Il Chassidismo di Elie Wiesel/Capitolo 3

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Solomon Hart: "Feast of the Rejoicing of the Law at the Synagogue in Leghorn, Italy", 1850

Ritratti dalla Torah

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  Per approfondire, vedi Ebraismo chassidico.

Per coloro che, come Elie Wiesel, ritengono che la Torah venga rivelata sul Monte Sinai, questi ritratti dalla Torah rientrano in una categoria a parte. Iniziando da questi ritratti presi dalla Torah, partiamo da un'origine immemorabile, da un "tempo" e "spazio" fuori dallo spazio e dal tempo, dalle profondità della rivelazione dell'Infinito. Perché questi ritratti, che ci provengono dalla Torah, sono radicati in quella rivelazione. Elie Wiesel la mette così: "Mentre rileggo la storia di Noè e dei suoi figli, mi vedo da bambino in un Heder, chino su una Bibbia sbrindellata... vedo me stesso e il mondo prima... prima dell'altro diluvio... Questa è la bellezza profonda della Scrittura: i suoi personaggi non sono mitici; le loro avventure non sono immaginarie; vibrano di vita e di verità, e quindi costringono quelli di noi che si avvicinano a loro, ad entrare nella loro vita e a cercarne il significato".[1] Ricercando il significato di questi ritratti, cerchiamo il significato della nostra propria vita.

"L’Ebreo", dice Wiesel, "è perseguitato più dall’inizio che dalla fine".[2] Perseguitato dall'inizio, dal Bereshit, l'Ebreo è perseguitato dalla Voce Comandante della Creazione, che trova eco nella Voce Comandante della Rivelazione. A dire il vero, i Dieci Enunciati della Creazione sono paralleli ai Dieci Enunciati della Rivelazione, come sta scritto (Bahir 118; Mishnah Avot 5:1; cfr. anche Or HaChayim su Esodo 20:1). A differenza di altri ritratti che prenderemo in considerazione – basati su resoconti storici, culturali e leggendari – questi ritratti, secondo la tradizione religiosa ebraica, furono inizialmente abbozzati dal Santo Stesso. Pertanto ciò di cui ci occupiamo qui trascende l'orizzonte degli eventi del pensiero ontologico. Come vedremo in seguito, questi ritratti portano con sé una traccia di trascendenza, di un "pensare" che precede il pensiero, del primordiale, un movimento anarchico di creazione e rivelazione del Tu.

Guardando alla tradizione, troviamo che la creazione del Tu nel principio, rende possibile la ritrattistica: un ritratto non è una "natura morta" ma l'emanazione di un'anima viva, di colui a cui ci rivolgiamo come a un Tu, colui che sfugge all'occhio. La maestria chassidica della ritrattistica presentata da Elie Wiesel consiste proprio nel rendere presente il Tu invisibile e il Chi del soggetto: un soggetto di relazione, che è una persona, e non un oggetto di contemplazione. Quale soggetto di una relazione, questi ritratti si sviluppano attraverso la relazione di racconti. È proprio perché HaShem è stato il primo a raccontare le storie di queste persone che ereditiamo la capacità di dire Tu gli uni agli altri. Il lascito chassidico di Wiesel, un’eredità di raccontare storie, rafforza e continua tale capacità, che era al principio. Cominciamo quindi dal principio, con il primo a cui rivolgerci come tu.

Ritratto di Adamo il Primo

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Se i ritratti presi dalla Torah sono unici tra i ritratti di Wiesel, unico tra questi ritratti è il ritratto di Adam HaRishon, "Adamo il Primo", come è noto nella tradizione (ad esempio, Bereshit Rabbah 8:1). Innanzitutto, non aveva genitori. Eppure siamo tutti suoi figli. In un senso profondo, il ritratto di Adamo fatto da Wiesel è un ritratto di ciascuno di noi, come egli indica quando richiama un insegnamento del Talmud (Eruvin 18a): "Panim in ebraico è usato al plurale: l'uomo ha più di un volto. Il proprio e quello di Adamo".[3] Fissare questa immagine significa scrutare la nostra anima. Il volto di Adamo rivela il volto dell'altro essere umano, il ben adam, il figlio di Adamo affidato alle nostre cure. Guardando questo ritratto di Adamo, ci scontriamo con la domanda posta ad Adamo: "Dove sei?" Senza Adamo, non c'è domanda. "Forse Dio intendeva iniziare la Sua opera con una domanda", dice Wiesel. "Forse Egli ha cercato, attraverso Adamo, di interrogare continuamente la Sua creazione".[4] E interrogare Se Stesso: essere creato a Sua immagine e somiglianza è essere eternamente sottoposto all'interrogazione. Abbiamo così l'interrogativo che appartiene alla creazione del primo essere umano.

L'interrogazione penetra nell'orribile solitudine del nostro essere per creare un'apertura per il rapporto con un altro. Osserva Joel Rosenberg: "That is why, if there is a single characteristic most commonly shared among biblical heroes, in Wiesel’s handling, it is their solitude".[5] È anche il motivo per cui, come dice Wiesel, "il segreto della creazione può essere approfondito solo quando si è soli, come Adamo era solo”.[6] È perché il segreto della creazione sta nell'anelito umano e divino alla relazione. In quanto la creazione traspare attraverso una parola divina, è un movimento in una relazione: la parola è detta da qualcuno e implica qualcuno a cui è rivolta, qualcuno che è chiamato a rispondere. La cosa più fondamentale, la prima cosa, è che il Santo ha creato e quindi ha stipulato un’alleanza. Dove c'è alleanza c'è responsabilità, che è un superamento della solitudine del Creatore e di Adamo, che ci riporta alla centralità del Tu: prima della sua apparizione Adamo è già individuato per una relazione con l'altro, al quale potrebbe dire: "Tu". "All’inizio", scrive Wiesel, "l’uomo è solo. Solo come Dio è solo. Quando apre gli occhi non si chiede: Chi sono io? Chiede: Chi sei?[7]

Eppure nel suo romanzo Le serment de Kolvillàg leggiamo: "Quando aprì gli occhi, Adamo non chiese a Dio: Chi sei tu? Chiese: chi sono io?"[8] Una contraddizione? No. Per l'anima che nasce nel mezzo di una relazione, non c'è Io senza il Tu: chiedere "Chi sei tu?" è chiedere: "Chi sono io?" Nelle parole di Martin Buber, "Quando si dice Tu, si dice anche l'Io della coppia di parole Io-Tu".[9] Osservando ulteriormente il versetto di apertura della Torah, troviamo un importante insegnamento dello Zohar, un insegnamento essenziale per il ritratto di Adamo fatto da Wiesel. Invece di leggere Bereshit bara Elokim et ha–... come "In principio Dio creò il—", lo Zohar lo legge come "In principio Dio creò l’alef, tav, hey di atah: Tu". Lo Zohar dice: "La parola et consiste delle lettere alef e tav, che comprendono tra loro tutte le lettere, essendo la prima e l'ultima dell'alfabeto. Successivamente fu aggiunto hey in modo che tutte le lettere dovessero essere attaccate a hey, e questo diede il nome atah (Tu)" (Zohar I, 15b). Ciò che è più essenziale per la vita dell'anima è rispondere: "Hineni: eccomi per te!" quando convocato da un'altra anima, come Dio Stesso convocò il primo essere umano con un grido di "Ayekah? – Dove sei?" (Genesi 3:9). Wiesel sottolinea che Dio pone a ciascuno di noi questa domanda fatta ad Adamo.[10] È un grido di angoscia e di dolore, perché la parola ayekah è la stessa della prima parola del Libro delle Lamentazioni, Eykhah, che è il lamento di "Come?" o "Perché?" come se Egli gridasse: "Come hai potuto?" Dio sa esattamente dove siamo. Risponderemo: "Hineni: Eccomi per te" o ci nasconderemo, come si nascose il primo Adamo?

Lo Zohar racconta che quando Dio stava per creare il primo essere umano, la Torah, da cui è fatta tutta la creazione, Lo avvertì che l'essere umano avrebbe sicuramente infranto i comandamenti del Santo provocandoLo così all'ira. In effetti, la Torah avvertì il Creatore che Egli avrebbe potuto adirarsi a tal punto da distruggere la Sua creazione. Dio decise quindi di fare della Torah la Sua assistente nella creazione dell'essere umano, poiché l'attributo principale della Torah è la Misericordia: ogni volta che Dio si adirava con l'umanità, la Torah Lo tratteneva con misericordia, pazienza e una misura di amorevolezza (Zohar II, 35; cfr. anche Bereshit Rabbah 12:1–2).

Si può comprendere l'ira di Dio. Ma perché il dolore? Perché Dio soffre così tanto per la caduta di Adamo dalla relazione, quando cedette alla tentazione di mangiare il frutto e diventare come Dio? Il Midrash ci dice che gli angeli ministranti cercarono di dissuaderLo da ciò (Bereshit Rabbah 8:5). Perché? Penso perché sapevano che Gli avrebbe fatto male. Infatti, quando lo Spirito del Santo "aleggiava" sulla superficie dell'abisso, la parola è merahefet, che può anche significare "esitava": esitò perché sapeva che Lo avrebbe addolorato. È infatti sorprendente che, secondo il Talmud, quando Dio creò i cieli e la terra preparò per Sé un posto nei reami più alti, un luogo chiamato Mistarim, sapendo che avrebbe avuto bisogno di un posto dove andare, un posto dove poteva piangere di nascosto (Hagigah 5b; cfr. anche Sefer HaIkkarim 4:23), affinché la Sua sofferenza non annullasse la Sua creazione. Secondo il Midrash, questo nascondiglio è il reame delle tenebre, il reame di hoshekh, da cui Dio ha tratto la piaga delle tenebre, l'oscurità nella quale "un uomo non poteva vedere suo fratello" (Esodo 10:23: "Uno non vedeva l'altro"), così che la stessa oscurità in cui Dio si nasconde fa piangere Dio (Midrash Tehillim 1:18:16). In quanto movimento verso una relazione, l'atto di creazione è un atto d'amore, e non c'è amore senza sofferenza. Quindi abbiamo un accenno del dolore nella frase "Ayekah!?" Wiesel ci offre di più. Dopo aver pronunciato i nomi degli animali, osserva, Adamo chiamò Dio con il Suo Nome. "Capiva intuitivamente che Dio stesso riceve il Suo nome dall’uomo, illustrando il concetto ebraico fondamentale secondo cui, sebbene Dio sia Dio e l'uomo sia solo il Suo strumento, tuttavia Dio ha bisogno dell'uomo per farsi conoscere".[11] Dio ha bisogno dell'uomo se Egli vuole essere Dio.

Esplorando ulteriormente la tradizione, scopriamo altre ragioni per l'angoscia di Dio per la caduta di Adamo nella tentazione primordiale di essere come Dio. Scopriamo, ad esempio, che non è possibile eclissare Dio senza cancellare il divieto di omicidio; "chi sparge sangue umano rinuncia alla Somiglianza", come è scritto nella Tosefta (Tosefta Yevamot 8:4), "Somiglianza" non solo nella propria anima, ma anche nell'anima dell'altro. "Chi uccide, uccide Adamo", afferma Wiesel. "Chiunque uccida, uccide la visione di Adamo, uccide nel nome di Adamo. Ogni uomo dovrebbe essere Adamo per tutti gli altri".[12] Perché l'angoscia di Dio? Perché con la perdita della relazione superiore, Adamo ha causato un danno terribile alla propria anima e alle anime di noi che gli siamo legati. Ciò non vuol suggerire nessuna nozione di peccato ereditario, che è estranea all'insegnamento ebraico. Come ha detto Wiesel: "Siamo legati ad Adamo solo dalla sua memoria, che diventa la nostra, e dalla sua morte, che prefigura la nostra. Non per il suo peccato".[13] E, legati ad Adamo, siamo legati gli uni agli altri.

Che ciascuno sia connesso a tutto, sia fisicamente che metafisicamente, lo si ritrova anche nell'insegnamento talmudico di Rabbi Meir: "La polvere del primo uomo fu raccolta da tutte le parti della terra" (Sanhedrin, 38a). E Dio "soffiò l'anima della vita nella polvere" (Genesi 2:7: "Dio il Signore formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente"), soffiò la "Parola", dice il Targum, per creare un essere parlante, un medaber, con l'implicazione che un essere parlante è anche un essere ascoltante. Così la possibilità stessa del ritratto e i racconti che lo caratterizzano nascono dalla creazione del primo essere umano. Questo è il significato di altri insegnamenti talmudici. Rabbi Eleazar, ad esempio, disse: "Il primo uomo [si estese] dalla terra al firmamento". E Rabbi Yehuda insegnò: "Nel nome di Rab: ‘Il primo uomo [si estese] da un'estremità all'altra del mondo’" (Hagigah, 12a), indicando che il Primo Adamo è raccolto in tutta l'umanità. Quindi, come dice Wiesel, "più che il Messia, è presente Adamo... Incarnando la ricerca di significato, giustizia e verità di ogni uomo, Adamo rimane il contemporaneo".[14] Adamo resta il contemporaneo proprio perché con la creazione di Adamo avviene la creazione della missione messianica. "Alcuni arrivano a vedere in lui il futuro Messia", dice Wiesel.[15] Abbiamo così l'insegnamento ebraico secondo cui ogni anima custodisce, oltre ad una traccia dell'anima di Adamo, una scintilla dell'anima del Messia, l'Unto della Casa di Davide.[16]

Ma abbiamo quasi dimenticato la relazione più decisiva che fa di Adamo Adamo, che fa di lui un essere umano dotato di una scintilla divina e di un'anima umana: è il rapporto con Eva. Dio, infatti, diede il nome Adam all'uomo e alla donna insieme: "Maschio e femmina li creò" (Genesi 1:27). Creata come ezer k’negdo, un "aiuto contro di lui" (Genesi 2:18), spiega Wiesel, Eva doveva "aiutarlo opponendosi a lui, sfidandolo... Eva: un rimedio contro la solitudine, il lato insondabile dell'uomo. Senza Eva, Adamo sarebbe stato uomo ma non umano".[17] Qui Emmanuel Levinas può esserci di qualche aiuto:

« Donna non viene a chi è privato di compagnia semplicemente per fargli compagnia. Ella risponde a una solitudine dentro questa privazione e – cosa più strana – a una solitudine che sussiste malgrado la presenza di Dio; a una solitudine nell'universale, all'inumano che continua a sgorgare anche quando l'umano ha dominato la natura e l'ha elevata a pensiero. Perché l'inevitabile sradicamento del pensiero, che domina il mondo, per ritornare alla pace e alla comodità di sentirsi a casa, lo strano flusso della dolcezza deve entrare nella geometria dello spazio infinito e freddo. Il suo nome è donna.[18] »

Ecco perché non è bene che l'uomo sia solo. Ecco perché, secondo il saggio talmudico Rabbi Shimon ben Menassia, "il Santo, benedetto sia Lui, intrecciò i capelli di Eva e poi la portò ad Adamo" per celebrare la cerimonia del matrimonio (Eruvin, 18a). Ecco perché, senza Eva, Adamo sarebbe stato uomo ma non umano.

E senza Adamo ed Eva non avremmo Caino e Abele.

Ritratto di Caino e Abele

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Caino e Abele.

Caino e Abele: non esistono due fratelli, non esistono due uomini, così intimamente legati l'uno all'altro, ciascuno bisognoso dell'altro per essere quello che è. Non esistono due uomini così intimamente legati all'umanità intera, anzi, a Dio stesso, come suggerisce Wiesel: la storia di Caino e Abele "descrive un triplice confronto: tra l'uomo e Dio, presente e nascosto allo stesso tempo, tra l'uomo e suo fratello, allo stesso tempo rivali e associati, e infine tra l'uomo e se stesso".[19] Perché tra l'uomo e se stesso? Perché questi furono i primi uomini a nascere da un uomo e da una donna: "Per la prima volta ci fu collaborazione umana nella creazione di un uomo; per la prima volta l'essere umano era interamente umano, vale a dire opera dell'uomo e interamente responsabilità dell'uomo".[20] E con questa responsabilità arriva la prospettiva dell'omicidio.

Quanto a Dio, Wiesel ha da dire: "Dio è giudice. Dio è partecipante. Complice."[21] Complice? Quindi non era tutta responsabilità dell'uomo: sì, Dio è partecipe, oltre che complice, proprio fin dal principio. Nati da un uomo e da una donna, Caino e Abele vennero al mondo grazie alla partecipazione di Dio, come hanno insegnato i saggi del Talmud: "Ci sono tre soci nella creazione dell'essere umano: il Santo, benedetto sia Lui, il padre e la madre. Perciò quando un uomo onora suo padre e sua madre, il Santo, benedetto sia Lui, dice: ‘Io attribuisco loro [merito] come se avessi abitato in mezzo a loro e loro mi avessero onorato’" (Kiddushin, 30b). Ecco perché il Quinto Comandamento, il comandamento di onorare nostra madre e nostro padre (Esodo 20:11), rientra nella categoria del rapporto ben adam leMakom, tra l'essere umano e Dio, piuttosto che ben adam lehevero, tra essere umano e prossimo umano. Ma i fratelli che onorano la madre e il padre non litigano; certamente uno non uccide l'altro. Infatti, l'atto dell'omicidio è un ripudio e un'usurpazione di Dio.

Caino non fa eccezione. Dice Wiesel: "Come Dio, egli pensò di offrire a se stesso un sacrificio umano in olocausto. Voleva essere crudele come Lui, un estraneo come Lui, un vendicatore come Lui. E come Lui, presente e assente allo stesso tempo, assente per la sua presenza, presente nella sua assenza. Caino uccise per diventare Dio. Per uccidere Dio".[22] Così Caino cedette alla tentazione primordiale di essere come Dio. Non puoi diventare Dio senza uccidere, e non puoi uccidere senza diventare Dio, senza con ciò uccidere Dio. Perché è scritto che dobbiamo leggere i comandamenti non dall'alto al basso ma da destra a sinistra (in ebraico): "Io sono Dio" significa "Non uccidere" (cfr., ad esempio, Mekilta Bahodesh 8; Pesikta Rabbati 21:19; Zohar I, 90a).

