intellettuale. Tuttavia, diversamente dai modelli della letteratura italiana contemporanea, il protagonista del romanzo di Svevo non propone modelli e valori alternativi a quelli borghesi. Piuttosto, Alfonso cade nella passività e nell'estraneità: non persegue fino in fondo nessuno dei suoi propositi, né cerca di instaurare una vera e propria comunicazione con gli altri, pur avendo sempre bisogno dell'approvazione altrui. Vive nell'autoillusione, calato in una vita quotidiana grigia, limitandosi a sognare il successo ma senza mai fare niente per raggiungerlo.[6]

Il romanzo è narrato in terza persona, e il punto di vista dominante è quello del protagonista. Di tanto in tanto, però, interviene anche il narratore. Pur non essendo un narratore onnisciente come quello manzoniano, fa comunque sentire la sua voce, smentendo certe interpretazioni date dai personaggi e svelando gli autoinganni. Il narratore ha un punto di vista più lucido rispetto al protagonista, e tutto il romanzo è giocato sulla dialettica tra questi due punti di vista antagonisti. Un procedimento che verrà ulteriormente sviluppato nel successivo Senilità.[8]

Il secondo romanzo: Senilità

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Nel 1898 appare sull'Indipendente a puntate il suo secondo romanzo di Svevo, Senilità, che inizialmente doveva intitolarsi Il carnevale di Emilio. Sempre nello stesso anno, l'opera viene pubblicata in volume, ancora una volta a spese dell'autore, ma si scontrerà con l'indifferenza della critica. La seconda edizione, rivista dall'autore, è del 1927.[6]

  Trama

Emilio Brentani, 35 anni, è conosciuto in città per aver scritto un romanzo e lavora come impiegato in una compagnia di assicurazioni. Vive un'esistenza grigia e monotona in un appartamento con la sorella Amalia, che lo accudisce. Emilio conosce Angiolina, di cui si innamora, e ciò lo porta a trascurare la sorella e l'amico Stefano Balli, scultore, che compensa i pochi riconoscimenti artistici con i successi con le donne. Stefano non crede nell'amore, e cerca di convincere Emilio a "divertirsi" con Angiolina, che è conosciuta in città con una pessima fama. Emilio dimostra invece tutto il suo amore nei confronti della donna, arrivando anche a ignorare gli amici che cercano di avvertirlo dei suoi numerosi tradimenti. Stefano comincia a frequentare casa Brentani con maggiore assiduità, e Amalia finisce per innamorarsene. Emilio, geloso della sorella, allontana Stefano, e Amalia, tornata triste e malinconica, comincia a stordirsi con l'etere, finché non si ammala di polmonite. Emilio segue la sorella malata, ma col pensiero sempre rivolto ad Angiolina, arrivando anche ad abbandonare la sorella più volte per andare a un appuntamento con l'amata. Dopo la morte di Amalia, Emilio smette di frequentare Angiolina, pur amandola, e si allontana da Stefano Balli. Viene poi a sapere che Angiolina è fuggita con il cassiere di una banca. Anni dopo, nel ricordo, Emilio vede le due donne fuse in una singola persona, con l'aspetto dell'amata e il carattere della sorella.

Il romanzo è stato elaborato a partire dal 1892 e trae ispirazione dalla relazione dell'autore con Giuseppina Zergol. Diversamente da Una vita, qui non viene più analizzato il quadro sociale, ma la narrazione si sofferma esclusivamente sui quattro personaggi principali: Emilio, Amalia, Stefano e Angiolina. I rapporti tra i quattro si delineano in una struttura essenziale, organizzata con rigore geometrico. I fatti esteriori passano in secondo piano, perché tutta la vicenda si svolge nella mente di Emilio: l'autore infatti indaga essenziale gli aspetti psicologici. Ed è dall'analisi della psiche che Svevo riesce a ricostruire l'ambiente sociale. I personaggi si comportano in un certo modo perché vivono in un determinato contesto storico, i fatti sociali vengono vissuti i prima persona dai protagonisti e trasformati in eventi psichici. In questo modo Svevo coglie con acutezza i momenti della storia sociale, senza tuttavia farne oggetto di una rappresentazione diretta.[9]

