Il Chassidismo di Elie Wiesel/Capitolo 5
Ritratti dalle Scritture
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Veniamo alla terza categoria di testi compresi nel Tanakh, i Ketuvim, che sono gli "Scritti". I Patriarchi fanno parte della Rivelazione della Parola Divina al Monte Sinai. I Profeti sono coloro sui quali il Ruah HaKodesh, lo "spirito santo", è disceso in parole e visioni affinché potessero dichiarare: "Così dice il Signore!" E le figure negli Scritti? Alcuni di essi ci provengono dalle mani dei Profeti: secondo il Talmud, ad esempio, il Libro di Giobbe fu scritto da Mosè (Bava Batra 15a) e il Libro di Rut da Samuele (Bava Batra 14b), mentre gli Uomini della Grande Assemblea, i 120 saggi del Periodo del Secondo Tempio, scrissero il Libro di Daniele e il Libro di Ester (Bava Batra 15a). In ogni caso, gli Scritti non furono rivelati: furono scritti, anche se con ardore e timore reverenziale.
"Scrivere", dice Wiesel, "è scandagliare le profondità insondabili dell'essere. La scrittura rientra nel dominio del mistero. Lo spazio tra due parole qualsiasi è più vasto della distanza tra cielo e terra. Per superarlo devi chiudere gli occhi e saltare. Una tradizione chassidica ci dice che nella Torah anche gli spazi bianchi sono donati da Dio".[1] Il dominio del mistero è il dominio del trascendente, del sacro, di tutto ciò che supera le categorie del pensiero speculativo. È il dominio del bene e del male, della luce e delle tenebre. È il dominio del significato, senza il quale nessuna anima può vivere. Scrivere, quindi, non è solo scandagliare le profondità insondabili dell'essere, ma anche ascendere all'"altrimenti che essere" e alterare il volto della creazione stessa; se la scrittura rientra nell'ambito del mistero, è perché rientra nell'ambito della creazione e del significato della creazione. Proprio come le parole hanno dato vita al cielo e alla terra, così le parole possono anche alterare l'essere del cielo e della terra, nel bene e nel male, cosa che gli autori degli Scritti hanno capito molto bene, come anche Elie Wiesel.
Un'altra cosa che Wiesel ha in comune con gli autori degli Scritti: come questi antichi, Wiesel si è rivolto alla Torah Scritta, modello della creazione stessa (Zohar I, 134a), per comprendere cosa sia la scrittura. Scrivere, assumere la parola, significa ritornare alla parola della Torah, la parola di verità, di insegnamento e di testimonianza: è così che si "sondano le profondità insondabili dell'essere". Nel suo approccio basato sulla Torah per sondare le profondità dell'essere, Wiesel esemplifica un insegnamento di Emmanuel Levinas: "Il significato dell'essere, il significato della creazione, è realizzare la Torah".[2] E la realizzazione della Torah comincia e ricomincia con un'estrema cura per la parola. In un senso molto profondo, quindi, sia per Wiesel che per gli autori degli Scritti, il significato della scrittura è realizzare la Torah.
Ritratto di Daniele
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Il ritratto di Daniele fatto da Wiesel è un bel punto di transizione dai Profeti agli Scritti. Perché, infatti, Daniele non è annoverato tra i profeti? Ci viene detto che era molto pio, attento a non "contaminarsi con le vivande del re" (Daniele 1:8) e che "aveva il dono di interpretare ogni specie di visioni e di sogni" (Daniele 1:17). Quindi, se Daniele "era così saggio, così pio", si chiede Wiesel, "se vedeva di più e meglio dei profeti, se guardava più lontano di loro e più in profondità, perché non poteva essere un profeta?"[3] Conosciuto non come Daniel HaNavi (Daniele il Profeta) ma come Daniel Ish-HaMudot (Daniele l'Amato) (Daniele 10:11). Da quello che sappiamo della vita dei profeti, si può facilmente immaginare che la maggior parte di loro avrebbe preferito essere annoverata tra gli amati di Dio piuttosto che tra i profeti di Dio.
Se la storia del profeta è in un certo senso la storia di un fallimento – il fallimento nel farsi ascoltare dal suo popolo – la storia di Daniele è una storia di successo, una ripetizione "della storia di Giuseppe in Egitto e di Mardocheo in Persia", scrive Wiesel. "Daniele supera la prova e si guadagna il rispetto come ebreo. È stimato, viene congratulato, si chiede il suo consiglio, così come il suo consenso"[4] — chiaramente non è la sorte dei profeti. Così Daniele l'Amato "prosperò durante il regno di Dario e il regno di Ciro il Persiano" (Daniele 6:29), il che porta Wiesel a chiedersi: "È questa la ragione per cui Daniele non è chiamato profeta? Perché piaceva troppo al re? Perché era troppo felice? Un profeta deve essere sempre triste, perseguitato e maledetto? Un Geremia felice non sarebbe stato Geremia?"[5] La profezia richiede davvero sofferenza?
Va notato che né Daniele né i suoi compagni Hananya (Shadrach), Mishael (Meshach) e Azarya (Abednego) furono risparmiati dalla persecuzione. Daniele fu gettato nella fossa dei leoni (Daniele 6:17), e Hananya, Mishael e Azarya furono consegnati alle fiamme della fornace (Daniele 3:19). Come i profeti, Daniele aveva sogni e visioni. A dire il vero, l'intero Libro di Daniele trabocca di sogni e visioni; quando Daniele non interpretava i sogni nei capitoli da 1 a 6, li faceva dal capitolo 7 in poi. Ed erano spettacolari. "Mistici nell'essenza", dice Wiesel, "si riferiscono a un grande epilogo, e mentre li leggiamo, e rileggiamo, proviamo speranza, grande speranza: sì, ogni sofferenza ha una fine, tutte le prove hanno un significato... Sì, Dio sarà – Dio è – dalla parte della vittima".[6] Subito ci chiediamo: se tutte le prove hanno un senso, il significato richiede la sofferenza attraverso le prove? Il Rebbe nel romanzo di Wiesel Les Portes de la forêt dice: "Un uomo messo alla prova... deve rendere tripli ringraziamenti all'Onnipotente: primo per avergli dato la forza di sopportare la prova, secondo per aver portato a termine la prova, terzo per la prova stessa".[7] Perché per la prova stessa? Perché, scrive Wiesel, "nel momento della prova l’uomo è più di se stesso, rappresenta più della propria persona".[8] Sì, un momento di prova è un momento in cui dobbiamo rispondere ai nostri simili: "Hineni! Eccomi per te!" quando rispondere è più difficile e più pericoloso.
Hananya, Mishael e Azarya sono un buon esempio. Era "la prima volta che gli ebrei venivano perseguitati a causa della loro fede", racconta Wiesel. "Il re disse: ‘Se il tuo Dio è Dio, lascia che sia Lui a salvarti’. Ed essi risposero: ‘Anche se non viene in nostro soccorso, rimane il nostro Dio’ (Daniele 3:18-19). Come non vedere tutto ciò come una prefigurazione delle innumerevoli prove che verranno?"[9] La fede ebraica in Dio non si basa su un sistema di baratto del tipo "se fai questo per me, allora farò quello per Te". Fede significa: "Farò questo per Te, anche se Tu non fai mai niente per me": la fede sta nell’anche se, come "anche se dovesse tardare, qualunque cosa accada, io aspetterò ogni giorno la sua venuta". Nel corso della storia ebraica – anzi, della storia umana – una caratteristica distintiva delle prove subite è stata l'apparente disperazione, insensatezza e inutilità della prova. Il significato che potrebbe derivare dalle prove e dalle tribolazioni non risiede in un esito felice. Ecco perché Hananya, Mishael e Azarya erano pronti ad offrirsi anche se Dio non fosse venuto in loro soccorso. No, il significato sta nel fatto che Dio è dalla parte della vittima durante tutta la dura prova.