Wiesel lo capì meglio di molti altri. Nel suo romanzo Le crépuscule, au loin, il paziente del sanatorio Cain dichiara al personaggio principale Raffaello: "Quando ho ucciso mio fratello, era invece Lui che volevo uccidere. E Lui lo sa. Qualsiasi stolto sa che chiunque uccide, uccide Dio".[23] Ma il Dio che Caino vorrebbe uccidere per poter diventare Dio non è il Creatore che, in un movimento verso una relazione d'amore e di alleanza, parlò e portò all'esistenza il cielo e la terra, il Dio dai Tredici Attributi di Misericordia, che è "misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà", e così via (Esodo 34:6-7). No, è il dio falso e idolatra, per il quale il potere è l'unica realtà e la debolezza è l'unico peccato, il sedicente ego-dio che è libero da ogni limitazione, in completo controllo e completamente autogiustificato, non solo conoscendo ma progettando il bene e il male. Se la yetzer hara, l'"inclinazione al male", è un'inclinazione a sbarazzarsi di Dio, è un'inclinazione a commettere omicidio. Così il maestro chassidico Rabbi Simcha Bunim di Peshischa insegnò che "l'inclinazione al male dovrebbe essere immaginata come se fosse un assassino",[24] un assassino di Dio e dell'umanità.

Secondo una tradizione, i due fratelli litigarono e quindi Abele condivise almeno una parte della colpa. Per prima cosa – anche se è l'unica cosa, ed è problematica – Abele non fece nulla per tendere la mano a suo fratello in un momento in cui "il suo volto era abbattuto", vayiplu panayiv (Genesi 4:5). Abele non era in grado di sopportare il volto abbattuto di suo fratello, un volto segnato dalla sofferenza, quale che fosse stata la fonte della sofferenza. "Vegliare su un uomo che soffre", dice Wiesel, "è un dovere più urgente che pensare a Dio. Sebbene troppo debole per opporsi a Dio, l'uomo è abbastanza forte per difendere il suo prossimo o almeno per curare le sue ferite. Abele non fece nulla: tale era la natura della sua colpa".[25] Tuttavia, Caino fu l'assassino e, come osserva Wiesel, la sua trasgressione verso Abele fu molto più grave della colpa di Abele: "Invidiando Abele, rifiutando di capirlo, di amarlo nonostante tutto, giudicandolo e così ripudiandolo, Caino si rese colpevole. Fu colpevole anche prima di uccidere."[26] Qui il peccato è più profondo del fallimento di Abele, perché il giudizio e il ripudio di suo fratello da parte di Caino erano intrisi di odio e, come è scritto nel Talmud, "Chi odia un altro è come se fosse il suo assassino" (Kallah Rabbati 54b [1]).

Chi odiamo quando odiamo un altro? Quello che "ci somiglia", osserva saggiamente Wiesel. "Il primo omicidio fu un fratricidio."[27] Poiché tutta l'umanità deriva da un solo essere umano, come anche da Dio, ogni omicidio è allo stesso tempo un fratricidio e un deicidio. Quindi, ci dice il Talmud, l'odio di un fratello verso suo fratello fu la ragione della distruzione del Secondo Tempio (Yoma 9b), e la distruzione del Tempio è l'obliterazione della Presenza di Dio nel mondo: ecco perché è così devastante, perché è un Hurban, una distruzione totale. In questo primo atto di omicidio, sottolinea Wiesel, abbiamo il paradigma per altri atti di omicidio, in particolare per gli atti di omicidio di massa. Perché in questo primo atto di omicidio abbiamo i tre ruoli necessari affinché avvenga un omicidio di massa: autore, vittima e spettatore. "Caino e Abele: erano l'umanità", scrive Wiesel. "La scelta era limitata e assoluta: assassino o vittima, nient'altro."[28] E gli astanti? Non erano altri che Adamo ed Eva: "Adamo era vistosamente assente... Ma allora, dov'era Eva?"[29] Non somigliamo noi, figli dei genitori di tutta l'umanità, a questi genitori? Non sentiamo noi, discendenti non solo di Adamo ed Eva ma anche di Caino e Abele, gridare "i sangui" dei nostri fratelli e sorelle, come Dio udì il grido del sangue di Abele e di tutti i suoi discendenti, per cui il plurale sangui (Genesi 4:10)? Se, come è scritto nella Mishnah, salvare una singola vita è come salvare un mondo intero (Sanhedrin 4:5), allora quanti mondi vengono distrutti nell'atto di omicidio che nasce dall'odio di un fratello verso suo fratello?

Sì, l’odio di un fratello verso suo fratello, un odio che travolge l'umanità. Da qui l'attenzione di Wiesel sulla ripetizione della parola fratello nella Scrittura: "Chi uccide, uccide suo fratello; e quando uno ha ucciso, non è più fratello di nessuno".[30] Dove porta l'omicidio di chi ci somiglia? Al suicidio. "Caino uccise Abele, e fu solo il primo passo", dice Wiesel. "Ogni omicidio è un suicidio: Caino uccise Caino in Abele".[31] Uccidere chi ci somiglia è manifestazione del desiderio di uccidere noi stessi, manifestazione di odio verso noi stessi e, nell'uccidere noi stessi, una ribellione contro Dio. "L'odio verso se stessi”, ha scritto Wiesel, "è più dannoso dell'odio verso gli altri. Quest'ultimo mette in discussione il rapporto dell'uomo con l'uomo; il primo implica il rapporto dell'uomo con Dio".[32] L'odio di sé, un odio che può portare una persona a commettere ogni sorta di atrocità come atto di vendetta contro il Nulla Divino, è odio verso Dio. Prendendo la nostra vendetta sulla creazione, ci vendichiamo sul Creatore in un'espressione di odio per noi stessi. E così coloro che vorrebbero uccidere gli altri ritenendoli deicidi finiscono per uccidere se stessi. Il disegno di Caino? Annientare Dio nell'annientamento di se stesso: che è il progetto di ogni omicida. In effetti, sentiamo spesso parlare di un uomo armato che uccide gli altri e alla fine si uccide.

E così i fratelli litigarono, come fanno i fratelli a est dell'Eden. Per cosa litigarono? Secondo il Midrash, furono tre le cose che risultano essere i motivi più comuni per l'omicidio. Il primo è la ricchezza: litigarono per chi di loro avrebbe posseduto quali parti della terra e quante ciascuno ne avrebbe possedute. Il secondo è la gelosia: litigarono per chi di loro avrebbe avuto in moglie quale delle loro sorelle; alcuni dicono che entrambi volessero giacere con la madre. Il terzo è la religione: litigarono per chi di loro avrebbe voluto costruire il Tempio sul suo pezzo di terra (Bereshit Rabbah 22:7). Questo terzo motivo è il più insidioso, poiché implica il ripetersi di un cedimento alla tentazione che fu la rovina di Adamo ed Eva: la tentazione di essere come Dio. Infatti supporre che si possa possedere il Tempio significa usurpare il Trono Divino, mossa che, ancora una volta, si manifesta già nell'atto dell'omicidio. Pertanto, secondo l'interpretazione ebraica, Gerusalemme non è la nostra città: nelle nostre preghiere è irkha, "la Tua città", la città di Dio: Egli è il Boneh Yerushalayim, il Costruttore di Gerusalemme. Pertanto gli ebrei non rivendicano Gerusalemme: Gerusalemme rivendica gli ebrei.

Il nome di Caino, Kayin, significa "acquisire", "possedere", "appropriarsi". E nel suo nome abbiamo la chiave di questa antica storia. Nel suo sforzo di diventare Dio attraverso l'atto dell'omicidio, Caino doveva appropriarsi di Dio. "Il suo scopo?" Wiesel solleva la questione: "Distruggere, sradicare la creazione. Il suo ragionamento? Se questo è l'uomo, mi rifiuto di condividere il suo destino; se questa è la vita, allora non la voglio".[33] Scrive Wiesel: "Caino non sapeva più cosa fare di una vita che ormai sembrava superficiale e inutile. Come avrebbe potuto riempirne il vuoto e dargli un significato? Si mise alla ricerca di un gesto che non andasse perduto ma fosse inscritto nel tempo, in una memoria diversa dalla sua. Era l’outsider, che uccide per sentirsi vivo, per arrivare più velocemente all'inevitabile e inevitabilmente alla tragica fine. Condizionato a questo tipo di gesto spettacolare, definitivo, Caino non ha potuto fare a meno di uccidere: non ha scelto il delitto — invece, il delitto ha scelto lui".[34] Come tanti altri, voleva il primo posto. Si è gettato a capofitto nel delitto proprio per sollevarsi da ogni responsabilità, professandosi ignaro di essere il custode di suo fratello (Genesi 4:9)?

Ah sì. Arriviamo a un'altra visione di ciò di cui tratta questo racconto: nel nostro sforzo di essere come Dio, non solo usurpiamo Dio, ma così facendo, come Caino, giudichiamo Dio e quindi poniamo la responsabilità ai piedi di Dio. Lo sforzo di essere come Dio, che porta all'omicidio, è uno sforzo per distaccarci dalla nostra umanità e quindi staccarci da ogni responsabilità – tutto in nome della giustizia! L'usurpazione di Dio avviene sempre in nome della giustizia. "Caino è Caino", come dichiara Wiesel, "perché crede nella giustizia!"[35] E così Wiesel insegna che, secondo una tradizione, quando Dio dice: "La voce del sangue di tuo fratello grida a Me" (Genesi 4:10), "non va letto come a Me ma come verso Me, contro Me. Ciò che hai fatto, Caino, l'hai fatto anche in nome Mio; hai condiviso con Me i tuoi progetti e i tuoi sogni; Mi hai reso responsabile dei tuoi atti come Io ti rendo responsabile della Mia creazione".[36] Ma porre ai piedi di Dio la responsabilità dell'agire umano è proprio ciò che consegna l'umanità a una condizione di esilio e peregrinazione.

Così il primo omicida fu marchiato, in modo che nessun uomo potesse toccarlo (Genesi 4:15), così che non potesse avere alcun contatto con nessun essere umano, nemmeno con esseri umani che potessero vendicarsi contro di lui. Caino è un omicida sulla parola, da essere ucciso solo dai suoi stessi discendenti (cfr. Genesi 4:23-24). La sua è la cosiddetta libertà che arriva quando "non si è più fratelli di nessuno".[37] Senza il comandamento, siamo costretti a vagare, come l'omicida Caino fu destinato a Nod, a "vagare". Può esistere un termine più accurato per definire il problema di un'umanità senzatetto? Se siamo senzatetto è perché siamo o assassini o complici di omicidio. Se, come dice Wiesel, "la vera punizione di Caino" fu quella di "disimparare il significato dello Shabbat",[38] è perché Caino aveva perso ogni comprensione di cosa significhi abitare nel mondo. Perché lo scopo della creazione e quindi dello Shabbat è dato nella prima lettera della Torah, nella beit (בית), che significa "casa": lo scopo della creazione è trasformare la creazione in una dimora per il Creatore. Dove dimora il Creatore? Nello Shabbat.

Ancora un altro punto, molto importante. Abbiamo visto che la prima domanda posta al primo essere umano – Dove sei? – viene posta a ciascuno di noi. Ci rendiamo ora conto che lo sono anche le due domande poste al primo uomo nato da un essere umano: Dov'è tuo fratello? Che hai fatto? (Genesi 4:9-10). Ed è il Santo che chiede.

Ritratto di Noè

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Noè, Noach (parashah), Noachismo e Diluvio universale.

Wiesel ci introduce a questo racconto con una sola parola: corruzione, termine che permea anche la discussione talmudica sulla generazione di Noè (cfr. Sanhedrin 108a). "Corruzione", dice Wiesel, "è la parola chiave del racconto, o meglio, della preparazione al racconto: corruzione della carne, dei sensi, della popolazione, corruzione della terra, dei valori. La corruzione genera hamas: furto, violenza, odio — disprezzo totale per il prossimo".[39] La corruzione della carne sta nella sensualità, dove corriamo da un'intossicazione all'altra. La corruzione dei sensi risiede nell'edonismo, dove il Bene si riduce a ciò che fa sentir bene. La corruzione della popolazione sta nel ritirarsi nella moda e nel fad del momento, che a sua volta ci permette di scivolare nella caverna di un isolamento indifferente, solipsistico, libero da ogni responsabilità. La corruzione della terra risiede nel nostro disprezzo per le creature le cui vite sono sostenute dalla terra, un disprezzo per la terra stessa. E la corruzione dei valori sta nel crollo di ogni distinzione tra bene e male.

Per cui la violenza, il caos, che è hamas. "La creazione era diventata caos", scrive Wiesel. "Come risultato del peccato di Adamo, animali e bestie avevano cominciato a ribellarsi. L'uomo non era più il loro sovrano",[40] non più il loro custode: la crudeltà verso gli animali faceva parte della corruzione di quella generazione. Questo caos è caratterizzato da una confusione di massa, un bilbul, tra l'alto e il basso, tra la luce e l'oscurità, tra il bene e il male, così che questa confusione finale portò alla punizione finale: una "confusione" radicale, il Mabul, il Grande Diluvio. Non è infatti un caso che la porzione della Torah intitolata a Noè si concluda con la storia della Torre di Babele e della Confusione delle lingue. Perché il caos e la confusione di Babel, parola affine a Mabul, risiedevano nella separazione della parola dal significato: questo è ciò che genera violenza e omicidio. Ma parleremo della Torre più avanti.

In questa domanda riguardante il legame tra parola e significato sta la chiave del commentario del Baal Shem Tov a Genesi 6:16, dove Dio istruisce Noè: "Farai all'arca (tevah) una finestra (tzohar)". Secondo il Baal Shem, ciò significa che si dovrebbe portare luce (tzohar) ad ogni parola (tevah) che pronunciamo.[41] La luce che portiamo in ogni parola è la luce del significato e della santità della vita. È la luce che Dio chiama in essere nella prima espressione della Creazione (Genesi 1:3). È, inoltre, il silenzio della Presenza Divina che dimora nella parola, il silenzio di tutte le lingue, significato dalla lettera muta alef (א), che, secondo il Baal Shem, dimora in ogni parola (Keter Shem Tov 45). Composta da uno yud sopra, un vav in mezzo e uno yud sotto, la lettera alef ha valore numerico ventisei, lo stesso valore della yud-hey-vav-hey del Nome Divino, così che l’alef in ogni la parola è la scintilla divina in ogni parola, come afferma il Talmud (Shabbat 88b).

Ricordiamo l'intuizione di Levinas: "Il linguaggio è il fatto che viene sempre offerta una sola parola: Dio".[42] Quando la parola viene strappata dal suo significato – quando nessuna luce può entrare nella tevah – il rimbombo anonimo di tohu vavohu, di "caos e vuoto", esplode in un oscuramento della creazione. Poiché la creazione include questo mondo e i mondi superiori, i saggi del Talmud insegnano che tutti i mondi, questo mondo e i mondi superiori, furono distrutti durante il Diluvio (Sanhedrin 108a). Infatti, il Diluvio, il Mabul, che discese sulla creazione fu un disfacimento della creazione: mentre al momento della Creazione le acque erano separate sopra e sotto (Genesi 1:7), con il Diluvio si verificò un ritorno al caos e al vuoto, siccome le acque piovvero dall'alto e salirono dal basso (Genesi 7:11-12). Nel suo commentario a Genesi 8:22, Rashi dichiara che al tempo del diluvio la distinzione tra giorno e notte, tra luce e tenebre, crollò. In una parola, crollò il significato. Questa fu la massiccia confusione del Diluvio al tempo di Noè.

E Noè? Egli "trovò grazia agli occhi del Signore" (Genesi 6:8), dice la Torah, sufficiente favore perché Dio stabilisse un patto con lui e coi suoi discendenti. Ma il Talmud è un po’ più duro nei confronti di Noè: "‘Noè era un uomo giusto e integro nella sua generazione’ (Genesi 6:9). Rabbi Yohanan disse: ‘Nella sua generazione, ma non in altre generazioni’. Rabbi Oshaia disse: ‘Come illustrazione del punto di vista di Resh Lakish, a cosa può essere paragonato questo? A una fiala di olio di nardo che giace in mezzo ai rifiuti’" (Sanhedrin 108a). Wiesel aggiunge il suo commento alla tradizione talmudica: "Il Talmud ci dice: Noè continuò a vivere come prima, anche dopo che arrivarono le piogge; attese che le acque raggiungessero le sue caviglie prima di staccarsi da casa e salire sull'arca. Rabbi Hanina figlio di Pappa forse esagera, ma questa è la sua versione. Noè, afferma in tono piatto, non meritava di essere salvato; ma senza di lui non ci sarebbe stato Mosè, e Dio voleva Mosè".[43] Wiesel, tuttavia, ci ricorda un Midrash più comprensivo nei confronti di Noè: "Noè e i suoi figli si presero cura delle bestie selvagge e degli altri animali, portando loro cibo e calmando la loro ansia".[44] Pertanto, quando Abramo chiese a Sem, figlio di Noè, perché Dio preservasse le loro vite mentre l'arca veniva gettata nell'abisso, Sem spiegò che era perché rimasero svegli tutta la notte, ogni notte, dando da mangiare agli animali (Midrash Tehillim 2:37:1). Tuttavia, la questione non è così semplice, come sottolinea Wiesel, poiché abbiamo ancora un altro Midrash, che dice che Noè ritardò a nutrire un leone, "che gli lascia un ricordo del suo errore: Noè viene morso ad una gamba e zoppicherà fino alla fine della sua vita [Tanhuma Noah 9]".[45] Anche per quanto riguarda la cura degli animali, quindi, Noè forse non era così completamente giusto.

Tuttavia, se Noè, il più giusto della sua generazione non così giusta, non era così degno, non fu perché fosse troppo lento a nutrire un leone. No, fu perché quando Dio gli disse di costruire un'arca, avvertendolo che stava per distruggere il mondo, Noè non fece altro che obbedire: non fece un putiferio per sfidare Dio. Secondo la tradizione, Abramo dimostrò di essere abbastanza giusto da entrare nell'Alleanza della Circoncisione perché discusse con Dio sulla sorte degli innocenti a Sodoma e Gomorra; Mosè ricevette l'Alleanza della Torah perché, a differenza di Abramo, discusse con Dio a nome sia degli innocenti che dei colpevoli in occasione del Vitello d'Oro (cfr. Zohar I, 67b). Wiesel richiama la nostra attenzione su un altro Midrash in questo senso (cfr. Zohar Hadash 42a): "Quando Noè uscì dall'arca e vide la devastazione, interrogò Dio, chiedendo: ‘Dov’è la tua misericordia, la tua carità, la tua compassione?’ E Dio lo rimise al suo posto: ‘Tu non sei altro che un pastore senza cervello, disse l'Onnipotente. Ora ti stai ponendo queste domande: quando finirà? Perché non hai parlato prima?... Ti ho detto... che ti consideravo uno Zaddiq... L'ho detto per una sola ragione: per spingerti a prendere coscienza della tua missione, per costringerti a intercedere a favore dell'umanità’".[46] Il ritratto di Noè è il ritratto di chi è arrivato troppo tardi, come ciascuno di noi arriva troppo tardi all'appuntamento, per dire: "Eccomi", quando viene chiamato. Chiunque abbia sentito un bambino piangere di notte sa che non si è mai abbastanza svelti a rispondere.

