Il Chassidismo di Elie Wiesel/Capitolo 6

Indice del libro

Ritratti dal Talmud

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Reuven Kimelman ha giustamente osservato che per Elie Wiesel "il Talmud è la spina dorsale dell'ebraismo, senza la quale saremmo indeboliti molto tempo fa. È ciò che ha mantenuto gli ebrei in piedi, camminando a testa alta nel corso della loro lacrimosa storia. Senza Talmud la realtà spirituale avrebbe ceduto a quella materiale".[1] Ma cos'è questo Talmud, senza il quale la nostra realtà spirituale andrebbe perduta?

La parola Talmud (תַּלְמוּד) significa "studio" o "apprendimento". Non leggiamo il Talmud: lo studiamo. Oltre alla Mishnah (מִשְׁנָה), che è il testo centrale del Talmud, e alla Gemara (גמרא), che è il commentario alla Mishnah, possono esserci fino a una dozzina di altri testi in ogni pagina del Talmud. Nella tradizione ebraica esistono due Talmud: il Talmud Yerushalmi, prodotto dai saggi della Terra d'Israele, e il Talmud Bavli, che è creazione dei saggi di Babilonia, centro del sapere ebraico dal tempo della distruzione del Primo Tempio dal 586 AEV alla fine del X secolo. Quando parliamo di Talmud ci riferiamo al Talmud Bavli, un'opera imponente composta da sessantatré trattati. Nella seconda metà del II secolo, quando era evidente che il Tempio non sarebbe stato ricostruito in tempi brevi, Rabbi Yehudah HaNassi, il leader della comunità ebraica, iniziò a supervisionare la redazione della tradizione orale in quella che sarebbe diventata la Mishnah. Nel V secolo, Rabbi Ashi (morto nel 427), Rosh Yeshivah a Sura per cinquantasei anni, riunì la Mishnah e la Gemara a formare il Talmud Bavli. Come sottolinea, tuttavia, il grande talmudista Rabbi Adin Steinsaltz, "nessun singolo studioso è considerato il compilatore ufficiale della scrittura e revisione del Talmud (come nel caso della Mishnah), da qui il significativo detto: ‘Il Talmud non fu mai completato’".[2] Nel corso dei secoli sono stati aggiunti commentari a ciascuna pagina del Talmud, in particolare quello del grande saggio medievale Rashi.

Il Talmud comprende un'ampia gamma di commentari sul Tanakh, discussioni sulla legge ebraica, racconti midrashici e riflessioni mistiche. Rabbi Steinsaltz osserva che, sebbene il Talmud sia la fonte della Halakhah o legge ebraica, non è di per sé un "libro di legge".[3] "Solo nel Talmud", scrive, "si può leggere la seguente affermazione: ‘Su questo argomento c'erano divergenze di opinioni tra due saggi palestinesi, e c'è chi dice che si trattava di un dibattito tra due angeli del cielo’ [cfr. Bava Batra 75a] senza trovare strana la giustapposizione. Dopotutto, gli affari mondani, le discussioni astratte sulla halakhah e le questioni relative alla sfera celeste sono tutti concentrati insieme nel concetto di Torah, e ciascuno interagisce con gli altri".[4] Se il Talmud non è un testo giuridico, è ancor meno un trattato teologico, poiché riguarda tanto la relazione tra uomo e uomo quanto la relazione tra uomo e Dio. Infatti, osserva Rabbi Steinsaltz, nel Talmud "non esiste una divisione netta tra le offese commesse da un uomo contro un altro e le trasgressioni religiose ‘tra uomo e Dio’".[5] Ciò significa che la relazione superiore è tutt'una con la relazione umana. "Nell'apprendimento", afferma Wiesel, "l'uomo può sempre andare più in alto. Quando si tratta di imparare, più si dà, più si riceve. Da qui l'enfasi nel Talmud sullo studio e sulle buone azioni. La teologia conta meno delle relazioni umane".[6] Lo scopo dello studio del Talmud non è diventare teologicamente sofisticati ma impegnarsi umanamente. È così che si sale sempre più in alto.

 
Rabbi Adin Steinsaltz (2010)

Il Talmud stesso ci racconta come veniva studiata e trasmessa la Torah Orale dal momento della sua rivelazione: "I nostri rabbini insegnavano: Qual era il metodo per apprendere la Legge Orale ai tempi di Moshe? Moshe fu prima istruito dal Potere Divino. Venne poi Aharon e Moshe gli insegnò il capitolo. Quando Aharon ebbe finito, lasciò il posto di studio e si sedette alla sinistra di Moshe. Vennero quindi i figli di Aharon e Moshe insegnò loro il capitolo" (Eruvin 54b). Scandagliando le profondità del yam Talmud, il "mare del Talmud", in questo modo, spiega Rabbi Steinsaltz, "lo studioso non è solo un uomo che ha studiato ma anche la personificazione della Torah stessa",[7] così che "lo studente sincero diventa parte dell'essenza del Talmud".[8] Ecco perché abbiamo l'insegnamento che "ripetere una parola in nome del suo autore è affrettare la redenzione".[9] Infatti, nel Talmud sta scritto: "Rabbi Yohanan affermò a nome di Rabbi Shimon bar Yohai: Le labbra di uno studioso [deceduto], nel cui nome è riportata nel mondo un'affermazione tradizionale, si muovono dolcemente nella tomba" (Yevamot 97a). L'insegnante è parte dell'insegnamento: questi ritratti degli insegnanti contengono la saggezza del loro insegnamento — il ritratto è l'insegnamento. Pertanto, insegna Wiesel, "quando i saggi si proteggevano a vicenda, era la Torah che cercavano di proteggere. Nonostante le discussioni e le controargomentazioni nelle accademie di quei giorni, ci fu infine una meravigliosa solidarietà tra gli studiosi. Furono uniti da un'irresistibile passione per l'apprendimento".[10] E la loro passione per lo studio trovò espressione nell'amore reciproco: nell'amore sta l'insegnamento.

Elie Wiesel una volta disse che Dio non vuole essere studiato: Egli vuole essere vissuto.[11] E così è anche per il Talmud. Come accade con lo studio del Talmud, studiare un ritratto preso dal Talmud significa diventare parte del ritratto. I ritratti di Wiesel dal Talmud, quindi, sono ritratti del Talmud, come anche ritratti di noi stessi. Dice Wiesel:

« Oggi so che lo studio di un testo talmudico è un'avventura non estranea a un'impresa letteraria: una leggenda di tre frasi possiede spesso il potere suggestivo di un poema lirico. Una discussione su un argomento remoto spesso contiene più elementi descrittivi di una narrazione storica. Oggi so anche che sarebbe sbagliato cercare nel Talmud solo il passato. Il Talmud è eternamente presente. Niente in esso è mai perduto. I saggi continuano i loro eterni dibattiti e i bambini continuano ad essere intrisi del loro fervore. Si celebra ancora la santità dello Shabbat e, proprio lì, il Tempio sta bruciando. E noi che leggiamo i brani corrispondenti bruciamo con il Tempio – e forse per il Tempio. »
(Wiesel, Sages and Dreamers, 160.)

Comprendiamo ora meglio l'aneddoto di Wiesel sul poeta a cui fu chiesto cosa avrebbe portato via dalla sua casa se fosse andata a fuoco. Lui rispose: "Il fuoco, naturalmente". E Wiesel aggiunge: "Noi rubiamo il fuoco, ma il nostro fuoco non distrugge. Il nostro fuoco brucia, brucia e brucia, e noi bruceremo per sempre".[12] È così che un chassid si lega al Talmud, come noi ci leghiamo a questi ritratti del Talmud: bruciando. Pertanto, la trasmissione degli insegnamenti e delle tradizioni dell'ebraismo è l'accensione di una fiamma dopo l'altra, il passaggio da una fiamma all'altra.

"La conoscenza ebraica", scrive Wiesel, "fu trasmessa da Mosè a Giosuè, da Giosuè agli Anziani, dagli Anziani ai Giudici, ai Profeti, ai Saggi, ai Tannaim, agli Amoraim, agli Svoraim, ai Gaonim, ai Rishonim. C'è bellezza creativa nel continuo movimento delle loro idee e storie: c'è eternità nelle loro parole che rifiutano di morire".[13] Il fatto che l'ebraismo abbia una tale cronologia di saggi ci dice qualcosa sull'unicità del suo insegnamento e della sua testimonianza e su quanto centrali siano i saggi nella trasmissione della sua millenaria tradizione di apprendimento. "A volte", scrive Wiesel, "una questione che era stata sollevata durante la prima generazione di studiosi veniva esaminata dalla seconda e risolta dalla terza. Incantato, leggi senza fiato il suo corso, la sua progressione: l'avventura delle parole, delle idee, dei principi non ha eguali, perché trascende il tempo stesso. In alcuni casi ci è voluto un secolo perché il ciclo si chiudesse. Tuttavia, il dibattito tra studiosi di epoche diverse è reso come se fossero contemporanei".[14] Là dove è eternamente in gioco l'eterno, ogni ebreo è contemporaneo di ogni altro ebreo e di tutta l'umanità.

I saggi del Talmud sono costituiti dai Tannaim e dagli Amoraim (si veda la cronologia di seguito). Wiesel spiega la differenza tra i due: "L'era tannaica iniziò con Hillel e Shammai nel primo periodo del regno di Erode. In quanto autori della Mishnah, i Tannaim erano innovatori, pensatori creativi, audaci codificatori... Poi arrivarono gli Amoraim. Inizialmente tradussero in aramaico ciò che i Tannaim avevano detto in pubblico. Più tardi loro stessi furono insegnanti. Tuttavia, il protocollo e l'anzianità limitavano la loro autorità: un Amora, ad esempio, non avrebbe mai contestato le opinioni di un Tanna".[15] Qui esploreremo solo i ritratti dei Tannaim proposti da Wiesel, ritratti che quasi invariabilmente diventano ritratti di due, non solo di uno. Perché due? Per aprire alla domanda uno spazio di mezzo, senza il quale non può realizzarsi il rapporto essenziale tra insegnamento, apprendimento e memoria.

Rabbi Steinsaltz offre questa intuizione: "Esprimere dubbi non solo è legittimo nel Talmud, è essenziale per studiare",[16] come sta scritto nel Talmud stesso: "Con gli studiosi, i più giovani affinano le menti dei più anziani... Rabbi Hanina disse: ho imparato molto dai miei insegnanti, e dai miei colleghi più che dai miei insegnanti, ma dai miei discepoli più che da tutti loro". Rabbi Hama bar Hanina disse che proprio come il ferro affila il ferro, due studenti dovrebbero sempre studiare insieme, ciascuno insegnante per l'altro (Taanit 7a). Cominciamo così a intravedere l'importanza dell'abbinamento di questi saggi del Talmud: ogni ritratto è il ritratto di due, a volte di due saggi e talvolta di un saggio e di colui che incontra il ritratto.

☆⇒ Cronologia delle Ere Rabbiniche
AcharonimRishonimGeonimSavoraimAmoraimTannaimZugot

Ritratto della Casa di Shammai e della Casa di Hillel

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Un non-juif s'est rendu chez Hillel et lui a dit qu'il était prêt à se convertir au Judaïsme "s’il lui enseignait toute la Torah le temps de se tenir sur une jambe". Le grand Sage Hillel accepta et lui répondit : "Ce que tu n’aimes pas que l'on te fasse, ne le fais pas à ton prochain", ce principe résume toute la Torah, tout le reste n'en étant que développement.
  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Hillel, Shammai, Dispute talmudiche tra Bet Shammai e Bet Hillel e bat kol.

Osservare questo ritratto della Casa di Shammai e della Casa di Hillel significa gettare il nostro sguardo non solo indietro ma anche verso l'alto, nella dimensione dell'altezza. Hillel e Shammai, i saggi più famosi della prima generazione dei Tannaim, erano discepoli di Shemaya e Avtalyon, che si erano convertiti all'ebraismo. E così abbiamo una coppia nata all'interno del popolo ebraico, allevata da una coppia che, come Rut, è entrata nell'ovile dall'esterno. Non esiste il ritratto dell'uno senza il ritratto dell'altro. "Shammai", dice Wiesel, "sembra aver vissuto esclusivamente in relazione a Hillel".[17] Egli nota che secondo una tradizione che risale a Flavio Giuseppe (cfr. Antichità giudaiche, 14:9:4), il re Erode il Grande massacrò tutti i saggi del Sinedrio tranne due: Shemaya e Avtalyon. Erode confermò successivamente la nomina di Hillel alla presidenza del Sinedrio (il Sinedrio aveva due leader: il presidente, o Nassi, e il saggio, o Hakham). Shammai, spiega Wiesel, si unì al Sinedrio quando un esseno di nome Menachem lasciò un seggio (Mishnah Hagigah 2:2).[18]

Hillel e Shammai erano definiti non solo dalla loro relazione reciproca, ma anche dalla loro reciproca opposizione. In effetti, ci sono momenti in cui un rapporto diventa più intimo quando assume la forma di opposizione. Per tre anni, racconta Wiesel, gli studenti di Hillel e quelli di Shammai discussero su quale dei loro maestri avesse ragione su diverse questioni. Alla fine un bat kol, una Voce dal cielo, dichiarò: "Avete ragione entrambi; entrambe le posizioni riflettono la parola di Dio e la verità di Dio — tuttavia la legge è secondo la scuola di Hillel [Eruvin 13b]".[19] Se entrambi possono riflettere la parola di Dio e la verità di Dio, allora la parola non è necessariamente legata alla definizione del dizionario e la verità non è riducibile a un dato. Entrambe appartengono all'ambito di un'affermazione, testimonianza e relazione pattizia, che, dal momento in cui Dio creò per Adamo un ezer k’negdo, un "aiuto conveniente a lui" (Genesi 2:18), è a volte oppositiva: come nel principio, l'opposizione tra i saggi talmudici è per il bene di Dio e dell'umanità.

Nel suo ritratto Wiesel fa emergere la più fondamentale delle loro controversie, quella che definisce tutte le altre:

« La scuola di Shammai diceva: Sarebbe stato meglio – o più semplice – che l'uomo non fosse nato. La scuola di Hillel rispose: È meglio che l'uomo sia nato. Dopo trenta mesi di discussione, la questione doveva essere votata. Ed ecco, questa volta la scuola di Shammai emerse vittoriosa. Sì, infatti, sarebbe stato meglio che l'uomo non fosse nato — ma, essendo nato, deve scrutare la sua coscienza, la sua anima, deve scrutare le sue azioni, cercandone il senso; in altre parole, le sue azioni devono conferire un significato alla sua esistenza [Eruvin 13b]. »
(Wiesel, 158)

Si noti che il dibattito non riguarda se scegliere la vita o la morte. Si tratta di decidere se sarebbe meglio se non ci fosse la vita e quindi la morte. Discutevano sul significato del passo dell'Ecclesiaste: "Allora ho proclamato più felici i morti, ormai trapassati, dei viventi che sono ancora in vita; ma ancor più felice degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha visto le azioni malvage che si commettono sotto il sole" (4:2-3). Chi non è nato non deve sopportare la morte. Quindi quale è meglio?

Ricordiamo, inoltre, la discussione tra gli angeli sulla questione se il Santo, benedetto sia Lui, debba creare l'essere umano (Bereshit Rabbah 8:5): la Casa di Hillel e la Casa di Shammai sono come gli angeli ministranti di Dio. Tuttavia c'è una differenza importante tra saggi e angeli: la questione se sarebbe meglio non essere stati creati non è un problema per gli angeli, dal momento che sono malakhim (מַלְאָכִים), "messaggeri", che non possono fare a meno di recapitare i loro messaggi. Punto e basta. Non soffrono l'uno per l'altro. Non hanno comandamenti che riguardano loro. Non viene chiesto loro: "Dov’è tuo fratello e cosa hai fatto?" In breve, non hanno alcuna responsabilità e non sono chiamati a rendere conto. Poiché l'essere umano deve faticare fino a quando sembra non avere fine, sopportare il giogo di una responsabilità infinita e soffrire l'agonia della morte, sicuramente sarebbe stato meglio non essere nati. Poi c'è il punto che se almeno certi esseri umani non fossero nati, allora certi mali non sarebbero emersi: in alcuni casi, si potrebbe obiettare, è meglio che ciò che è stato non fosse stato.

Ma, che ci piaccia o no, siamo nati e ci è stato dato un nome che non abbiamo scelto, un nome con il quale ciascuno di noi è chiamato a un compito che non ha scelto, un compito che nessun altro può assumere e per il quale noi siamo ritenuti responsabili. Uno degli insegnamenti più famosi di Hillel è la sua ingiunzione: "In un luogo dove non ci sono uomini, devi sforzarti di essere un uomo" (2:5), ed essere un uomo significa per Pirkei Avot assumersi questa responsabilità infinita. Questo è il motivo per cui la Casa di Hillel invariabilmente esercitò maggiore influenza rispetto alla Casa di Shammai: Hillel procedeva dalla premessa realistica e concreta che, dal momento che siamo nati, che ci piaccia o no, dobbiamo determinare cosa deve essere fatto: non abbiamo il lusso di indulgere in speculazioni soggettive su cosa sarebbe successo se non fossimo nati. Ma, cosa ancora più importante, il nostro prossimo è nato, per cui dobbiamo assolutamente rispondere alle domande: "Dov’è tuo fratello e cosa hai fatto?" Poiché il nostro prossimo è nato, noi siamo nati per aiutare. Nella mia infatuazione per me stesso e nel mio narcisistico crogiolarmi nella disperazione, forse sarebbe stato meglio per me non essere nato, ma forse non sarebbe stato meglio per il mio prossimo. Potrebbe infatti essere proprio lui il Messia: sarebbe forse meglio che il Messia non fosse nato? Perciò non dobbiamo scivolare in un lamento autoindulgente per il fatto che siamo qui. Siamo qui. E ora? Questa è la domanda di Hillel.

La tensione alla base delle dispute tra le due case si riverbera nei secoli, come suggerisce Wiesel. In Yavneh dissero: "‘Ci sarà un tempo in cui l'uomo cercherà le parole della Torah e non le troverà, cercherà le parole degli scribi e non le troverà: ecco perché dobbiamo iniziare con Hillel e Shammai.’ Sapevano che con Hillel e Shammai non puoi sbagliare: comincia da loro e dalle loro discussioni e dai loro eterni dibattiti, e sarai in contatto con le fonti vive del sapere ebraico".[20] Sì, le fonti vive, da ricercare nella conseguenza dell'imposizione radicale della morte e della morte della morte sul popolo ebraico. Il ritratto fatto da Wiesel della Casa di Hillel e della Casa di Shammai è un ritratto dell'eterno dopo che perseguita l'umanità. Si diceva di Hillel, scrive Wiesel, che "come lo scriba Esdra, giunse da Babilonia per impedire che la Torah venisse dimenticata".[21] Ci sovviene l'insegnamento del saggio talmudico Reish Lakish: "Quando la Torah fu dimenticata per la prima volta in Israele, Esdra salì da Babilonia e la ristabilì. Quando fu nuovamente dimenticata, Hillel il Babilonese arrivò e la ristabilì" (Sukkot 20a). Chi ora, all'indomani della Shoah, si farà avanti e la ristabilirà? Forse Elie Wiesel.