Il fatto che Dio sia dalla parte della vittima, però, non significa necessariamente che venga in suo aiuto. Si tratta piuttosto dell'appello divino e assoluto proveniente dall'alto, attraverso la vittima, a venire in suo aiuto, anche se ciò significa opporsi a Dio. "Ah, sì, Daniele osa insorgere contro Dio quando si tratta di difendere gli ebrei tormentati. Ma non disse che la sofferenza era colpa del popolo ebraico? (Daniele 9:5). Tra la sofferenza e la logica, fa la sua scelta; tra vittime e giustizia, opta per le vittime: si comporta come tanti grandi Maestri del nostro popolo... Un commentario midrashico: C'erano due difensori di Israele davanti al Signore: Mosè e Daniele (Shemot Rabbah 43:1)".[10] Mentre Abramo supplicò Dio per il bene dei pochi giusti di Sodoma e Gomorra (Genesi 18:25), Mosè supplicò Dio per il bene dei giusti e dei peccatori allo stesso modo (Esodo 32:31-32). E parimenti fece Daniele (Daniele 9:16-19), esemplificando una caratteristica che, come vedremo, ricorda i maestri chassidici.
Le visioni iniziano nel capitolo 7. Daniele vede quattro animali uscire dal mare: un leone con ali d'aquila, un orso, un leopardo con quattro ali e un animale terribile e orribile con denti di ferro. Vede l’Atik Yomin (aram. עַתִּיק יֹומִין), l'Antico dei Giorni, seduto sul trono del giudizio divino, vestito di bianco, circondato da un fiume di fuoco, con migliaia di angeli che lo servono. Se, come dice Wiesel, Daniele "si affaccia verso l'universo e conferma ciò che è al di sopra, al di là dell'uomo",[11] la sua visione è una visione del già che costituisce l'eternità di Dio e il fondamento del significato, simile alle visioni di Ezechiele presso il Fiume Kvar, il Fiume del "Già". La chiave risiede nell’Atik Yomin, l'Antico dei Giorni. L'Antico dei Giorni è Colui la cui antichità significa l'eternità che è già, l’alef che già precede il beit dell'inizio, di ciò che abbiamo chiamato "l’immemorabile". Lo Zohar associa l’Atik Yomin a Keter, la più alta delle sefirot. È il ponte tra ciò che è oltre l'umanità e la dimora dell'umanità in questo reame. L'Antico dei Giorni è il Dio che costituisce il tempo della vita impartendo significato ai giorni della nostra vita prima che inizi il giorno, come ha suggerito Heschel:
Il Libro di Daniele tratta in gran parte della questione della teshuvah, o del movimento di ritorno. Anche qui l’Atik Yomin è significativo, come sottolinea Rabbi Adin Steinsaltz. Fare teshuvah, spiega, comporta un movimento verso il "tempo" prima della creazione; è un ritorno alla "casa dell'anima"[12] e alla singolarità della fonte. Così, anche Colui dal quale ci siamo allontanati desidera ritornare: in ogni istante ci grida: "Ritornate a me e io tornerò a voi!" (Malachia 3:7). Questo è lo scopo della teshuvah: porre fine all'esilio non solo di noi stessi ma anche del Santo. Ecco perché Daniele supplica Dio: "O Signore, ascolta; Signore, perdona; Signore, guarda e agisci senza indugio, per amore di Te stesso, mio Dio" (Daniele 9:19). Il mistero della teshuvah di Dio deve rimanere un mistero. Ecco perché l'Angelo Gabriele dice a Daniele di mantenere segreta la spiegazione delle visioni (Daniele 8:26).
Quando nel capitolo 10 del Libro di Daniele l'Angelo Michele proclama l'avvento di guerre nel futuro, considera Daniele Ish-HaMudot (Daniele 10:11), l'amato. Oppure è, si chiede Wiesel, "qualcuno che sa amare bene? Chi ama gli altri più di se stesso?"[13] Tale amore è essenziale per la teshuvah sia di Dio che dell'umanità. È questo amore, e non, per esempio, la facoltà della ragione che rende ciascuno di noi esseri umani. "Il Libro di Daniele", scrive, "ci insegna una lezione solenne ed essenziale: il mistero deve rimanere segreto affinché possa incidere sul destino dell'uomo. Rivelare il mistero nel momento sbagliato significa dissiparne la sostanza. È solo quando il segreto sarà integro, sigillato, che la conoscenza aumenterà. In altre parole, Daniele ci ripete ciò che gli aveva detto l'angelo: È vietato banalizzare certi argomenti; è pericoloso trattarli con leggerezza. Tutto ciò che Daniele è autorizzato a dirci è: ‘Sappiate che il segreto esiste’".[14] Il ritratto di Daniel fatto da Wiesel, dell’Ish-HaMudot, è il ritratto di un segreto: il segreto dell’Ish-HaMudot. Nelle parole di Moshe de Le Serment de Kolvillàg (Il giuramento di Kolvillàg) di Wiesel, il segreto custodito da questa parola è "un segreto che muore e rivive ogni volta che viene ricevuto, ogni volta che viene invocato. Solo il Messia può parlarne senza tradimento".[15] E forse anche solo un bambino, uno dei travestimenti preferiti del Messia, come mi disse una volta Wiesel.
Forse è per questo che Wiesel apre il suo ritratto di Daniele dicendo: "Questa storia, bella e inquietante, parla di bambini, bambini ebrei".[16] È la storia di bambini portati fuori dalla Città Santa e in esilio. Il testo ci dice che il re Nabucodonosor ordinò ad Aspenaz, il signore degli eunuchi reali, di prendere i bambini ebrei e di trasformarli in eunuchi (Daniele 1:3-5). Daniel, Hananya, Mishael e Azarya erano tra loro. Wiesel nota che, peggio che essere trasformati in eunuchi, furono portati a convertirsi alla religione dell'idolatria che regnava a Babilonia e quindi assimilati nella cultura babilonese. Ma Daniel, Hananya, Mishael e Azarya resistettero.[17] Wiesel ipotizza: "Mutilato nella carne, Daniele non era più qualificato per servire come profeta di Dio? Torturato dagli uomini, si aggrappa agli angeli. Sentendosi ridotto, si eleva alle vertiginose altezze dell'assoluto".[18] E a lui si aggrappano gli Angeli Gabriele e Michele, angeli che avevano avuto solo limitati contatti con i profeti: Daniele, il bambino mutilato, non solo ebbe sogni e visioni paragonabili a quelli di Isaia ed Ezechiele, ma godette anche dell'intima compagnia di Gabriele e Michele come anche degli angeli di Gevurah e Hesed, attraverso i quali le forze della Creazione – dell'Assoluto – si incanalano in questo reame. Tuttavia, dichiara di non comprendere le visioni (Daniele 8:27).