Una volta ho sentito Wiesel dire che se, finita la Shoah, avesse cominciato a piangere, non avrebbe mai smesso. Dice lo stesso di Noè: "Se [Noè] avesse pianto una volta – una sola volta – non avrebbe potuto fermarsi. Mai."[47] Invece di piangere, Noè pregò (Genesi 8:20). Proprio così, ricorda Wiesel, quando gli ebrei emersero da un altro Mabul, pregarono: "Gli internati ebrei accolgono la loro improvvisa libertà in un modo strano: non afferrano il cibo offerto dai loro liberatori americani. Invece, si riuniscono in circoli e daven: il loro primo atto come esseri umani liberi fu dire il Kaddish, glorificando e santificando così il nome di Dio".[48] Nell'universo concentrazionario che infesta i ritratti di Wiesel non c'era né profondità, né altezza, come ai tempi del Mabul, quando il sopra e il sotto collassavano in un'uguaglianza ma con una differenza: al tempo dell'Olocausto, la terra in basso e i cieli sopra furono inondati dalle ceneri silenziose degli ebrei. Come quando le acque piovevano dall'alto e salivano dal basso, vi era una grande confusione tra alto e basso, perché il cielo si era trasformato in un cimitero. Così nel romanzo Le crépuscule di Wiesel abbiamo il paziente pazzo Zelig, il cui sguardo è costantemente rivolto al cielo, che dichiara: "Sono tutti qui", nel cielo.[49] Zelig non vedeva arcobaleno nell'alto del cielo, solo i morti.

Per quanto riguarda il racconto della torre, non intende spiegare come si sia formata la moltitudine di lingue. Nel suo commentario del XIII secolo, Jacob ben Asher, il Baal HaTurim, dice che la confusione stava nel fatto che "avevano una sola lingua con parole uniche" (Genesi 11:1), dove qualsiasi parola poteva significare qualsiasi cosa, così che le parole erano "vuote e vane" (Baal HaTurim su Genesi 11:1; cfr. Zohar I, 75a). Secondo il saggio trecentesco Obadja Sforno, la confusione stava nella supposizione che il popolo potesse "farsi un nome" e quindi generare identità e significato a partire dalla propria individualità autonoma (Genesi 11:4): non aveva alcuna conoscenza del Nome del Santo, da cui provengono tutti i nomi e tutti i significati, come è scritto nello Zohar (Zohar II, 124a). Stava anche nel fatto che, costruendo una torre verso il cielo, pensavano di poter definire la propria dimensione in altezza (cfr. il commento di Sforno a Genesi 11:4). Farsi un nome e forgiare la propria altezza vanno di pari passo. L'altezza è nel nome e il nome significa altezza; tuttavia, come nel caso di chiunque si faccia un nome, la dimensione dell'altezza è qui una contraffazione.

Il Midrash rivela la conseguenza di questa confusione esemplificata nella Torre della Confusione: quando un uomo cadde mortalmente durante la costruzione della torre, nessuno se ne accorse; ma quando un mattone cadeva e si rompeva, si levava un grande lamento e il popolo gridava: "Quando ne verrà un altro al suo posto?". (Pirke de Rabbi Eliezer 24). Quindi abbiamo la lettura di Genesi 11:7 da parte del saggio del diciottesimo secolo Rabbi Yaakov Culi, il quale nota che nella frase navlah sham sfatam, "Confondiamo le loro lingue", la parola navlah (un affine di bilbul, o "confusione ”) può anche essere letta come nevelah, che significa "cadavere". La parola nevelah deriva dal verbo naval, che significa "appassire", "perire" o "essere distrutto". Il sostantivo naval si riferisce a chi è vile e meschino; può anche riferirsi a qualcuno che è senza Dio, un "miscredente". Letto così, dice Rabbi Culi, il versetto significa "facciamo sì che le loro parole producano cadaveri".[50] E così avvenne: la confusione delle lingue era una confusione di vita e di morte. Strappando il significato dalla parola – lacerando lo tzohar dalla tevah – avviene una corrispondente lacerazione della santità da parte dell'essere umano. E così durante l'Olocausto la confusione del discorso produsse cadaveri.

L'odio è una caratteristica distintiva della separazione della parola dal significato; non può accadere senza odio. L'odio è lo strappo della parola dal significato e quindi dell'uomo dall'uomo, dell'uomo da Dio. La confusione delle lingue si manifesta nel crollo delle relazioni umane e della comprensione di ciò che rende importante l'altro essere umano. Questa confusione che caratterizza il tempo della Shoah si ripercuote nel tempo successivo all'evento, nella questione della memoria. Come insegnava il saggio talmudico Rav, "l’atmosfera della Torre provoca l'oblio” (Sanhedrin 109a). Ci troviamo così davanti alla Torre del Carburo di Buna, quella che Primo Levi chiamò la Babelturm[51] all'indomani di Auschwtiz. Cosa dobbiamo fare allora? Guardiamo indietro alla distruzione? Osiamo?

  Per approfondire, vedi Apocalisse Noachica.

Ritratto della Moglie di Lot

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Lot, Moglie di Lot e Sodoma.

Il passaggio dalla Torre di Babele alla generazione di Sodoma è fin troppo agevole. Nella Mishnah, ad esempio, Rabbi Nehemiah paragona le generazioni del Diluvio e della Torre di Babele alla generazione di Sodoma e Gomorra (Sanhedrin 10:3; cfr. anche Bava Metzia 4:2). Perché il confronto? La spiegazione potrebbe trovarsi in un passaggio della Gemara: "R. Geremia b. Eleazar disse: Loro [il popolo di Babele] si sono divisi in tre partiti. Uno disse: ‘Saliamo e dimoriamo lì’; il secondo: ‘Saliamo e serviamo gli idoli’; e il terzo disse: ‘Saliamo e facciamo guerra [a Dio]’. Il partito che proponeva: ‘Saliamo e dimoriamo lì’ - il Signore li disperse; quelli che dicevano: ‘Saliamo e facciamo guerra’ furono trasformati in scimmie, spiriti, diavoli e demoni notturni; mentre per quanto riguardava il partito che disse: ‘Saliamo e serviamo gli idoli’ – ‘là il Signore confuse la lingua di tutta la terra’" (Sanhedrin 109a). Quando si confonde il linguaggio della terra, si confonde anche l'immagine umana stessa. Perché l'immagine umana è rivestita della parola: l'essere umano è un essere parlante solo quando le sue parole sono legate al significato. Quando la parola viene privata del significato, ne consegue la violenza. Così Dio Stesso aggiunse il suo grido angosciato al grido dell'umanità, dicendo: "In verità, il grido di Sodoma e Gomorra è grande e, in verità, il loro peccato è estremamente grave" (Genesi 18:20).

Qual era il loro peccato? Senza entrare in dettagli inquietanti, secondo il saggio rabbino David Kimchi del XII secolo, il Radak, si trattava di violenza sfrenata e di violazione degli esseri umani, in cui tutti i principi limitanti venivano cancellati (Radak, Mikraot Gedolot, commentario a Genesi 18:20). Entrare a Sodoma significa entrare nel reame non dell'inimmaginabile ma di tutto l'immaginabile. "Tutti i viaggi a Sodoma", dice Wiesel, "erano di sola andata. Era possibile entrare nella città ma non uscirne".[52] C'erano quattro giudici a Sodoma, ci dice il Talmud: Bugiardo, Menzognero Bugiardo, Falsario e Pervertitore di Giustizia (Sanhedrin 109b); il Midrash ne nomina almeno uno: Hidod (Sefer HaYashar, Vayera 1). Bugiardo? Molto bene, lo capiamo. Ma Menzognero Bugiardo? Tale è colui che mente nel dire la menzogna, colui che giura la verità della sua bugia. Falsario? Falsario è un falsificatore della realtà, qualcuno che ti fa credere non solo una falsità ma un'irrealtà, come ad esempio che tutto il male è ebraico o che l'Olocausto non è accaduto.

Quanto ai Pervertitori di Giustizia, spiega Wiesel, erano i "peggiori di tutti: pretendevano di agire secondo la legge del paese... In altre parole, a Sodoma esisteva un sistema".[53] Il che significa: la menzogna era istituzionalizzata, legalizzata, socialmente accettabile. I Pervertitori di Giustizia erano i giudici, come i giudici nazisti imputati con gli altri criminali di guerra nel Processo ai giudici del 5 marzo 1947. Come ai tempi dell’Olocausto, gli esseri umani ufficialmente non erano più esseri umani. Dio ufficialmente non era più Dio, poiché lo status di Dio e lo status dell'essere umano sono intrecciati. In effetti, gli animali non erano più animali. "Crudele con gli esseri umani?" chiede Wiesel. "I Sodomiti erano ugualmente crudeli verso gli animali e gli uccelli, in altre parole, verso qualsiasi creatura vivente la cui vita e il cui movimento sfuggivano alla loro autorità".[54] In altre parole, non erano come Noè, morso di leone a parte.

Per illustrare la malvagità della generazione di Sodoma, Wiesel riporta un Midrash sulla figlia di Lot, Paltit: un giorno "notò un mendicante affamato e non poté fare a meno di dispiacersi per lui. Sfortunatamente, questo era proibito a Sodoma".[55] Si vide che aveva portato del cibo al mendicante, ma ciò era proibito, cosa logica in un luogo in cui la menzogna era diventata istituzionalizzata. Paltit fu arrestata e condannata al rogo. Ma Dio la sentì piangere e intervenne (Ginzberg, Legends of the Jewish 1:5:155; Sefer HaYashar, Yayera 6). Un altro resoconto midrashico racconta che quando gridò, mentre veniva bruciata viva per aver dato da mangiare ai poveri, quello fu il grido che Dio udì (Pirke de Rabbi Eliezer 25), dopo di che Egli dichiarò: "Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a Me" (Genesi 18:21). Secondo questa versione, però, non lo fece per lei ma per l'umanità: per Paltit era troppo tardi. Ma perché Dio dovette scendere per vedere se il grido era giustificato? Non lo sapeva? È questo il Dio che "scruta i cuori degli uomini" (Geremia 17:10) e "conosce i segreti del cuore" (Salmi 44:21)? Oppure quando siamo indifferenti alla sofferenza del nostro prossimo, anche Dio diventa indifferente? Il Baal Shem Tov commenta Salmi 121:5 "HaShem è la tua ombra; Egli sta alla tua destra", dicendo che mentre agiamo noi, così agisce Dio (Kedushat Levi, Beshalah 21).

Un passo singolare della Torah illustra la singolarità del momento che ha portato Dio e Abramo a un confronto pattizio: per la prima volta, l'unica volta, siamo a conoscenza di ciò che Dio sta pensando tra Sé: "Devo Io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare?" (Genesi 18:17). Dio provoca una discussione con colui con cui Egli ha stretto un'alleanza proprio per determinare se Abramo comprende cosa significa essere in una relazione di alleanza con il Santo, cosa significa essere un ezer k’negdo, un "aiutante contro di Lui". In breve, Dio voleva vedere se Abramo avrebbe discusso con Lui. Wiesel chiede: "Perché permise ad Abramo di continuare a discutere, quando sapeva che non c'erano uomini giusti a Sodoma?"[56] La risposta: Dio voleva che Abramo discutesse, si opponesse, fosse il Suo aiuto contro Se Stesso. Mentre Noè non fece altro che obbedire quando Dio annunciò la distruzione dell'umanità, Dio voleva qualcuno che parlasse a nome dell'umanità. Come sottolinea Wiesel, voleva che Abramo chiedesse: "Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?" (Genesi 18:25).[57]

Abramo discute con Dio partendo da cinquanta giusti e scendendo a dieci, convincendo Dio ad accettare di salvarne almeno dieci, e Lui risparmierebbe le città. Naturalmente non ce n'erano nemmeno dieci. Tuttavia, Dio accettò di risparmiarne quattro: Lot, la moglie di Lot, e due delle sue quattro figlie, le due che non erano sposate. Lot cercò di dire ai suoi generi di portare via le sue figlie sposate per evitare la distruzione imminente, ma loro pensarono che "scherzasse" (Genesi 19:14); proprio come i vicini di Noè non credettero che le acque si sarebbero alzate, così questi non credevano che sarebbe piovuto fuoco.

E in tutto questo che c'entra la moglie di Lot, la madre di Paltit? Chi era? Che tipo di persona? Che tipo di madre? La Bibbia non menziona la moglie di Lot per nome, ma il Midrash si riferisce a lei come "Idit" o "Edah" o "Edith" (Tanhuma, Vayera 8). Una tradizione cerca di giustificare la sua punizione, il che suggerirebbe che Dio abbia cercato di salvare almeno uno degli ingiusti. Commentando "La moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale" (Genesi 19:26), Rashi dice: "Con il sale peccò, con il sale fu punita". Come peccò con il sale? Il Midrash spiega: "Lot le chiese di fornire del sale agli stranieri (gli angeli), e lei rifiutò" (Bereshit Rabbah 50:4). Quindi se lo meritò.

Altre fonti trattano Idit in modo più comprensivo. Il Midrash dice che quando Lot e sua moglie fuggivano dalla distruzione, lei ebbe pietà delle sue figlie sposate, che erano rimaste a Sodoma, e guardò dietro di sé, sperando di vederle seguirla (Baal HaTurim su Genesi 19:26; Sefer HaYashar Vayera 7). Non sorprende che Wiesel sia attratto da queste fonti compassionevoli nel suo ritratto della moglie di Lot, notando il loro accento sull'istinto materno di Idit e perché ciò la portò a guardare indietro, nonostante l'avvertimento: "D'un tratto, la madre appare come una figura positiva. Disobbedendo all'ordine degli angeli, si guardò indietro e ciò che vide la riempì di... di cosa? Di paura, dice una fonte: vide l'entità della catastrofe e morì. Fu pervasa di luce, sostiene un'altra fonte: vide la Shekhinah impunemente".[58] Forse solo una madre può guardare impunemente la Shekhinah, Madre Superna. Tuttavia, non fu proprio impunemente che la moglie di Lot guardò indietro. Infatti un'altra fonte ancora insegna che non appena vide il retro della Shekhinah, fu trasformata in una statua di sale (Pirke de-Rabbi Eliezer 25).

Wiesel una volta mi parlò della moglie di Lot, dicendo che la trasgressione che la trasformò in una statua di sale fu quella di togliere alle vittime la privacy della loro sofferenza, aggiungendo così alla loro umiliazione. Se i nazisti si proponevano di uccidere le anime prima di distruggere i corpi – se torturavano e umiliavano sistematicamente gli ebrei prima di ucciderli – allora non dobbiamo aggravare il crimine guardando le vittime. E così viene da chiedersi: guardare, per esempio, le immagini fotografiche delle vittime dei nazisti è come la moglie di Lot che guarda la devastazione di Sodoma e Gomorra? La nostra fissazione voyeuristica su quelle fotografie incarna ciò che Isabel Wollaston chiama "uno sguardo nazista", uno sguardo che "oggettiva, umilia e violenta coloro che vengono fotografati?"[59] Forse è così. Wiesel sembrava pensarla così.

Il ritratto della moglie di Lot è il ritratto di una colonna di sale. Ma cosa significa? Nella Torah una delle espressioni più misteriose di un'alleanza con Dio è il "patto del sale", che è associato alle offerte portate a Dio; le |offerte elevate, ad esempio, affermano "un patto di sale e perpetuo davanti a HaShem, per te e per la tua progenie con te" (Numeri 18:19). Il significato di questa alleanza che afferma una relazione più elevata si manifesta nell'antica usanza di intingere il pane tre volte nel sale prima di mangiarlo dopo la benedizione del pane. In ebraico "sale" è melah, che (con un valore numerico di settantotto) è tre volte il valore del Nome Divino (ventisei), il Nome di Colui con cui entriamo nell'Alleanza. Le lettere che formano melah, inoltre, formano anche la parola lehem, che è "pane", simbolo di tutto ciò che sostiene la vita. I nazisti lo trasformarono in quella che Primo Levi chiama "la sacra lastra grigia",[60] l'antitesi del pane, quella roba che distruggeva corpo e anima, poiché trasformata in moneta da accumulare, e non sostentamento da condividere. Quella trasformazione del pane in antipane è forse vietata alla vista? Del resto, dove il pane non è pane, ha dimostrato Levi, l'essere umano non è un essere umano; può davvero essere discutibile osservare una simile trasformazione.

Il ritratto della moglie di Lot fdatto da Wiesel fornisce una lente attraverso la quale considerare il rischio che corriamo in un contesto post-Olocausto, un rischio che mette in pericolo qualsiasi eredità chassidica. Sta scritto nella Torah: "Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!" (Genesi 19:17). Ci sono, tuttavia, differenze importanti. La moglie di Lot guardò la distruzione dei colpevoli; volgendo lo sguardo verso Auschwitz, volgiamo lo sguardo verso l'umiliazione e l'assassinio degli innocenti. Vide piovere il fuoco della punizione; gli ebrei sopportarono le fiamme della distruzione che si levavano. In una parola, gli abitanti di Sodoma e Gomorra furono puniti, mentre gli ebrei d'Europa furono semplicemente annientati, anima e corpo: "Per noi", dice Levi, "il Lager non è un castigo".[61] Se la moglie di Lot pagò un prezzo per aver contemplato la distruzione dei colpevoli mentre fuggiva a Zoar, quanto maggiore è il prezzo richiesto da noi per guardare indietro all'omicidio, alla tortura e all'umiliazione degli innocenti? Alla fine ci rende spenti, muti ed esanimi come una colonna di sale?

Ritratto di Abramo e Isacco

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Abramo, Isacco, Sacrificio di Isacco e Sara (moglie di Abramo).

Passiamo ora dall'annientamento dei colpevoli alla strage degli innocenti, in un "andare" nelle nostre stesse anime, un lekh-lekha, come quando ad Abramo fu comandato di "andarsene" dalla terra di suo padre verso un terra che Dio gli avrebbe mostrato — Genesi 12:1: "Il Signore disse ad Abram: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione". Invero, la porzione della Torah che inizia con Genesi 12 è chiamata Lekh-Lekha. Riflettendo sulle parole lekh-lekha (לֶךְ-לְךָ), letteralmente "vai avanti, dentro te stesso", ci viene in mente l’affermazione di Wiesel secondo cui ciò che è avvenuto nella Shoah "è avvenuto nell'anima".[62] "Andare avanti, dentro se stessi" è sondare il profondo dell'anima. Questo movimento nell'anima che segna l'emergere del primo ebreo, caratterizza anche la lotta per rispondere al tentativo di sterminio di ogni ebreo, fino all'ultimo ebreo. Qui Dio sta dicendo ad Abramo, come dice a ogni ebreo in ogni momento, di allontanarsi dalla volontà egocentrica del sé e di entrare nella Volontà superiore che ci rende ciò che siamo. Un movimento nel tu, il lekh-lekha è un movimento nella capacità di dire tu a un altro, la capacità di dire: "Hineni — Eccomi sono qui per te", una frase che appare tre volte nella storia dell’Akeda, la Legatura di Isacco.