Come già Alfonso Nitti, anche Emilio Brentani è un inetto, e la sua condizione è aggravata da un precoce senso di senilità. Ogni sua azione sembra priva di vitalità. Mantiene un atteggiamento di distacco tra sé e gli altri che gli impedisce una piena conoscenza della realtà, relegandolo in una rete di autoinganni. È perennemente in attesa di occasioni che non si realizzano. Si rifà a falsi modelli ideali in cui egli stesso non crede e che finiscono per essergli solo di intralcio. Non sa vivere il presente e si sente continuamente minacciato, in altre parole: non vive ma si guarda vivere. Sono questi i caratteri tipici che si possono ritrovare in vari modelli del decadentismo, ma allo stesso tempo descrivono anche la condizione dell'uomo moderno, perso dietro a vane illusioni e incapace di cogliere il vero volto della natura.

Emilio e gli altri tre personaggi del romanzo sono inseriti in un intreccio, legati tra loro da raccordi e sottili simmetrie. Da un lato c'è l'amico Stefano Belli, generoso ma anche spregiudicato, che rappresenta per Emilio una figura parterna e un modello di "salute". Dall'altro ci sono le due donne, Angiolina e Amalia, che non si incontreranno mai e che rappresentano due figure opposte. Amalia è una ragazza triste destinata alla rinuncia e all'inerzia sentimentale. Viceversa Angiolina è la donna del popolo, rappresenta la vitalità più aperta di cui Emilio vorrebbe partecipare. Nell'amata il protagonista vede infatti la risposta ai suoi desideri e ai suoi vaghi ideali. Tuttavia vive il rapporto con la donna solo attraverso degli intermediari, e sente cresce la passione tanto più aumenta il distacco e l'estraneità tra di loro. Ogni tradimento dell'amata provoca in Emilio nuove illusioni. Alla fine del romanzo, dopo la morte di Amalia, Angiolina viene infine trasfigurata in una immagine simbolica. Emilio guarda a lei come a un segno a cui è legata indissolubilmente la sua vita, allo stesso modo in cui un vecchio vede la giovinezza lontana.[10]

Gli anni del silenzio

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Deluso dall'insuccesso letterario Svevo decide di dedicarsi al commercio e diventa curatore di affari nel colorificio Veneziani che appartiene al suocero Gioacchino. Per motivi d'affari legati al colorificio, negli anni tra il 1899 e il 1912 Svevo deve intraprendere diversi viaggi all'estero e sembra aver completamente dimenticato la sua passione letteraria. In realtà egli continua a scrivere e certamente a questo periodo risalgono le opere Un marito, Le avventure di Maria e una decina di racconti.

Nel 1915, allo scoppiare della prima guerra mondiale, la famiglia abbandona Trieste e Svevo rimane da solo a dirigere il colorificio, che però verrà chiuso qualche anno dopo. Senza più l'attività lavorativa, riprende gradualmente studi letterari, legge autori inglesi e si interessa al metodo terapeutico di Freud del quale, in collaborazione con un nipote medico, traduce Über den Traum, una sintesi dell'Interpretazione dei sogni. Questo, tuttavia, allontana ancora di più Svevo dalle tendenze della cultura italiana a lui contemporanea.

Il terzo romanzo: La coscienza di Zeno

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La coscienza di Zeno in un'edizione del 1930

Nel febbraio 1919 Svevo inizia a scrivere il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che pubblicherà nel 1923 presso l'editore Cappelli di Bologna. Anche questa nuova prova letteraria, all'inizio, è accolta dall'indifferenza della critica. James Joyce, che legge il romanzo e lo apprezza, consiglia all'amico di inviarlo a certi critici francesi che nel 1926 dedicheranno alla Coscienza di Zeno e agli altri due romanzi la maggior parte del fascicolo della rivista Le navire d'argent. Ma intanto anche in Italia qualcosa si smuove e sulla rivista milanese L'esame esce, nel 1925, un intervento di Eugenio Montale intitolato Omaggio a Italo Svevo.[11]