"Qui finisce il racconto", dice Daniele al termine della sua prima visione. "Quanto a me, Daniele, fui molto spaventato dai miei pensieri e il mio volto cambiò colore. Ma conservai tutto questo nel mio cuore" (Daniele 7:28). Se Daniele vegliava su un segreto, lui stesso diventava un segreto, e questa è la chiave di questo ritratto. "Povero Daniele", dice Wiesel, "il coraggioso Daniele: saggio e famoso, non si è vergognato di dire, più di una volta, che non capiva. Il suo ruolo era solo quello di messaggero. Ascoltare e ripetere; ascoltare e trasmettere; ascoltare ed essere presente".[19] Poi scompare misteriosamente. Non sappiamo da dove venne né dove andò. Se non fu il Messia sotto mentite spoglie, Daniele potrebbe essere stato il profeta Elia in incognito. Dopotutto, ricordiamo l'osservazione di Wiesel riguardo a Elia: "Uno straniero pronuncia una parola vera, compie un'azione vera: deve essere Elia. La prova migliore è che scompare non appena la sua opera è completata".[20] L'opera di Daniele fu completata? Oppure siamo noi chiamati a completarla? Anche la risposta a queste domande rimane un segreto da custodire nel cuore che, secondo l'insegnamento chassidico, è la dimora preferita di Dio.[21]
Ritratto di Rut
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Con il ritratto di Rut torniamo a un tempo precedente, al tempo della trisavola del re Davide, dalla cui stirpe emergerà il Messia. "Cosa dobbiamo a Ruth?" chiede Wiesel. E risponde: "Il re Davide e —la nostra speranza”.[22] Come nel caso di Daniele, qui ci troviamo di fronte alla questione della profezia, poiché il Midrash attribuisce a Rut la capacità di profetizzare: quando venne davanti a Boaz, "si prostrò con la faccia a terra e gli disse, ‘Perché sei così gentile da scegliermi [le-hakireni, letteralmente, conoscermi]?’ (Rut 2:10) – questo insegna che lei profetizzò di se stessa, che lui l'avrebbe conosciuta intimamente" (Ruth Rabbah 5:2). Altrove nel Midrash, è Boaz che fu dotato di poteri profetici, sapendo che Rut era destinata alla grandezza: "Poiché egli vide, all'insaputa di Rut, con lo spirito di ispirazione divina che il Messia, il re unto, veniva da lei, ma non le rivelò questo" (Ruth Rabbah 3:9). Secondo il Talmud, Boaz rivelò a Rut che da lei sarebbero destinati a emergere sei discendenti, ciascuno dei quali sarebbe stato benedetto: Davide, Daniele, Hananya, Mishael, Azarya e il Messia (Sanhedrin 93b). Ancora una volta vediamo le connessioni e il passaggio dal ritratto di Daniele fatto da Wiesel al suo ritratto di Rut. Secondo un motivo presente in tutti i ritratti di Wiesel, ciò che venne rivelato a Rut e Boaz rimase nascosto a ciascuno di loro.
Mentre Daniel era chiamato Ish-HaMudot, Wiesel nota che Rut era conosciuta come "Ruth ha-Moavia, Rut la moabita: il suo nome evoca un passato pieno di dubbi e dolore, e un futuro permeato da una luce irresistibile che penetra l'esilio, il luce messianica che metterà fine alla sofferenza e all'ingiustizia".[23] Questa luce irresistibile che penetra l'esilio è ciò che rende il ritratto di Ruth ha-Moavia così straordinario. Nella tradizione biblica ci sono poche nazioni ignobili come i Moabiti, conosciuti com'erano per il loro culto idolatrico di Chemosh, un dio che prosperava grazie ai sacrifici umani. Erano discendenti dell'empia unione tra Lot e sua figlia maggiore (Genesi 19:37). Agli Israeliti infatti era proibito frequentarli. Il che ci dice, secondo Wiesel, che "la storia non è mai finita. Il bene può emergere dal male. Il trionfo del male deve essere temporaneo. Il pentimento è concesso anche agli assassini".[24] Dire che la storia non è mai finita è dire che Dio non finisce mai di trarre il bene dal male, la luce dalle tenebre. Da questo punto di vista, la storia è, infatti, la storia della trasformazione delle tenebre in luce. Qui risiede la sua dimensione messianica. Qui sta il senso di Rut: dentro il Messia stesso scorre sangue moabita, così che il Messia viene a riscattare la sua stessa origine e con essa l'intera umanità.
Il Midrash racconta che Rut e sua sorella Orpah – che il Talmud identifica come la trisnonna di Golia, colui che sarebbe stato ucciso dal pronipote di Rut, Davide (Sotah 42b) – erano le figlie del re Eglon di Moab, figlio del re moabita Balak (Ruth Rabbah 2:9). Si ricorderà che Balak era il re che aveva convocato il profeta pagano Balaam per maledire gli Israeliti (Numeri 22:1-5). Secondo una tradizione, "Rut" non era il suo nome moabita originale; piuttosto suo marito Hilion, figlio di Naomi, le diede il nome ebraico Rut (Zohar Hadash 79a), un nome, dice il Midrash, che sottolinea la sua lealtà a Naomi "perché vide [ra’atah o ‘ascoltò’] le parole di sua suocera" (Ruth Rabbah 2:9). Nel Talmud, Rabbi Yohanan dice che fu chiamata Rut "perché meritò di partorire Davide, che saturò [she-rivahu] Dio con canti e lodi" (Berakhot 7b). Si noti che, secondo queste due interpretazioni, il nome di Rut deriva dalla santità della relazione da umano-a-umano, ben adam lehevero, e dalla santità della relazione da umano-a-superiore, ben adam leMakom. Senza la dimensione dell'altezza rappresentata da quest'ultima relazione, non vi è nulla di sacro nel rapporto con la prima.
Quando una persona si converte all'ebraismo assume un nuovo nome, un nome ebraico, e con un nuovo nome arriva una nuova anima. Rut è la più famosa di tutte le convertite, una delle uniche due conversioni i cui nomi compaiono nei titoli dei libri della Bibbia; l'altro è il profeta Abdia, che, secondo il Talmud, era un convertito edomita (Sanhedrin 39b). Wiesel ci ricorda che il Rotolo di Rut viene letto a Shavuot, il giorno in cui la Torah fu rivelata sul Monte Sinai. Perché? Perché "come Rut, i nostri antenati divennero ebrei, cioè si convertirono alla fede ebraica, quando ricevettero la legge".[25] Il Talmud insegna che tutte le anime ebraiche erano riunite sul Monte Sinai, vive, morte e ancora da nascere, comprese le anime dei convertiti (Shavuot 39a) — inclusa Rut. La storia di Rut non è solo la storia della devozione di una giovane vedova verso la suocera vedova; è anche la storia di un matrimonio. Rut, quindi, è intimamente associata alle due tavole date a Mosè, che, secondo il Midrash, simboleggiano una sposa e uno sposo (Shemot Rabbah 41:6; Tanhuma Ki Tisa 16): un punto da tenere presente quando si considera la rappresentazione del suo fidanzamento con Boaz scritta da Wiesel.
Nel suo commentario al capitolo 20 dell'Esodo, Rashi ci dice che al Monte Sinai la Shekhinah "andò loro incontro, come uno sposo che va incontro alla sua sposa"; secondo le parole del mistico Rabbi Moses Cordovero del XVI secolo: "Il popolo di Israele è lo sposo del Santo".[26] I mistici insegnano anche che "il giorno delle Sue nozze" nel Cantico dei Cantici (3:11) si riferisce al giorno in cui Dio diede la Torah a Israele sul Monte Sinai.[27] In linea con questa tradizione, ci dichiariamo, secondo le parole del profeta, "promessi sposi" a Dio (Osea 2:21-22: "Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore") ogni mattina del fine settimana, mentre avvolgiamo i tefillin, o filatteri, attorno al nostro dito. Dal giorno in cui Israele fu radunato sul Monte Sinai, dice lo Zohar, Dio iniziò a creare nuovi mondi attraverso la creazione di matrimoni (Zohar I, 89a), e nessun matrimonio fu più importante per la creazione del matrimonio di Rut e Boaz.