In effetti, l'unica altra volta in cui la frase lekh-lekha appare nella Torah è quando Dio comanda ad Abramo di offrire "Isacco, [il suo] unico figlio, il figlio [che] ama", e di "andare verso" la terra di Moriah (Genesi 22:2). Mentre si addentra nelle profondità del suo ritratto di Abramo e Isacco, Wiesel entra nel profondo della sua stessa anima, forse più che in qualsiasi altro ritratto. A dire il vero, la storia dell’Akeda è così fondamentale per l'insegnamento e la tradizione ebraica, che ripetiamo la storia ogni mattina nelle nostre preghiere preliminari. Come ha notato Joel Rosenberg, per Wiesel l’Akeda è, dopo la rivelazione del Monte Sinai, "l'evento più importante della Bibbia".[63] Nel Midrash, Wiesel sottolinea: "Il tema dell’Akeda occupa un posto altrettanto importante quanto la creazione del mondo o la rivelazione al Sinai".[64] Una cosa che caratterizza la creazione del mondo e la rivelazione al Sinai è il silenzio, ma ciascuna ha il suo proprio silenzio, come dice Katriel in Le Mendiant de Jérusalem di Wiesel: "C'è il silenzio che ha preceduto la creazione; e quello che accompagnò la rivelazione sul Monte Sinai. Il primo contiene caos e solitudine, il secondo suggerisce presenza, fervore, pienezza".[65] Torneremo al silenzio dell’Akeda, il silenzio di Abramo, o meglio tornerà a perseguitarci. Quando Isacco giaceva sull'altare, dice Wiesel, "tutti i mondi in tutte le sfere erano in tumulto: Isacco era diventato il centro dell'universo".[66] Perché? Cosa c'era in gioco?

In riferimento a un Midrash, Wiesel ci fornisce un ipotesi:

« Disteso sull'altare, con i polsi e le caviglie legati, Isacco vide il Tempio di Gerusalemme prima distrutto e poi ricostruito, e in quel momento della prova suprema, Isacco capì che ciò che accadeva a lui sarebbe accaduto ad altri, che ciò doveva essere una storia senza fine, un'esperienza che i suoi figli e i loro figli avrebbero dovuto sopportare. Non sarebbero mai stati risparmiati dalla tortura. L'angoscia del padre, invece, non era legata al futuro; sacrificando suo figlio per obbedire alla volontà di Dio, Abramo sapeva che, di fatto, stava sacrificando la sua conoscenza di Dio e la sua fede in Lui.[67] [cfr. Bereshit Rabbah 56:5, 56:9] »

Ci sono qui diversi punti importanti da notare. In primo luogo, la questione del sacrificio umano avrebbe perseguitato non solo il popolo ebraico ma tutta l'umanità nel corso dei secoli. Questo ci porta al comandamento fondamentale riguardante la santità della relazione da uomo a uomo rivelato sul Monte Sinai: "Non uccidere" (Esodo 20:12). In gioco nel racconto dell’Akeda, quindi, c'è la nostra comprensione più fondamentale del valore dell'altro essere umano e quindi di qualsiasi significato che la vita umana possa avere. L'intuizione di Wiesel qui ci ricorda anche un collegamento già notato, vale a dire il parallelo tra "Non uccidere" e "Io sono Dio" (Esodo 20:2). Pertanto, nel deporre suo figlio sull'altare, Abramo sacrificò la sua conoscenza di Dio, così come la sua fede in Dio. Fu consegnato a quella che Martin Buber chiama "that decisive hour, when he had to forget everything [he] imagined [he] knew of God, when [he] dared to keep nothing handed down or learned or self-contrived, no shred of knowledge, and [was] plunged into the night".[68] In questo ritratto di Abramo, dunque, vediamo un uomo al quale il Creatore del cielo e della terra si rivela come Colui che sfugge ad ogni conoscenza, ad ogni fede, Colui che esige non tanto la nostra fede quanto le nostre opere. Ma che genere di atto è questo?

Si è trattato innanzitutto di un evento che portò padre e figlio in un'intimità senza precedenti. "Il sacrificio", scrive Wiesel, sottolineando l'unione dei due, "doveva essere la loro offerta congiunta; padre e figlio non erano mai stati così vicini".[69] Il ritratto, quindi, è di Abramo e Isacco – e anche di Dio, "il Dio di Abramo e il Timore di Isacco", come è scritto (Genesi 31:42). Sì, paura, non yirah, che significa anche "timore reverenziale", ma pahad, "paura": la paura è una caratteristica prominente di questo ritratto. Wiesel ricorda, ad esempio, il Midrash in cui si dice che Isacco – un uomo di trentasette anni, e quindi non un bambino – gridò ad Abramo: "Padre, ho paura, ho paura di aver paura. Devi legarmi saldamente, affinché non sussulti e il coltello manchi il segno preciso, rendendomi così inadatto per un'offerta sacrificale" (cfr. Bereshit Rabbah 56:8; Tanhuma Vayera 23; Sefer HaYashar, Vayera 21).[70] Un altro Midrash dice che Isacco chiese di essere legato strettamente, per timore di maledire suo padre e violare il comandamento di onorare sua madre e suo padre (Pirke de Rabbi Eliezer 31). La paura più grande di Isacco, a quanto pare, non era che suo padre lo offrisse in sacrificio, ma che non sarebbe stato un sacrificio puro e appropriato e che avrebbe potuto, Dio non voglia, compromettere la sua relazione con il Santo — proprio mentre suo padre levava il coltello su di lui!

Passando ad Abramo, ci troviamo di fronte a un silenzio a sé stante, un silenzio inquietante che costituisce l'aspetto più sconcertante del suo ritratto: lui che, secondo una tradizione, era conosciuto come HaIvri, l'ebreo, perché conversava con Dio in ebraico,[71] perde improvvisamente la parola. Abramo "avrebbe potuto parlare proprio come aveva fatto quando cercò di salvare Sodoma e Gomorra", ci ricorda Wiesel. "Perché non lo fece? Secondo il Midrash[Pirke de Rabbi Eliezer 31; cfr. anche Talmud Bavli, Yoma 28b], conosceva e osservava le leggi e i comandamenti della Torah; non sapeva che uccidendo avrebbe mutilato l’immagine stessa di Dio? Non sapeva, lui che sapeva tutto, non sapeva che nella tradizione ebraica Dio è tenuto a obbedire alla Sua stessa Legge, compresa la più urgente di tutte: Non uccidere!".[72] Mutilare l'immagine stessa di Dio? Dio stesso fu dunque deposto sull'altare nel Sacrificio di Isacco? È lì che Dio si trovava in quel momento terribile che scosse il cielo e la terra — legato sull'altare? È per questo che mandò gli angeli a fermare Abramo invece di farlo Lui Stesso? È questa la Paura di Isacco, una paura non solo di Dio ma anche una paura per Dio?

Non solo il Patriarca non lancia un grido contro Dio, ma peggio ancora mente per Dio, come sottolinea Wiesel nel suo ritratto: "A sua moglie disse: Pregheremo. A suo figlio disse: Studieremo e mediteremo. Il segreto era solo suo; solo lui sapeva che c'era un segreto".[73] E che segreto! Non dimentichiamo che, incapace di "farla finita", Abramo non solo viaggiò silenziosamente per tre giorni verso il Monte Moriah, ma giacque silenziosamente accanto a suo figlio per tre notti! "Silenziosamente sistemò la legna da ardere, legò Isacco; silenziosamente estrasse il coltello", come ha osservato Kierkegaard,[74] solo per scontrarsi con il silenzio più terrificante di tutti, mentre "Isacco giaceva sull'altare, guardando silenziosamente suo padre".[75] Abramo, però, non rimase del tutto in silenzio. Tre volte gridò: "Hineni — Eccomi!": una volta a Dio (Genesi 22:1), una volta a Isacco (Genesi 22:7) e una volta all'angelo (Genesi 22:11). Se, come asserisce Levinas, colui "che dice «Eccomi» testimonia l'Infinito",[76] in questo caso si tratta di una testimonianza del silenzio infinito di Colui che è Infinito: dopo che Dio comandò ad Abramo di offrire suo figlio in sacrificio, loro due – Abramo e Dio, i due che conversavano in ebraico – non si parlarono più.

La follia si nasconde in questo silenzio. La follia si fomenta sempre nel silenzio. E così, come comprese così profondamente Wiesel – lui per il quale la follia era una categoria di pensiero – la follia divenne la tentazione più allettante che Satana potesse sottoporre ad Abramo, mentre il Patriarca e suo figlio si dirigevano verso Moriah. Lungo la strada, come Wiesel racconta secondo un Midrash, Satana apparve ad Abramo e disse: "Dimmi, vecchio, hai perso la testa, hai svuotato il tuo cuore di ogni sentimento umano? Sacrificherai davvero tuo figlio?" Abramo disse: "Sì". E se Dio dovesse mandare prove più dure, disse Abramo, cercherò di esserne all'altezza. E anche se in seguito Dio lo avesse accusato di omicidio, Abramo dichiarò che sarebbe comunque andato fino in fondo. Anche quando Satana alla fine disse ad Abramo la verità – che un agnello sarebbe stato fornito al posto di Isacco – Abramo rifiutò di credergli (Bereshit Rabbah 56:4; cfr. anche Tanhuma Vayera 23). "Satana personifica il dubbio che Abramo dovette avere", dice Wiesel, "per rimanere umano. Lo stesso vale per la paura di Isacco".[77] La paura, il dubbio e la tentazione della follia: la follia offre a chi dubita e a chi teme un posto dove nascondersi, come si nascose Adamo. Ma Abramo non si nascose. Abramo dichiarò: Hineni! e si mosse verso una vulnerabilità più radicale, che è precisamente il movimento verso l'Alleanza: il significato dell'Alleanza non sta nelle assicurazioni o nelle garanzie, ma in una vulnerabilità radicale.

Perché Abramo non prese questa via d'uscita, pensando: "Forse sono pazzo. Dio non me lo chiederebbe mai"? "Ci si comincia a chiedere", come dice Wiesel, "dal momento che Dio e lui si amavano così tanto e collaboravano così strettamente, perché queste prove? Perché Dio mette alla prova solo i forti. I deboli non resistono o resistono male; non hanno alcuna conseguenza. Ma allora, a che serve resistere, dal momento che Dio conosce in anticipo l'esito? Risposta: Dio lo sa, l'uomo no".[78] Tuttavia, questo Midrash, in cui Abramo insiste che, qualunque cosa accada, anche se dovesse essere fornito un agnello per prendere il posto di Isacco, lui andrà fino in fondo, è a dir poco sorprendente. C'è qui una certa sfida, come Wiesel capisce perspicacemente, e una certa tentazione di Dio. "Un test a doppio taglio", scrive Wiesel. "Dio l'ha sottoposto ad Abramo, ma allo stesso tempo Abramo lo ha imposto a Dio. Come se Abramo avesse detto: Ti sfido, Signore. Mi sottometterò alla Tua volontà, ma vediamo se andrai fino in fondo, se rimarrai passivo e tacerai quando sarà in gioco la vita di mio figlio — che è anche Tuo figlio!"[79] In modo ancora più potente, il Midrash dice che Abramo non ascoltò l'angelo che cercò di fermarlo ma insistette affinché Dio stesso lo affrontasse (Tanhuma Vayera 23), come per dire a Dio: "Tu comandato questo: voglio Te, e non il Tuo messaggero, per annullare il comandamento!" Sembra molto chassidico, vero?

Se la sfida di Abramo ha un sapore chassidico, allora la reazione di Isacco lo ha ancor di più. Isacco, attesta Wiesel, "avrà diritto di dire a Dio qualunque cosa, di chiedergli qualunque cosa. Perché soffriva? No. La sofferenza, nella tradizione ebraica, non conferisce alcun privilegio. Tutto dipende da cosa si fa di quella sofferenza. Isacco seppe trasformarla in preghiera [del resto è lui l'autore del servizio Minhah (Talmud Bavli, Berakhot 26b)] e amore piuttosto che in rancore e maledizione. Questo è ciò che gli conferisce diritti e poteri che nessun altro uomo possiede. La sua ricompensa? Il Tempio fu costruito sul Moriah, non sul Sinai".[80] Sul Monte Moriah il silenzio della Creazione convergeva con il silenzio della Rivelazione, il silenzio del caos, e il vuoto con il silenzio della pienezza e del mistero. Senza il Monte Moriah non ci sarebbe il Messia; poiché senza il Monte Moriah, come suggerito nel Talmud, lo yirat HaShem, il "timore reverenziale" o il "timore di Dio" non si diffonderebbe nel mondo (Taanit 16a).

Secondo la tradizione, il Monte Moriah presenta almeno altre due distinzioni. È il luogo da cui fu raccolta la polvere di Adamo per formare il primo essere umano (Zohar I, 34b). Ed era il luogo in cui Giacobbe fece il sogno degli angeli che salivano e scendevano dalla scala, il punto di contatto tra questo mondo e i mondi superiori (Pirke de Rabbi Eliezer 35), e il luogo in cui si svegliò e dichiarò: "Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo" (Genesi 28:16). In effetti, questa realizzazione fondamentale per Giacobbe è fondamentale per tutti noi: Dio è sempre stato qui e io non lo sapevo. È una presa di coscienza che arriva con timore e tremore: per tutto questo tempo sono stato davanti al Giudizio, solo per essere giudicato di non sapere.

Ritratto di Giacobbe e dell'Angelo

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Giacobbe e Giacobbe alle prese con l'angelo.

Wiesel nota che due momenti segnarono la vita di Jacob: aver fatto un sogno e ricevuto un nome.[81] I due momenti decisivi avvennero in due luoghi distinti che ricevettero a loro volta nuovi nomi: Beth-El e Peniel, la Casa di Dio e il Volto di Dio. Entrambi sono necessari per la relazione di alleanza che rende possibile dimorare nel mondo. Il sogno di Beth-El fu un preludio al confronto di Peniel, e il confronto di Peniel fu la conclusione del sogno di Beth-El. "Il futuro vincitore di Peniel", dice Wiesel, "tremava di paura a Beth-El [[[w:Genesi|Genesi]] 28:17]".[82] Perché? Perché il luogo in cui sognava era il luogo in cui suo padre fu legato all'altare. Questo era il luogo in cui un padre alzò il coltello su suo figlio e dove Dio era troppo imbarazzato per affrontare il padre a cui aveva comandato di alzare il coltello su suo figlio. Ora era la dimora del Santo, destinata a diventare il sito del Tempio da cui la Luce Divina sarebbe emanata nel mondo: la "Parola di Dio che uscirà da Gerusalemme" (Isaia 2:3) dall’Har HaBayit, il Monte della Dimora! Non c'è da stupirsi che Giacobbe tremasse di paura!

In questo luogo dove il cielo e la terra sono distanti solo di un capello, Giacobbe ebbe la visione di una scala che collegava i mondi superiori a questo, con angeli – malakhim o "messaggeri" – che salivano e scendevano (Genesi 28:12), passando in e dalla "porta del cielo" (Genesi 28:17). I saggi del Talmud capiscono abbastanza bene chi siano gli angeli che scendono dalla scala: sono gli emissari del Santo. Ma chi, si chiedono, sono questi angeli che salgono la scala? E loro rispondono: sono gli angeli che creiamo con i nostri pensieri, parole e azioni, gli angeli che poi escono in questo mondo per compiere il loro lavoro nel bene e nel male e ascendono nei reami superiori per fare lo stesso (cfr. Avot 4:11; Hagigah 41a). Quando creiamo gli angeli del male, le anime dei morti assassinati li accompagnano nei reami superiori per affrontare il Tribunale Celeste. Forse uno di loro raggiunse Giacobbe a Peniel. Forse è per questo che tremava di paura a Beth-El. Forse è per questo che gran parte del ritratto di Giacobbe fatto da Wiesel si sofferma sull'incontro a Peniel.

Ma c'è ancora più motivo non solo per cui Giacobbe trema di paura nel suo sogno, ma per tutti noi di essere congelati dalla paura mentre guardiamo il ritratto di Giacobbe fatto da questo chassid. "Nel suo sogno", scrive Wiesel, "Giacobbe vide una scala la cui cima raggiungeva il cielo. Esiste ancora. C'è chi l'ha vista, da qualche parte in Polonia, a lato di una stazione ferroviaria fuori mano. E tutto un popolo che saliva, saliva verso le nubi infuocate. Tale era la natura del terrore che il nostro antenato Giacobbe dovette provare".[83] Sì, il terrore: un terrore che abbraccia la storia e l'eternità del popolo ebraico. Il sopravvissuto e autore Ka-tzetnik 135633 fu uno di quelli che videro una scala da qualche parte in Polonia. Tra le visioni da incubo a cui si riferisce in Shivitti, c'è la visione di una scala che sale su una torre di guardia a Birkenau. Questa volta, tuttavia, gli "angeli" che salivano e scendevano dalla scala non erano le anime dei morti ma le guardie che li avevano assassinati.[84] Anche quelle scale esistono ancora.

Allora cosa hanno a che fare questi angeli con Peniel? Wiesel sottolinea che, anche se la Torah si riferisce allo straniero di Peniel come ish, o "uomo" (Genesi 32:25), la tradizione lo considera un angelo.[85] Il profeta Osea, ad esempio, si riferisce all'avversario di Giacobbe come a un angelo (Osea 12:4). Rashi lo identifica come l'angelo custode di Esaù, l'angelo malvagio Samael, che la tradizione identifica anche come l'Angelo della Morte (cfr., ad esempio, Bahya ben Asher su Esodo 21:23). Se a Peniel Giacobbe vide Dio faccia a faccia, significa forse che vide la morte faccia a faccia? Dio è morte? Può essere che, contrariamente a Nietzsche,[86] Dio non sia morto ma piuttosto che Dio sia morte? Potrebbe anche essere così, se vogliamo intendere la sconfitta di Dio da parte di Giacobbe come una sconfitta dell'Angelo della Morte, trasformando così, – proprio attraverso la sua lotta con Dio – Dio nel Dio della Vita.