Si dice di Hillel che "era saggio, erudito e devoto; padroneggiava le scienze e comprendeva tutte le lingue: quelle delle colline e quelle degli alberi, quelle degli uccelli e quelle degli uomini, anche quelle dei demoni".[22] In altre parole, comprendeva la lingua che il Creatore usò per realizzare la Creazione. C'è una scintilla divina in ogni cosa, dai quark ai quasar, e quella scintilla divina è fatta di un'espressione divina. Adamo quindi non inventava i nomi degli animali — "leggeva i nomi" degli animali, vayikra haAdam shemot (Genesi 2:20): così grande era la sua saggezza che poteva discernere la parola divina di cui era fatta ogni creatura. (cfr., ad esempio, Nahmanide, commentario a Genesi 2:20). Forse Hillel possedeva una certa misura di questa saggezza adamica. Forse anche lui poteva leggere e comprendere le parole di cui sono fatte tutte le cose. Se Hillel comprendeva tutte le lingue, è perché capiva ciò che il Gerer Rebbe, Rabbi Yehudah Leib Alter, chiamava Sefat Emet (שפת אמת), il Linguaggio della Verità,[23] che è il linguaggio di hesed o amorevolezza che sta al cuore della Torah e al centro della creazione.

Delle 316 dispute tra Hillel e Shammai, sottolinea Wiesel, solo cinquantacinque "sottolineano la posizione più indulgente della Casa di Shammai".[24] In tutti gli altri casi il punto di vista più tollerante era di Hillel. Ad esempio, dice il Talmud, quando la nuora di Shammai diede alla luce un figlio a Sukkot, fece un buco nel tetto e vi mise dei rami sopra per creare una Sukkah per suo nipote (Sukkot 2:8). Wiesel racconta che Shammai fece digiunare anche il suo giovane figlio durante lo Yom Kippur. Quando gli altri saggi si opposero, lui cedette ma nutrì suo figlio con una mano sola.[25] Ecco perché, quando Wiesel era bambino, immaginava Hillel come un chasid e Shammai come un mitnagged.[26] Tuttavia, in seguito modificò la sua visione.

Wiesel confessa che gli aneddoti sulla pazienza di Hillel a volte mettevano a dura prova la sua stessa pazienza.[27] Il Talmud, ad esempio, riporta quanto segue: un gentile "si presentò a Shammai e disse a Shammai: Convertimi a condizione che tu mi insegni tutta la Torah mentre sto su una gamba sola. Shammai lo respinse con in mano il cubito da costruttore. Questo era un comune metro e Shammai era un costruttore di mestiere. Lo stesso gentile venne prima di Hillel, che lo convertì e gli disse: Ciò che è odioso a te, non farlo a un altro; questa è l'intera Torah, e il resto è la sua interpretazione. Vai a studiare". E così i convertiti dichiararono: "L'impazienza di Shammai ha cercato di allontanarci dal mondo, ma la gentilezza di Hillel ci ha portato sotto le ali della Shekhinah" (Shabbat 31a). Nell'accettazione popolare di questo episodio, l'ammirazione va quasi sempre a Hillel. Wiesel, tuttavia, dichiara: "Anche qui la mia simpatia va a Shammai. Perché si rifiuta di giocare. Non gli piacciono i convertiti condizionali e lo proclama ad alta voce".[28] La conversione a una tradizione che considera la verità una questione di vita e di morte non può essere compromessa. E Shammai lo capì. Come lo capì Wiesel.

Suggerisce che potrebbe essere il suo patrimonio chassidico ad attirarlo a Shammai: "Forse è l'influenza su di me di Menachem-Mendel, il visionario solitario di Kotzk, ma sono affascinato da Shammai. Rispetto il suo estremismo, la sua ossessione per la verità, qualunque siano le conseguenze".[29] È stata l'ossessione di Shammai per la verità che lo portò a insegnare: "Fai in modo che lo studio della Torah diventi un appuntamento fisso della tua vita. Di' poco e fai molto. E accogli ogni uomo mostrandoti d'aspetto gradevole" (Pirkei Avot 1:15). La verità sta nel volto di chi saluta l'altro con una parola gentile e un "aspetto gradevole". Ciò che Wiesel descrive come "l'ossessione per la verità" di Shammai prende vita attraverso la hesed, la gentilezza amorevole, associata a Hillel.

"Shammai difende l'assoluto", dice Wiesel, "e noi gli siamo grati per questo; ma Hillel difende l'essere umano, e noi gli siamo ancor più grati. Entrambi potrebbero avere ragione, a condizione che le due opzioni rimangano aperte... Nel mondo a venire, dice il Talmud, le decisioni di Shammai prevarranno. Perché qui sta una verità essenziale del pensiero ebraico: abbiamo bisogno di entrambi, ammiriamo Shammai e amiamo Hillel. Vorrei seguire Shammai, per quanto mi riguarda, ed emulare Hillel dove sono coinvolti gli altri – idealmente, essere intransigente con me stesso e comprensivo con gli altri".[30] Perché Shammai difende l'assoluto? Cosa si difende esattamente nella difesa dell'assoluto? Levinas offre un'intuizione utile: "È in mezzo all'Assoluto che l’oltre acquista significato".[31] Shammai difende l'assoluto perché senza l'assoluto, rivelato e comandato dall'Alto, la vita umana non ha senso. Con un po’ più di aiuto da parte di Levinas, ci rendiamo conto che anche Hillel difendeva l'assoluto nella sua difesa dell'essere umano: "L'assoluto è una persona".[32] La persona, il Chi, è immagine e somiglianza del Santo in cui l'essere umano è creato. Quindi il ritornello "Chi è come te, o Signore" (Esodo 15:11) è considerato un'affermazione e non una domanda retorica. Il Chi è immagine e somiglianza del Santo. Ecco perché l'assoluto è una persona.

Ciò che accade quando la preoccupazione per l'assoluto viene separata dalla preoccupazione per la persona lo scopriamo in un ultimo disaccordo tra le due case. Wiesel racconta che quando sorse la questione se ribellarsi o meno ai romani, Shammai incoraggiò la ribellione, ma Hillel si oppose (cfr. Tosefta Eduyot 2:2). La gente andò con Shammai. Il risultato fu la distruzione del Tempio e di Gerusalemme.[33] Hesed fu separato da Gevurah, il che risultò nella perdita di Tiferet: la perdita, in altre parole, del flusso della Torah, della luce e della santità dai reami superiori in questo reame. E così seguì il secondo Hurban, la distruzione del Secondo Tempio. Dalle ceneri di un terzo Hurban abbiamo il ritratto di queste due case e di ciò che è in gioco nel rapporto tra loro.

Ritratto di Rabbi Hanina ben Dosa

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Sepolcro di Rabbi Hanina ben Dosa, Arraba (Israele)
  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Hanina Ben Dosa.

Il ritratto fatto da Wiesel del rabbino Hanina ben Dosa è un ritratto di preghiera. E laddove Wiesel si occupa della preghiera, si occupa anche del silenzio. In effetti, è un ritratto di preghiera e di silenzio. Mi viene in mente un certo silenzio della "Terza preghiera" del suo romanzo La Ville de la chance, dove leggiamo che l'eroe della storia "non è né la paura né l'odio; è silenzio. Il silenzio di un bambino ebreo di cinque anni".[34] In quanto ritratto del silenzio e della preghiera, questo ritratto di Hanina ben Dosa è, in un certo senso, un ritratto dello stesso Elie Wiesel. "Ci sono certi silenzi tra parola e parola", ha scritto Wiesel. "Questo è il silenzio che ho cercato di mettere nel mio lavoro, e ho cercato di collegarlo a quel silenzio, il silenzio del Sinai".[35] Se l'essere umano è creato a immagine e somiglianza del Santo, è a immagine e somiglianza del silenzio. Ecco perché gli ebrei pregano in silenzio, come nell'Amidah Silente. È lì che arde la "luce interiore", la or pnimi.

Se l'assoluto è persona, è anche preghiera, volto, supplica avvolta nel silenzio. "La preghiera", dice Wiesel, "attira l'essere umano in un dialogo eterno con Dio. Grazie alla preghiera, Dio diventa presente. O meglio: Dio si fa presenza. Tutto diventa possibile e significativo: qui è il Giudice, qui il Padre, dell'umanità, che è sceso dal suo trono celeste per vivere e muoversi tra le Sue umane creature. E, in cambio, ecco l'anima che, trasportata dalla sua preghiera, si è lasciata alle spalle il compiacimento ed è ascesa al cielo. La sostanza del linguaggio e il linguaggio del silenzio: ecco cos'è la preghiera".[36] Sì, il linguaggio del silenzio. È un linguaggio tacito, un linguaggio intriso di quello che Martin Buber chiama "il silenzio di tutte le lingue".[37] È il silenzio celato nell’alef silente che precede la beit da cui nasce la Torah, la Torah le cui profondità Rabbi Hanina ben Dosa ha penetrato.

Come facciamo a sapere che Rabbi Hanina ben Dosa è effettivamente penetrato in quelle profondità? Una storia del Talmud fornisce un suggerimento. Una sera di Shabbat, quando arrivò il momento di accendere le lampade del sabato, la figlia del Rabbi preparò l'olio per le lampade e le accese, solo per scoprire che le aveva riempite con aceto invece che con olio, ma ardevano comunque. Espresse il suo stupore al padre, che rispose semplicemente: "Colui che ha ordinato che l'olio bruci, può ordinare che anche l'aceto bruci" (Taanit 25a). Quindi, se Rabbi Hanina era noto per i suoi miracoli, era perché sapeva che un miracolo non è una violazione delle leggi della natura ma la manifestazione di un'espressione divina del Creatore. Qui, più che nell'erudizione, risiede la saggezza dell'uomo che insegnò: "Se il tuo timore del cielo precede la tua saggezza, la tua saggezza durerà; se lo segue, non lo farà. E anche: Se le tue azioni pesano più della tua conoscenza, allora la tua conoscenza rimarrà con te; in caso contrario, non rimarrà [Pirkei Avot 3:8–9]".[38] Maestro della preghiera, Rabbi Hanina ben Dosa sapeva trasformare le sue preghiere in azioni. Là risiedevano i miracoli da lui compiuti.

"Conosciuto più per i suoi miracoli che per la sua erudizione", dice Wiesel, era "un uomo pieno di fervore e passione che, per tutta la sua vita, fu intensamente coinvolto con il suo popolo e il suo patrimonio culturale e le sue aspirazioni: un uomo dotato di forza interiore e bellezza. E tuttavia... Quest’uomo in qualche modo si circondò di silenzio".[39] Anche Wiesel era noto per il suo fervore e la sua passione. Era noto per la sua capacità di trasformare il silenzio in un grido assordante. Cosa c'è dietro il suo fervore e la sua passione, la sua enfasi sulla preghiera e sul silenzio, in questo ritratto di Rabbi Hanina ben Dosa? Forse questo: "Mi ricordavo che camminavo con la folla verso la stazione ferroviaria, dove già ci aspettavano i treni piombati, mi era venuto in mente che il silenzio avrebbe trionfato, che era più forte di noi, più forte di loro; era al di là del linguaggio, al di là delle menzogne, al di là del tempo; traeva la sua forza proprio dalla lotta che contrapponeva la vita alla sua negazione, la brutalità alla preghiera silenziosa".[40] In Rabbi Hanina ben Dosa Wiesel vede i fermenti di quella lotta. "Il suo nome è stato legato più spesso alle favole che alle leggi, alle preghiere e ai miracoli più spesso che alle idee. Potrebbe essere scambiato per un rabbino chassidico. In effetti, ci si chiede perché il Chassidismo non lo abbia rivendicato come ha fatto con Rabbi Akiba, Rabbi Shimon bar Yohai e Rabbi Meir Baal-haNes".[41] Perché, infatti?

Nel ritratto fatto da Wiesel di Rabbi Hanina ben Dosa, saggio famoso per la sua capacità di preghiera, scopriamo la dimensione di un'umanità la cui storia, ha detto Wiesel, è la storia della preghiera.[42] Se la storia dell'umanità è storia di preghiera, allora è storia di ricerca della verità attraverso la preghiera. Ciò significa che la preghiera riguarda la verità, non la supplica. Qui sta il cuore del ritratto proposto da Wiesel di Rabbi Hanina ben Dosa. Con o senza la pretesa chassidica, Wiesel attira il saggio Hanina nel suo lascito chassidico. "Tutte le storie e le leggende", scrive, "sono incentrate su Rabbi Hanina, eppure non fanno molta luce sulla sua personalità. Le informazioni biografiche sono sorprendentemente lacunose... Semplicemente è scomparso, non dal Talmud ma al suo interno".[43] Cosa può significare scomparire non dal Talmud ma al suo interno? Dove si trova quell’interno? Scomparire dal Talmud significa svanire in un silenzio eloquente; svanire nel Talmud significa scivolare in un'eloquenza silenziosa, scivolare in un kol demamah dakah, nella "voce sottile del silenzio" che definisce la preghiera come preghiera. Scivolando all’interno del Talmud, Rabbi Hanina diventa parte del Talmud, il che è essenziale per ogni impegno con il Talmud: poiché Hanina è vissuto, il Talmud è vivo.

"Sì" dice Wiesel, "pregava bene. Quella era la sua virtù principale; la sua distinzione. Alcuni Maestri erano conosciuti per la loro saggezza o la loro posizione sociale, altri erano lodati per la loro erudizione o la loro pietà; Rabbi Hanina fu elogiato per le sue preghiere. E mi disturbano. Riflettono lui, ma non i suoi tempi. Gli eventi drammatici che sconvolsero la sua generazione sono totalmente assenti".[44] La storia dell'umanità riguarda la preghiera e la verità, i principi che erano centrali per Rabbi Hanina, tuttavia, chiede Wiesel, dov'è la storia nelle preghiere di Rabbi Hanina? Da nessuna parte, ad esempio, la distruzione del Tempio, avvenuta durante la sua vita, appare nei racconti di Rabbi Hanina.[45] Come spiegarlo? Nessuno voleva servire Dio e quindi attirare la Luce Divina della Torah in questo reame più di Rabbi Hanina. Era, dice Wiesel, "più povero del più povero tra i poveri. Non possedeva nulla, letteralmente nulla, tranne il suo ardente desiderio di dare a Dio qualcosa, qualsiasi cosa".[46] Questo desiderio di Dio era alla base dei suoi miracoli.

La prova? "Le persone che si trovavano in situazioni apparentemente senza speranza venivano da Rabbi Hanina ben Dosa. Si aspettavano che facesse l'impossibile; e spesso lo faceva. Perché per lui niente era impossibile; le preghiere rendevano ogni cosa raggiungibile. Se solo la gente sapesse pregare... Ma la maggior parte non ha mai imparato; altri se ne erano dimenticati".[47] Imparare a pregare è imparare a svuotarsi dell'ego e rivolgere tutta la concentrazione al benessere dell'altro essere umano, non a Dio: la strada verso Dio passa attraverso l'altro essere umano. In Célébration hassidique Wiesel riporta l'insegnamento chassidico fondamentale secondo cui Dio "non è geloso della tua felicità né dell'amorevolezza che mostri agli altri. Al contrario: la strada verso Dio passa attraverso l'uomo".[48] Ed è per il bene di Dio Stesso. Così nel Libro di Isaia, Dio si riferisce alla Sua stessa salvezza (Isaia 56:1). "La salvezza di Dio", dice il Midrash, "è identica alla salvezza di Israele" (Vayikra Rabbah 9:3). Rabbi Hanina ben Dosa, a quanto pare, aveva un profondo senso di queste verità.

"La considerazione per gli altri deve precedere l'erudizione", dice Wiesel nel suo ritratto di Hanina ben Dosa. "L'erudizione astratta può trasformarsi in un futile gioco dell'intelletto. Le parole sono collegamenti non solo tra parole ma anche tra esseri umani. L'enfasi sull’altro è fondamentale nell'ebraismo: Ahrayut, responsabilità, contiene la parola Aher, l'Altro. Siamo responsabili per l'altro".[49] Così, dice Wiesel, quando Hanina ben Dosa compì i suoi miracoli, "lo fece quasi involontariamente, inconsciamente",[50] consapevole solo della necessità di aiutare. Wiesel spiega cosa è in gioco nella gentilezza amorevole che mostriamo verso l’altro essere umano:

« Il Talmud esalta la modestia tanto quanto la giustizia. Nella sua letteratura, l'eroe è dotato soprattutto di qualità del cuore. La compassione per il prossimo è uno degli attributi più alti della nostra tradizione. Siamo nati per aiutarci a vicenda nella nostra ricerca della perfezione. La redenzione si basa sulla compassione per il nostro popolo in esilio, per il Redentore stesso e per Dio, la cui Shekhina dimora con noi in esilio. Accelerare la redenzione significa compiere l'atto eroico supremo. Ma coloro che occasionalmente si impegnano in questo tipo di attività mistica lo fanno in segreto. L'eroe finale rimane invisibile. Il vero eroe è... irreale. »
(Wiesel, 183)

Irreale, invisibile, in qualche modo altrove e tuttavia più vicino a noi della nostra stessa ombra. La nostra compassione per gli altri deve includere la compassione per l'Invisibile, per il Dio che anela alla redenzione che è nelle nostre mani. Come maestro della preghiera, Rabbi Hanina aveva imparato i modi di pregare "in nome della sofferenza di Dio", secondo le parole di Levinas, "per il Dio che soffre sia per la trasgressione dell'uomo sia per la sofferenza con cui questa trasgressione può essere espiata".[51] Rabbi Hanina ben Dosa visse un periodo di terribile sofferenza sia da parte di Dio che dell'umanità.

Allora dov'era Hanina ben Dosa in tutta questa sofferenza? "Colui che poteva con le parole, con le sole parole, alterare gli eventi e salvare vite umane, perché non le ha usate per prevenire l’indicibile disastro e risparmiare a Gerusalemme l'ultima umiliazione? Perché non fece nulla? Perché non disse niente? È per questo che il mondo chassidico non lo ha rivendicato come antenato?"[52] Una cosa, anche se dura, è constatare che egli non pregò per far uscire dalla povertà la propria famiglia. "Si accontenta di poco, o anche di meno. Il risultato? La sua situazione è così grave che la sua famiglia non ha nulla da mangiare durante lo Shabbat! Nel frattempo la moglie, per non suscitare pietà, faceva credere che tutti i pasti fossero in tavola [Taanit 24b–25a]".[53] Ma che dire della distruzione del Tempio? Una spiegazione è che morì prima che i romani lo distruggessero nell'anno 70 EV. Un'altra possibilità è che "non abbia pregato perché non poteva pregare. Di fronte a tante vedove e tanti orfani che vagavano tra le rovine di Gerusalemme, perse la voce; le sue labbra si sigillarono. L'eroe della preghiera divenne una vittima".[54] Non pregò perché quando le vedove e gli orfani soffrono, è tempo di aiutare, non di pregare.

Wiesel ci ricorda il Midrash che riporta un altro insegnamento di Rabbi Hanina ben Dosa. L'ariete, disse Rabbi Hanina, che prese il posto di Isacco quando suo padre Abramo alzò il coltello su di lui, fu creato al crepuscolo del sesto giorno della Creazione. E nulla di quell'ariete è andato perduto:

« Le ceneri furono disperse nel santuario del Tempio. I tendini furono usati da David come corda per la sua arpa; la pelle fu rivendicata dal profeta Elia per vestirsi. Quanto alle due corna dell'ariete, quella più piccola riuniva il popolo ai piedi del Monte Sinai, e quella più grande risuonerà un giorno, annunciando la venuta del Messia. Da questa interpretazione poetica apprendiamo l'atteggiamento fondamentale di Rabbi Hanina nei confronti della vita: tutto ciò che esiste contiene un segreto divino e uno scopo che lo trascende. Realtà e leggenda si intrecciano: ciò che per noi è leggenda potrebbe essere realtà per qualcun altro. Memoria e immaginazione non sono necessariamente incompatibili; possono completarsi a vicenda [Pirkei de Rabbi Eliezer 31]. »
(Wiesel, 186)

Ci sono, infatti, momenti in cui la realtà supera le possibilità. È allora che la leggenda ci viene in aiuto e che la memoria è più necessaria.