Struttura del romanzo

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L'opera riassume l'esperienza umana di Zeno, il quale racconta la propria vita in modo così ironicamente disincantato e distaccato che l'esistenza gli appare tragica e insieme comica. Zeno ha maturato delle convinzioni: la vita è lotta; l'inettitudine non è più un destino individuale, come sembrava ad Alfonso o a Emilio, ma è un fatto universale; la vita è una "malattia"; la coscienza è un gioco comico e assurdo di autoinganni più o meno consapevoli. In forza di questi assunti il protagonista acquista la saggezza necessaria per vedere la vita umana come una brillante commedia e per comprendere che l'unico mezzo per essere sani è la persuasione di esserlo.

L'opera è caratterizzata da un'architettura particolare: il romanzo, nel senso tradizionale, non c'è più; subentra il diario, in cui la narrazione si svolge in prima persona e non presenta una gerarchia nei fatti narrati, a ulteriore conferma della frantumazione dell'identità del personaggio narrante. Il protagonista non è più una figura a tutto tondo, un carattere, ma è una coscienza che si costruisce attraverso il ricordo. Di Zeno esiste solo ciò che egli intende ricostruire attraverso la sua coscienza.

  Trama

II romanzo si apre con la Prefazione. Lo psicoanalista dottor S. induce il paziente Zeno Cosini, vecchio commerciante triestino di 57 anni, a scrivere un'autobiografia come contributo al lavoro psicoanalitico. Poiché il paziente si è sottratto alle cure prima del previsto, il dottore per vendicarsi pubblica il manoscritto. Nel preambolo Zeno racconta il suo accostamento alla psicoanalisi e l'impegno di scrivere il suo memoriale, raccolto intorno ad alcuni temi ed episodi.

Il fumo racconta dei vari tentativi attuati dal protagonista per guarire dal vizio del fumo, che rappresenta la debolezza della sua volontà. In La morte di mio padre è raccontato il difficile rapporto di Zeno con il padre, che culmina nello schiaffo dato dal genitore morente al figlio.

In La storia del mio matrimonio Zeno si presenta alla ricerca di una moglie. Frequenta casa Malfenti e si innamora della più bella tra le quattro figlie del padrone di casa, Ada. Dopo essere stato respinto, cerca invano di conquistare la mano di un'altra Malfenti, Alberta, che tuttavia non si sente pronta al matrimonio e preferirebbe dedicarsi solamente allo studio. A questo punto Zeno si dichiara a un'altra delle ragazze, la materna e comprensiva Augusta, che gli concede il suo amore pur sapendo di non essere la prima scelta.

Nel capitolo La moglie e l'amante, Zeno rievoca la relazione con Carla. Il protagonista non sa decidersi fra l'amore per la moglie e quello per l'amante finché è quest'ultima a troncare il rapporto. Il capitolo Storia di un'associazione commerciale è incentrato sull'impresa economica di Zeno e del cognato Guido, marito di Ada. Sull'orlo del fallimento, Guido inscena un suicidio per impietosire i familiari e farsi concedere prestiti, ma muore sul serio. Ada sconvolta dal dolore e resa non desiderabile a causa di una malattia (morbo di Basedow) abbandona Trieste, accusando Zeno di aver odiato il marito e di essergli stato accanto, assiduo, in attesa di poterlo colpire.

Qui terminano i capitoli del memoriale. Zeno, abbandonato lo psicoanalista, scrive un altro capitolo, intitolato Psico-analisi. Spiega i motivi dell'abbandono della cura e proclama la propria guarigione. Il protagonista indica l'idea che lo ha liberato dalla malattia: "La vita attuale è inquinata alle radici".

Zeno e la sua coscienza

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Zeno ha alcuni tratti in comune con Alfonso Nitti ed Emilio Brentani: eternamente irresoluto, necessità di avere degli stimoli esterni per potere prendere una decisione. A differenza dei due protagonisti dei romanzi precedenti, Zeno mantiene da se stesso e dalle proprie azioni un distacco umoristico. Da un lato scava tra le pieghe della sua psicologia, dall'altro però è impegnato a evidenziare la futilità di questo atteggiamento. Vive in un mondo borghese, che viene descritto nella sua concretezza, ma in cui si trova a disagio. Prova infatti un perenne senso di inferiorità, che lo impedisce nelle sue azioni.