La notte prima che Giacobbe si riconciliasse con suo fratello Esaù e tornasse nella sua terra natale, l'Angelo della Morte cadde su di lui e i due lottarono fino all'alba. Giacobbe vinse l'Angelo e non lo liberò finché non avesse ottenuto una benedizione dall'essere ultraterreno. La benedizione iniziò con una domanda: "Come ti chiami?"

E l'uomo rispose: "Giacobbe".

Al che l’Angelo della Morte rispose: "‘Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!’. Giacobbe allora gli chiese: ‘Dimmi il tuo nome’. Gli rispose: ‘Perché mi chiedi il nome?’. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Peniel ‘Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva’". (Genesi 32:25-31). Wiesel spiega:

« Ciò potrebbe significare che esiste una connessione tra la solitudine divina e quella umana: l'uomo deve essere solo per ascoltare, sentire e persino combattere Dio, poiché Dio coinvolge solo coloro che, paradossalmente, sono allo stesso tempo minacciati e protetti dalla solitudine... Ma la solitudine contiene la sua parte di pericolo proprio perché conduce inevitabilmente a Dio; chi Lo incontra è irrevocabilmente condannato a un altro tipo di solitudine. Quindi essere scelti non significa privilegio ma dignità e responsabilità. E nessuno vedrà il Mio volto e rimarrà in vita significa: Nessuno vedrà il Mio volto e vivrà come prima. »
(Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 111)

Wiesel intravide il volto di Dio, per essere lasciato barcollante, come Giacobbe, all'indomani della Shoah, incapace di vivere mai più come aveva vissuto prima?

Nel suo ritratto di Giacobbe, Wiesel estrae il nome di Israele dall'Angelo della – oserei dire? – della Shoah. Attraverso la sua rappresentazione del Patriarca che segue il suo passaggio attraverso il proprio Peniel, a Wiesel non viene lasciato tanto un nuovo nome quanto una riaffermazione del proprio nome come uno dei benei Yisrael. L’"aggressore", racconta, lasciò a Giacobbe "un nuovo nome che nelle generazioni a venire avrebbe simboleggiato la lotta eterna e la resistenza, in più di una terra, per più di una notte".[87] Non descrive questo il viaggio di Wiesel? "Mai dimenticherò quella notte": le sue parole tornano a tormentarci. "Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio Stesso. Mai".[88] Wiesel prevalse?

"Di notte lui [Giacobbe] era diverso", scrive l'autore di La Notte. "Trasfigurato... Così di notte avvenne l'evento decisivo della sua vita. A Peniel fu attaccato, a Peniel rispose".[89] Una parola ebraica per "risposta" è teshuvah (תשובה), che è anche un movimento di ritorno; l'incontro con l'Angelo, infatti, avvenne mentre Giacobbe intraprendeva un movimento di ritorno in patria. Era la terra che sarebbe diventata nota con il suo nuovo nome: Terra d'Israele. E l'essenza della Terra d'Israele è l'essenza della Torah, come è scritto nell’Or Neerav di Moses Cordovero: "È ben noto che la Terra d'Israele e la Torah hanno una vicinanza e un rapporto simile a quello della forza vitale al cuore. Poiché la Torah costituisce la forza vitale del mondo, come afferma [la liturgia]: ‘Egli ha piantato la vita eterna in mezzo a noi’. La forza vitale e l'anima dimorano nel cuore e le sue operazioni essenziali sono lì. Da lì si diffonde al resto del corpo. Lo stesso vale per la Torah. La sua essenza è nella Terra d'Israele, e molti comandamenti dipendono da [la terra]" (3:5:38). Peniel, quindi, fu un passo decisivo nel movimento di ritorno alla sua terra natale – la terra la cui essenza è la Torah – alla terra di Beth-El.

Anche l'evento decisivo della vita di Wiesel avvenne di notte, e molte saranno le notti che seguiranno a quella dell'evento decisivo – la notte diversa da tutte le altre – in cui "una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l'aveva divorata".[90] Come furono le notti di Elie Wiesel anche dopo che emerse dalla Notte? Come fu per lui lottare con l'Angelo della Notte, notte dopo notte dopo notte? Non lo sapremo mai. Ma anche Giacobbe si trovò di fronte a una fiamma nera, come suggerisce Wiesel: "Era l'angelo proprio di Giacobbe,... l'altra metà del sé diviso di Giacobbe. Il lato di lui che nutriva dubbi".[91] Che cosa, allora, Giacobbe cercava di strappare all'Angelo in quel decisivo incontro di lotta? Non era forse la sua anima, il suo nome? Il che ci riporta a un'altra domanda riguardante il resoconto biblico: se ricevette il nome "Israele" perché aveva lottato con Dio e prevalso, cosa significa "prevalere"? La parola tradotta come "prevalse" è vatukhal, affine di takhlit, che significa "scopo" o "proposito", il che a sua volta suggerisce che, dopo aver ottenuto un nuovo nome dall’Angelo, egli ricevette un significato e una missione rinnovati, un'anima rinnovata e un lascito, un passato e un futuro rinnovati.

Qual è allora la differenza tra Giacobbe e Israele? Il salmista lo afferma così: "Egli ha stabilito una testimonianza in Giacobbe e ha posto una legge [Torah] in Israele" (Salmi 78:5); così, proclama il profeta Isaia, Dio attirerà Giacobbe in un movimento di ritorno (leshuvev), affinché Israele possa essere radunato a Lui attraverso la Torah (cfr. Isaia 49:5). Nella lotta su cui si concentra Wiesel, che è un riflesso della sua stessa lotta, abbiamo la testimonianza e la lotta per ritornare; nel nome che emerge dalla lotta abbiamo l'insegnamento e la Torah, che a volte non viene ricevuta da Dio ma a Dio estorta. E nella testimonianza e nell'insegnamento ci sono sia un appello che una benedizione. Lottando per ottenere una benedizione dell'Angelo della Morte, Giacobbe raggiunse un significato e uno scopo – ottenne un insegnamento, una Torah – per la vita, ottenendo un nome: Yisrael. Ricevendo il nome, Giacobbe ricevette una convocazione. Poiché il nome Yisrael, sottolinea Rashi, è un affine di serarah, che denota una benedizione ricevuta attraverso una "condotta nobile e aperta" (cfr. il commentario di Rashi su Genesi 32:29). Ciò significa che per ottenere un nome – per recuperare il nome di Israele dopo la Shoah – l'ebreo deve vivere secondo gli insegnamenti del Nome. Pertanto il nome e il Nome, con la N scritta maiuscola, sono interconnessi.

Un patrimonio chassidico non viene semplicemente preso dal passato e lasciato in eredità alle generazioni successive: viene assunto dal passato e affidato alla cura di coloro che lo ricevono: l'affidamento è ciò che lo rende allo stesso tempo ebreo e chassidico. Il nome del lottatore, Israele, ci è affidato come una convocazione: ricevendo tale convocazione, riceviamo un nome – all'indomani di un assalto radicale al Nome. Nel tempo della Shoah, così come prima e dopo, il popolo ebraico ha lottato incessantemente con l'Angelo della Morte. La Shoah è stata un'epoca di aggressione non solo al corpo ma anche all'anima di Israele, l'anima raggiunta come benedizione e nome. Pertanto l'afflizione nazista dell'anima ebraica comportava un attentato alla benedizione e al nome, sia umani che divini. Il Rabbi di Shilev narrato da Ka-tzetnik capì questo punto proprio mentre lui e i suoi compagni ebrei aspettavano il loro turno alle camere a gas di Birkenau. "Non senti", rivolgendosi a un uomo di nome Ferber, "che Giacobbe – nelle nostre ossa – ora lotta con l'Angelo? Noi siamo il tendine della vena nella sua coscia in questa lotta!" E Ferber gli chiese: "Rabbi di Shilev, per amore di chi Giacobbe lotta con l'Angelo, se i suoi figli non avevano attraversato il fiume, ma erano rimasti qui nell'oscurità della notte?" E il Rabbino rispose: "Proprio dalle tenebre di questa notte Giacobbe porterà alla luce il nome Israele!".[92] Dalle tenebre di quella notte Giacobbe ottenne dall'Angelo una benedizione e un nome, il nome dell'Angelo stesso, secondo il Midrash: Israele (Pirke de Rabbi Eliezer 37).

I due eventi, quello di Peniel e quello di Birkenau, potrebbero essere più strettamente collegati di quanto pensiamo. Lo Zohar ci dice che la polvere sollevata quando Giacobbe lottò con l'Angelo "non era polvere ordinaria, ma cenere, residuo del fuoco" (Zohar I, 170a), cenere e fuoco che salivano, dice il Talmud, fino al Trono di Gloria (Hullin 91a). Mentre l'Angelo lottava con Giacobbe, dice il Midrash, "mise il dito sulla terra, dopo di che la terra cominciò a sprigionare fuoco. Giacobbe gli disse: ‘Con questo non mi atterrisci! Ebbene, io sono proprio fatto di tale roba!’ Così è scritto: E la casa di Giacobbe sarà un fuoco" (Abdia 1;18; Bereshit Rabbah 77:2). Dopo Auschwitz quel fuoco assume una nuova dimensione. Wiesel descrive il fuoco come "l'immagine dominante nella loro tragedia"[93] e ora ne vediamo il motivo. Nella lotta post-Olocausto con l'Angelo, la terra esplode in uno strano fuoco. Proprio come Giacobbe lottò per ottenere un nome dall'Angelo, noi ora dobbiamo lottare per ottenere un nome dal fuoco che consumerebbe il Nome. In questo nuovo incontro di lotta che ci spetta, abbiamo il lascito chassidico che deriva dal ritratto di Giacobbe fatto da Wiesel.

In La Notte, alla fine della lotta con l'Angelo della Morte, Wiesel si guarda allo specchio. E la Morte ricambia lo sguardo. Guardando negli occhi di un cadavere, guardò negli occhi dell'Angelo dai Mille Occhi, l'Angelo giallo come la stella che i nazisti impressero sugli ebrei (cfr. Talmud Bavli, Avodah Zarah 20b). Scrutando questo ritratto, anche noi guardiamo quegli occhi. Solo che questa volta l'Angelo non viene per prenderci ma per lasciarci con occhi nuovi, attraverso i quali guardiamo nello specchio della nostra anima dove è trapelato l'Olocausto. E l'Angelo ci guarda a sua volta. Dal profondo di quello sguardo l'Angelo ci pone una domanda, secondo l'antica leggenda ebraica, che risale fino a Peniel.

Secondo la leggenda, quando moriamo e giacciamo nella tomba, l'Angelo della Morte viene da noi per portarci alla presenza del Santo. Ma per avvicinarci alla Presenza Divina dobbiamo rispondere correttamente ad una certa domanda. La domanda è la stessa per tutti, ma per ognuno la risposta è diversa. E così, con i suoi mille occhi penetranti nella nostra anima, l’Angelo pone la domanda temibile, la stessa domanda che aveva rivolto a Giacobbe: "Come ti chiami?" (Genesi 32:28)[94] Ma cosa sappiamo in effetti quando conosciamo il nostro nome? Conoscere il nostro nome è conoscere i nomi di nostra madre e nostro padre. Significa conoscere una tradizione portata avanti da coloro che prima di noi hanno portato i nostri nomi; significa conoscere un insegnamento che custodisce la nostra missione di vita, come è inscritta nel nostro nome; significa riconoscere che siamo chiamati per nome e dobbiamo rispondere al nostro nome. Pertanto, Rabbi Chayim ben Attar insegna che chi viola consapevolmente il comandamento di Dio perde il suo nome originale (Or HaChayim in Genesi 3:30). Conoscere il nostro nome, come conoscere Dio, significa sapere cosa si deve fare.[95]

I saggi del Talmud si riferiscono alla trasmissione del lascito e della verità del Santo da una generazione all'altra come a un "tramandamento di nomi" (cfr. Kiddushin 71a). Man mano che si tramandano i nomi, così avviene il confronto e la domanda: come ti chiami? È una domanda che invita al confronto, una questione che può essere risolta solo attraverso un confronto che lo stesso Giacobbe cercò, come aveva capito Wiesel: "L'avventura a Peniel? Un atto consapevole, deliberato, una sfida di Giacobbe. La battaglia? Concepita e organizzata da Giacobbe".[96] Ciò è indice, osserva Wiesel, che "Giacobbe ha appena compreso una verità fondamentale: Dio è nell'uomo, anche nella sofferenza, anche nella sventura, anche nel male. Dio è ovunque. In ogni essere, non solo nella vittima. Dio non aspetta l'uomo alla fine del cammino, alla fine dell'esilio; lo accompagna lì. Di più: Lui è la strada, Lui è l’esilio".[97] Egli è il confronto che è il lascito chassidico di Elie Wiesel: se c'è qualcosa per cui i chassidim sono conosciuti, è per i loro confronti con Dio.

Ritratto di Giuseppe il Giusto

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Giuseppe (patriarca).

Il ritratto di Giuseppe proposto da Wiesel è il ritratto non solo di Giuseppe ma di Yosef HaTzaddik, Giuseppe il Giusto: "Giuseppe era e rimane, nella tradizione e nella leggenda, uno Tzaddik. Perché?... L'esistenza stessa della domanda conferisce a Giuseppe una nuova densità. D'un tratto sospettiamo un segreto. Se, nonostante tutto quello che si dice di lui, è lui l'Uomo Giusto della Bibbia, vuol dire che ci siamo lasciati ingannare dalle apparenze. Abbiamo guardato una maschera, non abbiamo visto il volto".[98] Il volto di uno Zaddiq è sempre nascosto. Ma è proprio questo lo scopo dei ritratti di Wiesel: rivelare il nascosto come nascosto, poiché la rettitudine è sempre nascosta. Questo ritratto di uno Zaddiq è il ritratto di un segreto.

Wiesel sottolinea che la tradizione ebraica attribuisce la rettitudine di Giuseppe alla sua capacità di resistere alle astuzie della moglie di Potifar.[99] Così la Gemara dice che "gli occhi di Giuseppe non cercavano di abbrancare ciò che non era suo, la moglie di Potifar, perché il malocchio non aveva dominio su di lui" (Berakhot 20a), e che, dice Rabbi Obadiah di Bertinoro nel suo commentario al Mishnah Makkot 3:15, ecco perché è chiamato Yosef HaTzaddik (cfr. anche Kaidanover, Kav HaYashar 2:5). Wiesel immagina lo scambio: "Giuseppe: No, non posso, non voglio. —Lei: Ma perché no? —Lui: Ho paura. —Lei: Paura? Paura di cosa? —Giuseppe: Di tuo marito. —Lei: Non c'è niente di cui preoccuparsi. È semplice, lo ucciderò. —Giuseppe (sudando freddo): No! Cosa stai cercando di farmi? Trasformarmi non solo in un libertino ma anche in un assassino?"[100] La moglie di Potifar aveva una risposta per ogni obiezione che Giuseppe poteva sollevare, tranne una: è un peccato contro Dio (Genesi 39:9).

Se Giuseppe riuscì a resistere a questo peccato irresistibile contro Dio, allora cosa gli permise di farlo? Il Midrash ci dice che fu il ricordo di suo padre: "Con tutta la sua saggezza una certa donna lo invogliò, e quando volle concedersi a peccare, vide l'immagine di suo padre e se ne pentì" (Pirke de Rabbi Eliezer 39; cfr. anche Kedushat Levi, Vayeshev 7). Poiché non dimenticò mai suo padre, Giuseppe lo onorò per sempre. E il comandamento di onorare la madre e il padre rientra nella categoria dei comandamenti che riguardano il rapporto tra l'essere umano e Dio. Perciò Giuseppe il Giusto dichiarò alla moglie di Potifar che sarebbe stato un peccato contro Dio.

La sefirah più cruciale per il flusso della santità in questo regno è Yesod: è lì che la santità dall'alto fluisce in Malkhut, in questo reame, come quando un marito si unisce a sua moglie in un santo matrimonio. Pertanto, Yosef HaTzaddik è situato nella sefirah di Yesod. Fondamentale per questa connessione tra l'alto e il basso, Giuseppe, dice Wiesel, fornì anche una connessione fondamentale tra Israele e le nazioni, "il primo ebreo a collegare due nazioni, due storie; il primo a collegare Israele al mondo"[101] e "il primo a saper conciliare il suo amore per Israele con l'amore per le altre nazioni".[102] Egli fu il primo, dunque, a collegare il mondo al Santo. Quando avviene questo collegamento? In tempo di carestia: il legame tra Israele e l'umanità non sta nel fare proselitismo sulla Torah, ma nell'offrire un boccone di pane a un altro essere umano. Riconoscere l'altro essere umano come essere umano è riconoscerlo affamato e offrirgli il pane. Perché Giuseppe merita il titolo di Zaddiq? Perché, in un tempo in cui la gente non aveva pane, lui ha offerto il pane.

Tuttavia, Giuseppe non raggiunse lo status di Zaddiq da un giorno all'altro. La sua storia, asserisce Wiesel, riguarda "la capacità di trasformazione dell'uomo. La storia di Giuseppe è la storia di una metamorfosi – no, di una serie di metamorfosi".[103] La sua vita, spiega Wiesel, "è un perfetto esempio della concezione kierkegaardiana dell'esistenza umana divisa in quattro cicli: il primo è quello della bellezza, il secondo quello della moralità, il terzo quello del sorridere e il quarto dedicato alle cose sacre. Da adolescente, Giuseppe si preoccupava solo dell'aspetto esteriore e del comportamento. Più tardi, in prigione, scoprì i fenomeni del bene e del male. Ancor più tardi, quando era re, ridicolizzò i suoi fratelli, ridendo delle loro spese. E infine, verso la fine della sua vita, il suo comportamento si avvicinò a quello di un santo".[104] Prima di diventare santo, come nota Wiesel, Giuseppe si assimilò alla società egiziana. "Giacobbe", dice Wiesel, "non dimenticò ciò che aveva studiato, Giuseppe sì. Giuseppe, l'ebreo assimilato".[105]

Ma non siamo troppo frettolosi qui. Passiamo al Midrash:

« E mandò Giuda davanti a sé (Genesi 46:28). Giacobbe mandò Giuda prima di lui per fondare un'accademia in cui avrebbe potuto insegnare la Torah... Quando i fratelli di Giuseppe tornarono e gli dissero: ‘Giuseppe è ancora vivo’... il suo cuore venne meno (Genesi 45:26). Giacobbe ricordò il capitolo della Torah che Giuseppe stava studiando al momento della sua partenza... anche Giuseppe si era ricordato del capitolo che stava studiando quando era stato separato da suo padre. Cosa fece Giuseppe? Diede loro dei carri (Genesi 45:21). Quando Giacobbe vide i carri (agalot), lo spirito del padre si rianimò immediatamente. Il gioco di parole che mette in relazione agalot ("carri") con kelayot ("reni") viene dichiarato nel paragrafo successivo come l'organo attraverso il quale Abramo apprese e mantenne la legge. Questo ci insegna che ovunque Giuseppe andasse, egli si dedicava alla legge..., anche se la Torah stessa non era ancora stata data. (Midrash Tanhuma, Vayigash 11) »

Giuseppe imparò non solo la Torah ma anche la Cabala, come suggerito dall'insegnamento secondo cui Giacobbe insegnò a Giuseppe i misteri delle ventidue lettere dell'alfabeto ebraico (cfr., ad esempio, Bahya ben Asher su Genesi 37:3). Inoltre, il Talmud dice che il giorno prima che il Faraone nominasse Giuseppe a governare sull'Egitto, disse a Giuseppe che lo avrebbe messo alla prova la mattina seguente per vedere se conosceva le settanta lingue delle settanta nazioni, in modo che potesse avere la saggezza necessaria per governare. Quella notte l'angelo Gabriele venne ad insegnare a Giuseppe le settanta lingue, e così egli dimostrò al Faraone di conoscerle tutte e settanta, più una: l'ebraico. E il Faraone gli chiese per favore di non rivelare che conosceva una lingua in più del Faraone (Sotah 33a; cfr. anche Bahya ben Asher su Numeri 19:2).