Commentando questa storia d'amore, Wiesel scrive: "Contiene sensualità, ma nessun elemento trascendente. È una storia sulle relazioni umane, non su Dio e le Sue opere. Perché allora è sacro?"[28] Come chassid, anzi come ebreo, sa molto bene perché è sacro: da una prospettiva chassidica, non c'è niente di più sacro del rapporto umano e nessun rapporto umano è più sacro del matrimonio. Perché? Perché il matrimonio è la relazione umana che ci connette più intimamente a Dio. Dalle profondità dello spazio carnale delle relazioni coniugali umane, il Santo entra nel mondo affinché non vi sia relazione umana più santa del matrimonio. Ecco perché è chiamato kiddushin o "santità". La redenzione dell'umanità viene non solo dall'unione tra Dio e l'umanità ma anche dall'unione tra marito e moglie, tra Boaz e Rut.
Il ritratto di Rut fatto da Wiesel dimostra la profonda connessione tra il modo in cui comprendiamo il matrimonio e il modo in cui comprendiamo il significato e il valore dell'altro essere umano. Rut non è solo una donna che contrae matrimonio con Boaz. Soprattutto, è una straniera, una ger. Infatti – e questo è cruciale per il ritratto di Rut – senza un matrimonio con lo straniero, il Messia non può trovare la strada per entrare in questo regno. Ascoltiamo Wiesel:
Ger è più vicino agli ebrei di un ebreo che si sia separato dal suo popolo. Il ritratto di Rut fatto da Wiesel è il ritratto di una ger, di una straniera che desidera dimorare tra gli ebrei, senza la quale non può esserci Messia.
Un'altra caratteristica distintiva di questo ritratto è la fame. In effetti, il ritratto di Rut fatto da Wiesel è un ritratto della fame: "La narrazione, dall'inizio alla fine, è immersa in una sofferenza insondabile. Fin dalla prima frase ci troviamo di fronte alla carestia e alla sfortuna... Ci rendiamo conto che anche la fame è un personaggio del dramma... La fame significa umiliazione. Una persona affamata prova un travolgente sentimento di vergogna. Il padre che non può nutrire i propri figli. Il figlio che è testimone dell'impotenza del padre. Tutti i desideri, le aspirazioni e i sogni perdono le loro nobili qualità e si riferiscono esclusivamente al cibo. Da qui la sensazione di degrado. La vergogna in ebraico è legata a una sola malattia: la fame. Kherpat-raav: la vergogna della fame".[29] Sì, anche la fame è un personaggio di questo racconto: è presente come un vuoto radicale che divora dall'interno chi lo ospita. Appartiene alla nostra umanità e alla perdita della nostra umanità. La fame appartiene anche al Santo, che ha fame nella fame dell'afflitto, che nel grido del mendicante ci grida: "Ho fame!". Come il Santo, la fame è onnipresente e determinante nella relazione da uomo a uomo che definisce chi siamo: chi siamo come esseri umani risiede nella nostra capacità di rispondere alla fame dell'altro essere umano.
Tra coloro che sono ritenuti più vicini a Dio non ci sono solo gli stranieri ma anche le vedove. Rut è entrambe le cose. Da qui il grido angosciato di Wiesel: "Perché tanta tristezza in una casa? Perché la morte ha colpito solo gli uomini? Perché le donne sono state risparmiate?"[30] Nel ritratto di Rut incontriamo tre vedove: Noemi, che aveva perso il marito Elimelec; Orpah, che aveva perso il marito Mahlon, figlio di Naomi; e Rut, che aveva perso il marito Hilion, figlio di Naomi. Vedova dopo vedova dopo vedova. Delle tre, Naomi è di gran lunga quella più profondamente addolorata: non solo ha perso il marito, ma ha perso anche i suoi figli.[31] E così Naomi si lamenta piangendo: "Dio mi ha addolorato, mi ha ferito, mi ha punito" (cfr. Rut 1:20). Sì, dice Wiesel: "Dio, non gli uomini. Lo sta rimproverando? Si sta rimproverando?" Un momento... Rimproverarsi? Per cosa?[32] È lei la sopravvissuta che, come tanti, si sente in colpa per essere sopravvissuta?
Le domande di Wiesel riportano alla mente un insegnamento del maestro chassidico Levi Yitzchok di Berditchev sull'invito dello Shema ad amare Dio bekol-meodekha. La parola appare nella frase "Amerai HaShem tuo Dio con tutto il tuo cuore, tutta la tua anima e tutta le tue forze [bekol-meodekha]" (Deuteronomio 6:5). Come mi fece notare una volta Wiesel, meod significa in realtà "di più", così che Dio mi comanda di amare "con tutto il tuo ‘di più’": questo è amare di un amore inesauribile. Il di più con cui amo è un di più messianico. Rabbi Levi Yitzchok, tuttavia, ci ricorda cosa potrebbe significare questo "di più": "La parola meod è intesa come un'alternativa alla parola midah, cioè dobbiamo accettare con amore ogni attributo di Dio con cui Egli ritiene opportuno relazionarsi a noi" (Kedushat Levi, Vayeshev 3), cioè anche quando "Dio mi ha addolorato, ferito, punito". Ma... anche quando Dio si è preso i miei figli? Anche quando migliaia di persone soffrono la fame? A volte amare Go con tutto il "di più" significa amare Dio con una sorta di rabbia o indignazione, con il barukh che è "una certa rabbia benedetta dall'alto e dal basso”, come ha detto Wiesel.[33] Significa amare Dio contro la nostra volontà.
Dopotutto, Dio è conosciuto come il Dayan Almanot, il "giudice" che veglia sulle "vedove" (come in Salmi 68:6). La frase implica che, nella misura in cui il marito è un protettore, Dio agisce come un marito nei confronti di chi è privato di un marito. Come Dio protegge Naomi? Fornendole la compagnia della vedova di suo figlio. Rut la convertita è Rut la consolatrice, come se lei, Rut la vedova, avesse assunto il ruolo di Dayan Almanot. Secondo la tradizione aggadica, infatti, Rut rimase vedova due volte; poiché Boaz, si dice, morì il giorno delle sue nozze, mentre Rut visse per contemplare la gloria di Salomone (Ginzberg, Legends of the Jews, 4:2:34).[34] Sempre in tema di lutto, i saggi del Talmud spiegano che la folla di persone che salutarono Rut e Naomi al loro ritorno a Betlemme, erano riunite per il funerale della prima moglie di Boaz: era morta quello stesso giorno. Come se ciò non bastasse, aggiunge il Talmud, Boaz era vissuto abbastanza da vedere morire trenta figli e trenta figlie, tutti tranne Oved, nato da Rut e padre di Jesse, padre di David (Bava Batra 91a). E Boaz morì prima di poter vedere Oved, il figlio nato da un miracolo, poiché, secondo il Midrash, Rut era nata senza grembo; ma "Dio le plasmò un grembo" (Ruth Rabbah 7:14). La morte di Boaz, però, avvicina ancora di più Naomi e Rut: ancora una volta entrambe sono vedove, ma ora hanno un figlio da crescere insieme — un figlio il cui seme porterà alla redenzione dell'umanità.