Zeno è teso a rispondere al richiamo del desiderio, a seguire vane promesse di felicità e bellezza. Allo stesso tempo, però, ama smascherare gli inganni che le persone attorno a lui si creano. I valori borghesi, nella sua visione, sono schermi utilizzati per dare un'apparenza di rispettabilità a pulsioni e desideri che affondano le loro radici nell'animalità dell'uomo. Zeno cerca si sottrarsi ai modelli borghesi, ma finisce sempre per ricadervi. Anche la sua coscienza è invischiata in vari autoinganni: il desiderio per Ada lo porta a sposare Augusta, e la relazione con l'amante lo riporterà dalla moglie e dalla famiglia.

Tuttavia, Zeno non è uno sconfitto. È consapevole che la serietà nasconde illusioni, si comporta da personaggio comico, si abbandona all'imprevedibilità della vita e mantiene il sorriso anche di fronte agli eventi più drammatici. E alla fine la sua inferiorità si risolve: va incontro a una serie di successi commerciali, che coincidono con gli anni tragici della prima guerra mondiale.[12]

La malattia come strumento di conoscenza

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Il personaggio di Zeno si pone in contrapposizione agli eroi della tradizione letteraria. Nel parlare della sua coscienza nasconde se stesso al lettore, sa di non poter essere un modello assoluto, ma solo il protagonista di un'esperienza singolare. E nel fare questo si presenta come malato: la malattia diventa la condizione tipica dell'uomo moderno, e quella che caratterizza il mondo di Zeno è la nevrosi. Sono qui riconoscibili le suggestioni provenienti dalla conoscenza di Freud e della psicanalisi.

Tuttavia, Zeno è lungi dal descrivere un singolo caso clinico. Al contrario, le diverse manifestazioni della nevrosi che si riconoscono in lui e negli altri personaggi sono un'immagine della più ampia condizione di nevrosi che caratterizza l'uomo moderno. Sono la civiltà e la cultura a essere nevrotiche, e non esiste guarigione. Al massimo si possono raggiungere momentanei stati di equilibrio, che sorgono quando ci si accorge dell'ineluttabilità della malattia.

Letteratura e malattia si intrecciano: la malattia diventa lo strumento fondamentale per conoscere il mondo. La letteratura utilizza la malattia come forza critica per indagare il mondo moderno; allo stesso tempo però, la scrittura è invenzione, e questo allontana dalla conoscenza. Un'altra contraddizione riguarda il rapporto con il tempo. La coscienza di Zeno indaga sul rapporto tra il tempo della scrittura e quello della vita, tra il presente e il passato. Zeno però si accorge che con il tempo non è possibile avere nessun rapporto lineare. Il tempo infatti si riavvolge su di sé, ma nel ripetersi si trasforma e si deforma.

Su tutto il romanzo domina l'incombere della guerra, che minaccia di distruggere il mondo borghese in cui vive il protagonista. Il conflitto è visto come una frattura che pone fine a un'epoca, quella in cui è vissuto il giovane Zeno. Nell'ultimo capitolo, il vecchio Zeno esibisce il distacco con cui guarda alle vicende che hanno segnato la vita precedente. Il protagonista/narratore abbandona la cura e mostra come questa sia basata sull'insincerità, mettendo addirittura in dubbio che ciò che ha raccontato sia completamente vero. Tuttavia è grazie alla guerra che Zeno giunge a guarigione: gli sconvolgimenti bellici gli hanno infatti consentito di fare cospicui affari commerciali. A questo punto il suo sguardo si amplia alla malattia che ha colpito l'intera umanità. Lo sviluppo industriale e il dominio sulle forze della natura conducono a distruzione e morte. La malattia viene proiettata nel tempo, e il romanzo si chiude con l'immagine di un futuro minaccioso in cui la Terra viene distrutta da un'esplosione e ridotta a una nebulosa.[13]

Le altre opere

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Oltre ai tre romanzi di cui si è detto, Svevo ha scritto anche articoli, saggi, diari, testi autobiografici, lettere, racconti e testi drammatici. A questi si aggiunge il cosiddetto "quarto romanzo", intitolato Il vecchione o Le confessioni del vegliardo.