Eppure, nonostante la capacità di Giuseppe di parlare le settanta lingue delle settanta nazioni, un segreto rimane, come sospettavamo fin dall'inizio: un silenzio che incombe sul suo ritratto. "Il valore di un testo si riconosce dal peso del suo silenzio", scrive Wiesel. "Qui il silenzio esiste e pesa".[106] Ci viene in mente il commento di Rabbi Kalonymos Kalman Shapira sul covone di grano, l’alumah, nel sogno di Giuseppe (Genesi 37:7). Come il silenzio che pervadeva le urla e i gemiti disumani che definirono la Shoah, un silenzio segreto si nasconde sullo sfondo del ritratto di Yosef HaTzaddik realizzato da Wiesel. La parola ebraica ilem, affine di alumah, sottolinea Rabbi Shapira, significa sia "silente" che "muto". Nel suo resoconto dell'assalto nazista al corpo e all'anima di Israele, Rabbi Shapira legge ilem come un silenzio che sopraffà una persona "così distrutta e schiacciata che non ha nulla da dire; chi non apprezza o non capisce ciò che gli sta accadendo; chi non possiede le facoltà con cui valutare o assimilare le sue esperienze; chi non ha più la mente o il cuore con cui incorporare l'esperienza. Per lui il silenzio non è una scelta; il suo è il mutismo di chi è incapace di parlare".[107] Poiché questo mutismo è il mutismo dell'essere umano, in esso si nasconde un grido. In effetti, il mutismo stesso "sta eretto", come dice Rabbi Shapira, come il "covone" di Giuseppe. Il silenzio di alumah è più che assordante: è inquietante.

L'immagine è particolarmente inquietante quando Wiesel ci ricorda che Giuseppe rimase in silenzio quando i suoi fratelli complottarono per ucciderlo. Quanto a Giacobbe, era così distrutto e schiacciato che "per vent'anni non parlò. Non una parola, non una lamentela. Viveva fuori del linguaggio, al di là della speranza. Immerso nel silenzio e da esso compenetrato, era distante e inaccessibile. Sembrava che avesse tagliato i ponti con il mondo e con il suo Creatore. Perché, ad un altro livello, c'era anche il silenzio dall'alto".[108] Giacobbe, che ricevette il nome di Israele quando si trovò faccia a faccia con Dio a Peniel, non parlò più con Dio. Tuttavia, Giacobbe fece un sogno, dal quale Dio, in effetti, gli parlò: "Dio parlò a Israele in visioni notturne, e disse: «Giacobbe, Giacobbe!» Ed egli rispose: «Eccomi»" (Genesi 46:2). Perché Dio dovrebbe gridare "Israele" e poi chiamarlo "Giacobbe"? Perché, dice Nahmanide, stava per andare in esilio in Egitto, e il nome di Israele si applica solo a colui che abita nella Terra dell'Alleanza (Nahmanide su Genesi 46:2). Si potrebbe pensare che mantenere il nome di Israele in esilio sarebbe ancora più cruciale che essere chiamato Giacobbe. Dopotutto, Giacobbe fu chiamato Israele mentre era in esilio. Però ricevette tale nome intraprendendo un movimento di ritorno. Eppure non fu Giacobbe ma Giuseppe il primo a sperimentare veramente il significato di esilio, come insegna Wiesel: "Giuseppe, il primo ebreo a soffrire per mano degli ebrei, riuscì a dominare il suo dolore e la sua delusione e a collegare il suo destino al loro. Joseph: uno Zaddiq? Il titolo fu senza dubbio meritato".[109] Finalmente intravediamo il segreto del motivo per cui Giuseppe venne conosciuto come uno Zaddiq, come Giuseppe il Giusto.

Abbiamo parlato della prima domanda che Dio pone all'essere umano: dove sei? (Genesi 3:9). La prima domanda che l'uomo pone a Dio, però, è: sono io forse il custode di mio fratello? (Genesi 4:9). Secondo Rabbi Sheldon Zimmerman, il resto del Libro della Genesi affronta questa domanda, per culminare nell'incontro tra Giuseppe e Giuda. Si tratta di un incontro che avviene nel momento del movimento all'esilio: Giuda mette in gioco la propria vita per essere il custode di Beniamino, suo fratellastro, figlio di Rachele (e non di Lea, la madre di Giuda) (Genesi 43:9). Dopo aver assistito all'offerta della propria vita da parte di Giuda per amore di un fratello, Giuseppe piange per la prima volta (Genesi 43:30), come se lui, tra tutti i saggi del Libro della Genesi, comprendesse finalmente la domanda posta da Caino a Dio. Ecco perché è Yosef HaTzaddik.

Ritratto di Mosè nostro maestro

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Tōrāh, Mosè, Genesi, Libro dell'Esodo, Levitico, Numeri (Bibbia) e Deuteronomio.

Ogni artista che dipinge un ritratto immerge il pennello in una tavolozza di colori, strutture e temi. Nel caso di Giuseppe, Wiesel esplora le trasformazioni che Giuseppe attraversa nelle fasi del percorso di vita. Qui la sua tavolozza per il ritratto di Mosè tende molto più alla morte di Mosè che alle trasformazioni subite durante la sua vita. Tuttavia, il ritratto della sua morte è intrecciato con il ritratto della sua vita. Se un ritratto cattura l'identità di una persona, allora il ritratto fatto da Wiesel della morte di Mosè, così come il suo ritratto della vita di Mosè, vanno al nocciolo della questione dell'identità, dell'esilio e del movimento di ritorno, fine alla morte. È qui, infatti, che il ritratto di Giuseppe e il ritratto di Mosè si intersecano: nella consapevolezza che, a differenza della morte di un animale, la morte di un essere umano è parte della testimonianza a cui è chiamato in vita. Per un essere umano la morte è un compito.

Secondo una tradizione (cfr. Yaakov ben Rabbeinu Asher, Tur HaArokh, su Esodo 2:19), quando Dio dichiarò a Mosè che non gli sarebbe stato permesso di entrare nella Terra della Promessa ma che sarebbe stato sepolto fuori dalla terra, Mosè implorò Dio, dicendo: "Se non posso entrare vivo nella Terra, per favore permetti che le mie ossa siano portate nella Terra insieme alle ossa di Giuseppe, i cui resti ho portato fuori dall'Egitto".

Al che Dio rispose: "Mi dispiace, Mosè, ma non posso farlo. Vedi, Giuseppe non ha mai negato di essere ebreo. Era, infatti, conosciuto come Giuseppe l'Ebreo. Ma tu, Mosè, quando fuggisti dall'Egitto a Madian, cercasti di farti passare per egiziano. Perciò le tue ossa rimarranno fuori della Terra".

Wiesel riprende questo insegnamento: "Quando [Mosè] arrivò nella terra di Madian, nascose la sua identità. Presumevano che fosse egiziano e lui scelse di non correggere il loro errore (Esodo 2:19). Era un ebreo nascosto in cerca di assimilazione, tanto che il suo secondo figlio non venne circonciso. Mosè, ancora una volta, era molto distante dal suo popolo, anche se questa volta deliberatamente. Niente è più doloroso della vista delle vittime che adottano il comportamento e le leggi dei loro carnefici. Se gli ebrei si comportavano come gli egiziani, perché Mosè avrebbe dovuto preoccuparsi del loro destino?"[110] Si ricorderà che Wiesel fece una lamentela simile nei confronti di Giuseppe e del suo desiderio di assimilarsi e di imitare i modi degli assassini degli ebrei.[111] Certo, esilio e assimilazione sono intrecciati: assimilazione è esilio, la forma più insidiosa di esilio perché è il più comodo. Il Midrash insegna che quegli Israeliti che furono in grado di ascendere dall'Egitto poterono farlo per quattro ragioni: (1) non cambiarono la loro lingua, (2) non cambiarono i loro nomi, (3) non si sposarono tra loro e ( 4) non facevano la spia l'uno dell'altro (Mekilta de-Rabbi Ishmael, Pisha 5). La stragrande maggioranza degli Israeliti in Egitto scelse di rimanere in Egitto, proprio come una moltitudine di Egizi scelse di partire con gli Israeliti. Sembra familiare, vero? Quanti ebrei hanno dimenticato il loro ebraico? Quanti hanno abbandonato i loro nomi ebraici? Quanti hanno fatto matrimoni misti? Quanti hanno denunciato Israele? E in nome di cosa? Per il bene di cosa? Per compiacere chi? In breve, questi ebrei con cosa hanno barattato la loro Torah?

Wiesel è fin troppo sensibile a questi temi nei suoi ritratti. Sa che l'anima che odia se stessa è un’anima in esilio, e il paradigma ebraico dell'esilio è l'esilio in Egitto, un reame governato da un Faraone che pensa di essere Dio e afflitto da un'oscurità in cui "non si vedevano più l'un l'altro" (Esodo 10:23). Tale è l'esilio da cui Mosè condusse via gli ebrei, e in questo risiede la sua grandezza. Il vero orrore dell'esilio egizio, come lo esprime Rabbi Adin Steinsaltz, "era che gli schiavi diventavano gradualmente sempre più simili ai loro padroni, pensavano come loro e persino sognavano gli stessi sogni. Il loro più grande dolore, infatti, era che i loro padroni non permettessero loro di realizzare il sogno egizio".[112] E la loro più grande miseria era che non vedevano nulla di male nel sognare il sogno egizio, uno di potere e possedimenti, di piacere e prestigio — un incubo in cui di più è meglio ma mai abbastanza. È l'incubo di perdersi in un ambiente estraneo, incapaci di trovare la strada di casa. Vediamo così in Mosè il prototipo del dilemma che il popolo ebraico dovrà affrontare nel corso della storia: convertirsi, assimilarsi, o morire. Vediamo inoltre in lui tracce dei nostri sogni inquietanti.

"Mosè divenne uno straniero in più di un modo", osserva Wiesel, "uno straniero per il popolo egizio, per il popolo ebraico e per se stesso... Strano, per quarant'anni Mosè visse nella sua nuova terra adottiva senza mai preoccuparsi del destino della sua famiglia. Sembra quasi improbabile. Cosa era successo dentro di lui?"[113] Eppure fu Mosè a essere scelto per trasmettere la Torah al popolo d'Israele. Perché? Abbiamo già discusso dell'identificazione di Giuseppe con la sefirah di Yesod. Qui notiamo che Mosè è identificato con la sefirah di Netzah, che deriva da Hesed, che significa la dimensione dell'altezza, in particolare nella tradizione chassidica (cfr. Kedushat Levi, Vaera 6). Poiché gli Israeliti non escono semplicemente dall'Egitto ma ascendono dall'Egitto, dovevano essere condotti in una dimensione di altezza, nella sefirah di Netzah, che è "eternità" o "infinito", e nel regno di Hesed – o amorevolezza. Mosè manifestò questa ascesa trascendente nel modo più umile, come sottolinea Wiesel, notando un Midrash sul pastore Mosè: fece di tutto per seguire un agnello che si era smarrito, al che Dio proclamò: "Poiché hai tanta compassione verso l'agnello, avrai compassione degli Ebrei [Shemot Rabbah 2:2]".[114] In effetti, come lo descrive Wiesel, Mosè aveva più compassione per gli ebrei – che è una compassione che si estende a tutta l'umanità – che per Dio Stesso.

Tipicamente chassidico nel suo profondo amore per il popolo ebraico e nelle sue confrontazioni con Dio, nota Wiesel, Mosè si lamentò degli Israeliti, ma:

« Se gli altri parlavano male di Israele, lui si affrettava a difenderlo, con passione, con fierezza; ci sono momenti in cui gli ebrei – e solo gli ebrei – possono criticare altri ebrei. Mosè li difese non solo dai nemici ma, a volte, anche da Dio. Dice il Midrash: solo supplicando per il suo popolo Mosè divenne un Ish Elokim [un Uomo di Dio]... Nel momento in cui gli angeli si pronunciarono contro Israele – e ciò accadde spesso – Mosè prese le sue difese. Quando Dio decise di dare la Sua Legge a Israele e gli angeli si opposero al Suo piano, Mosè li rimproverò: Chi dunque la osserverà? Voi? Solo l'uomo può assumere la Legge e vivere secondo i suoi precetti... [E disse a Dio (Esodo 32:32)]: "Se li cancelli, cancella il mio nome dal tuo libro". »
(Wiesel, 177–78)

Come spesso accade, ciò che è tipicamente chassidico è tipicamente talmudico:

« E Rabbi Yehoshua ben Levi disse: Quando Mosè salì nell'Alto per ricevere la Torah, gli angeli ministranti dissero davanti al Santo, Benedetto sia Lui: Signore dell'Universo, cosa ci fa qui tra noi un nato da donna? Il Santo, Benedetto sia Lui, disse loro: È venuto per ricevere la Torah. Gli angeli dissero: La Torah è un tesoro nascosto..., e tu cerchi di darlo a carne e sangue? Il Santo, Benedetto sia Lui, disse a Mosè: Fornisci loro una risposta sul perché la Torah dovrebbe essere data al popolo... Mosè disse agli angeli: Siete discesi in Egitto? Siete stati schiavi del Faraone? Perché la Torah dovrebbe essere vostra? Dimorate forse tra le nazioni che adorano gli idoli cosicché richiedete questo speciale avvertimento? (Shabbat 88a) »

Da lì Mosè esaminò i Dieci Comandamenti, notando che non c'era modo che potessero riferirsi agli angeli. E così gli angeli concordarono che la Torah fosse data a Mosè e, attraverso Mosè, agli Israeliti (Shabbat 89a).

Poiché Mosè incarnava la sefirah di Netzah e quindi la dimensione dell'altezza, anche da bambino in una cesta che galleggiava lungo il fiume, dice Wiesel, "tutto il suo popolo piangeva in lui".[115] E poiché Batya, la figlia del Faraone, era così vicina a Dio, ella poteva riconoscere quel grido. In effetti, Batya era così giusta che, secondo il Talmud, era tra coloro che furono in grado di ascendere ai reami superiori senza subire l'agonia della morte (cfr. Kallah Rabbati 3:23; anche Derekh Eretz 1:18).[116]

Wiesel racconta il Midrash spiegando come Mosè divenne "lento di parola e di lingua", cioè balbuziente (Esodo 4:10). Colui che Dio scelse come Suo portavoce e insegnante della Torah era un balbuziente! Tuttavia, Dio aveva bisogno di un balbuziente per incoraggiare ognuno di noi a esaminare attentamente ogni parola ed essere sicuri di aver sentito ciò che pensavamo di aver sentito. Si dà il caso che le belle parole non siano vere e le parole vere non siano belle. Pertanto Dio Stesso fece di Mosè un balbuziente, secondo il Midrash riportato da Wiesel.[117] Secondo il racconto, il bambino Mosè amava giocare con la corona del Faraone. Anche il Faraone si dilettava nel compiacere suo nipote, finché un giorno i suoi consiglieri lo avvertirono. Questo è un segno che il bambino ti toglierà il potere. Il Faraone ordinò che fossero portati fuori due calderoni: uno pieno d'oro, l'altro pieno di carboni ardenti. Se il piccolo Mosè avesse preso l'oro, la sua ambizione sarebbe stata smascherata e sarebbe stato giustiziato; se avesse preso i carboni ardenti, avrebbero saputo che non aveva ambizioni. Mosè stava per prendere l'oro, quando improvvisamente un angelo gli prese la mano, conducendolo ai carboni ardenti. Prese un carbone ardente dal calderone e se lo portò alle labbra, dopo di che divenne balbettante (Shemot Rabbah 1:31). Beh, avrei balbettato anch'io, tenendo in mano un carbone ardente!

Quando gli Israeliti emersero dalle acque separate del Mar Rosso, Mosè il Balbuziente poté esplodere in un canto. Come? Dice Wiesel: "La spiegazione chassidica: Vayaaminu baadoshem uv Moshe avdo – Ed ebbero fede in Dio e nel Suo servitore Mosè. Per la prima volta un intero popolo si radunò attorno a Mosè; per la prima volta ne divenne il vero portavoce. Ecco perché seppe cantare; per mezzo di lui cantava un popolo intero".[118] Tuttavia, la tradizione chassidica sottolinea un insegnamento talmudico che riguarda questa occasione: quando gli angeli si unirono agli Israeliti nel canto, Dio li fece tacere, dicendo: "Come potete cantare quando i Miei figli stanno annegando?" (Megillah 10b). Quando il prezzo della liberazione è così alto, non ci deve essere celebrazione nell'Alto. Si rallegri l'umanità, ma non si rallegrino gli angeli.

Il motivo della gioia dell'umanità è il dono della Torah. Soltanto la Torah, come chiarisce Wiesel nel suo ritratto di Mosè, è occasione di gioia e di ringraziamento. Se, come dice, "Mosè era la gratitudine personificata",[119] è perché Mosè si rendeva conto che senza la Rivelazione Divina dell'infinita santità dell'altro essere umano e dell'infinita responsabilità di ciascuno per l'altro – senza un'infinita gratitudine per quell'infinita responsabilità — nulla può avere alcun significato. Pertanto Wiesel fa rivolgere la nostra attenzione alla Scrittura, dicendo che "gli israeliti erano radunati ai piedi del monte", che in realtà era betahtit hahar, "ai piedi del monte" (Esodo 19:17). Il Talmud ci dice che, con la montagna incombente su di loro, gli Israeliti dovevano prendere una decisione (Avodah Zarah 2b). "Era o Torah o morte", racconta Wiesel. "Non avevano scelta e quindi accettarono la Legge contro la loro volontà".[120] Ancora una volta, però, non dobbiamo essere troppo frettolosi. Dio non sta minacciando gli ebrei. No, sta dicendo che senza la Torah l'umanità sarà schiacciata dal vuoto di un mondo strettamente materiale e quindi privo di significato, dove il potere è l'unica realtà e la debolezza l'unico peccato.