Per quanto riguarda gli uomini che resero vedove le loro mogli – Elimelekh, Mahlon, Hilion e Boaz – il Talmud li assolve dalle loro colpe (Bava Batra 91a; Ketuvot 7b). Perché? Perché la loro morte era un anello necessario di una catena che alla fine avrebbe portato al Messia. "E così scopriamo", dice Wiesel, "un nuovo elemento – forse il più importante di tutti – in questo meraviglioso racconto: quello della coincidenza. O è disegno divino?"[35] Il ritratto di Rut fatto da Wiesel intreccia fili di fede, lealtà e devozione con fili di lutto, fame e sofferenza per presentarci ciò che è necessario per portare la redenzione dell'umanità che il popolo ebraico è scelto a portare. Questa consapevolezza conferisce ancora maggiore profondità all’affermazione di Rut a Noemi: "Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch'io e vi sarò sepolta" (Rut 1:16-17). Dove morirai tu, morirò anch'io e vi sarò sepolta. Rut assegna così al popolo ebraico non solo la sua vita, ma anche la sua morte. Morire dove muore il popolo ebraico è morire per il bene del popolo ebraico — e per il bene di tutta l'umanità, proprio come lei ha dato alla luce Oved per il bene di tutta l'umanità. Il ritratto di Rut? È il ritratto di come un semplice atto di amore e devozione possa trasformare il destino dell'umanità.
Ritratto di Ester
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Megillat Esther (מְגִלַּת אֶסְתֵּר), il Rotolo di Ester, è letteralmente "la rivelazione del nascosto", la rivelazione del nascosto proprio in quanto nascosto. Questa è la caratteristica più significativa del ritratto di Ester fatto da Wiesel: è un ritratto del nascondimento, un ritratto dell'invisibile o di Colui Che È Invisibile. Emmanuel Levinas potrebbe esserci di aiuto: "La manifestazione dell'invisibile", ha detto, "non può significare il passaggio dell'invisibile allo status di visibile",[36] perché qui l'invisibile non è nascosto alla vista ma piuttosto trascende le categorie della visione. Sfugge alla luce perché è la fonte della luce: è Colui che pronuncia: "Sia la luce". Ciò che è nascosto nel ritratto di Ester, dunque, è per sempre inviolabile nel suo nascondimento. Dio stesso rimane invisibile qui, perché questo è l'unico libro della Bibbia in cui non si fa menzione di Dio. Come è riuscito, allora, a trovare posto nella Bibbia? Secondo una tradizione, è incluso come ricordo eterno del mandato di "cancellare interamente la memoria di Amalek sotto il cielo" (Esodo 17:14), poiché, secondo il Talmud, Haman era un discendente del re degli Amaleciti (Megillah 30a).
Il Talmud segnala anche un'allusione nascosta a Ester nella Torah, dove è scritto "Certamente nasconderò [haster astir] il mio volto" (Deuteronomio 31:18). Il Dio invisibile è invisibile non perché non possa essere "visto", ma perché Egli trascende le categorie tematiche del reame ontologico per conferire significato al reame ontologico. "L'invisibilità", spiega Levinas, "non denota un'assenza di relazione; implica rapporti con ciò che non è dato, di cui non si ha idea. La visione è un'adeguamento dell'idea alla cosa, una comprensione che abbraccia".[37] Il Dio invisibile è ciò che comprende, non ciò che è racchiuso. Solo Colui che trascende invisibilmente la creazione, può dare senso alla creazione: il ritratto di Ester è il ritratto dell'Altissimo, che supera il nostro campo visivo.
Osservando più da vicino le pennellate di Wiesel, sembra che Ester debba cercare giustizia perché in qualche modo Dio non lo farà: fedele alla sua inclinazione chassidica a cercare ostinatamente Dio, Wiesel vede il nascondimento o l'invisibilità di Dio come un’assenza. "Quale potrebbe essere la ragione del Suo ritiro?" chiede. "Da nessuna parte nell'intero Libro viene menzionato nessuno dei Suoi nomi sacri e ineffabili. La storia non parla di miracoli? Potrebbero verificarsi miracoli senza di Lui? Non è Lui il fulcro del racconto? Perché Lui uscisse dalla storia e diventasse spettatore, ci doveva essere un motivo".[38] Se Dio è assente nel Libro di Ester, non è assente nel Midrash, come sottolinea Wiesel.[39] Prima di andare dal re Assuero, Ester pregò:
Qui faremo bene a ricordare le parole di uno zaddiq: "Gli uomini credono di pregare davanti a Dio, ma non è così, perché la preghiera stessa è divinità".[40] In risposta alla sua preghiera, dice il Talmud, lo spirito santo dell'ispirazione divina discese su di lei tanto da essere annoverata tra le sette donne dotate del dono della profezia (Megillah 14a).[41] Dio non si è tirato indietro; né è uno spettatore. È nascosto nella preghiera nascosta di colui il cui nome significa "nascosto".
Naturalmente, Ester è conosciuta con altri nomi, il più famoso dei quali è il nome Hadassah (Ester 2:7), che significa "mirto" (hadas), poiché i giusti sono chiamati "mirti", come sta scritto nel Talmud (Sanhedrin 93a). "Ben Azzai disse: ‘Ester non era né troppo alta né troppo bassa, ma di taglia media, come un mirto’. Rabbi Joshua ben Korha disse: ‘Ester era giallastra, ma dotata di grande fascino’" (Megillah 13a). Il Midrash elabora ulteriormente, dicendo che proprio come il mirto ha un profumo dolce ma un sapore amaro, così Ester era dolce verso Assuero ma amara verso Haman (Esther Rabbah 6:5). Infatti, Wiesel nota che quando Ester accusò Haman di aver tentato di sedurla, affinché il re lo uccidesse, ella mentì.[42] Il dolce profumo del mirto è anche paragonato alle mitzvot celebrate dai giusti. Il Midrash loda Ester per aver eseguito il comandamento di prendere la hallah dall'impasto durante la cottura del pane, per aver seguito le leggi relative al ciclo mestruale di una donna e per aver acceso le candele dello Shabbat, anche quando era nel palazzo di Assuero (Midrash Tehillim 1:22:16). Così Ester illuminò Israele "come la luce dell'alba" (Midrash Tehillim 1:22:5). Se, come dice il Talmud, lei, insieme a Sarah, Rahab e Abigail, è una delle quattro donne dotate di insuperabile bellezza (Megillah 15a), è perché emanava questa luce trascendente. In quella luce è nascosto Colui che in principio chiamò la luce.
Mentre i saggi del Talmud esaltano la regina Ester per la sua devozione ai comandamenti della Torah, la esaltano anche per il suo amore per il popolo di Israele. Quando Ester chiese a Mardocheo di proclamare un digiuno prima della sua intercessione presso il re, per scongiurare il piano malvagio di Haman, sottolinea Wiesel, Mardocheo disse che non poteva farlo perché erano nel periodo di Pesach. Allora lei gli chiese: "Ma cosa accadrebbe alla Pesach se non ci fossero più ebrei a osservarla?" Mardocheo convenne che aveva ragione (Megillah 15a).[43] Qui scopriamo che l'amore di Ester per la Torah e per il popolo di Israele era un amore intriso di pikuah nefesh, il principio rabbinico secondo cui salvare una vita ha la precedenza sull'osservanza delle leggi. Si basa sulla lettura dell'affermazione della Torah secondo cui la persona che obbedisce ai comandamenti della Torah vivrà secondo essi (Levitico 18:5) e secondo essi non morirà: la massima priorità delle leggi della Torah è preservare la vita umana (Yoma 85b). Potrebbe questa deviazione dalla stretta osservanza della lettera della legge essere la ragione per l'affermazione dello Zohar secondo cui non era Ester a vivere con il re Assuero ma un demone che le somigliava (Zohar III, 267a)? O forse perché, in quanto consorte del re, avrebbe certamente giaciuto con il re pagano? Ma anche quello sarebbe stato per il bene di pikuah nefesh — per salvare il popolo ebraico dai disegni sterminazionisti di Haman.