Il quarto romanzo

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Tra le carte di Svevo, dopo la sua morte furono rinvenuti i frammenti di un quarto romanzo, che era stato progettato come una continuazione della Coscienza di Zeno. Il titolo ipotizzato doveva essere Il vecchione oppure Le confessioni del vegliardo. I frammenti non sono uniti da una trama unitaria, ma piuttosto sono caratterizzati da ripetizioni e discordanze. Il narratore è ancora Zeno, che assunto il ruolo di anziano patriarca racconta dei membri della sua famiglia. Si tratta però ancora una volta di un narratore inaffidabile, e dietro al mondo degli affetti di cui parla si nasconde una rete di odi e rancori tra i parenti. Questa ambivalenza, d'altra parte, ha una funzione di straniamento e gli consente di fare lucidi ritratti dei membri della famiglia, evidenziandone i difetti, le cattiverie, le manie e le doppiezze. Svevo si conferma un acuto osservatore della psiche e dei comportamenti umani, oltre che un critico corrosivo dell'istituto della famiglia borghese.[14]

Racconti

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Svevo scrisse i suoi racconti in momenti diversi della sua vita. Tuttavia non li organizzò mai in raccolte, e in molti casi li lasciò incompiuti. Mentre l'autore era ancora vivente furono pubblicati solo tre brevi testi: la novella Una lotta (sul giornale L'Indipendente, nel 1888), L'assassinio di via Belpoggio (sempre sull'Indipendente, nel 1890) e il racconto-apologo politico La tribù (sulla rivista socialista Critica sociale, diretta da Turati, nel 1897). Questi testi sono significativi perché anticipano molte delle tematiche che caratterizzano i romanzi, come il conflitto tra debole e forte, lo sviluppo dei processi psicologici, la figura dell'uomo inetto e sognatore.

Tra gli altri racconti, tutti usciti postumi, i più significativi sono Lo specifico del dottor Menghi, Vino generoso, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, Corto viaggio sentimentale.[15]

Svevo si interessa fin dall'inizio al teatro: le sue prime prove letterarie sono infatti commedie. Il suo modello è il teatro borghese, e i suoi drammi sono ambientati in interni familiari. Vengono messi in scena i conflitti e le tensioni che scorrono al di sotto di una superficie quotidiana fatta di affetto e buona educazione.

Nonostante la passione per il teatro lo abbia accompagnato per tutta la vita, le sue opere drammatiche hanno avuto scarsissima diffusione. L'unica commedia a essere stata rappresentata con l'autore ancora vivente fu l'atto unico Terzetto spezzato, andato in scena al Teatro degli indipendenti di Roma nel 1927.

In totale ci sono giunte tredici commedie di Svevo, che sono state più volte rimaneggiate dall'autore e in alcuni casi lasciate incompiute:

  • Le ire di Giuliano, Le teorie del conte Alberto, Il ladro in casa, Una commedia inedita, Prima del ballo, La verità, Terzetto spezzato (tutte risalenti al periodo 1880-1890);
  • Un marito (1903);
  • L'avventura di Maria (1919-1920);
  • Inferiorità (1921);
  • Con la penna d'oro (1926);
  • La rigenerazione (1927-1928).

La prima edizione dei testi teatrali di Svevo comparirà solo nel 1960, a cura di Umbro Apollonio.[14]

  1. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 940.
  2. Italo Svevo per paura del fascismo voleva cambiare la Vita, su ilpiccolo.gelocal.it. URL consultato l'8 luglio 2017.
  3. Letizia Svevo Fonda Savio, Bruno Maier, Italo Svevo, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1981, pp. 129-136, ISBN 88-7692-259-8.
  4. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 3-5.
  5. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 5.
  6. 6,0 6,1 6,2 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 943.
  7. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 6.
  8. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 7.
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 8.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 944.
  11. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 947.
  12. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 948-949.
  13. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 949-950.
  14. 14,0 14,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 16.
  15. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 15-16.

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