Come la nuvola di fumo e la colonna di fuoco, però, la montagna che ora minaccia di seppellirci è una montagna di cenere. La montagna non solo incombe su di noi, ma dimora dentro di noi, letteralmente e luridamente come la montagna di ceneri sotto la cupola di cemento di Majdanek. Poiché i venti hanno sparso una montagna di cenere – le ceneri di sei milioni di ebrei – sulla faccia della terra. Abitano la terra che ci dà il nostro pane. Si rannicchiano nelle briciole che mettiamo in bocca. Se, come insegnò una volta il saggio talmudico Rabbi Ammi, chi mangia dalla terra di Babilonia è come se mangiasse la carne dei suoi antenati (Zevahim 113b), cosa diremo di questo pane che ora raccogliamo dalla terra di cenere? Come siamo fatti di quel pane, così siamo fatti di quelle ceneri: siamo la tomba di coloro a cui è negata una tomba. Il sopravvissuto e scrittore Arnošt Lustig lo afferma in modo più eloquente: "Queste ceneri saranno contenute nel respiro e nell'espressione di ognuno di noi, e la prossima volta che qualcuno chiederà di cosa è fatta l'aria che respira, dovrà pensare a queste ceneri"; saranno contenuti in libri che non sono stati scritti e si troveranno nelle regioni più remote della terra dove nessun piede umano è mai passato; nessuno potrà liberarsene, perché saranno le ceneri care e fastidiose dei morti che morirono innocenti.[121] Nessuno potrà affrontare il Monte Sinai senza affrontare questo monte. Ed Elie Wiesel lo sapeva.

Questa visione del bisogno di redenzione dell'umanità esprime la comprensione ebraica della redenzione esemplificata da Mosè. Come afferma correttamente Wiesel, nell'ebraismo, da Mosè in poi, non esiste il concetto di salvezza personale — quando Mosè dichiarò: "Se non redimerai tutto Israele, allora cancella il mio nome dal Tuo libro" (Esodo 32:32), ha dichiarato che o tutti saremo redenti oppure nessuno di noi lo sarà.[122] Dice Wiesel: "Sebbene scelto da Dio, egli rifiutò di rinunciare all'uomo. Proprio come Dio avvicinò Mosè all'uomo, Mosè avvicinò Dio all'uomo".[123] Ed è per questo che Mosè era l'amato di Dio, colui alla cui cura fu affidata la Torah. Ecco perché nel momento della sua morte, nonostante – o a causa – del dibattito tra Mosè e Dio, abbiamo questo momento alla fine del ritratto di Wiesel: "Allora, silenziosamente, Dio baciò le sue labbra. E l'anima di Mosè trovò rifugio nel soffio di Dio e fu spazzata via nell'eternità"[124] (cfr. Rashi su Deuteronomio 34:5), proprio come Egli aveva preso Miriam e Aronne con un Bacio Divino (cfr. Rashi su Numeri 20:1). Sorella e fratelli davvero straordinari.

  Per approfondire, vedi Apocalisse di Mosè (testo).

Ritratto di Miriam

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Miriam (Esodo).

Parte del lascito chassidico sono le preghiere chassidiche. E nelle preghiere chassidiche, come le preghiere del Tehillat HaShem di Chabad-Lubavitch, il ricordo di quando Miriam fu colpita dalla lebbra è tra le Sei Rimembranze che giungono alla fine del servizio mattutino.[125] Nella Torah ella appare sulla scena prima di Aronne: come sottolinea Wiesel, la prima volta che Aronne viene menzionato nella Scrittura è quando Dio manda Mosè in missione (Esodo 4:14),[126] ma la sorella di Mosè viene invocata nel momento in cui Batya, la figlia del Faraone, gli salvò la vita (Esodo 2:4-5). Fu sua sorella a vegliare su Moshe Rabbeinu quando fu gettato nelle acque del fiume che era stato utilizzato per uccidere i neonati maschi di Israele (Esodo 1:22). Anche prima della nascita di Mosè, secondo il Midrash, Miriam e sua madre stavano salvando i bambini israeliti maschi, un punto che Wiesel non perde nel suo ritratto. "Di tutte le donne che abitano nel turbolento universo della Bibbia", scrive, "lei sembra la più sfuggente".[127] Ma il Midrash è specializzato nell'inafferrabile; a dire il vero, lo scopo centrale del Midrash è rendere le cose meno sfuggenti (o più sfuggenti?). Non viene menzionata per nome fino a Esodo 15:20, quando, ci viene detto, "Miriam la profetessa" guidò in canto le donne israelite durante la traversata del Mar Rosso. O meglio, se viene menzionata per nome, è un nome diverso: Puah (Esodo 1:15). Tra l'Aggadah del Talmud e i racconti del Midrash ci vien data una spiegazione.

È scritto nel Talmud che quando il Faraone decretò che i neonati maschi israeliti dovessero essere assassinati, Amram, il capo della comunità ebraica, ordinò che non ci fossero più rapporti matrimoniali tra mariti e mogli d'Israele, in modo che non ci fossero più neonati da uccidere. Sua figlia Miriam, che già da bambina aveva poteri profetici, dice Wiesel,[128] convinse il padre a revocare la sua sentenza e a incoraggiare i mariti e le mogli israeliti ad avere figli, nonostante il decreto del Faraone. Questo perché da lui e da sua madre, Yoheved, sarebbe sorto l'uomo che avrebbe liberato gli Israeliti dalla loro schiavitù (Sotah 12a–12b; Pesikta Rabbati 43).

Il Midrash va ancora oltre. Dopo aver esortato il padre a favorire la nascita di bambini israeliti, Miriam e sua madre Yoheved fecero in modo che vivessero quanti più bambini possibile: furono le levatrici Puah e Shifrah, che salvarono i bambini israeliti (Esodo 1:17). Il Talmud dice che fu chiamata Puah, da poah o "gridare", perché gridò la sua profezia secondo cui sua madre avrebbe dato alla luce il salvatore di Israele (Sotah 11b). E così, racconta il Talmud, quando nacque Mosè, Miriam fece la guardia al suo fratellino per assicurarsi che la sua profezia si sarebbe avverata (Megillah 14a; cfr. anche Mekilta de-Rabbi Ishmael, Beshalah 10). Per la sua vigilanza su suo fratello, dice la Mishnah, Miriam ricevette la guarigione dalla sua malattia di lebbra quando Mosè e tutti gli Israeliti supplicarono Dio per la sua guarigione (Sotah 1:9). In effetti, non è forse stata questa la risposta degli ebrei nel periodo post-Shoah: avere bambini ebrei e allevarli come ebrei, nonostante il fatto che gran parte del mondo vorrebbe ancora vedere la loro distruzione? Non è questa l'eredità che spetta a tutti gli ebrei?

Essenziale per un'eredità chassidica è il canto, e quale canzone è più centrale nel resoconto della Torah che non la Canzone al Mare (שירת הים, Shirat HaYam) di Miriam? Dice Wiesel: "È interessante notare che il commentatore [del XVI secolo] ‘Kli Yakar’ dice che lei non cominciò a cantare perché era una profetessa, ma piuttosto divenne una profetessa perché cominciò a cantare" (Shlomo Ephraim ben Aaron Luntschitz, Kli Yakar su Esodo 15:20).[129] E perché si alzò e danzò, ricordandoci la visione chassidica della danza come forma di preghiera, anzi, addirittura superiore alla preghiera. Nella danza lo spirituale discende e il fisico ascende per arrivare a nuovi livelli di intuizione, gioia e gratitudine. Nella danza, il pensiero diventa lode, così che il salmista ci ingiunge di lodare Dio attraverso la danza o mahol (cfr., ad esempio, Salmi 150:4). Diventando così una "danzatrice", una meholelet, Miriam afferma concretamente la santità di Dio.

 
Mirjam, di Ephraim Moshe Lilien (ca. 1900)
 
Canzone al Mare dal Sefer Torah
 
Mirjam, di Anselm Feuerbach (1862)

Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere.
Mia forza e mio canto è il Signore,
egli mi ha salvato.
È il mio Dio e lo voglio lodare,
è il Dio di mio padre
e lo voglio esaltare!
Il Signore è prode in guerra,
si chiama Signore.
I carri del faraone e il suo esercito
ha gettato nel mare
e i suoi combattenti scelti
furono sommersi nel Mare Rosso.
Gli abissi li ricoprirono,
sprofondarono come pietra.
La tua destra, Signore,
terribile per la potenza,
la tua destra, Signore,
annienta il nemico;
con sublime grandezza
abbatti i tuoi avversari,
scateni il tuo furore
che li divora come paglia.
Al soffio della tua ira
si accumularono le acque,
si alzarono le onde
come un argine,
si rappresero gli abissi
in fondo al mare.
Il nemico aveva detto:
Inseguirò, raggiungerò,
spartirò il bottino,
se ne sazierà la mia brama;
sfodererò la spada,
li conquisterà la mia mano!
Soffiasti con il tuo alito:
il mare li coprì,
sprofondarono come piombo
in acque profonde.
Chi è come te fra gli dèi, Signore?
Chi è come te,
maestoso in santità,
tremendo nelle imprese,
operatore di prodigi?
Stendesti la destra:
la terra li inghiottì.
Guidasti con il tuo favore
questo popolo che hai riscattato,
lo conducesti con forza
alla tua santa dimora.
Hanno udito i popoli e tremano;
dolore incolse gli abitanti della Filistea.
Già si spaventano i capi di Edom,
i potenti di Moab li prende il timore;
tremano tutti gli abitanti di Canaan.
Piombano sopra di loro
la paura e il terrore;
per la potenza del tuo braccio
restano immobili come pietra,
finché sia passato il tuo popolo, Signore,
finché sia passato questo tuo popolo
che ti sei acquistato.
Lo fai entrare e lo pianti
sul monte della tua eredità,
luogo che per tua sede,
Signore, hai preparato,
santuario che le tue mani,
Signore, hanno fondato.
Il Signore regna
in eterno e per sempre!
Esodo 15:1-18

Perché, allora, il ricordo della sua malattia di lebbra, piuttosto che della sua danza, è tra le Sei Rimembranze nel Tehillat HaShem? Al livello più semplice, è perché la Torah ci comanda di ricordare che fu colpita dalla lebbra (Deuteronomio 24:9). A un livello più profondo sta nel motivo della sua afflizione, che è ancora più potente della danza: secondo il commento di Rashi a Deuteronomio 24:9, Miriam fu colpita perché aveva pronunciato calunnie contro Mosè; cioè era colpevole di un peccato gravissimo, di lashon hara. "Più che linguaggio malvagio", spiega Wiesel, "significa la lingua del male. Insultare qualcuno, screditarlo, diffamarlo alle sue spalle, è servire le potenze del male".[130] Il male prospera sugli angeli malvagi creati da parole malvagie. Perciò il salmista ci avverte: "Chi è l'uomo che desidera la vita e che brama lunghi giorni per poter gioire del bene? Trattieni la tua lingua dal male e le tue labbra da parole menzognere." (Salmi 34:12-14). Quando Miriam parlò contro Mosè, minacciò di minare tutta la creazione e quindi la stessa Torah.

"Che cosa straordinaria, dice il Midrash [Vayikra Rabbah 15:8]: è stato Dio a punirla, Dio a determinare la sua malattia e Dio a curarla".[131] Quando Dio guarì Miriam e poi la prese, come nota Wiesel, gli Israeliti si trovarono improvvisamente in un disperato bisogno di acqua.[132] Perché? Perché, come spiega Rashi, finché lei era in vita, godevano delle acque del pozzo di Miriam (commentario a Numeri 20:2). Erano sostenuti, in altre parole, dal nutrimento della Torah. Perché la Torah è associata all'acqua (cfr., ad esempio, Talmud Bavli, Avodah Zarah 5b), e l'acqua è associata a Miriam e alle madri e figlie di Israele. Quindi ricordiamo il commentario di Rashi su Esodo 19:3, dove sta scritto: "Così dirai alla casa di Giacobbe e questo annuncerai ai figli d'Israele". "La Casa di Giacobbe", dice Rashi, si riferisce alle donne, e "i Figli di Israele" si riferisce agli uomini. Le donne vengono citate per prime perché sono più vicine a Dio: senza le donne gli uomini non avrebbero alcuna speranza di ricevere la Torah. Se la Torah è il fondamento della creazione, la madre, attraverso il suo legame con la beit (la prima lettera della Torah), è il fondamento della Torah stessa: la beit è il grembo da cui nasce la creazione (Zohar I, 22b ). Il Talmud, infatti, dice che il pozzo di Miriam era tra i dieci fenomeni miracolosi avvenuti il sesto giorno della Creazione, alla vigilia del primo Shabbat (Pesahim 54a),[133] miracoloso perché si muoveva nel deserto con gli Israeliti (Shabbat 35a).

Comprendendo la profonda associazione tra Torah e acqua, tra Torah e Miriam, ora capiamo perché Wiesel dice: "Cosa amo di Miriam? Innanzitutto il suo nome. Forse porta con sé il suo segreto e il suo destino. Mar-yam: l'amarezza del mare. O forse meri-yam, la rivolta del mare, la ribellione in riva al mare, contro il mare. Rimuovi la resh e avrai mayim: acqua. Tutta la sua vita fu vissuta sotto il segno dell'acqua. La incontriamo sulle rive del Nilo, la troviamo sull'estrema sponda del Mar Rosso. Noi la lasciamo, o lei ci lascia, mentre il suo popolo reclama acqua".[134] Che è un reclamare la Torah. Sì, Wiesel la trova sfuggente. E la sua caratteristica preferita da Wiesel è il suo nome, Miriam, con tutta la sua elusività.

Ritratto di Aronne

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Aronne e Kohen Gadol.

Elie Wiesel regala ad Aronne il suo meritato ritratto. Ma per il compito da svolgere e per trasmettere il lascito chassidico di Wiesel (che riguarda la relazione d'amore), allego il ritratto di Aronne a quello dei suoi figli Nadab e Abihu, per ragioni che, penso, diventeranno presto chiare. Wiesel definisce il suo ritratto di Nadab e Abihu, i figli sacerdotali del sommo sacerdote Aronne, una "storia di fuoco e silenzio".[135] I figli sono al centro del fuoco, e Aronne è al centro del silenzio. Ma arriveremo a questo. "Mosè personifica il rigore della Legge e la sua inflessibilità", dice Wiesel. "Aronne incarna calore, bontà, gentilezza, indulgenza. Si potrebbe quasi affermare, non senza qualche reticenza, che Mosè vuole essere più vicino a Dio, e Aronne al popolo".[136] Quasi, ma non del tutto. Ricordiamo che quando Dio dichiara a Mosè: "Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione" (Esodo 32:10), Mosè risponde: "Desisti dall'ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo" (Esodo 32:12), invitando Dio Stesso al pentimento per la amore di Israele. Aronne, che non balbettava ed era noto per la sua eloquenza, non fece nulla del genere. "A differenza di Mosè", sottolinea Wiesel, "Aronne non discuteva".[137] In cosa risiedevano il suo potere, la sua forza, la sua giustizia sacerdotale? Nel suo silenzio. Sì, ci sono momenti in cui il silenzio diventa il grido più assordante.

Il silenzio, tuttavia, assume molte forme e racchiude molti significati. Aronne, il primo Sommo Sacerdote di Dio, rimase in silenzio mentre gli Israeliti invocavano a gran voce il vitello d'oro. "Il comportamento di Aronne", dice Wiesel, "è davvero incomprensibile. Ma quelli di Mosè e di Dio lo sono ancora di più".[138] Aggiunge che la tradizione cerca di coprire Aronne. Ad esempio, rimandò una festa per il falso dio al giorno successivo, nella speranza che Mosè tornasse e vi mettesse fine (commentario di Rashi su Esodo 32:5; cfr. anche Midrash Tanhuma, Ki Tisa 19). E il Midrash dice che se Dio elevò Aaronne e i suoi figli al sacerdozio, è perché non incolpò Aaronne per l'incidente del vitello d'oro (Midrash Tanhuma, Tetzaveh 10). Chi dunque venne incolpato da Dio? Secondo il Baal HaTurim, il popolo era responsabile di essersi alleato contro Aronne e di averlo costretto a realizzare il vitello d'oro (Tur HaArokh su Esodo 32:35).

Wiesel suggerisce un'altra ragione. Sottolinea che le donne israelite si rifiutarono di partecipare all'adorazione del vitello d'oro. Quando Aronne chiese alle donne di donare i loro gioielli – ricorda Wiesel – era sicuro che, "a differenza dei loro mariti, loro conoscevano il significato della gratitudine: essendo state testimoni dei miracoli compiuti da Dio, non Lo avrebbero ripudiato così facilemente".[139] La lezione? La gratitudine è la migliore difesa contro lo scivolamento nell'idolatria. Perché l'idolatria riguarda sempre me, l'ego, mentre la gratitudine riguarda te, l'Eterno Tu. Il silenzio di Aronne poteva essere radicato nella gratitudine? Perché no? Lo stesso Aronne è associato alla gratitudine.

Tra le Dieci Sefirot, Aronne è associato a Hod, che significa "lode" o "ringraziamento". In effetti, è la parola che inizia le preghiere del mattino: Hodu—"Ti ringraziamo e Ti lodiamo". Tuttavia, viene dal lato di Gevurah o Din, del potere e del giudizio. Proviene dal lato di Aronne, il Sommo Sacerdote d'Israele, che fu scelto non solo per il ringraziamento e il servizio a Dio, ma anche per testimoniare la consumazione dei suoi figli nel fuoco mentre servivano Dio. Quindi anche qui abbiamo Aronne — che non discusse! Che non disse nulla quando i suoi figli furono consumati per aver offerto a Dio un "fuoco illegittimo", consumati, appunto, da un "fuoco illegittimo". Cosa può significare questo "fuoco illegittimo"? E come può capirlo Aronne, colui che tace? No, non riesce a comprendere: per questo tace. Un momento! No! Lo comprende, in tutta la sua visione profetica, una visione acuta quanto quella di sua sorella. Eppure la visione del profeta è proprio la visione dell'incomprensibile. Il suo è il silenzio dell'incomprensione, che prefigura altri silenzi. Forse non tace; forse urla, in silenzio. Quei silenzi intrasmissibili sono i silenzi che ci legano più profondamente gli uni agli altri, ad Aronne e al Dio la cui "presenza è annunciata da un profondo silenzio" (Berakhot 58a). Ma quando? E dove?