Wiesel fa riferimento a un Midrash in cui ci viene detto che una volta Rabbi Hanina ben Dosa vide i pellegrini portare offerte al Tempio, e si rattristò perché non aveva offerte da portare. Proprio in quel momento scorse una grossa pietra e giurò che l'avrebbe portata al Tempio. La cesellò e lucidò ed era pronto a sollevarla, ma era troppo pesante. Alcuni operai si offrirono di trasportarla per cento monete d'oro, ma lui, naturalmente, aveva pochissimi soldi. Ancora una volta Rabbi Hanina cadde nella disperazione. All'improvviso apparvero cinque uomini che si offrirono di aiutare, ma chiesero che anche il rabbino partecipasse. Nell'istante in cui raccolsero la pietra, in qualche modo si ritrovarono in cima al Monte del Tempio. Quando Rabbi Hanina si voltò per pagare loro quel po' di denaro che aveva, non c'erano più: Dio aveva mandato i Suoi angeli per assistere Hanina ben Dosa nell'offerta (Eykhah Rabbah 1:1:1). Il commento conclusivo di Wiesel: "Ogni parola può evocare la meraviglia di Eykhah Rabbah, ogni uomo può affrettare la redenzione, ogni essere umano è il centro della creazione. Come Rabbi Hanina, vorremmo poter andare a Gerusalemme con un'offerta e, come lui, siamo condannati a portare pietre così pesanti da non poter essere sollevate, tranne che, a differenza di Rabbi Hanina, le portiamo nei nostri cuori.[55] Ciò significa che il cuore diventa la nostra offerta.

Ritratto di Rabbi Ishmael

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Studiosi di Talmud, di Adolf Behrman (ca. 1900)
  Per approfondire, vedi Rabbi Ishmael e Mekhilta de-Rabbi Ishmael.

Wiesel racconta una storia sulle origini di uno dei più grandi saggi dell'ebraismo, un uomo che visse tra la distruzione del Secondo Tempio nel 70 EV e la ribellione di Bar Kokhba nel 135. Durante una visita a Roma, il Talmud racconta, Rabbi Joshua ben Hananiah una volta trovò un bambino ebreo in una prigione romana. Vedendo il bambino, Rabbi Joshua pronunciò la prima parte di un versetto di Isaia 42:24: "Chi abbandonò Giacobbe al saccheggio, Israele ai predoni?" E il bambino pronunciò la seconda metà del versetto: "Non è stato forse il Signore contro cui peccarono, per le cui vie non vollero camminare, la cui legge non osservarono?" Stupito dall'apprendimento del ragazzo, il rabbino decise che avrebbe salvato il bambino (Gittin 58a). Figlio di un sacerdote, il bambino crebbe fino a diventare il famoso rabbino Ishmael.[56] Sì, Ishmael: il fatto che sia stato usato il nome Ishmael, a differenza di Esaù, scrive Wiesel, "serve come prova, secondo i commentatori talmudici, che il primo Ishmael, figlio di Agar, si pentì [Rashi, commentario a Genesi 15:15]."[57] Di cosa dovette pentirsi Ishmael? Nessuno lo sa davvero. Era una cosa tra lui e Dio.

Oltre a studiare con Rabbi Joshua ben Hananiah, Rabbi Ishmael studiò Halakhah con Rabbi Nehunya ben HaKanah, il grande cabalista e autore del Sefer haBahir (Shevout 26a).[58] Sì: imparò la Halakhah da un grande cabalista, perché nella mente dei grandi cabalisti, la Halakhah riguarda le "Azioni del Principio" e le "Azioni del Carro". In effetti, tutti i grandi saggi che scrissero codici di legge – da Mosè Maimonide a Moshe Isserles, da Joseph Caro a Rebbe Shneur Zalman di Liadi – furono annoverati tra i grandi mistici. Perché nell'ebraismo, il reame del mondano è il reame del mistico, come aveva capito Rabbi Ishmael. Ecco perché insisteva che lo studio della Torah dovesse essere combinato con un'occupazione mondana (Berakhot 35b). Ed è per questo che Rabbi Tarfon lo definì "un grande studioso ed esperto di aggadot", cioè i racconti della Torah Scritta e Orale (Moed Katan 28b). La prova? La sua Mekilta de-Rabbi Ishmael (aram. מְכִילְתָּא דְּרַבִּי יִשְׁמָעֵאל). Solo un maestro delle aggadot può sondare la profondità degli intimi legami tra il mistico e il mondano. Rabbi Ishmael era così meticoloso riguardo allo studio sistematico della Torah, che redasse i Tredici Principi per l'analisi della Torah che recitiamo ogni mattina nelle nostre preghiere, cosa che imparò da Rabbi Nehunya ben HaKanah.[59]

Facendo eco a un insegnamento di Rabbi Yohanan, la scuola di Rabbi Ishmael insegnava: "Ogni singola parola che uscì dal Santo, benedetto sia Lui, si divise nelle settanta lingue [delle settanta nazioni]" (Shabbat 88b). Il Midrash sui Salmi contiene una variazione su questo tema: "Quando il Santo, benedetto sia Lui, proclamò la parola divina, la voce si divise in sette voci, e dalle sette voci passò nelle settanta lingue delle settanta nazioni" (Midrash Tehillim 2.68.6). Il maestro chassidico Rabbi Yehudah Leib Alter di Ger elabora ulteriormente, dicendo: "Tutte le settanta lingue scaturiscono dalla lingua sacra. È la Torah che dà vita a tutte quelle lingue".[60] Procedendo da Rabbi Ishmael, quindi, vediamo che una parte del lascito chassidico di Elie Wiesel riguarda il linguaggio e il legame tra parola e significato. La Torah stessa è una rivelazione di quel legame e, nella misura in cui la lingua di ogni nazione scaturisce da una scintilla dell'espressione divina della Creazione, ogni lingua nasconde una traccia della Torah.

"Cos'altro sappiamo di lui?" chiede Wiesel. "Era sposato, nessuno sa con chi. Aveva due figli che morirono prima di lui [Moed Katan 28b]."[61] Sapere che perse due figli ci dice molto su Rabbi Ishmael. Ci dice che aveva una buona ragione per ribellarsi a Dio – per gridare a Dio con angoscia, disperazione e rabbia – e forse lo fece: quando un genitore seppellisce un figlio, Dio non voglia, la creazione viene capovolta. Tuttavia, questo tragico orrore non lo distolse dal suo cammino, un cammino che comprende non solo l'erudizione ma anche la gioia che deriva dalla vera erudizione: "Ricevi tutti gli uomini con allegria", insegnò (Pirkei Avot 3:12). Rabbi Ishmael, più di ogni altro saggio, eresse un recinto attorno al parlare male dei nostri simili: la Scuola di Ishmael, dice il Talmud, insegnava che "chiunque diffama aumenta i suoi peccati fino al [grado dei] tre peccati [cardinali]: idolatria, incesto e spargimento di sangue" (Arakin 15b). per cui, la devozione di Rabbi Ishmael alla Torah. E la sua ricompensa?

Wiesel racconta una storia presa dalla tradizione: Rabbi Ishmael era così bello che poco prima della sua esecuzione una matrona romana si offrì di salvargli la vita se fosse giaciuto con lei. Proprio come Giuseppe aveva rifiutato la moglie di Potifar, così Rabbi Ishmael rifiutò la donna romana, dopodiché lei ordinò che fosse scorticato.[62] La storia continua:

« E avvenne che quando il grande e venerato Rabbi Ishmael fu torturato per mano dei soldati romani per aver studiato la Torah, il suo dolore fu così travolgente che gridò. E quel grido fu così potente da scuotere cielo e terra. Tuttavia, il torturatore continuò a punire il santo studioso ebreo che poi gridò di nuovo, tanto era terribile il dolore che gli era stato fatto sopportare. Il suo secondo grido fu più fragoroso del primo: scosse lo stesso trono celeste. "Perché ha dovuto soffrire così tanto?" chiesero gli angeli. "È questa la ricompensa per la sua devozione all'apprendimento?" "Una volta emesso un decreto, non può essere revocato", fu la risposta di Dio. E si affrettò ad aggiungere: "Se Rabbi Ishmael grida ancora una volta, riporterò l'universo al suo caos originario". E Rabbi Ishmael era così gentile e premuroso che rimase in silenzio, e così il mondo fu salvato [Otsar Midrashim, Esrei Harugi, Malakkot 6]. »
(Wiesel, 212)

Perfino Dio non poteva sopportare di sentire le urla di Rabbi Ishmael. Tutta la creazione si fondava quindi non solo sul martirio di un unico testimone, ma anche sul martirio silenzioso dei più giusti della sua generazione!

In linea con il suo carattere chassidico, Wiesel chiede: "Da quando Dio è così sensibile alle lamentele degli ebrei?"[63] E date le circostanze, perché Rabbi Ishmael non dovrebbe riportare l'universo al suo caos originale e primordiale? Allora verrebbe ripristinata la condizione di "non essere mai nato", condizione promossa dalla Casa di Shammai e ritenuta superiore alla visione opposta adottata dalla Casa di Hillel. La creazione e la Torah di cui è fatta sono tanto care a Rabbi Ishmael da scegliere di sottoporsi silenziosamente a una tortura così orribile? In effetti, rimase in silenzio non solo per il bene della creazione e della Torah, ma per il bene di Dio stesso, perché ci sono momenti in cui essere testimoni di Dio richiede silenzio da parte nostra, per il bene della Creazione e del Creatore.

Il lascito chassidico che ci arriva attraverso l'esempio di Rabbi Ishmael? Secondo Wiesel è questo:

« Ciò che ci ha detto – ciò che ci ha insegnato – è quanto segue: Sì, potrei distruggere il mondo, e il mondo, governato dal cinismo e dall'odio, merita di essere distrutto; ma essere ebreo significa avere tutte le ragioni del mondo per distruggere, e per non distruggere. Essere ebreo significa avere tutte le ragioni del mondo per odiare i carnefici e per non odiarli. Essere ebreo significa avere tutte le ragioni del mondo per diffidare della preghiera, della fede, dell'umanità, del potere, della bellezza, della verità e del linguaggio, e tuttavia non farlo. Essere ebreo significa continuare a usare le parole quando guariscono e il silenzio quando redime l'umanità. »
(Wiesel, 223)

Se Dio e gli angeli non potevano sopportare le urla di Rabbi Ishmael, il suo silenzio doveva essere ancora più insopportabile. Perché il suo silenzio assomiglia al silenzio del caos e del vuoto che infesta la creazione. Ma nel silenzio di Rabbi Ishmael il vuoto è pieno di un silenzio che supera il terrore, un silenzio che inghiotte l'urlo prima che possa raggiungere le labbra. Passando davanti al silenzio di Rabbi Ishmael, ci scontriamo con un luogo che è l'opposto di HaMakom: "il Luogo", come viene chiamato Dio. Se Dio insiste sul silenzio, insiste sulla radicale indifferenza di "Esso", lo spettatore? Dio è semplicemente uno spettatore? Altrimenti, come distinguere il silenzio di Dio dall'indifferente neutralità dell'Essere, il silenzio vano e vuoto dell'abisso, che è l'eredità dei filosofi greci?

Sebbene conoscesse il greco – o perché conosceva il greco – Rabbi Ishmael proibì ad altri di studiare i greci. Dice Wiesel: "Era ancora più duro con i miscredenti, gli eretici del suo tempo: i Minim (le sette dissidenti), i sadducei, i cristiani".[64] Perché? Perché tutti loro, a vari livelli, caddero sotto l'incantesimo ellenistico. Il Talmud ci dice che "Ben Damah, figlio della sorella di R. Ishmael, una volta chiese a R. Ishmael: Può uno come me che ha studiato tutta la Torah imparare la saggezza greca? Al che il Rabbi gli lesse il versetto seguente: ‘Questo libro della legge non si diparta mai dalla tua bocca, ma meditalo giorno e notte’ (Giosuè 1:8). Va' dunque e trova un momento che non sia né giorno né notte e impara allora la saggezza greca’. R. Samuel b. Nahmani disse a nome di R. Jonathan: Questo versetto non è né un dovere né un comando ma una benedizione" (Menahot 99b). Sì, una benedizione. Il pericolo della "saggezza greca", come aveva capito Rabbi Ishmael, è che ci consegna alla radicale neutralità dell'essere, al caos e al vuoto superati attraverso la Creazione, un vuoto in cui il grido trattenuto non ha senso perché nessuno ti sente urlare. O peggio, non senti nessuno urlare.

Nessuno sente, nessuno risponde. L'urlo annuncia la scomparsa dell'anima dalla vittima mortale, poiché il torturatore che vorrebbe essere Dio ne prende il possesso assoluto. La demolizione dell'uomo – la demolizione del medaber o dell’"essere parlante", come la tradizione ebraica definisce l'essere umano – è la demolizione della parola, la demolizione del grido trattenuto, per il quale non esiste parola. E come capì Rabbi Ishmael, tutto inizia con la demolizione dell'ebreo. È la demolizione non solo del dicibile ma, più profondamente, dell'inesprimibile, dell'immemorabile, del nascosto. Anche Rabbi Ishmael capì che tutto ciò che santifica la vita è tanto invisibile quanto inascoltato. Perché nel caso di Rabbi Ishmael il grido trattenuto è assordante.

E così comprendiamo le implicazioni di questo antico saggio per il nostro tempo: senza la dimensione del nascosto, non si può superare il caos e il vuoto che ci perseguita e non c'è significato collegato alla Creazione. Il caos e il vuoto appartengono a un reame in cui nulla è nascosto. Si nascondono nella saggezza greca. Per quanto riguarda la saggezza greca, nulla è nascosto, come nulla può essere nascosto allo sguardo attento del sillogismo. Wiesel spiega: Rabbi Ishmael dichiarò che "ci sono sette cose nascoste all'uomo: ‘Il giorno della nostra morte, il giorno della nostra consolazione, la profondità e la portata della legge, inoltre, l'uomo non comprende ciò che lo rende degno, ciò che sta accadendo nel cuore del suo amico, quando il regno di Davide sarà restaurato e quando il regno del peccato sarà distrutto [Pesahim 54b]’".[65] Possiamo vedere che questo appello a ciò che Rabbi Ishmael identifica come nascosto e quindi essenziale per il significato e la santità nella vita umana fu attaccato non solo al tempo dei romani ma anche al tempo di coloro che volevano emularli. Rabbi Ishmael insisteva sul fatto che "Dio è amorevole",[66] dice Wiesel, e che il Suo "amore per il Suo popolo è assoluto".[67] Solo amando di più, amando in modo assoluto, si instaurerà il regno messianico. Ciò spiega perché nel suo ritratto Wiesel racconta che quando i romani presero Rabbi Ishmael e Rabbi Shimon, erano pronti a giustiziarli entrambi, e ciascuno implorava di essere il primo per non assistere alla morte dell'altro. Tirarono a sorte: Rabbi Shimon fu assassinato per primo.[68] Quella fu la tortura più grande che Rabbi Ishmael soffrì: vedere il suo amico torturato a morte davanti ai suoi occhi.

Secondo Rabbi Ishmael, scrive Wiesel, "Giobbe apparteneva al consiglio reale del Faraone. E quando Mosè andò dal re per implorare la liberazione del suo popolo, il Faraone chiese ai suoi tre dotti consiglieri le loro opinioni. Jethro disse: Lasciali andare. Bileam disse: Non farlo. Quanto a Giobbe, rimase neutrale e silenzioso. Per questo fu punito. In tempi di necessità e tragedia, la neutralità aiuta l'oppressore e non le sue vittime [cfr. Haggadah Marbeh Lisaper, Maggid, Dichiarazione dei Primi Frutti 8]".[69] La "raccomandazione più sublime" di Rabbi Ishmael? chiede Wiesel. È questa: "‘Non sovraccaricare il cammello; non mettergli sul dorso un peso troppo pesante da trasportare!’ [cfr. Sotah 13b]".[70] Questo è un insegnamento che si estende anche all'umanità. La cura per l'animale comincia dalla cura per l'essere umano: se non mi prendo cura dell'essere umano, certamente non mi prenderò cura dell'animale. Oppure è il contrario?

Abbinando e confrontando Rabbi Ishmael e Rabbi Akiva, due giganti del Talmud – lo Yerushalmi si riferisce a loro come "i padri del mondo" (Rosh Hashanah 1:1) – Wiesel nota che si impegnarono in molti dibattiti ma sempre per amore dell'umanità e dell'uno per l'altro. "Rabbi Akiva", dice, "enfatizzava l'immaginazione, Rabbi Ishmael il realismo. Il primo interpretava ogni parola, ogni lettera, ogni sillaba della Torah, mentre il secondo cercava di chiarirne il significato più ampio. Per Rabbi Ishmael lo spirito della legge era più importante della lettera della legge".[71] Ma senza la lettera non c'è lo spirito. Nessuno lo sapeva meglio di Rabbi Akiva. Forse è stato Rabbi Ishmael a portarlo a questa realizzazione. Per Rabbi Akiva, il saggio più meticoloso con il pshat, il livello letterale di comprensione – che attaccava le corone a ogni lettera, studiando attentamente ogni sillaba – fu il saggio che ascese ai reami più pericolosi dei mondi superiori, dove da solo "entrò in pace e dipartì in pace" (Talmud Bavli, Hagigah 14b).

Ritratto di Rabbi Akiva

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Rappresentazione di Rabbi Akiva sull'Haggadah di Mantova (1568)
  Per approfondire, vedi Rabbi Akiva, Rabbi Akiva (EN) e Pardes (legend).

Rabbi Adin Steinsaltz scrive: "L'organizzazione sistematica della halakhah nel suo insieme in unità chiaramente definite è stata apparentemente portata avanti da Rabbi Akiva".[72] Vale a dire, l'influenza di nessun altro rabbino sulle generazioni degli ultimi duemila anni è così profonda e pervasiva come quella di Rabbi Akiva. Infatti, con Rabbi Akiva, asserisce Wiesel, "il racconto della legge è diventato parte della legge stessa. Per lui ogni parola, ogni lettera della Scrittura aveva un significato speciale".[73] E una richiesta speciale, un obbligo speciale, una responsabilità speciale: tutto ciò che è necessario per dare un senso alla vita. Ecco perché Rabbi Tarfon, amico e interlocutore di Rabbi Akiva, diceva: "Chi si separa da Akiva si separa dalla vita" (Tosefta Mikvaot 1). L’"impatto di Akiva", afferma Wiesel, "è stato sentito nei campi di Aggada e Halakhah. ‘Se non fosse stato per lui’, dice il Talmud, ‘la Torah sarebbe stata dimenticata’. Così la sua vita e la sua opera hanno ispirato numerose leggende e favole. Fa appello all'immaginazione sia dei dotti che degli incolti. È amato dai mistici e dai razionalisti... Eppure, eppure, ho qualche difficoltà con Rabbi Akiva. Il suo atteggiamento nei confronti della sofferenza mi preoccupa".[74] Perché? "Sono turbato dalla sua attrazione per la sofferenza che precede la morte, e quindi per la morte stessa".[75] Ritorneremo alla preoccupazione di Wiesel. Ma prima un po' più di sfondo per preparare la tela di questo ritratto.