Haman non era un bigotto o un razzista. Non aveva ceduto alla xenofobia né aveva sofferto di una qualche invidia economica nei confronti degli ebrei. È uno degli antisemiti originali. Egli cerca di annientare non solo il popolo ebraico ma anche l'insegnamento e la testimonianza che il popolo ebraico rappresenta con la sua stessa presenza nel mondo. È un insegnamento che mina il progetto totalitario dell'antisemita di diventare come Dio. Pertanto, come i nazisti, secondo Wiesel, "Haman si era preso la briga di imparare le leggi ebraiche... La sua opinione sugli ebrei era, in un certo senso, piuttosto lusinghiera. Ci attribuiva un potere internazionale di infinita grandezza ed era convinto che fossimo pienamente impegnati ad aiutare gli uni gli altri e il popolo ebraico, sempre. Se solo avesse avuto ragione!"[44] Il Talmud racconta che Haman disse al re come gli ebrei trascurassero i propri precetti. "Le loro leggi", asserì Haman, "sono diverse da quelle di ogni altro popolo: non mangiano il nostro cibo, né sposano le nostre donne, né ci danno le loro in matrimonio; né osservano le leggi del re" (Megillah 13b). Se non fosse stato completamente esperto negli insegnamenti e nelle tradizioni della Torah, come lo furono i nazisti, come avrebbe fatto a sapere tutto ciò?
Come Haman, i nazisti capirono che, poiché il Dio di Abramo è onnipresente, anche l'assalto al Dio di Abramo doveva essere onnipresente. L'insegnamento e la testimonianza ebraica erano gli obiettivi designati di un progetto di sterminio totale, poiché la tradizione ebraica è essa stessa una manifestazione del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Al tempo del re Assuero la devozione degli ebrei alla Torah provocò l'ira di Haman. Wiesel cita a questo proposito un Midrash:
Dov'era, si chiede Wiesel, l'Angelo Michele al tempo della Shoah? "Più tardi", afferma, "ho provato risentimento per il Libro: tutto in esso sembrava troppo artificiale, troppo edificante... Ai miei tempi gli ebrei di Susa non furono risparmiati".[45] Né la punizione fu così severa: quasi tutti gli oltre 150.000 criminali di guerra nazisti menzionati evitarono la punizione, mentre a Susa "i Giudei dunque colpirono tutti i nemici, passandoli a fil di spada, uccidendoli e sterminandoli; fecero dei nemici quello che vollero" (Ester 9:5) — cinquecento uomini e i dieci figli di Amàn (Ester 9:12). "Questo deve spiegare perché Dio scelse di non dare il Suo nome al Libro di Ester", suggerisce Wiesel. "Si rifiutò di essere associato all'epilogo, allo spargimento di sangue. Fu il suo modo di dire: Non attribuitemi questo".[46] Si dirà lo stesso del sangue della Shoah?
Ritratto di Giobbe
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Se Dio è assente nel Libro di Ester, nel Libro di Giobbe è fin troppo presente, a volte presente come assenza. E questo è il problema. Da notare un approfondimento nel ritratto fatto da Wiesel:
Un significato: questo è ciò che Giobbe cercava: non conforto, pace o felicità, ma un senso di significato. Altrove Wiesel lo esprime dicendo: "Lo scopo ultimo dell'umanità non risiede né nella felicità né nella sofferenza, ma nella ricerca della verità. L'essere umano nasce per cercare la verità e per viverla".[47] La ricerca della verità e quella del senso sono la stessa cosa. Questo è ciò che rende Giobbe una sorta di "uomo qualunque": l'anima umana ha fame di significato come il corpo umano ha fame di pane. Nel ritratto di Giobbe vediamo quella fame disperata, quella disperazione affamata. Nel caso di Giobbe, come in altri casi, la distruzione del significato non sta nella sofferenza ma nella sofferenza inutile, nella sofferenza senza nulla per cui soffrire — sofferenza che è meramente sofferenza. È semplicemente lì, neutrale e indifferente, in un reame dove nessuno ti sente urlare e tu non senti l'urlo di nessuno.
Ciò che è peggio, nel caso di Giobbe: ci sono momenti in cui Dio, proprio Colui che è necessario al significato, sembra minarlo. Wiesel ci mette saggiamente in guardia su questo punto: "Bisogna avvicinarsi a Giobbe come ad un amico, e come tale non abbiamo il diritto di sviluppare teorie sistematiche: non è né il momento né il luogo...: Giobbe è vittima di Dio, non di Satana!"[48] Perché come amico? Perché il suo problema, afferma Wiesel, riguarda "l’assurdità. I suoi amici non capiscono e lui ha un patetico bisogno di essere capito".[49] La difficoltà – anzi, l’orrore – non è che ci sia così tanto male nel mondo ma che non esiste il male. Né c'è del bene: non c’è nessun Perché, nessun aspetto nascosto. Non c’è altro che ciò che è semplicemente lì, neutrale e indifferente. Questa è la situazione in cui si trova Giobbe. Wiesel chiarisce: "Non si tratta di vedere Dio ma di essere visti da Lui. Se Giobbe si lamenta che Dio gli nasconde il Suo volto, non è perché non possa ‘vedere Dio’, ma perché smette di essere visto da Lui!"[50] Giobbe è abbandonato all'orrore di non essere né visto né udito.
Giobbe è consegnato al "c'è", all'indifferente neutralità dell'essere che, come lo descrive Levinas, "non ha uscite".[51] Qui sta l'angoscia e il grido di Giobbe: non c’è uscita. Rimasti soltanto con il vuoto materiale di tutto ciò che esiste, rimaniamo senza significato — senza un Perché. Dove non c'è Perché, non c'è Chi; dove non c'è Chi, non c'è Perché. In parole povere, non esiste né Dio né umanità; Dio è ridotto a un fantasma e gli esseri umani sono ridotti ad animali — o meno. Senza questo legame tra il Chi e il Perché, non c'è niente da sentire se non il silenzio infinito e terrificante che infesta il suono e la furia, senza significare nulla. Giobbe cerca il Perché per incontrare il Chi, il Santo, la fonte di ogni Perché. Anche se non riesce a capire il Perché.
Per Giobbe non è possibile "farla finita". Ciò spiega l'ubiquità di Giobbe e la qualità di uomo qualunque in lui. Giobbe, dice Wiesel, è "uno specchio mille volte infranto che riflette l'immagine di una solitudine piena di follia. In lui si fondono leggenda e verità; in lui si incontrano il silenzio e la parola... Ogni volta che proviamo a raccontare la nostra storia, trasmettiamo la sua".[52] Perché? Perché la solitudine piena di follia non appartiene solo a Giobbe: "Giobbe è solo con Dio, contro Dio, e aggiungerei: solo come Dio, perché la solitudine umana è un riflesso della solitudine Divina".[53] Chi di noi non ha sentito il grido di Giobbe agitarsi nel profondo della propria anima, nel grido del "Perché!?"? Chi di noi non si è svegliato nel cuore della notte per sentir crollare bastioni? Secondo una tradizione, la parola ebraica per "volto", panim, è plurale perché ognuno di noi ha due volti: il nostro volto unico e il volto di Adamo. Forse ne abbiamo tre: il nostro, quello di Adamo e quello di Giobbe.