Nadab e Abiu

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  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Nadab e Abiu, Pardes e Shemini.

La storia di questi figli di Aronne, dice Wiesel, "composta da pochi brevi versetti, è tra le più tristi e misteriose della Bibbia. Ci attanaglia; ci prende per la gola".[140] Per la gola: prendendoci per la gola, soffoca la parola e il grido che faticano a uscire dalla gola. È crudo nella sua devastante semplicità. Wiesel comincia dunque con semplicità, con il racconto fin troppo breve dato dalla Torah. Nadab e Abiu, i diletti figli di Aronne e sacerdoti incaricati del servizio del Santo, "presero ciascuno un braciere, vi misero dentro il fuoco e il profumo e offrirono davanti al Signore un fuoco illegittimo, che il Signore non aveva loro ordinato. Ma un fuoco si staccò dal Signore e li divorò e morirono così davanti al Signore... Allora Mosè disse ad Aronne: ‘Di questo HaShem ha parlato quando ha detto: A chi si avvicina a Me mi mostrerò Santo e davanti a tutto il popolo sarò onorato’. E Aronne tacque" (Levitico 10:1-3; corsivo aggiunto). Wiesel lamenta, come in un sussurro: "‘Va’yidom Aharon’, e Aronne tacque. Rimase in silenzio. Si avvolse nel silenzio; divenne silenzio".[141] Questo è il silenzio intrasmissibile, il silenzio che annuncia l'apparizione di Dio che è fuoco divorante. E il fuoco è silenzio. Sì: fuoco... ci sono momenti in cui il silenzio è fatto di fuoco.

"Devo forse dire che il tema di questa storia mi ha sempre affascinato e addirittura ossessionato?" scrive Wiesel. "A causa del silenzio di Aronne? C'è qualcos'altro. Questo capitolo dà una nuova dimensione al tema dei fratelli così come sono presentati nella Bibbia... Nadab e Abiu sono diversi. Sono attaccati l'uno all'altro, fedeli l'uno all'altro... Insieme cadono, nello stesso momento in cui esalano l'ultimo respiro".[142] A causa del silenzio di Aronne? Sì e no. Wiesel sottolinea che nel Midrash (cfr., ad esempio, Horowitz, Shnei Luhot HaBrit, Vayikra, Torah Or 100) la moglie di Aronne, Elisheva, singhiozza e si lamenta della notizia della loro morte, come farebbe qualsiasi madre. Nahmanide dice che lo fece anche Aaronne (cfr. il commentario di Nahmanide su Levitico 10:3).[143] Ma cos'è il "fuoco illegittimo", l’esh zarah, che i fratelli portarono in offerta a Dio? Com'è possibile che entrambi i fratelli, senza che uno interrogasse l'altro, abbiano potuto portare lo stesso "fuoco illegittimo" al posto dell'offerta prescritta?

La spiegazione più semplice, come sottolinea Wiesel, è la spiegazione di Rashi: erano ubriachi.[144] Ma perché avrebbero dovuto essere ubriachi? I preti si presentavano mai al lavoro ubriachi? Oppure è perché bere il vino del Kiddush è una mitzvah, e loro si sono lasciati trasportare dalla mitzvah? Lasciarsi trasportare dal nostro stesso entusiasmo, anche dall'entusiasmo per l'esecuzione di una mitzvah, può essere pericoloso. Altre fonti, osserva Wiesel, approfondiscono la questione. Il Talmud, ad esempio, afferma che ciò era dovuto alla mancanza di rispetto per i loro anziani: Nadab e Abiu desideravano "la morte di Aronne e Mosè, in modo che potessero essere i leader – il fuoco illegittimo era l'ambizione [Sanhedrin 52a]".[145] In questo racconto Nadab fu colui che espresse il desiderio che Mosè e Aronne morissero; Abiu non disse nulla. Allora perché Abiu fu punito? Perché non disse nulla: "Il suo silenzio lo rese complice".[146] Altrove il Talmud spiega: "I figli di Aronne morirono dopo aver osato insegnare la Legge alla presenza di Mosè" (Eruvin 63a): lo strano fuoco, osserva Wiesel, era arroganza.[147] Secondo ancora un altro insegnamento talmudico, ciò avvenne perché si rifiutarono di sposarsi e di osservare così il primo dei comandamenti, cioè essere fecondi e moltiplicarsi (Yevamot 64a). Qui, dice Wiesel, il fuoco illegittimo è orgoglio e vanità.[148]

In quanto chassid, tuttavia, Wiesel vede in questo episodio una sfida e una domanda rivolta a Dio, il che rende la storia molto meno comprensibile. Da buoni ebrei, "essi volevano abolire ogni spazio tra il Creatore e le Sue creature. ‘Amdu le’hossif ahava al ahava,’, commenta il Sifra [Sifra, Aharei Mot 1]: Credevano di potere, dovere, aggiungere al loro amore per Dio un amore più grande, più imponente, totalizzante, per fondersi nel Suo splendore e realizzarsi in esso".[149] In altre parole, nel loro amore per Dio, volevano unirsi in un'unione mistica con Dio, nei reami più alti. "Sono stati paragonati ai quattro maestri talmudici che osarono entrare nel Pardes", dice Wiesel, "il frutteto della conoscenza proibita. Come Ben Azzai, morirono per aver guardato dove non si doveva guardare".[150] Il problema? Il "fuoco illegittimo" era il fuoco della loro passione personale e soggettiva, e non il fuoco acceso dal Santo dall'Alto. Quando si tratta di sentirsi bene, non si tratta mai di Dio: si tratta di me, di sé stessi, il che, come ha giustamente capito il mio caro Maestro, Abraham Joshua Heschel, è un "autoinganno".[151] Peggio ancora, è una forma di idolatria.

In linea con il tema dei fratelli, Wiesel nota gli sforzi di Mosè per consolare suo fratello, nonostante l'orrore che rese Aaron muto: "‘Aronne, fratello mio, so da molto tempo, perché Dio me l'ha detto, che Dio desidera essere santificato da coloro che Gli sono più vicini. Pensavo che Egli stesse parlando di me, o di te, ma mi sbagliavo: i tuoi figli erano più vicini a Lui’. Ecco quando e perché Aronne ha mantenuto la sua pace, pace non di rassegnazione ma di accettazione".[152] Persero la vita a causa del loro amore per Dio e per l’amore di Dio per loro, in un Kiddush HaShem. Ma Wiesel non può accettare l'accettazione di Aronne. No, preferisce l’indignazione e il grido del Sommo Sacerdote: "Mi piace questa esplosione di dolore da parte di Aronne. Qui il padre è più forte del Sommo Sacerdote",[153] riprendendo il succitato commentario di Nahmanide, e cioè che il silenzio di Aronne lo vinse solo dopo che egli ebbe sollevato un grido che scosse le fondamenta della terra e si estese fino al cielo, dove il Padre tacque. "Perché il Dio dell'amore non risparmiò tanti discendenti di Mosè e Aronne? Per avvicinarli a Lui, li strappò via da noi. Perché? Va’yidom Aharon. E Aronne, il padre, tacque. Come Dio. Per Dio. E tutto ciò che noi, suoi lontani discepoli, possiamo fare è unire il nostro silenzio al suo".[154] Anche qui, più che mai, il pericolo c'è. Anche qui corriamo sul filo del rasoio. Parlando dei sopravvissuti all'incendio illegittimo che consumò una generazione, Wiesel scrive: "Se fossero rimasti tutti muti, i loro silenzi accumulati sarebbero diventati insopportabili: l'impatto avrebbe assordato il mondo".[155] Sì, alcuni silenzi possono essere assordanti. Alcuni silenzi trascendono la trasmissione.

 
Elie Wiesel a 15 anni, 1943/44
  Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna.
  1. Wiesel, Sages and Dreamers, 21.
  2. Elie Wiesel, Célébration biblique, anche (EN) Messengers of God: Biblical Portraits and Legends, trad. Marion Wiesel (New York: Random House, 1976), x; corsivo nell'originale.
  3. Wiesel, Messengers of God; corsivo nell'originale.
  4. Wiesel, 3.
  5. Joel Rosenberg, "Alone with God: Wiesel’s Writings on the Bible", in Elie Wiesel: Jewish, Literary, and Moral Perspectives, ed. Alan Rosen e Steven T. Katz (Bloomington: Indiana University Press, 2013), 13.
  6. Rosenberg, "Alone with God", 1.
  7. Rosenberg, 1.
  8. Elie Wiesel, Le serment de Kolvillàg, anche (EN) The Oath (New York: Avon, 1973), 19.
  9. Martin Buber, I and Thou, trad. (EN) Walter Kaufmann (New York: Scribner’s, 1970), 54.
  10. Wiesel, Célébration biblique ((EN)Messengers of God), 20.
  11. Wiesel, 10.
  12. Wiesel, 26.
  13. Wiesel, 24.
  14. Wiesel, 4.
  15. Wiesel, 8.
  16. Si veda, per esempio, l'insegnamento del maestro chassidico Zadok ha-Kohen in Norman Lamm, The Religious Thought of Hasidism: Text and Commentary (Hoboken, NJ: Ktav, 1999), 576–77; cfr. anche l'insegnamento del Rebbe Stretiner in Louis Newman, cur., The Hasidic Anthology (New York: Schocken, 1963), 248.
  17. Wiesel, Messengers of God, 11.
  18. Emmanuel Levinas, (EN) Difficult Freedom: Essays on Judaism, 33 — mio corsivo, mia trad.
  19. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 32.
  20. Wiesel, 35–36.
  21. Wiesel, 34.
  22. Wiesel, 50.
  23. Elie Wiesel, Le crépuscule, au loin, cfr. (EN) Twilight, trad. Marion Wiesel (New York: Summit Books, 1998), 58.
  24. Citato in Milton Aron, Ideas and Ideals of the Hassidim (Secaucus, NJ: Citadel, 1969), 243.
  25. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 50.
  26. Wiesel, 50.
  27. Wiesel, Legends of Our Time, 177.
  28. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 34.
  29. Wiesel, 37–38.
  30. Wiesel, 51
  31. Wiesel, 53–54.
  32. Wiesel, Le Serment de Kolvillàg (Oath), 88.
  33. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 53.
  34. Wiesel, 40.
  35. Wiesel, Le crépuscule, au loin (Twilight), 56.
  36. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 52.
  37. Wiesel, 51.
  38. Wiesel, 60.
  39. Wiesel, Sages and Dreamers, 24.
  40. Wiesel, 25.
  41. Cfr. Avraham Moshe Rabinowitz, Hakhimah Birmizah (Brooklyn, 1994), 282.
  42. Emmanuel Levinas, Proper Names, trad. (EN) Michael B. Smith (Stanford, CA: Stanford University Press, 1996), 93.
  43. Wiesel, Sages and Dreamers, 27.
  44. Wiesel, 32.
  45. Wiesel, 32.
  46. Wiesel, 28.
  47. Wiesel, 32.
  48. Wiesel, 29.
  49. Wiesel, Le crépuscule, au loin (Twilight), 172.
  50. Yaakov Culi, The Torah Anthology: MeAm Lo’ez, Vol. 1, trad. Aryeh Kaplan (New York: Moznaim, 1977), 420.
  51. Primo Levi, Survival in Auschwitz: The Nazi Assault against Humanity, trad. (EN) Stuart Woolf (New York: Simon & Schuster, 1996), 72–73.
  52. Elie Wiesel, Wise Men and Their Tales: Portraits of Biblical, Talmudic, and Hasidic Masters (New York: Schocken, 2003), 27.
  53. Wiesel, 27.
  54. Wiesel, 28.
  55. Wiesel, 31–32.
  56. Wiesel, 24.
  57. Wiesel, 34.
  58. Wiesel, 35.
  59. Isabel Wollaston, "The Absent, the Partial and the Iconic in Archival Photographs of the Holocaust", Jewish Culture and History 12, no. 3 (2010): 441.
  60. Levi, Survival in Auschwitz, 39: "the holy grey slab".
  61. Levi, 82.
  62. Wiesel, Against Silence, 239.
  63. Rosenberg, "Alone with God: Wiesel’s Writings on the Bible", 10.
  64. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 73.
  65. Wiesel, Le Mendiant de Jérusalem (A Beggar in Jerusalem), 108.
  66. Wiesel, 79.
  67. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 64.
  68. Martin Buber, Between Man and Man, trad. Ronald Gregor-Smith (New York: Routledge, 2002), 17.
  69. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 78.
  70. Wiesel, 79.
  71. Wiesel, 69.
  72. Wiesel, 66.
  73. Wiesel, 74.
  74. Søren Kierkegaard, Fear and Trembling, trad. Alastair Hannay (New York: Penguin, 1985), 46.
  75. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 72.
  76. Levinas, Ethics and Infinity, 106.
  77. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 75–76.
  78. Wiesel, 69.
  79. Wiesel, 80–81.
  80. Wiesel, 85–86.
  81. Wiesel, 96.
  82. Wiesel, 107.
  83. Wiesel, 123; corsivo nell'originale.
  84. Ka-tzetnik 135633, Shiviti: una visione, cfr. anche Shivitti: A Vision, trad. (EN) Eliyah De-Nur e Lisa Herman (New York: Harper & Row, 1989), 59.
  85. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 94.
  86. Famoso pronunciamento di Nietzsche sulla morte di Dio appare in Sezione 125 di La gaia scienza.
  87. Wiesel, 94.
  88. Wiesel, La Notte, 40.
  89. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 108.
  90. Wiesel, La Notte, 42.
  91. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 109.
  92. Ka-tzetnik 135633, Kaddish, trad. Nina De-Nur (New York: Algemeiner Associates, 1998), 97–98.
  93. Elie Wiesel, Le mal et l'exil: 10 ans après (Evil and Exile), trad. (EN) Jon Rothschild, 39.
  94. Dice Nahman di Breslov: "Tutte le azioni di una persona sono inscritte nella sua anima. Ecco perché dopo la morte a una persona viene chiesto se ricorda il suo nome". Cfr. Nahman di Breslov, Tikkun, trad. Avraham Greenbaum (Gerusalemme: Breslov Research Institute, 1984), 102.
  95. Cfr. Levinas, Difficult Freedom, 17.
  96. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 113.
  97. Wiesel, 117.
  98. Wiesel, 143.
  99. Wiesel, 145.
  100. Wiesel, 133.
  101. Wiesel, 128.
  102. Wiesel, 148.
  103. Wiesel, 12.
  104. Wiesel, 130–31; per il riferimento a Kierkegaard, cfr. Søren Kierkegaard, Stages on Life’s Way, cur. e trad. (EN) Howard V. Hong e Edna H. Hong (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1988).
  105. Wiesel, 142.
  106. Wiesel, 143.
  107. Kalonymos Kalmish Shapira, Sacred Fire: Torah from the Years of Fury 1939–1942, trad. J. Hershy Worch, cur. Deborah Miller (Northvale, NJ: Jason Aronson, 2000), 22.
  108. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 144.
  109. Wiesel, 151.
  110. Wiesel, 168–69.
  111. Wiesel, 142.
  112. Adin Steinsaltz, On Being Free (Northvale, NJ: Jason Aronson, 1995), 22.
  113. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 166–67.
  114. Wiesel, 184.
  115. Wiesel, 163.
  116. Gli altri erano Enoch, che "camminò con Dio e non fu più perché Dio l'aveva preso" (Genesi 5:24); Eliezer, servitore di Abramo, che trovò una moglie per Isacco (Genesi 24:14-15); Serah, la figlia di Asher, che portò a Giacobbe la notizia che Giuseppe era ancora vivo (Sefer HaYashar, Vayigash 9); il profeta Elia, che salì al cielo su un carro di fuoco (2 Re 2:12); Hiram, re di Tiro, che inviò aiuto a Salomone per la costruzione del Tempio (1 Re 5:15); ed Evad-melekh, lo schiavo etiope che salvò Geremia dalla fossa (Geremia 38:8-11). Alcune fonti aggiungono il figlio di Yehudah HaNassi, Yaavetz, Rabbi Yehoshua ben Levi, e il Messia (Talmud Bavli, Derekh Eretz Zuta 1); cfr. Moshe Weissman, cur., The Midrash Says, vol. 1 (Brooklyn, New York: Bnay Yakov, 1980), 73.
  117. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 164.
  118. Wiesel, 172.
  119. Wiesel, 178.
  120. Wiesel, 174.
  121. Arnošt Lustig, A Prayer for Katerina Horovitzova, trad. Jeanne Nemcova (New York: Harper & Row, 1973), 50–51.
  122. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 180.
  123. Wiesel, 180.
  124. Wiesel, 181.
  125. Le altre cinque rimembranze sono il ricordo di quando Dio fece uscire gli ebrei dall'Egitto, della propria anima davanti a Dio, dell'afflizione nel deserto, di Amalek e dello Shabbat.
  126. Wiesel, Wise Men and Their Tales, 42.
  127. Wiesel, 56.
  128. Wiesel, 64.
  129. Wiesel, 62.
  130. Wiesel, 63.
  131. Wiesel, 64–65.
  132. Wiesel, 65.
  133. Gli altri nove sono la manna caduta nel deserto, l'arcobaleno, la scrittura e lo strumento per scrivere, le tavole dei Dieci Comandamenti, la tomba di Mosè, la grotta nella quale stavano Mosè ed Elia, l'apertura della bocca dell'asino di Balaam, e l'apertura della bocca della terra per inghiottire i malvagi nell'incidente che coinvolge Cora (Pesahim 54a).
  134. Wiesel, Wise Men and Their Tales, 67.
  135. Wiesel, 68.
  136. Wiesel, 46.
  137. Wiesel, 43.
  138. Wiesel, 48.
  139. Wiesel, 50.
  140. Wiesel, 80.
  141. Wiesel, 69; corsivo nell'originale.
  142. Wiesel, 69–70.
  143. Wiesel, 77.
  144. Wiesel, 71.
  145. Wiesel, 72.
  146. Wiesel, 73.
  147. Wiesel, 72.
  148. Wiesel, 73–74.
  149. Wiesel, 75.
  150. Wiesel, 75.
  151. Abraham Joshua Heschel, Man Is Not Alone (New York: Farrar, Straus and Giroux, 1951), 47.
  152. Wiesel, Wise Men and Their Tales, 78.
  153. Wiesel, 79.
  154. Wiesel, 81.
  155. Wiesel, Entre deux soleils (One Generation After), 13.