Pochi dei grandi saggi talmudici avevano origini così modeste come Rabbi Akiva. Nato a Lidda intorno al 50 EV, suo padre Yosef, ci dice il Talmud, era un proselito (Sanhedrin 96a). Crebbe fino a diventare un pastore analfabeta al servizio di un uomo ricco di nome Kalba Savua, la cui bellissima figlia Rachel si innamorò del giovane Akiva. Quando decise di sposare Akiva, tuttavia, suo padre la tagliò fuori dalla sua eredità in modo che la giovane coppia impoverita dormisse solo sulla paglia. "Se solo potessi", disse Akiva alla sua sposa, "ti regalerei una Gerusalemme d'oro" (Nedarim 50a). Un giorno il profeta Elia si presentò alla porta degli sposi travestito da mendicante bisognoso di un po' di paglia su cui far sdraiare la moglie, che stava per partorire. Akiva gli diede la paglia e disse a Rachel: "Vedi? Alcune persone sono più povere di noi". Avendo assistito alla compassione di suo marito per gli indigenti, Rachel lo mandò a studiare con Rabbi Eliezer ben Hyrkanos e Rabbi Joshua. Quando tornò a casa dodici anni dopo, lei espresse il desiderio che tornasse a studiare per altri dodici anni. Quando tornò a casa da sua moglie dopo i secondi dodici anni, aveva con sé 24.000 discepoli (Nedarim 50a). Un'altra fonte talmudica dice che dopo 12 anni tornò con 12.000 discepoli, e dopo altri 12 anni portò a casa 74.000 discepoli (Ketuvot 62b–63a). Sua moglie si avvicinò per salutarlo, solo per incontrare uno sbarramento dei suoi discepoli, che cercarono di tenerla lontana. Rabbi Akiva li rimproverò, dicendo: "Fatele largo, perché il mio sapere e il vostro provengono da lei" (Ketuvot 62b).

L'unica persona più saggia di Rabbi Akiva sarebbe stata probabilmente sua moglie Rachel. Analizzando questo racconto talmudico così centrale nel suo ritratto, comprendiamo un significato più profondo dell'insegnamento di Raba: "Quanto è preziosa una buona moglie, alla quale è paragonata la Torah" (Yevamot 63b). Una buona moglie porta dentro di sé la saggezza della Torah. Portando la saggezza più essenziale della Torah, la saggezza che è Torah, Rachel riconobbe i semi della stessa saggezza in suo marito e lo mandò a studiare, non a causa della sua erudizione o della sua precoce padronanza del Tanakh, ma a causa del suo amore per gli altri esseri umani, per lo straniero, il mendicante e chi non ha nessuno a cui rivolgersi. Senza quell'amore, senza quella hesed, non c'è base per la ricerca della saggezza e nessun terreno da cui possano crescere i semi della saggezza: non c’è Torah.

Ma, un momento!... Era analfabeta e tuttavia lo sposò la figlia colta di un uomo ricco? Sì. E lei lo ha mandato a studiare? Sì. All'età di quarant'anni iniziò imparando l’alef-beit, dicendo: "Quando ero un am ha-aretz [un ignoramus], mordevo uno studioso come fossi un asino" (Pesahim 49b). All'età di quarant'anni, l'età minima per studiare i misteri della Cabala, il più grande dei mistici aveva appena cominciato a imparare la differenza tra una alef e una beit. Il Talmud ci racconta che lui e suo figlio andarono insieme a imparare l’alef-beit da un insegnante di bambini piccoli; raccoglieva la paglia e la vendeva per poter pagare le lezioni (Avot d’Rabbi Natan 6:2). C'è Torah anche in questo. Vediamo in questo ritratto di Rabbi Akiva ciò che conduce un uomo fuori dal deserto: l’alef-beit della Torah. Il numero quaranta, ovviamente, è associato alla Torah, ai quaranta giorni necessari per rivelare la Torah a Mosè, alla lettera mem che inizia la Torah Orale, la cui gematria è quaranta. Mosè, infatti, fa parte di questo ritratto di Rabbi Akiva.

Wiesel riporta il racconto dal Talmud, dove ci viene detto che Mosè udì per caso una discussione rabbinica riguardante la Torah e la Halakhah, e non ne capì nulla. Quando lo chiese a Dio, Dio lo rassicurò che questa era davvero la Torah del Sinai, e Mosè fu soddisfatto. All'improvviso, tuttavia, ebbe una visione di Rabbi Akiva torturato a morte e chiese a Dio: "È questa la ricompensa per la devozione alla Torah?" Dio lo rimproverò, dicendo che tali cose “non devono essere messe in discussione" (Menahot 29b). "E così Mosè, in soggezione", dice Wiesel, "come Rabbi Akiva dopo di lui, deve aver capito che ci sono momenti in cui Dio vuole che i Suoi prescelti tacciano".[76] Cosa? Il Dio che incoraggia le domande, che nomina il Suo prescelto Yisrael che significa "colui che lotta con Dio", vuole che i Suoi prescelti tacciano? Sembra che proprio quando i giusti soffrono non dovremmo tacere! Cosa è successo alla dichiarazione di Dio secondo cui il Suo servitore Giobbe aveva parlato correttamente (Giobbe 42:7)? Non si confrontò Mosè con Dio, quando Dio stava per spazzare via gli Israeliti, dicendo che se avesse fatto una cosa del genere, allora avrebbe dovuto cancellare il nome di Mosè dal Suo libro (Esodo 32:32)? Una morte così orribile è la ricompensa per la Torah?

Mi viene in mente un'intuizione di Emil Fackenheim: durante il regno del Terzo Reich gli ebrei furono assassinati non perché avessero abbandonato la Torah ma perché i loro nonni vi avevano aderito.[77] Anche a Wiesel viene in mente qualcosa: "Ricordo le processioni notturne delle famiglie ebree che camminavano verso la morte – sembra che anche loro, come Rabbi Akiva, si offrissero all'altare. Sembra che anche loro avessero rinunciato alla vita, come aveva fatto lui, molti di loro con lo Shma Israel sulle labbra. Perché Rabbi Akiva non ha optato per la sfida? Perché non ha proclamato il suo amore per la vita fino al momento in cui gli è stata tolta?"[78] Ma cosa significa "rinunciare alla vita"? Come, esattamente, hanno rinunciato alla vita? Morendo? Non so cosa significhi rinunciare alla vita. O come potrebbe manifestarsi l'attaccamento alla vita. Ci sono momenti in cui aggrapparsi alla vita significa morire con lo Shma sulle labbra, come testimone eletto del Santo. Ma so, come ho imparato dal professor Wiesel, che l'affermazione della sacralità della vita in mezzo alla profanazione e alla distruzione della vita è l'aspetto più essenziale, più urgente della saggezza. E così con Rabbi Akiva ci scontriamo con il compito millenario di recuperare il significato dalle ceneri dell'obliterazione del significato, qualcosa che appartiene in particolare all'eredità chassidica di Elie Wiesel.

Rabbi Akiva immerse le mani nella cenere e cercò i resti di Israele, le atzmot, le "ossa" e l'"essenza" di Israele che emerse dalle ceneri del Tempio che andò in fiamme. Ecco perché ebbe un impatto così insondabile e di vasta portata sulle generazioni di ebrei che lo seguirono: le ceneri del corpo e i frammenti di quelle ossa di Israele sarebbero un giorno piovuti sulla faccia della terra. Dice Wiesel di Rabbi Akiva: "Sopravvissuto alla distruzione di Gerusalemme, dovette trovare un modo per conferirle un significato... Come persona che camminava tra le rovine del Tempio, doveva trovare un modo per costruire, ancora una volta, su quelle stesse rovine".[79] Attraversando i ritratti di Wiesel, camminiamo tra le rovine del Terzo Tempio. Mentre scaviamo, con Rabbi Akiva e con Wiesel, tra le rovine del Secondo Tempio, sprofondiamo nelle sabbie mobili delle rovine del Terzo Tempio. Affondiamo nel mare delle fosse comuni della Shoah, solo per imbatterci nel corpo di un ebreo assassinato i cui assassini sicuramente non verranno mai trovati.

E così successe a Rabbi Akiva. Wiesel racconta che rimase "seduto alla presenza di Rabbi Eliezer per dodici anni senza mai pronunciare una sola parola... Un giorno Akiva si imbatté in un cadavere sconosciuto per strada: quello che chiamiamo met mitzvah. Ricordando che il Sommo Sacerdote, se ciò gli fosse accaduto durante lo Yom Kippur, avrebbe dovuto trascurare tutti gli altri doveri e occuparsi del cadavere, Akiva portò l'uomo in città, arrivando lì esausto, fradicio di sudore, solo per essere rimproverato dal suo insegnante: un ‘met mitzvah’, gli fu detto, ‘deve essere sepolto dove viene trovato; per ogni passo che hai fatto, sei stato colpevole di spargere sangue’".[80] Secondo il Kitzur Shulhan Arukh, se dovessimo imbatterci nel corpo insanguinato di qualcuno che è stato brutalmente ucciso, dobbiamo seppellire il corpo come lo abbiamo trovato, in tutte le sue vesti insanguinate (197:9). Una volta ho chiesto a uno dei miei insegnanti, un rabbino Lubavitcher, perché abbiamo questa usanza. Mi ha detto che seppelliamo chi viene trovato in tali condizioni, senza alcuna speranza di trovare l'assassino, per metterlo in faccia a Dio e gridare: "Guarda che ne è stato della Tua creazione! Cosa farai a riguardo?"

"Un altro episodio nella vita di Rabbi Akiva mi preoccupa", scrive Wiesel. "Ancora l'avventura nel Pardes, il frutteto della conoscenza proibita. Vi entrarono quattro amici. Uno perse la testa, un altro perse la fede, un terzo perse la vita — e solo Rabbi Akiva entrò in pace e ne emerse in pace [Hagigah 14b]. Come è possibile? Un evento che distrusse i suoi amici non ebbe alcun effetto su di lui?"[81] Nel ritratto di Ben Azzai e Ben Zoma che segue approfondiremo i dettagli di questo episodio. In breve, i quattro entrarono nei confini più alti della Saggezza Nascosta conosciuta come Pardes o "Frutteto" dell’insegnamento mistico, dove si svolgevano i misteri del Carro nella visione di Ezechiele. Erano Ben Azzai, Ben Zoma, Elisha ben Abouya e Rabbi Akiva. Ben Azzai morì all'ingresso, Ben Zoma impazzì ed Elisha ben Abouya divenne un apostata. Solo Rabbi Akiva entrò in pace e se ne andò in pace. Vediamo allora perché questo incidente è così preoccupante per Wiesel. Erano quattro tra i più grandi saggi della loro generazione, quattro tra i più giusti d'Israele, quattro molto vicini tra loro; infatti, Rabbi Akiva li amava e li avvertì: "Quando arriverete alle pietre di marmo puro, non gridate: ‘Acqua, acqua!’" (Hagigah 14b). Allora perché non si fa menzione dell'indignazione o del dolore da parte di Rabbi Akiva per la perdita dei suoi tre amici?

Potrebbe essere che ciò che accadde ai suoi amici fosse parte del motivo per cui Rabbi Akiva dichiarò Bar Kokhba il Messia al tempo della ribellione finale degli ebrei contro l'oppressione romana, che durò dal 132 al 135 EV (Talmud Yerushalmi, Taanit 4 :8)? Come mistico, ipotizza Wiesel, "era principalmente interessato ai problemi legati alla redenzione finale. Quando la sua avventura al Pardes fallì, potrebbe aver deciso una strategia diversa. Invece di aspettare un Messia mandato dal cielo, avrebbe costretto il cielo ad accettare un Messia scelto da lui. Può aver pensato: 'Se io – e centinaia di migliaia di figli d'Israele – proclamo questo valoroso giovane generale il redentore, Dio non avrà altra scelta che ungerlo come Suo redentore’".[82] Lo sforzo del mistico per accelerare l'avvento del Messia può infatti comportare il forzare la mano di Dio, anche se ciò significa mettere in pericolo se stessi. Non bisogna mai, però, mettere in pericolo gli altri. Rabbi Akiva "era pronto a mettere in pericolo se stesso ma non gli altri", dice Wiesel. "Era pronto a sostenere la sofferenza per se stesso ma non per gli altri. Ecco perché insegnava clandestinamente, a differenza di Rabbi Hananiah ben Teradyon, che persisteva nell'insegnare pubblicamente".[83]

Tuttavia, Rabbi Akiva non fu sempre così attento o così clandestino, come vediamo dal seguente racconto talmudico:

« Una volta il governo malvagio emanò un decreto che vietava agli ebrei di studiare e praticare la Torah. Pappus b. Judah venne e trovò R. Akiva che congrevava pubblicamente riunioni e si occupava della Torah. Gli disse: Akiva, non hai paura del governo? Lui rispose: Te lo spiegherò con una parabola. Una volta una volpe stava camminando lungo un fiume e vide i pesci andare in sciami da un luogo all'altro. Disse loro: Da che cosa fuggite? Risposero: Dalle reti gettate per noi dagli uomini. Disse loro: Volete salire sulla terraferma, affinché io e voi possiamo vivere insieme, come vissero i miei antenati con i vostri antenati? Risposero: Sei tu quello che chiamano il più intelligente degli animali? Non sei intelligente ma stolto. Se abbiamo paura nell'elemento in cui viviamo, quanto più nell'elemento in cui andremmo a morire! Così è anche per noi. Se questa è la nostra condizione quando ci sediamo e studiamo la Torah, di cui è scritto, Poiché questa è la tua vita e la lunghezza dei tuoi giorni [Deuteronomio 30:20], se la trascuriamo, quanto peggio staremo! »
(Berakhot 61b)

Anche qui intravediamo la saggezza di chi iniziò come pastore e sapeva solo come trattare i suoi simili con amorevole gentilezza — come i sette pastori del profeta Michea (Michea 5:4), che accogliamo nella Sukkah durante i giorni di Sukkot: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Aronne, Giuseppe e Davide. I pastori sono coloro che comprendono che la Torah non è solo un testo o un insegnamento, ma infonde vita nell'anima. È la neshimah della neshamah. Comprendendo il significato profondo del versetto "Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Deuteronomio 8:3), Rabbi Akiva era una sorta di ottavo pastore, che comprendeva che in assenza della Torah e dei suoi richiami ad amare, l'anima soffoca.

"Il caos", scrive Wiesel verso la fine del suo ritratto di Rabbi Akiva, "è il trauma escatologico nell'ebraismo. Disordine su scala universale, confusione e anarchia che trascendono il tempo, lo spazio e il linguaggio. Cosa c'è di peggio del male? Il trionfo del male... e questo è il caos. Perché nel caos il bene e il male sono intrecciati e intercambiabili. Il male trionfa dove si atteggia a bene".[84] Fatta di Torah, la Creazione è il superamento del tohu vavohu, del "caos e del vuoto" (Genesi 1:2), del principio. La Creazione è il Bene, il ki tov, che vince il male che è il caos. Il male trionfa non solo dove si atteggia a bene ma dove è indistinguibile dal bene, in un reame dove non esistono criminali né pazzi, come Primo Levi descrive il Lager.[85] "Il mondo intorno a noi", dice uscendo da Auschwitz, "sembrava essere tornato al caos primordiale e brulicava di esemplari umani scaleni, difettosi e anormali".[86] Queste sono le creature che rispecchiano l'immagine non del Creatore ma del caos opposto dal Creatore. "Era più di un sacco", dice Levi, "era il genio della distruzione, dell'anticreazione, qui come ad Auschwitz; era la mistica della sterilità".[87] L'anticreazione è la creazione del nulla da qualcosa, un ritorno al vuoto di ciò che si sforza di superare il vuoto. È il trionfo del male.

Cosa c'entra questo con il ritratto di Rabbi Akiva fatto da Wiesel? Suggerisce un collegamento: "Ricordo, nel regno della notte, i chassidim che cantavano non solo Ani Maamin ma anche ‘Amar Rabbi Akiva, amar Rabbi Akiva Ashrekhem Israel’ — e Rabbi Akiva disse: Benedetto e felice sei tu, Israele — perché state purificandovi davanti a Colui che vi purifica’".[88] Come Rabbi Akiva, che cantò la sua lode a Dio mentre veniva torturato a morte, questi chassidim gridarono la loro lode a Dio – se non altro per sfidare o coinvolgere Dio – dal profondo dell'anticreazione, chiamata profonda al profondo come mai prima d'ora. Forse è stato il canto dei chassidim a impedire alla Creazione di scivolare oltre il limite e ritornare nel caos.

Ritratto di Shimon ben Azzai e Shimon ben Zoma

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Salterio francese, miniatura del 1235, che rappresenta una scena di Ibn Ezra che pratica l'astrologia, con manoscritto arabo tenuto da uomini che lo affiancano su entrambi i lati
  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Simeon ben Azzai e Simon ben Zoma.

Ancora una volta il ritratto del saggio talmudico è il ritratto di una coppia, ciascuno dei quali è legato all'altro, si completa a vicenda, con una tensione tra i due. Come abbiamo visto, Ben Azzai ascese ai reami più elevati solo per soccombere alla morte, mentre Ben Zoma cedette alla follia. Non c'è un legame in questo binomio — morte e follia? In La Ville de la chance Wiesel scrive: "L'uomo che sceglie la morte segue un impulso di liberazione dal sé; così è l'uomo che sceglie la follia".[89] Eppure Ben Azzai e Ben Zoma non scelsero esattamente la morte e la follia. Infatti, nella loro ascesa ai reami più alti, cercarono una certa liberazione da se stessi, o almeno dall'ego, che è il più grande ostacolo nel rapporto tra l'essere umano e il Santo. Nella trasformazione dell’ani o "io" in ain o "niente", necessaria alla relazione superiore, l'ego deve subire una sorta di morte che da questo lato della trasformazione sembra follia – non per ascendere alle altezze estatiche ma per elevare la realtà terrena. Come dice Wiesel in un commento alla storia dei quattro entrati nel Pardes, "Dio non si aspetta che l'uomo Lo raggiunga in cielo. Dio vuole che l'uomo rimanga umano, diventi sempre più umano – sulla terra".[90] Ben Azzai, colui la cui anima lo abbandonò, era particolarmente in sintonia con questa verità.

Ben Azzai era un discepolo di Rabbi Yeoshua ben Hananya e di Rabbi Akiva. Come Ben Zoma, non si sposò mai né ebbe figli. Wiesel ipotizza che questo sia il motivo per cui non fu mai ordinato rabbino.97 Il Talmud insegna, dopo tutto, che un uomo non è completo finché non è sposato (Yevamot 63a). È anche scritto che un ebreo che non ha moglie è tra i sette tipi di uomini che "sono bruciati dal Cielo" (Pesahim 113b).[91] "Che cosa farò se la mia anima dovesse desiderare la Torah?" Ben Azzai spiegava il motivo per cui non aveva preso moglie. "Il mondo può essere perpetuato da altri" (Yevamot 63b). Era perché il suo amore per la Torah era così grande che fu disposto a correre il rischio di essere bruciato dal Cielo. "Il suo amore per la Torah è così grande", dice Wiesel, "che domina tutto il suo essere. Solo la Torah è vita: dà significato alla sua vita. Non si discute con l'anima, l'anima sfida ogni discussione. È la ragione che ama discutere, non l'anima. L'anima brucia. Bisogna alimentarne la fiamma; bisogna diventarne la fiamma".[92] E Ben Azzai era, davvero, un'anima in fiamme.