Questo è Giobbe, l'uomo qualunque. "Strano", dice Wiesel, "colui che non conosceva altra terra che la sua – quella della leggenda – sembra averle vissute tutte; colui che forse non è mai nato, sembra aver raggiunto l'immortalità".[54] A dire il vero, il saggio talmudico Rabbi Samuel ben Nahman dice che Giobbe non visse mai (Bava Batra 15a). "C'era chi sosteneva che Giobbe fosse esistito" sottolinea Wiesel, "ma che le sue sofferenze fossero pura invenzione letteraria. Poi c'erano quelli che dichiaravano che, anche se Giobbe non era mai esistito, innegabilmente soffrì".[55] Cosa significa? Cosa c'entra con il ritratto di Giobbe? Il ritratto di Giobbe non è precisamente il ritratto di una sofferenza inutile o dell'insensatezza che accompagna la sofferenza inutile. No, è un ritratto della protesta che, a volte, potrebbe ridare significato. Ci sono momenti in cui siamo impotenti nel riparare il mondo, ma, come gridò Giobbe, non siamo impotenti nel gridare, qualunque sia l'esito del grido. Come ogni parola, ogni grido trasforma la creazione. Questo è ciò che ci insegna Wiesel nel suo ritratto di Giobbe.
D'altronde Giobbe non è esattamente come tutti. Wiesel osserva, ad esempio, che "ogni giorno invochiamo il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e Giobbe!"[56] Nota anche un Midrash che annovera Giobbe tra i saggi consiglieri del Faraone al tempo dell'Esodo. Secondo il racconto, quando Satana, l’"Accusatore", vide gli Israeliti uscire dall'Egitto, si rivolse a Dio e li accusò di ogni trasgressione, insistendo sul fatto che non meritavano la loro liberazione. Fu allora che Dio disse: "Hai notato il mio servo Giobbe?" (Giobbe 1:8). Pertanto, Dio distolse l'attenzione di Satana dagli Israeliti e la rivolse su Giobbe (Shemot Rabbah 12:2; 31:7; cfr. anche Talmud Bavli, Sotah 11a),[57] come una sorta di offerta sacrificale — ma a chi? Wiesel ci ricorda anche che, secondo una tradizione, Giobbe "si riteneva che avesse cercato di salvare l'umanità mediante la sua sofferenza. Giobbe: un Messia diverso, che opera per la redenzione delle genti".[58] Tuttavia, ci ricorda Wiesel, "la differenza tra Giobbe e Abramo è che Giobbe parla con rabbia, mentre Abramo parla con compassione. Inoltre, come spiegato nella tradizione chassidica, Abramo parla per il bene degli altri, mentre Giobbe registra le sue lamentele solo per se stesso".[59] Quindi, in un certo senso, Giobbe non è come tutti gli altri.
Wiesel nota che "nel Midrash Giobbe è paragonato al popolo ebraico. Anche Israele è solo; i suoi migliori amici sono pronti a commiserare le sue disgrazie ma non faranno nulla per aiutarlo. Anche Israele è stato accusato di agire contro Dio, costringendoLo a ricorrere alla punizione, ma di chi? Anche Israele è perseguitato da uomini che, dopo aver inflitto dolore, denunciano il popolo di Israele per aver tentato di sopportare la sofferenza in modo orgoglioso e dignitoso. Se dall’inizio Giobbe non era ebreo, poi divenne ebreo".[60] Infatti, Wiesel ci dice che la gematria di Giobbe e di mio fratello (achi) è 19: "Giobbe è nostro fratello".[61] La condizione di totale abbandono di Giobbe è la condizione ebraica? E questo totale abbandono è caratteristico di ciò che significa essere un essere umano? "Su un piano profondamente umano", scrive Wiesel, "la sua rivolta [di Giobbe] era in definitiva contro la sua stessa solitudine, che sapeva essere irriducibile, poiché nascondeva il volto di Dio sotto quello dell'uomo".[62] Solo nel faccia-a-faccia della relazione da umano-a-umano si apre l'esigenza del santo, senza la quale siamo consegnati all'isolamento solipsistico con l'io.
Wiesel ha una profonda simpatia per il lamento di Giobbe, quando urla: "Se ben si pesasse il mio cruccio e sulla stessa bilancia si ponesse la mia sventura... certo sarebbe più pesante della sabbia del mare! Per questo temerarie sono state le mie parole, perché le saette dell'Onnipotente mi stanno infitte, sì che il mio spirito ne beve il veleno e terrori immani mi si schierano contro!" (Giobbe 6:2-4). Qui, dice Wiesel, "io sto con Giobbe perché lo amo, e sono con lui perché è contro Dio".[63] Ma quando arriva all'ultimo versetto, "Giobbe morì vecchio e sazio di giorni" (Giobbe 42:17), anche Wiesel ha esaurito la pazienza:
Questa fine apparentemente soddisfatta arriva all'uomo che gridò: " I miei giorni sono stati più veloci d'una spola, sono finiti senza speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene. Non mi scorgerà più l'occhio di chi mi vede: i tuoi occhi saranno su di me e io più non sarò" (Giobbe 7:6-8). Sicuramente c'era verità nel suo grido, proprio come c'è verità nel silenzio, come suggerisce Wiesel quando dice: "Dio è sempre in ascolto nel silenzio",[64] il che implicherebbe che Dio non è assente, anche quando sembra essere assente. No, Egli sta ascoltando, in silenzio.
Anche in un momento in cui sembra che Giobbe abbia capitolato, dicendo: "Mi uccida pure, non me ne dolgo; voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta!" (Giobbe 13:15), Wiesel interpreta questo grido come un momento di ribellione e di sfida:
Certamente, da un punto di vista chassidico la risposta è sì: lì risiede l'eredità chassidica legata al ritratto di Giobbe. Nella sua conversazione con Josy Eisenberg sul Libro di Giobbe, Wiesel ricorda il tempo nel campo in cui in qualche modo i detenuti ottennero un paio di tefillin. Senza perdere tempo, si misero in fila per indossare i tefillin e recitare la benedizione, ma con una differenza: "Ogni volta, quando arrivava il momento di recitare la preghiera, essa prendeva la forma di una protesta, e dicevamo a Dio: ‘Sei Tu che meriti la nostra preghiera? No, non meriti la nostra preghiera!’ E poi abbiamo detto le nostre preghiere".[65] Anche qui troviamo un'espressione del lascito chassidico di Wiesel.
Non fu forse Dio stesso a dichiarare a Elifaz, Bildad e Zofar: "Poiché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe" (Giobbe 42:8)? L'abdicazione definitiva di Giobbe – se, effettivamente, abdicò – fa sembrare che i suoi tre "consolatori" abbiano parlato giustamente. Dio suggerisce che Giobbe abbia parlato giustamente nel suo momento di ribellione e sfida? Oppure è nel suo momento della capitolazione e dell'abdicazione? Wiesel spiega:
Altrove Wiesel grida: "Io non sono Giobbe! Sollevare Giobbe e poi abbatterlo è del tutto conforme allo spirito ebraico. Da noi, i grandi uomini, i nostri antenati, i nostri saggi, i nostri maestri sono del tutto umani, non sovrumani!"[66] In un certo senso, questa ambiguità da parte di Dio e dell'umanità ha un valore suo proprio. Appartiene al lavoro e all'attesa dell'ora della redenzione. "Anche Dio è in attesa", dice Wiesel. "Dio è l'attesa. Aspetta, con l'uomo, la liberazione. Proprio come l'uomo, Egli attende il Messia".[67] Anche Dio, quindi, dichiara con sfida a Giobbe: "So che il mio Redentore vive" (Giobbe 19:25)?