Nel Midrash è scritto: "Una volta, mentre Ben Azzai stava esponendo le Scritture, delle fiamme divamparono intorno a lui, e quando gli fu chiesto se fosse uno studioso dei misteri del ‘Carro di Dio’, rispose: ‘Io lego insieme, come perle, le parole della Torah con quelle dei Profeti, e quelle dei Profeti con quelle degli Agiografi; e perciò le parole della Torah si rallegrano come nel giorno in cui furono rivelate nelle fiamme del Sinai’" (Shir HaShirim Rabbah 1:10:2). A dire il vero, il fuoco domina il ritratto di Ben Azzai. E Wiesel ne è preso. "Ah, come avrei voluto essere lì, ad ascoltare Ben Azzai, a guardare le sue parole danzare in un cerchio di fiamme! Non è questo il sogno di ogni scrittore, di ogni insegnante: trovare parole che cantino e ballino, parole che brucino?[93] Nel Talmud si dice di Yonatan ben Uzziel che quando studiò la Torah si impegnò così intensamente con la Parola che gli uccelli che volavano sopra di lui andarono in fiamme (Bava Batra 134a). Lo stesso si potrebbe dire di Ben Azzai. Sottolineò l'importanza di osservare anche il più piccolo dei comandamenti e insegnò che la ricompensa per aver eseguito una mitzvah è che ne farai un'altra (Pirkei Avot 4:2). Come ogni piccolo rivetto nell'ala di un aereo di linea, ogni piccolo comandamento tiene insieme la Creazione e la nostra connessione con il Creatore. Infatti l'origine della parola mitzvah (מצווה), "comandamento", è la parola aramaica tzavta, che significa "connessione". Ogni volta che eseguiamo una mitzvah raggiungiamo una connessione più profonda con il Creatore e la Sua Creazione.

Wiesel ci racconta che "alla fine della sua vita, Ben Azzai divenne malinconico. Ascoltiamo il suo consiglio che fa riflettere: "Chi ricorda queste quattro cose sarà salvato dal peccato. Da dove viene l'uomo? Dalle tenebre. Dove sta andando? Alle tenebre. Da chi sarà giudicato? Dal Creatore dell'universo, che tutto sa e tutto possiede, e non può essere né lusingato né ingannato. Dove va l'uomo: all'inferno e al nulla [Derekh Eretz Rabbah 3]".[94] La malinconia di Ben Azzai aveva qualcosa a che fare con la sua morte all'ingresso nel Pardes? Wiesel sottolinea che il Midrash elenca Ben Azzai come uno dei Dieci Martiri che subirono morti orribili sotto l'oppressione romana (Eykhah Rabbah 2:2).[95] La tradizione normalmente vuole che tutti i Dieci Martiri fossero rabbini. Il Midrash colloca Ben Azzai in quella categoria perché, anche se non era un rabbino, il suo sapere e il suo amore per la Torah rivaleggiavano con quelli di chiunque altro nella sua generazione, un amore che lo portò ad ascendere ai reami più elevati per sondare sempre più in profondità le profondità della Torah, anche a costo della propria vita.

All'ombra della morte accaduta a Ben Azzai si profila la follia che ha travolto Ben Zoma, il quale "guardò dove non avrebbe dovuto guardare. La sua ragione fu scossa e lo abbandonò".[96] In quell'ombra scopriamo il legame tra Ben Azzai e Ben Zoma, motivo per cui Wiesel li ha accoppiati in questo ritratto. Scopriamo anche che in tale ritratto c'è più che una traccia di un ritratto dello stesso Elie Wiesel. Una volta mi disse che nei suoi romanzi ci sono solo tre personaggi: il vecchio, il bambino e il pazzo. È Ben Zoma, e non, per esempio, Moishe lo Shamash, il modello definitivo per il pazzo di Wiesel? Una cosa è certa: Elie Wiesel sfida l'Infinito e Colui Che È Infinito nei suoi scritti e questo potrebbe essere il motivo per cui Ben Zoma è così vicino alla sua anima. "Perché scrivo?" chiede. "Forse per non impazzire. O, al contrario, toccare il fondo della follia".[97] E cosa si nasconde al fondo della follia? Le alture del Pardes.

Solo alcuni esempi mostreranno come Ben Zoma si sia fatto strada nel mondo di Wiesel e perché Ben Zoma è così centrale nella sua testimonianza. I ricordi che Wiesel ha di suo padre sono, comprensibilmente, fondamentali per il suo essere e per la sua eredità chassidica. In Legends of Our Time scrive: "In dying, my father looked at me, and in his eyes where night was gathering, there was nothing but animal terror, the demented terror of one who, because he wished to understand too much, no longer understands anything. His gaze fixed on me, empty of meaning".[98] Nei suoi occhi dove si addensava la notte, si addensava la follia. È una follia che rispecchia questa follia, la follia di una madre sistematicamente presa di mira per l'aggressione più radicale:

Eppure la morte del bambino
Non riesce a salvare gli altri.
È semplicemente il primo di molti.
Ma ho visto la madre.
Il brivido la percorre.
Ti offro quel brivido.
Ho visto il suo sguardo riempirsi di follia.
Ti offro quella follia.
Come ti offro il suo sguardo.[99]

La follia negli occhi di suo padre e la follia negli occhi di questa madre inondano gli occhi di Elie Wiesel, scorrendo attraverso questo ritratto di Ben Zoma.

Secondo le parole del nonno di Gregor ne Les Portes de la forêt, "nel tuo cammino di vita incontrerai uomini che si aggrappano alla ragione, ma la ragione brancola come un cieco con un bastone bianco, inciampando in ogni sassolino, e quando arriva addossato al muro si ferma e tenta di abbatterlo mattone dopo mattone, in maniera del tutto inutile, perché una mano invisibile lo ricostruisce, più alto e più spesso che mai. Noi, d’altro canto, crediamo nel potere della fede e dell'estasi, e nessun muro può resistere contro di noi".[100] Il folle desiderio di Ben Zoma di smantellare, mattone dopo mattone, il muro che separa Dio dall'umanità, lo porta infine alla follia. Infatti, dovette impazzire per potersi avvicinare ai misteri della Saggezza Nascosta, che riguarda i misteri di Maaseh Bereshit, le "Azioni del Principio". Ricordiamo l’affermazione del dottor Benedictus nel Le crépuscule, au loin di Wiesel: "In principio c'era la follia... Il cristianesimo crede che in principio era il Verbo. Ma prima della Parola, cosa c'era? Caos? Ma cos'è il caos se non la perdita della percezione, della sensibilità, del linguaggio? Un ridimensionamento patologico totale. Prima della Creazione, c'era una visione del futuro, e io vi dico, quella visione non poteva avere origine che in una grande follia".[101] Nota bene: non è una visione delle Azioni del Principio, ma la visione del futuro che ha origine in grande follia. Perché una visione del futuro potrebbe avere origine nella follia? Perché il futuro è la dimensione del senso, la dimensione del nascosto, e solo in un momento di "grande follia" vediamo il nascosto.

Se Ben Zoma cercò di scandagliare le profondità del significato della Creazione, non potè fare a meno di precipitare nella follia, nella "grande follia", o in quella che Wiesel chiama "follia mistica". Dice Wiesel:

« C'è qualcosa in lui [Ben Zoma] che mi sfugge. Un saggio tormentato: questo lo capiamo. Un saggio in rivolta, anche questo lo capiamo. Ma un saggio che ha perso la testa? Un saggio pazzo? Fin dall'inizio, Ben Zoma ha suscitato il mio interesse — no; più di questo: la mia eccitazione. La follia, e in particolare la follia mistica, è, dopo tutto, presente in tutti i miei scritti: è possibile che Ben Zoma, senza che me ne accorgessi, sia riuscito a infilarsi nelle mie storie sotto uno pseudonimo o un altro? Ben Zoma appartiene da sempre al mio mondo, ma mi ci è voluto molto tempo per prenderne coscienza. »
(Wiesel, Sages and Dreamers, 247)

Follia mistica: tale è la chiave di questo ritratto e dell'eredità chassidica di Elie Wiesel.

Cosa distingue la follia mistica da quella clinica? Fondamentalmente, mentre la follia clinica è dannosa, la follia mistica è salvifica. La visione del futuro che ha origine nella follia mistica è una visione del Messia. Ben Zoma ascese ai reami più elevati per accelerare la venuta del Messia e far scomparire il male. Non ottenne nessuno dei due. Nel suo ultimo romanzo, Otage, Wiesel racconta il ricordo che il suo personaggio principale ebbe di una figura misteriosa, un mistico e un ricercatore del Messia di nome Paritus: "Shaltiel ricorda che Paritus gli aveva tenuto una breve conferenza sulla follia mistica. È una ribellione potente e implacabile al pensiero lineare o discorsivo? Che cosa cerca, se non quello di spingere la tradizione e il patrimonio sul fondo dell'abisso? È il rifiuto di ciò che appare stabile, fondato, preciso, necessario e inevitabile? Infine, è la vittoria delle parole, aveva detto Paritus, parole che trovano senso nel cuore".[102] E qual è la vittoria delle parole? Arriva nel momento in cui amiamo con tutto il cuore.

La vittoria della parola è la vittoria del significato: questo è ciò che Ben Zoma ha cercato nella sua ascesa verso la follia. Il segno della vittoria del senso? È soprattutto gratitudine. "Nel corso dei suoi giorni", dice Wiesel, "Ben Zoma parlava spesso della vita con gratitudine... Sognatore, riservato, segreto, cercava di perdersi nel mistico, nella luce accecante dell'oscuro. La sua ricompensa? Follia. La follia di un uomo che cercava di comprendere ciò che sfugge alla comprensione; che aspirava alla conoscenza che sfida la conoscenza; che trascurava il futuro perché solo il passato lo attraeva. Dei quattro compagni, è Ben Zoma che mi sembra il più tragico".[103] Perché il più tragico?

Leggendo più avanti, potremmo avere la risposta, poiché Wiesel ci fornisce uno scorcio della sua anima: "Sapeva che stava impazzendo? Lottò per mantenere la sua sanità mentale? La desiderava, la raggiungeva? Queste sono domande pericolose... Possiamo dire con assoluta certezza che Shimon ben Azzai e Shimon ben Zoma non siano entrati nel Pardes cercando l'uno la follia, l'altro la morte? O forse per ripararsi dalle vittorie del nemico?"[104] Queste domande pericolose sono centrali nel ritratto: in effetti, il ritratto è fatto di tali domande. E sicuramente lo stesso Wiesel cerca qualcosa nel suo ritratto di Ben Azzai e Ben Zoma: il segreto del legame tra morte e follia. Se il collegamento c'è, sta nella morte che Ben Zoma sostenne prima di morire. La morte prima della morte è la morte che ti rimuove da questo mondo prima che tu sia stato rimosso. È la morte che Wiesel ritrae in tre versioni di una storia sull'incontro tra Ben Zoma e il suo insegnante Rabbi Joshua ben Hananiah. Nella prima versione il Maestro gli chiede da dove viene e dove stia andando. Risponde che sta meditando sui misteri della Creazione, sulla separazione delle acque di sopra dalle acque di sotto. Al che il Maestro disse: "Ben Zoma è ancora fuori", intendendo fuori dai suoi sensi (Hagigah 15a). La seconda versione è la stessa, ma questa volta la frase "Ben Zoma è ancora fuori" significa che non si riprenderà più. Nella terza versione il Maestro gli chiede dove siano i suoi pensieri in questo momento. Lui risponde: "I miei pensieri sono sui misteri della Creazione", dopo di che il Maestro dice: "Ben Zoma se n'è già andato". Ben Zoma morì pochi giorni dopo.[105]

Consideriamo una prospettiva chassidica su questo episodio, così come ci viene da Levi Yitzchok di Berditchev:

« In Hagigah 15 si racconta che una volta accadde che Rabbi Yoshua ben Chananyah Hagigah (uno dei principali studiosi del suo tempo) si trovava su uno dei gradini che portavano al Monte del Tempio, quando vide Ben Zoma di fronte a lui, e quest'ultimo non si alzò per riconoscere la presenza del suo maestro. Rabbi Yoshua chiese a Ben Zoma in quale argomento fosse così profondamente immerso da non aver notato la presenza del suo insegnante. Quest’ultimo rispose: "Stavo contemplando il significato della differenza tra le ‘acque superiori’ e le ‘acque inferiori’" [Genesi 1:7], e aveva scoperto che la distanza tra loro era solo tre dita di larghezza. Affermò che la prova si trovava in Genesi 1:2, dove lo spirito di HaShem è descritto mentre aleggia sopra la superficie delle acque. Considerava la parola merahefet, usata lì dalla Torah per descrivere l'atto di "librarsi in aria", come un riferimento a un piccione che si libra sopra i suoi piccoli senza toccarli. Sentendo ciò, Rabbi Yoshua commentò agli altri suoi studenti: "Ben Zoma è ancora all'esterno". Voleva dire che Ben Zoma non era ancora venuto a conoscenza degli aspetti nascosti della Torah. »
(Kedushat Levi, Vayera 33)

Dal punto di vista della tradizione, Ben Zoma era "all'esterno" perché aveva perso i sensi e non era tornato alla ragione dopo essersi avventurato nel santuario interiore della Saggezza Nascosta. Dal punto di vista chassidico di Levi Yitzchok, egli rimase fuori dalle stanze più interne della Saggezza Nascosta e non aveva ancora scavato abbastanza nelle sue profondità più recondite.

Tuttavia, Ben Zoma sapeva che le profondità più recondite dell'umanità non risiedono nei voli eterei dello pseudo-mistico ma nel miracolo segreto dell'umanità mondana. Dice Wiesel: "Ben Zoma diceva: chi è saggio? Uno che impara da ogni uomo... Chi è forte? Uno che domina le sue inclinazioni... Chi è ricco? Uno che è soddisfatto della sua sorte... Chi è onorevole? Uno che onora i suoi simili [Pirkei Avot 4:1]".[106] In effetti, questo orientamento umano, suggerisce Wiesel, stava dietro il desiderio dei quattro saggi di ascendere ai reami più alti: l'avventura fu intrapresa nel tentativo di scandagliare cosa si nascondeva dietro la sofferenza ebraica, che ai loro tempi era tremenda. Eppure la loro preoccupazione non era uniformemente per il bene dei loro correligionari ebrei. Invece, loro quattro rappresentavano quattro categorie di reazione umana alla sofferenza ebraica: "I quattro amici del Pardes simboleggiano i diversi atteggiamenti all'interno della comunità ebraica nei confronti dell'occupazione romana. Ben Abouya rappresenta la collaborazione attiva, Rabbi Akiva la resistenza attiva, Ben Azzai la morte passiva e Ben Zoma la fuga nella meditazione che porta alla follia".[107] Perché la follia? Perché la fuga nella meditazione è una ricerca del perché della sofferenza ebraica.

In un'altra ripresa ancora, Wiesel scrive: "Ben Abouya si preoccupava solo del presente, quindi perse la fede; Rabbi Akiba era interessato al lontano futuro, quindi fu risparmiato; Ben Zoma e Ben Azzai erano interessati agli inizi e per questo furono puniti".[108] Eppure i misteri del presente accecante, del futuro lontano e degli inizi remoti non sono interconnessi? Da notare la relazione tra il Chi e il Perché. Di fronte al martirio dei saggi sotto i romani, "un saggio [della scuola di Rabbi Ishmael] arrivò al punto di lanciare un grido di disperazione a Dio: ‘Mi kamokha baelim adoshem? Al Tikra elim ki imilemim: Chi è muto come te, o Dio? Tu vedi i tuoi figli umiliati e rimani in silenzio!’ [Gittin 56b] I nostri quattro amici volevano capire".[109] Nel Chi sta il grido del Perché?! Lama?! Rabbi Akiva cercò un collegamento tra sofferenza e redenzione. Elisha ben Abouya rifiutò qualsiasi collegamento del genere. Ben Azzai morì e Ben Zoma impazzì perché videro il mistero del legame tra il Chi e il Perché.

Ritratto di Rabbi Eleazar ben Azaryah

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Miniatura medievale raffigurante Rabbi Eleazar ben Azaryah
 
Rabban Gamliel seduto in una nicchia affiancato da due dei suoi discepoli (Haggadah di Pesach, miniatura XIV sec.)
  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Eleazar ben Azariah e Gamaliele.

Il ritratto di Rabbi Eleazar ben Azaryah ruota attorno a un'altra coppia famosa, nessuno dei quali componenti, cosa interessante, è Rabbi Eleazar: Rabban Gamliel e Rabbi Joshua. Sono la tela, per così dire, su cui Wiesel dipinge il suo ritratto del rabbino Eleazar. Tuttavia, ci chiediamo: Rabbi Eleazar è sullo sfondo o in primo piano nel suo ritratto?

Brevemente, quindi, qualche parola su Rabban Gamliel. La Mishnah dice che spesso discuteva con i filosofi romani (Mishnah Avodah Zarah, 3:4), che erano i promotori della "saggezza greca". Era noto anche per voler affrontare gli eretici, i principali tra i quali erano i primi cristiani (Shemot Rabbah 30:9). Come Nassi (נָשִׂיא Nāśī’), lavorò per l'unificazione del popolo ebraico all'indomani della distruzione del Secondo Tempio e guidò l'accademia di Yavneh per renderla un centro di apprendimento e autorità halakhica. Era la scuola che il generale romano Vespasiano aveva concesso a Jochanan Ben Zakkai. Il Talmud racconta che quando Gerusalemme fu assediata nel 70 EV, gli abitanti della città morivano di fame. Si avvicinarono a Jochanan Ben Zakkai e lo supplicarono di fare qualcosa per alleviare la loro orribile condizione. Ma come uscire dalla città? Decise che avrebbe finto di essere morto. Lo misero in una bara sopra della carne marcia e chiesero ai romani il permesso di portare il saggio fuori città per seppellirlo. Una volta fuori dalle mura della città, accostò il generale romano Vespasiano e gridò: "Pace a te, o Imperatore!"

Al che Vespasiano rispose: "La tua vita è perduta per due motivi: uno, perché non sono l'Imperatore e tu mi chiami Imperatore, e due, se sono l'Imperatore, perché non sei venuto da me prima d'ora?"

In quel momento accorse un messaggero da Roma, dicendo: "L'Imperatore è morto, e i notabili di Roma hanno nominato imperatore Vespasiano!"

Comprendendo la saggezza profetica di Jochanan Ben Zakkai, Vespasiano si rivolse a lui e disse: "Fammi qualsiasi richiesta e io te la concederò".

Jochanan Ben Zakkai disse: "Dammi una scuola a Yavneh e la dinastia familiare di Rabban Gamliel".

E così Rabban Gamliel, figlio del famoso Rabban Shimon ben Gamliel HaZaken e discendente di Hillel, divenne il capo dell'accademia di Yavneh (Gittin 56a–56b).

Fu uomo estremamente ricco e profondamente compassionevole. Il Talmud racconta che Rabban Gamliel era solito sentire una madre in lutto piangere ogni notte per il figlio morto, dopo di che Gamliel scoppiava in lacrime: pianse così tanto, infatti, che gli caddero le ciglia (Sanhedrin 104b).

Mentre Rabban Gamliel era piuttosto ricco, Rabbi Joshua era povero: lavorava come fabbro (Berakhot 28a). Questo fabbro, tuttavia, era un levita che cantava nel Tempio prima della sua distruzione (Arakin 11b). Lui ed Eliezer ben Hyrcanos portarono Jochanan Ben Zakkai fuori da Gerusalemme nella bara (Gittin 56a). Servì come capo del Beit Din quando Rabban Gamliel era Nassi del Sinedrio (Bava Kama 74b). Si impegnò in discussioni con il sanguinario imperatore Adriano e i filosofi di Atene (Bekhorot 8b; Shabbat 119a; Hullin 59b–60a). Quando gli fu chiesto a cosa dovrebbe aggrapparsi un uomo, rispose: "Ad un buon amico" (Pirkei Avot 2:10). Insegnò che "più di quanto l'ospite faccia per i poveri, il povero faccia per l'ospite" (Vayikra Rabbah 34:8). Qui vediamo la base del legame tra Rabban Gamliel e Rabbi Joshua: sta nella loro comune comprensione della verità che l'anima trae il suo respiro vitale dal mezzo delle relazioni umane, sia che si trovi nell'ascoltare il pianto di una madre in lutto o nel rispondere alla chiamata di un amico.

Ora che abbiamo il contesto, passiamo ai primi tratti del ritratto di Rabbi Eleazar ben Azaryah proposto da Wiesel. Uno studente una volta andò da Rabbi Joshua e Rabban Gamliel chiedendo loro se Maariv o preghiera serale fosse obbligatoria. Rabbi Joshua disse di no, ma Rabban Gamliel disse di sì. Rabban Gamliel vinse la discussione. In seguito, tuttavia, contrariamente alla tradizione e alle consuetudini, Rabban Gamliel non invitò l'anziano saggio Joshua a sedersi. I membri dell'assemblea furono indignati e decisero di spodestare il Nassi Rabban Gamliel. Nota: la decisione di spodestare Rabban Gamliel non fu il risultato di qualche tecnicismo halakhico ma di una questione riguardante la deferenza che un essere umano dovrebbe mostrare ad un altro. Si consideri inoltre che l'uomo ricco non mostrava il tradizionale rispetto nei confronti del povero, il fabbro. E così Rabban Gamliel, il grande Rabban Gamliel, dovette essere spodestato come Nassi.

Rabban Gamliel provocava timore, scrive Wiesel, ma "non avrebbe mai dovuto svergognare Rabbi Joshua".[110] Questa, tuttavia, non fu la prima volta che Rabban Gamliel svergognò Rabbi Joshua. Accadde quando il Sinedrio decise che Yom Kippur cadesse in un giorno diverso da quello che Rabbi Joshua pensava dovesse essere. Rabban Gamliel ordinò a Rabbi Joshua di venire da lui portando un bastone e denaro nel giorno che lui, Rabbi Joshua, credeva fosse Yom Kippur. Rabbi Joshua divenne profondamente angosciato. Dopo essersi consultato con altri saggi, prese il suo bastone e il suo denaro e andò da Rabban Gamliel a Yavneh. Rabban Gamliel si alzò, lo baciò sulla fronte e gli disse: "Vieni in pace, mio maestro e mio discepolo, mio maestro in saggezza e mio discepolo perché hai accettato le mie parole" (Mishnah Rosh Hashanah 2:9). Wiesel spiega: "Rabbi Joshua, che camminava piangendo con Rabbi Akiva sulle rovine del Tempio, capì che, avendo perso la sovranità, il popolo della Giudea aveva bisogno di un'altra istituzione che simboleggiasse regalità e autorità: in effetti, il presidente era succeduto ai re e ai principi della Giudea e d'Israele. Pertanto, per uno studioso, disobbedire al suo leader equivaleva a incitare alla disobbedienza generale: la carica ne avrebbe risentito e così anche il popolo ebraico. Ecco perché scelse costantemente di evitare conflitti aperti". Mettere in discussione l'autorità del presidente "significava in definitiva dubitare di quella di Mosè".[111] Pertanto, nonostante la sua trepidazione, Rabbi Joshua violò quello che riteneva essere il giorno più sacro dell'anno: il giorno in cui sarebbe stato determinato il destino della sua anima.

Quando il Sinedrio decise di estromettere l'anziano Nassi, lo sostituì non con Rabbi Akiva o un altro venerabile saggio ma con il diciottenne Rabbi Eleazar ben Azaryah, un giovane noto per la sua erudizione e discendente di Esdra lo Scriba. Ma davvero, un ragazzino?! Quando venne avvicinato, il giovane Rabbi Eleazar rimase molto intimidito. Disse umilmente che doveva prima consultare sua moglie. Questa gli disse senza mezzi termini di non accettare l'incarico perché era troppo giovane. Quando sua moglie gli disse che era troppo giovane, Rabbi Eleazar rispose: "Sembro vecchio, sembro un uomo di settant'anni" (Mishnah Berakhot 1:5). Le "leggende talmudiche", dice Wiesel, "aggiungono che, in effetti, in quel momento, i suoi capelli diventarono, alcuni dicono grigi, altri dicono bianchi [Berakhot 28a]".[112] Poiché i suoi capelli diventarono miracolosamente bianchi, accettò l'incarico, contrariamente al consiglio della moglie, interpretando il suo improvviso invecchiamento come un segno di Dio.

"Quanto a Rabbi Eleazar ben Azaryah", scrive Wiesel, "divenne presidente contro la sua volontà. Non cercava la posizione né la desiderava particolarmente. Quando gli fu offerta, non la prese immediatamente".[113] Wiesel sottolinea alcune notevoli distinzioni tra il grande Rabban Gamliel e il giovane nuovo Nassi: "Rabban Gamliel coltivò l’élite, Rabbi Eleazar abbatté tutte le barriere sociali e intellettuali. L'interesse principale di Rabban Gamliel era la legge; Rabbi Eleazar amava la poesia e la leggenda: fu lui a prendere la decisione di incorporare nel canone il Cantico dei Cantici e il Libro dell'Ecclesiaste [cfr. Tanhuma Tetzaveh 5]. Mentre Rabban Gamliel castigava, Rabbi Eleazar confortava. Il desiderio più ardente di Rabbi Eleazar era quello di purificare l'umanità dai suoi peccati, perché, ai suoi occhi, essa aveva sofferto abbastanza".[114] Ed fu Rabbi Eleazar a dire che un tribunale che impone una condanna a morte una volta ogni settant'anni è omicida (Mishnah Makkot 1:10). Alla fine, però, la moglie di Rabbi Eleazar dimostrò di avergli dato un buon consiglio, come osserva Wiesel: diversi mesi dopo – alcune fonti dicono un giorno dopo – destituirono Eleazar ben Azaryah dalla presidenza. Rabban Gamliel riassunse la posizione; Rabbi Eleazar, tuttavia, fu il suo vice, così che Rabbi Eleazar mantenne una posizione d'onore (Berakhot 28a). Dice Wiesel: "La ragione, quindi, di scegliere il giovane rabbino Eleazar era che poteva essere facilmente retrocesso. Così sia Rabban Gamliel che Rabbi Joshua si resero conto fin dall'inizio che si trattava solo di un esercizio accademico, un gioco, per così dire. E lui stesso lo sapeva".[115] Un gioco? Lo scopo del Sinedrio è attuare la volontà di Dio in questo reame. È un posto dove giocare? Questo ritratto è un gioco?

In realtà, ci ricorda Wiesel, Rabbi Joshua contribuì alla reintegrazione di Rabban Gamliel. Rabban Gamliel e Rabbi Joshua non erano d'accordo sulla questione se un ammonita o un moabita possano convertirsi all'ebraismo; il primo disse no, il secondo sì. Rabban Gamliel disse: "Poiché la legge è secondo Rabbi Joshua, è tempo per me di andare a chiedere il suo perdono". All'inizio Rabbi Joshua si rifiutò di perdonare Rabban Gamliel. Solo quando chiese perdono non per il suo bene ma per il bene di suo padre, Rabbi Joshua lo perdonò, dopodiché Rabbi Joshua fece pressioni affinché Rabban Gamliel fosse reintegrato come presidente (cfr. Berakhot 28a).[116] Il padre di Rabban Gamliel, ricordiamo, era Rabban Shimon ben Gamliel HaZaken; era tra i Dieci Martiri, quello massacrato con Rabbi Ishmael come il primo dei Dieci Martiri. Chi è lo si può scoprire nei suoi insegnamenti. Fu, ad esempio, un insegnante che capì il significato e il valore del silenzio: "Per tutta la vita sono cresciuto tra i saggi e non ho trovato niente di meglio per il corpo del silenzio. L'essenziale non è lo studio, ma l'azione. E chi parla eccessivamente porta al peccato" (Pirkei Avot 1:17). Perché meglio per il corpo? Perché compiamo le azioni dei comandamenti con il corpo, dopo essere rimasti in silenzio. Quindi il troppo parlare porta come minimo a un ritardo nell'osservanza dei comandamenti, che a sua volta aumenta la sofferenza umana nel mondo.

Wiesel ci indirizza verso un brano in Pirkei Avot che traccia una linea dal padre di Rabban Gamliel a Rabbi Eleazar.[117] Rabbi Eleazar insegnò:

« Se non esiste la Torah, non esiste la decenza comune; se non esiste la decenza comune, non esiste la Torah. Se non c'è saggezza, non c'è timore di Dio; se non c'è timore di Dio, non c'è saggezza... Diceva inoltre: Uno la cui saggezza è più grande delle sue azioni, a cosa è paragonabile? Ad un albero con molti rami e poche radici; viene il temporale e lo sradica e lo rivolta... Ma uno le cui azioni sono più grandi della sua saggezza, a cosa viene paragonato? Ad un albero con molte radici e pochi rami, che tutte le tempeste del mondo non riescono a spostare dal suo posto. »
(Pirkei Avot 3:17)

Notando l'accento sull'atto, vediamo che mentre Rabbi Eleazar potrebbe aver brevemente succeduto a Rabban Gamliel come Nassi, rimase in debito con il grande saggio per l'insegnamento e la testimonianza trasmessi nel corso dei secoli, da Hillel, a Rabban Shimon ben Gamliel HaZaken, a Rabban Gamliel, a Rabbi Eleazar ben Azaryah. Questo è il motivo per cui, dopo essere nuovamente asceso alla carica di Nassi, Rabban Gamliel mantenne Rabbi Eleazar come Av Beit Din, capo della corte di giustizia del Sinedrio.

Quindi Wiesel alla fine si chiede: chi era il discepolo che iniziò la disputa sulle preghiere Maariv e mise in moto questo dramma? Fu Shimon bar Yohai.[118] Ma arriveremo presto al suo ritratto.

Ritratto di Rabbi Tarfon e il Significato dell'Umiltà

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Profeta che annuncia la caduta di Gerusalemme (illustrazione, 1885)
 
Pirkei Avot con traduzione Giudeo-Persiano (Bukhariano)
  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Tarfon e Pirkei Avot.

Il ritratto che Wiesel fa di Rabbi Tarfon non è solo il ritratto di un saggio, è un ritratto di umiltà. Ma cosa c'entra l'essere un saggio con l'umiltà? E cosa c'entra l'umiltà con l'essere un saggio? Un punto da cui iniziare è il commento di Rashi su Genesi 1:26, dove spiega che l'umiltà è un attributo di Dio Stesso. Pertanto, se è un attributo del Santo, allora un saggio che si sforza umilmente di emulare il Santo potrebbe aspirare all'attributo dell'umiltà. L'unico problema è che non si può aspirare ad essere umili, poiché non puoi essere umile e saperlo. Tuttavia, possiamo chiederci: come mai l'umiltà – la modestia – può essere un attributo del Santo, dell'Altissimo? I cabalisti insegnano che HaShem subisce una contrazione o un ritrarsi per lasciare spazio all'esistenza di questo mondo finito in modo da non sopraffare la nostra finitezza con la Sua infinità.[119] Certo, la gloria dell'Infinito si manifesta proprio in tale tzimtzum (צמצום), per usare il termine ebraico, manifestato in ciò che Levinas chiama "una contrazione esasperata" di sé per il bene dell'altro.[120] La creazione è un atto di entrata in relazione tra Dio e l'umanità. In quanto movimento verso un'alleanza, la creazione è un atto di umiltà divina.

Se dunque l'umiltà implica la modestia, essa implica anche l'altezza stessa dell'Altissimo. "L'umiltà – spiega Emmanuel Levinas – Humility is not to be confused with an equivocal negation of oneself, already proud of its virtue, which, in reflection, it immediately recognizes in itself. This humility is that of him who does not ‘have time’ to make a return upon himself and undertakes nothing to ‘negate’ the oneself, save the very abnegation of the rectilinear movement of a work which goes infinitely to the other".[121] L'umiltà non è timidezza, trepidazione o diffidenza. Al contrario, l’umiltà richiede vulnerabilità – che richiede coraggio, fiducia, impavidità e comprensione – la comprensione di cosa c'è da temere e per cosa c’è da temere. L'umiltà attesta la santità dell'altro affermando l'altezza dell'altro. Quindi, per capire cosa ha a che fare un saggio con l'umiltà, dobbiamo considerare cosa ha a che fare l'umiltà con l'altezza. "Lascia che una sola traccia di orgoglio venga aggiunta alla ricerca", elabora Wiesel sulla saggezza di Rabbi Tarfon, "e ciò porterà all'autoillusione e all'ipocrisia”. Quando si compiono buone azioni, dice, "bisogna pensare a cosa si fa — e perché". Non della propria rettitudine o salvezza.[122] L'umiltà cerca il Bene, non la ricompensa.

Rabbi Tarfon era tra i saggi della terza generazione di Tannaim, uno dei saggi di Yavneh durante la direzione di Rabban Gamliel come Nassi. È interessante notare che era sia insegnante che collega di Rabbi Akiva (Ketuvot 84b). Ironicamente, per uno noto per la sua umiltà, era molto alto, come sta scritto, il più alto della sua generazione (Niddah 24b): tutti lo ammiravano (letteralmente!), anche se collocava ogni altra persona in una posizione di altezza rispetto a lui. Il che ci dice che la dimensione dell'altezza è una categoria metafisica e non una configurazione fisica o spaziale. In effetti, come abbiamo visto, la questione è molto più legata al tempo che allo spazio. Poiché Rabbi Tarfon aveva tempo per gli altri, egli aveva pazienza. Pertanto, secondo la tradizione, insegnava ponendo domande (Tosefta Berakhot 4:16). Le domande richiedono più tempo, pazienza e umiltà rispetto alle formule fisse e alle risposte pronte.

Nelle parole di Rabbi Yehuda HaNassi, umiltà significa "conoscere ciò che è al di sopra di te" (Pirkei Avot 2:1). La dimensione dell'altezza e dell'umiltà risiede nel Tu. Ricordiamo l'insegnamento dello Zohar: invece di leggere Bereshit bara Elokim et ha— come "In principio Dio creò il—" dovremmo leggerlo come "In principio Dio creò l’alef, tav, hey, di atah: Tu" (Zohar I, 15b). Con questa dimensione del Tu alla base stessa della Torah, come sottolinea Wiesel, "esiste un altro reame di umiltà nel nostro rapporto con la Torah. Al suo cospetto non si può cedere né all'orgoglio né alla vanità. Il comandamento contro l'idolatria, ‘Non avrai altri dei’, si riferisce all'orgoglio, secondo Rabbi Shimon bar Yohai: tu stesso non devi essere un dio... Chiunque glorifica se stesso finirà in opposizione a se stesso e a Dio".[123] Ascoltiamo Wiesel:

« È attraverso l'umiltà che la Torah viene preservata [Tanhuma Ki Tavo 3]. "Anche se sei perfetto in ogni cosa", dice il Talmud, "se ti manca l’umiltà, non hai nulla [cfr. Sotah 5a]" E il Midrash dichiara: "Ci sono sette ricompense date all'uomo o alla donna umile: avranno la loro porzione nel mondo a venire, il loro insegnamento sarà ricordato, la Shekhinah resterà su di loro, saranno risparmiati da ogni punizione, non accadrà loro nulla di male, il mondo intero sarà dispiaciuto per loro e, soprattutto, l'uomo umile non dovrà vivere con una donna malvagia". Che la Torah richieda umiltà per coloro che la studiano è illustrato dal segreto che nasconde. Questo segreto non può essere penetrato, poiché diventa più profondo man mano che ci si avvicina alla sua porta. Chiamiamolo il segreto del segreto. Chi finge di saperlo ha ancora molto da imparare. »
(Wiesel, 220–21)

Dire che agli umili sarà risparmiata la punizione non significa dire che non soffriranno: la sofferenza non è una punizione, per cui quando soffrono, gli altri si dispiaceranno per loro. Inoltre, il Talmud insegna che "colui che si umilia, il Santo, benedetto Egli sia, li innalza, e chi si esalta, il Santo, benedetto Egli sia, li umilia...; chi forza il tempo è respinto dal tempo, ma chi cede al tempo trova il tempo al suo fianco" (Eruvin 13b). E come cediamo al tempo? Contemplando e ascoltando la dimensione dell'altezza rivelata nel volto dell'altro essere umano, vale a dire: cedere al tempo è avere tempo per l'altro essere umano: questa è la chiave dell'umiltà.

Il segreto dei segreti non risiede nelle sfere celesti più elevate, ma nei recessi più intimi del cuore umano – e nella risposta compassionevole e umile all'altro: "Eccomi per te!" Dice Wiesel: "Essere umili davanti a Dio è facile; essere umile davanti a un'altra persona non lo è... La vera umiltà è giudicare se stessi con severità e giudicare gli altri con comprensione. Per una persona umile, anche il peccatore più ostinato merita rispetto, perché non conosciamo la verità essenziale dell'altro. Pertanto non riesco a mettermi al suo posto. La verità, nella sua totalità, è conosciuta solo da Dio. Ed Egli desidera essere umile scendendo al livello delle Sue creature e unendosi al Suo popolo in esilio".[124] Rabbi Tarfon condivise con il Santo questo amore per il popolo di Israele, perché la sua "fedeltà alla Torah era assoluta. Nella letteratura talmudica è chiamato ‘il padre’ e anche ‘il maestro di tutto il popolo d’Israele’ [Talmud Yerushalmi, Yoma 1:1]. Entrambi i titoli indicano il profondo amore per il suo popolo".[125] In effetti, un insegnante o moreh è una sorta di padre o horeh, entrambi affini a Torah.

Rabbi Tarfon era tra coloro che, Dio non voglia, hanno saputo della scomparsa di qualcuno lo bekitzo, "non ai suoi tempi". Wiesel scrive: "Senza padre, proprio come i suoi figli erano senza madre, Rabbi Tarfon mostrò grande compassione verso tutti gli orfani. Allevare un orfano, diceva, significa adempiere costantemente al comandamento della carità".[126] Dare la carità, ovviamente, include dare la Torah. Proprio così, nel suo ritratto di Rabbi Tarfon, Wiesel racconta la storia di quando Rabbi Akiva andò da Rabbi Tarfon e gli disse che aveva una proprietà che sarebbe stata un ottimo investimento per lui. Quando Tarfon in seguito chiese ad Akiva informazioni sulla proprietà, Akiva lo portò in una yeshivah dove gli studenti, alcuni dei quali erano orfani, stavano studiando le Scritture e disse: "Ecco la tua proprietà". Rabbi Tarfon baciò Akiva sulla fronte e gli diede più soldi (Pesikta Rabbati 125:2; Vayikra Rabbah 34:16).[127] Se essere un orfano significa essere senza madre o senza padre, allora, comprese Rabbi Tarfon, essere senza Torah significa essere orfano.