Sebbene Wiesel parli della vittoria di Dio, mi sembra che la vittoria di Dio avrebbe dovuto consistere nella Sua sconfitta. Se Egli ha goduto di un momento di vittoria, non è stato forse nella ribellione di Giobbe, piuttosto che nella sua abdicazione? Ho suggerito che il ritratto di Giobbe fatto da Wiesel sia un ritratto di lamento, assenza e sofferenza inutile. Si tratta, quindi, di un ritratto della vittoria di Dio o della sconfitta di Dio? Dice Wiesel: "Giobbe è con Dio e contro Dio allo stesso tempo, ma sempre con Dio".[68] Qui sta la tensione che ci sostiene e ci libera da ogni soluzione finale. E la chiave della tensione, come suggerisce Wiesel, sta in quella che la tradizione chiama la "luce nascosta", che abbiamo già visto nel Ritratto di Ester.
La luce nascosta, insegna Wiesel, è "la più bella, la più pura, la più radiosa. Grazie ad essa la creazione esiste. Grazie ad essa abbiamo il visibile e l'invisibile. Grazie a questa luce, secondo il Talmud, Adamo poteva vedere tutta la creazione [Hagigah 12a; Sanhedrin 38b]".[69] Quindi, prosegue Wiesel, questo è il messaggio di Dio a Giobbe: "Non puoi vedere la luce. Ma devi crederMi quando affermo che esiste, che è altrimenti, più pura e più bella di qualsiasi cosa tu possa conoscere. Perché ciò che consideri luce è semplicemente un riflesso".[70] Alla fine, Dio ripristina il nascondimento della luce attraverso il ripristino del rapporto con cui la storia ha avuto inizio. Alla fine, ci ricorda Wiesel, Dio si riferisce a Giobbe come "Mio servo" (Giobbe 42:7-8), proprio come aveva fatto all'inizio (Giobbe 1:8;2:3). "Niente è cambiato!" esclama Wiesel. "Giobbe ha sofferto, urlato, litigato, ma per Dio nulla è cambiato: Giobbe resta suo servitore... Qui sta l'infinita bellezza di questo testo: Dio ristabilisce l'amicizia tra Giobbe e i tre consolatori ed esige da noi e dagli altri che facciamo qualcosa insieme",[71] qualcosa che affermi la relazione più alta con il Santo (Giobbe 42:8). Dio esige che ciascuno di noi diventi servitore dell'altro — insieme. Solo così, come afferma Levinas, si potrà sperare di fermare il "mormorio del silenzio", cioè il "rimbombo anonimo e insensato dell'essere".[72]
Alla fine, quindi, il ritratto di Giobbe è un ritratto di solidarietà — dello stare insieme, senza il quale siamo consegnati all'orrore dell'insensatezza.
Galleria
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Giobbe di E. M. Lilien (1922)
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Giobbe di Léon Bonnat (1880)
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Giobbe con gli amici di Gerard Seghers (ca. 1600)
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L'esame di Giobbe - Satana affligge Giobbe) di William Blake (1821)
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Il Venerabile Giobbe, Russia XVII sec.
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Giobbe e le acque curative, min. persiana
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Giobbe e i suoi amici di Gustave Doré (1891)
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Giobbe soffre tra gli amici di K. Zahrtmann (1887)
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Giobbe e gli amici di Eberhard Wächter (ca. 1800)
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Giobbe rimproverato dagli amici di William Blake
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Eliphaz, Bildad e Zophar consolano Giobbe di Giulia Lama (ca. 1700)
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Giobbe (bronzo, 1945), di Ivan Meštrović
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Giobbe sullo sterco (con gli amici) di Adolphe Déchenaud (1892)
-
Giobbe e i suoi consolatori, Scuola Olandese 1540
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Giobbe e i suoi consolatori di Luca Giordano (ca. 1700)
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Giobbe e gli amici di Il’ja Efimovič Repin (1869)
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Giobbe riportato alla prosperità di Laurent de La Hyre (1648)
Note
modificaPer approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna. |
- ↑ Wiesel, Tous les fleuves vont à la mer (All Rivers Run to the Sea), 321.
- ↑ Levinas, Nine Talmudic Readings, 41.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 106.
- ↑ Wiesel, 103.
- ↑ Wiesel, 108.
- ↑ Wiesel, 100.
- ↑ Wiesel, Les Portes de la forêt (Gates of the Forest), 201.
- ↑ Wiesel, Le Mendiant de Jérusalem (Beggar in Jerusalem), 115.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 105.
- ↑ Wiesel, 113–14.
- ↑ Wiesel, 109.
- ↑ Adin Steinsaltz e Josy Eisenberg, The Seven Lights: On the Major Jewish Festivals (Northvale, NJ: Jason Aronson, 2000), 65.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 110.
- ↑ Wiesel, 111.
- ↑ Wiesel, Le Serment de Kolvillàg (Oath), 195.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 99.
- ↑ Wiesel, 102–3.
- ↑ Wiesel, 113.
- ↑ Wiesel, 112.
- ↑ Wiesel, Five Biblical Portraits, 63.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master: Hasidic Portraits and Legends, 41.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 50.
- ↑ Wiesel, 50.
- ↑ Wiesel, 55.
- ↑ Wiesel, 51.
- ↑ Moshe Cordovero, The Palm Tree of Devorah, trad. Moshe Miller (Southfield, MI: Targum, 1993), 12.
- ↑ Shalom Dovber Schneersohn, Yom Tov Shel Rosh Hashanah 5659: Discourse One, trad. Y. B. Marcus e M. Miller (Brooklyn, NY: Kehot, 2000), 26.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 54.
- ↑ Wiesel, 58.
- ↑ Wiesel, 59.
- ↑ Wiesel, 59.
- ↑ Wiesel, 61.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 91–92.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 59.
- ↑ Wiesel, 63.
- ↑ Levinas, Totality and Infinity, 243.
- ↑ Levinas, 34.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 134.
- ↑ Wiesel, 140.
- ↑ Cfr. Martin Buber, The Legend of the Baal Shem, trad. Maurice Friedman (New York: Schocken, 1969), 27.
- ↑ Le sette donne profetesse sono Sarah, Miriam, Deborah, Hannah, Abigail, Hulda, e Ester.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 146.
- ↑ Wiesel, 145.
- ↑ Wiesel, 148.
- ↑ Wiesel, 135.
- ↑ Wiesel, 150.
- ↑ Elie Wiesel e Josy Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête (Parigi: Fayard-Verdier, 1986), 163; tutte le traduzioni sono mie.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 127–28.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 288.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 288.
- ↑ Emmanuel Levinas, Existence and Existents, trad. Alphonso Lingis (The Hague: Martinus Nijhoff, 1978), 60–61.
- ↑ Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 187.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 245.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 188.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 191.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 27.
- ↑ Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 201.
- ↑ Wiesel, 193–94.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 227.
- ↑ Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 200.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 398.
- ↑ Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 198–99.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 176.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 364.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 155.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 50.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 279.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 395.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 373.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 374.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, 392.
- ↑ Levinas, Ethics and Infinity, 52.