Rabbi Tarfon fu testimone della distruzione del Secondo Tempio, ma "ne parlò raramente, se non per niente. Non si può fare a meno di rimanere incuriositi dal suo silenzio. Perché non ha fatto riferimento al saccheggio di Gerusalemme, alla profanazione del Santuario, ai bambini che muorivano per strada? Fu semplicemente una questione di discrezione o timidezza? Si sentì incapace o indegno di parlare di una catastrofe di tale portata? Lo stesso vale per le sue tragedie personali. Non dice nulla della morte della moglie e, successivamente, dei suoi figli. Forse aveva troppo da dire?"[128] Oppure aveva paura che, se avesse parlato di queste cose, si sarebbe messo a piangere così forte da non smettere più? Riguardo al silenzio di Rabbi Tarfon sulla distruzione di Gerusalemme e del Secondo Tempio, Wiesel solleva un’altra domanda, più generosa: "Stava cercando di dirci che anche il silenzio può essere una risposta alla sofferenza estrema? E che alcuni segreti, protetti dal silenzio, devono restare inviolati?"[129] La distruzione del Secondo Tempio fu l'imposizione radicale di un silenzio al mondo, a cui si poteva rispondere solo con il silenzio. "Prima di scrivere", dice Wiesel, "devo sopportare il silenzio, poi il silenzio irrompe. All'inizio ci fu silenzio, nessuna parola. La parola stessa è un irrompere. La parola stessa è un atto di violenza; rompe il silenzio. Non possiamo evitare il silenzio, non dobbiamo. Ciò che possiamo fare è in qualche modo caricare le parole di silenzio".[130] Qui, come in tutti questi ritratti, scopriamo la traccia di un autoritratto nel ritratto di Rabbi Tarfon fatto da Wiesel. Prima di parlare, Rabbi Tarfon sopporta il silenzio che calca le rovine del Secondo Tempio. Capisce che la parola stessa ora corre il rischio di violenza: da qui la sua umiltà. E, nella sua umiltà, ha cercato di caricare le parole di silenzio.

Tra le macerie del Tempio Rabbi Tarfon grida: "‘Nessuno ti chiede di completare il compito, ma devi iniziarlo’ [Pirkei Avot 2:16]. Quindi stiamo iniziando e ricominciando, ancora e ancora". Ancora una volta ci viene in mente la saggezza di Wiesel, intrisa di umiltà: "Non è dato all'uomo cominciare", scrisse una volta. "Questo privilegio spetta solo a Dio. Ma è dato all'uomo ricominciare da capo — e lo fa ogni volta che sceglie di sfidare la morte e schierarsi con i vivi".[131] Il ritratto di Wiesel di Rabbi Tarfon, il suo ritratto dell'umiltà, è il ritratto di un nuovo inizio. È un ritratto dell'infinito che si apre ancora e ancora, espresso nell'umiltà, ogni volta che un essere umano ricomincia.

E questa è la scritta che ho davanti a me, mentre scrivo:

(IT)
« Non sta a te completare l'opera,
ma non sei libero di sottrartene. »

(He)
« לא עליך כל המלאכה לגמור, ולא אתה בן חורין ליבטל »
(R. Tarfon, Pirkei Avot, II.21.)

Ritratto di Rabbi Hananiah ben Teradyon

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Illustrazione di Ephraim Moses Lilien raffigurante il martirio di Hananiah, dedicata a coloro che morirono durante il Pogrom di Chișinău nel 1903
  Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Haninah ben Teradion.

Nel ritratto di Rabbi Tarfon, abbiamo visto la dimensione dell'altezza manifestarsi nell'umiltà — nell'acqua che assume il livello inferiore. In questo ritratto di Rabbi Hananiah ben Teradyon, arriviamo alla dimensione dell'altezza aperta attraverso il martirio — attraverso il fuoco che ascende ai reami superiori. La storia di Hananiah ben Teradyon è tra i più famosi racconti del Talmud (Avodah Zarah 18a).

Al tempo della persecuzione romana, quando lo studio della Torah era proibito, viveva un saggio di nome Rabbi Hananiah ben Teradyon. Temendo il cielo più che l'umanità, Rabbi Hananiah rifiutò di piegarsi all'ingiunzione contro l'apprendimento e il vivere secondo la Torah. Nonostante la minaccia di morte, continuò a insegnare e a studiare, perché sapeva che senza la Torah non c'è vita. Un giorno i romani trovarono Rabbi Hananiah ben Teradyon nel bel mezzo di un'assemblea pubblica. Con sua figlia Bruriah al suo fianco, teneva i rotoli della Torah sul cuore e condivideva la Torah di Mosè con le persone raccolte intorno a lui. I romani decisero di fare del rabbino un esempio. Lo arrestarono e lo avvolsero nei rotoli della Torah che teneva tra le braccia. Una volta che fu legato nei rotoli, ordinarono che gli fossero ammucchiati attorno dei fasci di legna secca. Immersero nell'acqua dei pezzi di lana e li applicarono sul petto del rabbino affinché la sua morte fosse lenta e dolorosa. E poi diedero fuoco alla legna. Nel mentre suo padre veniva giustiziato, Bruriah gridò e si batté la testa coi pugni. Suo padre la fermò. "Ora, in questo momento supremo", dice Wiesel, "di nuovo divenne sua figlia: si riunì a suo padre, sola con lui come mai prima".[132] Poi scoppiò in lacrime e gridò: "Oh, padre, sono maledetta per aver vissuto abbastanza da veder questo!"

"Non piangere per me, figlia mia", la confortò. "Colui che si prende cura della Torah si prenderà cura di me".

Bruriah pianse. "Le mie lacrime non sono solo per te ma anche per la Torah che verrà bruciata con te!"

Lui rispose: "Non è necessario che versi lacrime per la Torah, piccola. Perché la Torah è fuoco, e il fuoco non può bruciare il fuoco".

Quando le fiamme cominciarono ad alzarsi, i discepoli di Rabbi Hananiah si radunarono intorno a lui e gridarono: "Rabbi, cosa vedi?"

"Vedo la pergamena consumata nel fuoco", rispose. "Ma le lettere... le lettere stanno ascendendo al cielo!"

"Rabbi!" gridarono al loro amato maestro. "Apri la bocca e respira le fiamme, affinché tu possa porre fine a questa terribile sofferenza!"

"Lascia che il Santo che mi ha dato l'anima me la prenda", ha detto. "Ma nessuno faccia danno a se stesso".

Vedendo questa scena e udendo queste parole, il boia che aveva appiccato fuoco al saggio fu sopraffatto dalla verità della testimonianza che aveva udito. "Rabbi!" gridò. "Se dovessi togliere i ciocchi di lana dal tuo petto, mi porterai con te nel Mondo a Venire?"

"Sì", rispose Rabbi Hananiah.

Il boia raggiunse le fiamme e rimosse la lana bagnata dal petto del rabbino. In pochi secondi il saggio spirò e il boia si gettò tra le fiamme.

In quel momento, tutti i presenti udirono una Voce dall'alto proclamare: "Il rabbino Hananiah ben Teradyon e il boia hanno trovato il loro posto nel Mondo a Venire!" Quando, più di un secolo dopo, Rabbi Yehuda HaNassi ascoltò la storia del martirio di Rabbi Hananiah, pianse e disse: "In verità ci sono quelli che guadagnano la vita eterna in una sola ora, mentre altri devono penare tutta la vita".

I saggi talmudici insegnano che esistono sei diversi tipi di fuoco: fuoco che mangia ma non beve; fuoco che divide ma non mangia; fuoco che mangia e beve; fuoco che consuma sia la materia secca che quella umida; fuoco che allontana fuoco; e fuoco che mangia fuoco (Yoma 21b). Quale fuoco diremo che è il fuoco che consumò Rabbi Hananiah ben Teradyon quando fu avvolto nei rotoli della Torah e bruciato vivo? Ricordiamo il tempo in cui Rebbe Hersh, figlio del Baal Shem, chiese a suo padre nei suoi sogni: "Come posso servire Dio?" Dice Wiesel: "Il Baal Shem scalò un'alta montagna e si gettò nell'abisso. ‘Così’, rispose". Un'altra volta "il Baal Shem gli apparve come una montagna di fuoco, che eruttava in mille frammenti fiammeggianti: ‘E anche così’".[133] Rabbi Hananiah ben Teradyon divenne una tale montagna di fuoco.

Ci rendiamo conto di quanto Rabbi Hananiah ben Teradyon fosse vicino a Wiesel, quando Wiesel ci dice quanto segue:

« Sono stato particolarmente commosso e orgoglioso di Rabbi Hananiah ben Teradyon. La sua toccante risposta personale alla politica di violenza di Roma mi ha attratto, l'ebreo che è in me, il bambino ebreo che è in me. Lo spirito è più forte del suo nemico; il fuoco della Torah è più forte del fuoco; si può morire per la verità ma la verità non muore mai. Questo è ciò che ogni ebreo impara o dovrebbe imparare da Rabbi Hananiah ben Teradyon. La sua lezione è necessaria, se non vitale, per comprendere la nostra stessa esistenza e sopravvivenza... Ogni volta che gli ebrei venivano perseguitati, ci consolavamo con la dichiarazione del martire: "Gvilin nisrafin" – solo i rotoli stanno bruciando, solo le nostre case, solo le nostre vite possono essere distrutte – la nostra anima e la nostra memoria rimangono fuori dalla portata del nostro nemico. »
(Wiesel, Sages and Dreamers, 271)

La Torah rimane fuori dalla portata del nemico. E finché gli ebrei si attengono alla Torah come fece Rabbi Hananiah, le loro anime e la loro memoria, il loro insegnamento e la loro testimonianza rimangono fuori dalla portata del nemico.

Rabbi Hananiah ben Teradyon era un Tanna della terza generazione. Il suo insegnante era il rabbino Eliezer ben Hyrcanos. Rabbi Halafta, padre del grande Rabbi Yossi, era suo amico. Tuttavia era perseguitato dalla tragedia. "Sua moglie", dice Wiesel, "era stata decapitata; una delle sue due figlie fu collocata in una casa di malaffare; uno dei suoi due figli fu giustiziato da loschi complici [Avodah Zarah 17b]".[134] Perché Bruriah fu risparmiata? Forse "perché come donna sposata", si chiede Wiesel, "non apparteneva più alla famiglia di Rabbi Hananiah? O perché lei e suo marito erano sotto la cosiddetta protezione di un romanofilo di nome Elisha ben Abouya [l'apostata] che, tutti sapevano, era allievo di suo marito?"[135] Qui sta la grandezza di Rabbi Hananiah, la dimensione dell'altezza trasmessa in questo ritratto: la sua risposta alla sua orribile sofferenza non fu maledizione e amarezza ma atti di amorevole gentilezza.

Ma c'è di più: "Tutta la vita di Rabbi Hananiah fu piena di lutti. Molti dei suoi coetanei morirono martiri. Il popolo d'Israele sembrava essere stato abbandonato dal Dio d'Israele. La Giudea fu sottoposta alle persecuzioni di Adriano. L'oppressione, la brutalità, la crudeltà collettiva e individuale erano ovunque. Lo studio e l'insegnamento della Torah implicavano la pena capitale obbligatoria. Così come l'osservanza dello Shabbat. E la circoncisione. E la recitazione dello Shemà. Sfidata dallo spirito del popolo ebraico, Roma cercò di distorcerlo e di umiliarlo".[136] Secondo il maestro chassidico Levi Yitzchok di Berditchev, "Tutto l'odio verso gli ebrei deriva dalla nostra costante difesa di Te",[137] che è una difesa del Tu eterno così come del Tu di carne e ossa, entrambi dei quali annunciano una responsabilità infinita che non può essere né compiuta né abrogata. Con la sua stessa presenza nel mondo, il popolo ebraico rappresenta la presenza dell'Infinito, del Tu, che disturba il nostro sonno da oltre il mondo, dall'interiore, proclamando la nostra infinita responsabilità verso e per l'altro essere umano. Di conseguenza, la presenza stessa degli ebrei è inquietante per un mondo che desidera che le questioni, in particolare le questioni di Redenzione, siano risolte.

Rabbi Yossi ben Kisma razionalizzò l'oppressione romana degli ebrei e giustificò Dio, e ciò turbò Rabbi Hananiah. "A causa della minaccia? No. Rabbi Hananiah non si spaventava facilmente. È più probabile che la sua tristezza fosse causata dalla razionalizzazione della tragedia ebraica da parte del suo collega. Se gli ebrei vengono umiliati e massacrati è perché Dio vuole così, aveva detto Rabbi Yossi ben Kisma. Dio è dalla parte di Roma, dalla parte del nemico di Israele. Se Roma è potente, è perché Dio ha dato il potere ai romani".[138] Nel giro di pochi giorni, racconta il Talmud, Rabbi Yossi morì e molti dignitari romani parteciparono al suo funerale. Fu sulla via del ritorno dal funerale che trovarono Rabbi Hananiah che insegnava pubblicamente la Torah e ordinarono che fosse avvolto nel rotolo e bruciato vivo (Avodah Zarah 18a). Ascoltare la razionalizzazione della sofferenza ebraica da parte di Yossi ben Kisma potrebbe proprio aver spinto Rabbi Hananiah a prendere in mano il rotolo della Torah e a proclamarne apertamente l'insegnamento.

Il Talmud insegna che Dio richiede Kiddush HaShem, la "Santificazione del Nome" o martirio, da parte di chi potrebbe essere costretto a commettere peccati di idolatria, adulterio o omicidio (Pesahim 25a–25b). Se così fosse, sembra che Rabbi Hananiah e gli altri Dieci Martiri avrebbero potuto evitare il loro crudele martirio. Dice Wiesel:

« A un esame più attento, la morte dei martiri ci sembra ingiustificata anche nel contesto dei loro tempi. Nessuno di loro fu accusato di adulterio, idolatria o spargimento di sangue. Allora perché scelsero di morire? Da nessuna parte è scritto che si debba rischiare la vita per la Torah... Preferisco credere che, qualunque cosa abbiano fatto, lo hanno fatto in conformità con la legge. Credo che Limud Torah – insegnare e studiare – implichi anche Kiddush-hashem. Credo che non fu specificato perché era evidente: senza Limud Torah, senza apprendimento, senza conoscenza, come si potrebbe conoscere le altre tre leggi che non devono mai essere trasgredite? »
(Wiesel, 280)

Infatti, nel caso di Rabbi Hananiah ben Teradyon, diffondere l'insegnamento e la testimonianza della Torah fu il crimine capitale. Secondo la legge ebraica, avrebbe potuto smettere di farlo e salvarsi così la vita. Ma sapeva che senza insegnare la Torah non c'è vita da salvare, né per lui né per il popolo ebraico. Quindi "Rabbi Hananiah aveva ragione", dice Wiesel. "Sapeva che una volta dimenticata la Torah, tutto sarebbe stato dimenticato".[139] Il fuoco sarebbe stato dimenticato. La dimensione dell'altezza verrebbe dimenticata. Il comandamento di scegliere la vita (Deuteronomio 30:19) verrebbe dimenticato. Rabbi Hananiah bruciò affinché la Torah fatta di fuoco non fosse dimenticata. Il lascito chassidico di Wiesel è il più antico lascito ebraico: ricordare, affinché la Torah fatta di fuoco non venga dimenticata.

Wiesel conclude il suo ritratto con questo: "Si dice che quando la notizia della tragica morte di Rabbi Akiva raggiunse Rabbi Hananiah ben Teradyon, lui e i suoi amici si stracciarono le vesti e iniziarono a piangere la loro perdita. E un saggio esclamò: ‘La morte di questo uomo saggio e giusto serve come predizione dei tempi pericolosi che stanno per sopraffarci [Mishnah Semahot 8:9]’. Se la morte di un uomo serve come cattivo presagio per l'umanità, cosa si dovrebbe dire della morte di sei milioni di uomini, donne e bambini, bambini?"[140] Ancora una volta ci imbattiamo nei bambini, coloro il cui respiro, dice il Talmud, sostiene tutta la creazione (Shabbat 119b). Le lettere che Rabbi Hananiah vide ascendere al cielo ricordano i corpi, le anime e le ceneri degli uomini, delle donne e dei bambini che furono gettati nei venti al tempo della Shoah. Ancora una volta, come prima, entriamo nello scontro: le lettere di cenere, come i resti di cenere, piovono sulla terra e invadono le nostre anime.

Ritratto di Rabbi Meir e Bruriah

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Ester y Mardoqueo escribiendo la primera carta del Purim, di Aert de Gelder (ca. 1700)
 
Tomba di Rabbi Meir, Tiberiade (Israele)
  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Rabbi Meir e Bruriah.

Wiesel apre il suo ritratto di questa coppia straordinaria, il grande Rabbi Meir e la brillante Bruriah, con un racconto tratto dal Midrash (Midrash Mishlei 31).[141] È un racconto che rivela le profondità di ciascuna di queste bellissime anime.

Un Erev Shabbat (vigilia di Shabbat), Rabbi Meir partì dalla Casa di Studio a Tiberiade per trascorrere lo Shabbat con sua moglie Bruriah e i loro due figli piccoli. Spesso durante i mesi estivi i più piccoli si addormentavano prima dell'arrivo dello Shabbat. Perciò, poiché non lo salutarono, il rabbino pensò che avrebbe dovuto aspettare fino al mattino per vedere i suoi amati figli. Sua moglie Bruriah lo incontrò con un sorriso amorevole. Apparecchiò la tavola con i pani di challah e la coppa di vino di Kiddush. Accese le candele per inaugurare il sabato e il rabbino recitò il Kiddush. Cantò a sua moglie Eshet Ḥayil (אשת חיל, "Una donna di valore"), disse la benedizione sul pane e si sedettero per godersi il pasto dello Shabbat.

"Quindi i nostri piccoli dormono profondamente?" chiese Rabbi Meir a sua moglie. Ma lei non rispose. Il rabbino si meravigliò dell'insolito silenzio di sua moglie ma non disse nulla, supponendo che lei avrebbe parlato quando fosse stata pronta a parlare.

La mattina dopo, presto, dopo che suo marito ebbe finito di pregare, Bruriah gli chiese: "Posso parlarti, marito mio?"

"Cosa c'è, mio amore?"

"Non molto tempo fa", disse Bruriah, "due gioielli molto preziosi furono affidati alle nostre cure. Ieri, prima che tu tornassi a casa per lo Shabbat, colui che mi aveva affidato quei gioielli preziosi è venuto a riprenderli. Non volevo separarmene, ma sapevo che gli appartenevano. Sapevo che dovevo restituirli."

"Hai fatto la cosa giusta", le disse Rabbi Meir. "Ciò che è affidato alle nostre cure deve essere sempre restituito al suo proprietario in buona fede e con buon umore. Ma dimmi, dove sono i nostri ragazzini? Non è ora che si alzino e vadano in giro?"

Bruriah non disse nulla ma portò per mano il marito nella stanza dei figli. Mentre si avvicinavano alla stanza, lo sconcerto del rabbino si trasformò in terrore: quando entrarono nella stanza dove i loro figli giacevano immobili e freddi, si rese conto della terribile verità dietro la domanda di sua moglie sulla restituzione dei gioielli preziosi. E pianse lacrime amare.

"Non sapevo cosa fare", gli disse Bruriah, con la mano sulle sue spalle ansanti. "Avevo paura di disturbare la tua gioia nello Shabbat. Ma tu hai appena detto che dobbiamo restituire ciò che ci è stato affidato, in buona fede e con buon umore. Dio ha affidato alle nostre cure questi due gioielli preziosi. Ma è venuto per reclamare ciò che Gli appartiene”.

"Il mio stesso insegnamento ora mi perseguita", singhiozzava Rabbi Meir. "Non dobbiamo piangere e addolorarci troppo... affinché non diventi un mormorio contro il Santo... Dobbiamo... Dobbiamo." Ma le sue parole non riuscirono a fermare le sue lacrime.

Questo episodio è così cruciale per il ritratto di Rabbi Meir e Bruriah, che Wiesel ne offre un elaborato commentario:

« Credendo in Dio e nella Sua giustizia, china il capo e accetta il giudizio. Ciò che prova è tristezza, non ribellione. Disarmato di fronte alla sfortuna, si lascia andare... Rabbi Meir piange; lei no. Rabbi Meir non può controllare le sue emozioni; lei può... Dei due, chi ci tocca e ci turba di più? Rabbi Meir, perché è indifeso e innocente? O Bruriah, per la sua forza di volontà e compostezza? Dal comportamento di Rabbi Meir e dalle sue ripetute domande si percepisce la sua impazienza, la sua angoscia. Il padre ha delle premonizioni; intuisce che qualcosa non va, che è successo qualcosa ai suoi figli... Tuttavia, quando affronta una questione di legge, la sua mente è distratta. Il padre si arrende all'insegnante finché la realtà non lo colpisce frontalmente. Poi comincia a piangere e a lamentarsi... Quanto a Bruriah..., perché non gridava di dolore, come avrebbe fatto qualsiasi madre normale? ... Sa come gestire le situazioni tragiche perché ne ha passate tante... La trappola verbale tesa a suo marito? Ad essere onesti, era una trappola non contro di lui ma per lui. »
(Wiesel, 287–88)

Sì, una trappola per lui, per il suo bene. Bruriah riuscì a fargli rivolgere l'attenzione, per un momento, alla sua erudizione e alla sua saggezza come uno dei più grandi saggi della sua generazione. E Meir comprese la verità che il Santo, Benedetto sia Lui, il Creatore e Sostenitore di tutta la vita, è Colui a cui appartiene tutta la vita. Le nostre vite non ci appartengono, né i nostri figli ci appartengono. Ma il suo intelletto non bastò a frenare la sua emozione e la sua angoscia.

Per quanto riguarda Bruriah, la sua vita fu piena di tragedie, come abbiamo visto: suo padre, Rabbi Hananiah ben Teradyon, fu bruciato sul rogo, sua madre fu decapitata e sua sorella fu fatta prostituire. Poi perse i suoi figli. Alla fine fu l'unica sopravvissuta della sua famiglia. Visse in un'epoca in cui molti ebrei sopportavano sofferenze orribili — in questo, niente di insolito per lei. Ciò che per lei è insolito è il suo straordinario intelletto. La sua cultura era così profonda che spesso si impegnò in controversie halakhiche con i grandi saggi di quella generazione, incluso suo padre Hananiah ben Teradyon. Dice Wiesel: "Non c'è da stupirsi che fosse temuta nei circoli accademici. Ovunque apparisse, la gente fuggiva. I leader delle yeshivot la evitavano. Paralizzava letteralmente i suoi avversari. Non rispettava nessun titolo ufficiale, nessuna posizione sociale; non riconosceva alcuna autorità... Bruriah: una donna di cervello e di cuore che si ammira e si ama per la sua grandezza e nonostante la sua brillantezza aggressiva.[142] Eppure lei era così aggressiva perché il suo dolore era così profondo.

Si può capire perché Wiesel affermi: "Per Rabbi Meir e Bruriah le parole sono avventura e scoperta. Vivono intensamente, pericolosamente. Non c'è mai un momento noioso. Stimolano, feriscono, cercano. Alla loro presenza tutto si muove, ogni corda vibra, canta e si spezza".[143] Il Talmud racconta che quando la sorella di Bruriah fu portata via per fare la prostituta, Rabbi Meir andò al bordello per riscattarla. Il responsabile del bordello temeva di essere punito se avesse rilasciato la ragazza. "Quando il pericolo sta per colpirti", gli disse Rabbi Meir, "ripeti l'acronimo ‘EDMA’", che sta per la frase Elokei de Meir anani, "Dio di Meir, rispondimi!" L'uomo fu arrestato e condannato all'impiccagione. Quando il cappio fu intorno al suo collo, l'uomo gridò: "E.D.M.A.: Dio di Meir, rispondimi!" Il cappio si ruppe e l'uomo fu salvato. Quando raccontò la storia ai romani, Rabbi Meir fu costretto a fuggire dalla Terra Santa (Avodah Zarah 18a). Wiesel ci ricorda che c'era un'altra ragione per cui Rabbi Meir lasciò la Terra. Dopo una discussione riguardante la suscettibilità delle donne alla tentazione, Rabbi Meir fece tentare a uno dei suoi studenti di sedurre sua moglie, Bruriah. Lei cedette: "Bruriah, presa dal rimorso, si impiccò [Rashi su Avodah Zarah 18b]".[144] E così Rabbi Meir e Bruriah percorrono l'ambito dell'esperienza umana, dell'esperienza ebraica e della risposta a quell'esperienza. È preoccupante che il Talmud offra pochi dettagli sulla reazione di Rabbi Meir al suo suicidio, eccetto per ipotizzare che fosse il motivo per cui partì per Babilonia, dove morì (Avodah Zarah 18b; cfr. anche Talmud Yerushalmi, Kilayim 9:4).

È interessante notare che il Talmud ci dice che il vero nome di Rabbi Meir era Rabbi Nehorai; fu chiamato Rabbi Meir ("l'Illuminatore") perché, dice il Talmud, "illuminò gli occhi degli studiosi della halakhah" (Eruvin 13b). Tuttavia, quanto erano oscurati i suoi occhi quando guardò Bruriah! Era anche conosciuto come Rabbi Meir Baal-haNes, il Taumaturgo. Discendente di convertiti – alcuni dicono dall'imperatore romano Nerone (Gittin 56a) – studiò con Rabbi Akiva e Rabbi Ishmael, come anche con Yehuda ben Baba e l'apostata Elisha ben Abouya, che non evitò mai. Rabbi Meir viaggiò in gran parte del mondo in missioni urgenti. Discuteva con eretici e filosofi e, dice il Talmud, coinvolse persino Cleopatra in discussioni (Sanhedrin 90b). Per questo era conosciuto come l'Illuminatore: era una luce per le nazioni.

La luce di Rabbi Meir emana non solo verso le nazioni ma anche attraverso le generazioni, fino all'era messianica, secondo un insegnamento chassidico, come sottolinea Wiesel: "Sebbene sappiamo che Stam Mishnah kerebe Meir, che ogni volta che la Mishnah è anonima, appartiene a Rabbi Meir [Sanhedrin 86a], le sue opinioni vengono respinte e le sue dichiarazioni rimangono anonime. Niente può essere più ingiusto nei confronti di uno studioso. Rabbi Pinhas di Koretz deve essere stato turbato dal destino di Rabbi Meir perché cercò di rettificarlo. Quando verrà il Messia, disse Rebbe Pinhas di Koretz, la Halakhah – la legge – sarà secondo Rabbi Meir [Midrash Pinhas 1:54–2:1]".[145] Pertanto, la fonte senza nome di una Mishnah non è esattamente anonima: la fonte, o meglio l'insegnante è nascosto. E nel tempo del Messia tutto ciò che è nascosto verrà rivelato: il Messia stesso, a quanto pare, seguirà le prescrizioni di Rabbi Meir.

Ritratto di Rabbi Shimon bar Yohai e di suo figlio Rabbi Eleazar

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Imagerie populaire récente de Rabbi Shimon bar Yohaï sur une bougie, Bagneux (Hauts-de-Seine)
 
Rabbino con tefillin, di Jan Styka (1925)
  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Shimon bar Yohai e Eleazar ben Simeon.

Una cosa che definisce il chassidismo nel lascito chassidico di Elie Wiesel è la tradizione mistica ebraica. L'obiezione dei Mitnagdim, o degli "Oppositori", ai Chassidim non era l'accento chassidico sulla tradizione mistica; piuttosto, erano preoccupati che i chassidim stessero svelando i misteri esoterici a troppe persone troppo in fretta. Ciò che rende la nozione di ritratto centrale nel patrimonio chassidico di Wiesel è una raccolta di testi cabalistici che ci provengono da Shimon bar Yohai, da suo figlio Rabbi Eleazar e dai loro discepoli: lo Zohar.

Qui dobbiamo sottolineare ancora una volta l'accento dell'ebraismo sull’Chi, che è al centro del lascito chassidico di Wiesel: la sua è l’eredità del’Chi trasmessa proprio attraverso l'eredità del ritratto. Quell'eredità deriva dallo Zohar che è così centrale per il chassidismo e dal tributo testimoniale di Wiesel al chassidismo. Come abbiamo dimostrato fin dall'inizio, l'eredità del Chi è ciò che rende il ritratto un ritratto: il ritratto di un'anima. Ogni ritratto rivela il Chi che sta al centro dell'essere umano, e il Chi definisce la nozione di ritrattistica. Così questi ritratti, come ritratti, trasmettono una traccia del Santo nell'ambito dell'umano. Grazie all'insegnamento e alla testimonianza di Rabbi Shimon bar Yohai e di suo figlio, abbiamo un'apertura verso questo mistero. "Devo dire che", scrive Wiesel, "il bambino in me, lo studente della yeshivah in me, il Chasid in me, si sente vicino a Rabbi Shimon. Perché? Perché la sua immaginazione era sconfinata".[146] La sua immaginazione e la sua sintonia con la rivelazione. Poiché il Chi entra nel mondo solo attraverso la rivelazione.

La presenza stessa di un Chi in mezzo all'essere è una trascendenza dell'essere. Questi ritratti e la loro eredità chassidica rappresentano proprio tale trascendenza. Nel Talmud ci viene detto che quando il suo insegnante Rabbi Akiva fu martirizzato, Rabbi Shimon bar Yohai e suo figlio Rabbi Eleazar furono tra i cinque che fecero rivivere la Torah e fecero in modo che la Torah non morisse. Gli altri tre erano Rabbi Meir, Rabbi Yehudah e Rabbi Yossi (Yevamot 62b). Quando i romani scoprirono che Shimon bar Yohai si stava pronunciando contro di loro, emanarono un ordine per la sua esecuzione, dopodiché il rabbino e suo figlio si nascosero, prima in una casa di studio e poi in una grotta. All'imbocco della grotta un carrubo spuntò miracolosamente dalla terra e cominciò a sgorgare acqua fresca di sorgente, affinché avessero cibo e bevanda. Per evitare che i loro vestiti si consumassero, si toglievano gli indumenti, tranne durante le preghiere e lo Shabbat. Per tredici anni studiarono i misteri della Torah con Elia, finché un giorno udirono una voce dal cielo che dichiarava che l'imperatore romano era morto e che il decreto che ordinava la loro esecuzione era stato annullato (Shabbat 33b). "Rabbi Shimon si rifiutò di morire, anche come martire", commenta Wiesel. "A differenza del suo Maestro, Rabbi Akiva, che accettò il martirio con esultanza, Rabbi Shimon preferì nascondersi".[147] Cosa accadde quando il padre e il figlio emersero dalla grotta? Secondo la tradizione, racconta Wiesel, Rabbi Eleazar vide un uomo che arava e seminava in violazione della Torah, dopo di che gettò lo sguardo sull'uomo, che immediatamente andò in fiamme. Una voce dal cielo gridò: "Sei uscito per distruggere il Mio mondo? Ritorna nella tua caverna!" E così tornarono alla grotta per un altro anno. Lo stesso accadde quando uscirono di nuovo. Ma questa volta Rabbi Shimon guarì qualunque cosa Rabbi Eleazar avesse distrutto (Shabbat 33b).

Il mondo che Rabbi Shimon e Rabbi Eleazar incontrarono quando lasciarono la grotta, era un mondo che aveva visto l'omicidio di massa e l'oppressione degli ebrei della Giudea. Wiesel paragona la loro esperienza a quella di altri sopravvissuti:

« Quando lasciò la sua caverna-prigione per la prima volta, sentì quello che provarono i sopravvissuti della nostra generazione quando videro quello che era successo — mentre erano lontani. Solo allora si confrontarono con il vero problema: cosa farne della rabbia che li pervadeva, del loro dolore e della loro disperazione. Come Rabbi Shimon, avrebbero potuto distruggere la Creazione e, come lui, scelsero di non farlo... Penso a lui con affetto perché ... ricordo un tempo in cui ero con mio padre, lontano da casa. Non eravamo soli, eppure lo eravamo. E poiché eravamo soli come mai prima d'ora, ci sentimmo vicini l'uno all'altro come mai prima d'ora. Prima... lo vedevo raramente. Era impegnato nel negozio o nella comunità. Lo vedevo durante lo Shabbat. Adesso invece lo vedevo continuamente. Finalmente potevamo parlare e parlare. Lui solo contava per me, io solo contavo per lui. Ero essenziale per la sua vita quanto lui lo era per la mia. Ma a differenza di Rabbi Eleazar e di suo padre, lasciai la grotta da solo. »
(Wiesel, 310)

Ricordiamo le parole di Moishe lo Shammash a Eliezer, quando Eliezer chiese di studiare gli insegnamenti esoterici: "Ci sono mille e una porta per penetrare nel frutteto della verità mistica. Ogni essere umano ha la sua porta".[148] Così, effettivamente, Wiesel attraversò una porta su cui erano impresse le parole Arbeit Macht Frei ed entrò in un altro regno, un reame in cui raggiunse un livello di apprendimento (se così si può dire) irraggiungibile altrove.

Proprio come si può parlare di due Eliezer – il figlio chassidico di Sighet e quello che risorse dalla fossa comune dell'Olocausto – così, dice Wiesel, "è consuetudine pensare che ci siano due Rabbi Shimon... l'uno nella letteratura talmudica, l'altro nello Zohar. Il primo è umano, il secondo quasi divino... È possibile unire o conciliare i due ritratti? Sì, perché, in verità, ci sono due suoi ritratti anche nella letteratura talmudica. Uno precede il suo ingresso nella grotta e l'altro copre il suo ritorno nella società. I tredici anni trascorsi nascosti sottoterra lo avevano cambiato molto. L'accumulo di tanta solitudine e silenzio doveva per forza avere un effetto".[149] Eliezer e suo padre non erano soli, eppure erano abbandonati al silenzio dell'antimondo davanti al quale il mondo taceva. Tale solitudine e silenzio ebbero un impatto su di lui, un impatto che a volte si manifesta in questi ritratti.

Riguardo allo Shimon del Talmud e allo Shimon dello Zohar, Wiesel scrive: "Tuttavia sembra sbagliato, e sarebbe fuorviante, considerare queste due opere [il Talmud e lo Zohar] – di straordinaria importanza e bellezza – come appartenenti a due domini diversi. Li vedo invece come due cerchi concentrici: il loro centro è uno solo".[150] Ciascuno, infatti, è una dimensione dell'altro, legato come la parola sta al significato e il rivelato sta al nascosto. Ci sono molti racconti sui miracoli compiuti da Rabbi Shimon bar Yohai dopo essere emerso dalla grotta. Wiesel racconta, ad esempio, la storia di come Rabbi Shimon fu chiamato a Tiberiade dove erano state trovate ossa umane, rendendo il luogo inadatto alla residenza: le persone non potevano costruire case sul luogo dove erano stati sepolti altri. Rabbi Shimon, tuttavia, "individuò il cimitero, aprendo così l'accesso al resto della città, che era destinata a diventare un grande centro per l'apprendimento ebraico [Shabbat 33b–34a]. (Perché è simbolico? Perché la rinascita ebraica è spesso scaturita proprio dal terreno dove gli ebrei sono stati uccisi. Le crociate, il Medioevo, i periodi dei pogrom forniscono mille esempi. L'ultimo viene dalla Russia. Sapete dove i primi giovani militanti si incontravano per imparare l'ebraico e i canti ebraici? Nei cimiteri, di notte.)"[151] Quindi, dice Wiesel, "tutto ciò che accadde dopo aveva già cominciato ad accadere allora".[152] Le questioni relative all'esilio e alla redenzione risalgono a Mosè, addirittura ad Adamo. In effetti, essere un figlio di Adamo – un ben adam o "essere umano" – significa lottare con questioni di esilio e redenzione, di oblio e memoria.

 
Elie Wiesel a 15 anni, 1943/44
  Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna.
  1. Reuven Kimelman, "Wiesel and the Stories of the Rabbis", in Alan Rosen e Steven T. Katz,curr., Elie Wiesel: Jewish, Literary, and Moral Perspectives (Bloomington: Indiana University Press, 2013), 38.
  2. Adin Steinsaltz, The Essential Talmud, trad. Chaya Galai (New York: Basic Books, 1976), 47.
  3. Steinsaltz, Essential Talmud, 246.
  4. Steinsaltz, Essential Talmud, 100.
  5. Steinsaltz, Essential Talmud, 163.
  6. Wiesel, Sages and Dreamers, 184.
  7. Steinsaltz, Essential Talmud, 262.
  8. Steinsaltz, 268.
  9. Wiesel, Sages and Dreamers, 178.
  10. Wiesel, Wise Men and Their Tales, 216.
  11. See Wiesel, Le Serment de Kolvillàg (Oath), 129.
  12. Elie Wiesel, Against Silence, 318.
  13. Wiesel, Sages and Dreamers, 346.
  14. Wiesel, Wise Men and Their Tales, 258.
  15. Wiesel, Sages and Dreamers, 331.
  16. Steinsaltz, The Essential Talmud, 8–9.
  17. Wiesel, Sages and Dreamers, 165.
  18. Wiesel, 165.
  19. Wiesel, 157.
  20. Wiesel, 159.
  21. Wiesel, 162.
  22. Ibid., 162.
  23. Cfr. Yehudah Leib Alter, The Language of Truth: The Torah Commentary of the Sefat Emet, trad. Arthur Green (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1998).
  24. Wiesel, Sages and Dreamers, 167.
  25. Wiesel, 166.
  26. Wiesel, 166.
  27. Wiesel, 168.
  28. Wiesel, 169.
  29. Wiesel, 58.
  30. Wiesel, 59.
  31. Wiesel, 59.
  32. Wiesel, 61.
  33. Wiesel, Somewhere a Master, 91–92.
  34. Wiesel, Sages and Dreamers, 59.
  35. Wiesel, 63.
  36. Levinas, Totality and Infinity, 243.
  37. Levinas, 34.
  38. Wiesel, Sages and Dreamers, 134.
  39. Wiesel, 140.
  40. Wiesel, Legends of Our Time, 151.
  41. Wiesel, Sages and Dreamers, 176.
  42. Wiesel, Paroles d’étranger, 169.
  43. Wiesel, Sages and Dreamers, 177.
  44. Wiesel, 180.
  45. Wiesel, 189.
  46. Wiesel, 175.
  47. Wiesel, 181.
  48. Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 208.
  49. Wiesel, Sages and Dreamers, 184.
  50. Wiesel, 176.
  51. Emmanuel Levinas, "Prayer without Demand", trad. Sarah Richmond, in Sean Hand, cur., The Levinas Reader (Oxford: Basil Blackwell, 1989), 234.
  52. Wiesel, Sages and Dreamers, 190.
  53. Wiesel, 185.
  54. Wiesel, 191.
  55. Wiesel, 192.
  56. Wiesel, 213–14.
  57. Wiesel, 213–14.
  58. Wiesel, 213–14.
  59. Shulamis Freiman, Who’s Who in the Talmud (Northvale, NJ: Jason Aronson, 1995), 370.
  60. Alter, Language of Truth, 62.
  61. Wiesel, Sages and Dreamers, 215.
  62. Wiesel, 222–23.
  63. Wiesel, 212.
  64. Wiesel, 216.
  65. Wiesel, 217.
  66. Wiesel, 221.
  67. Wiesel, 219.
  68. Wiesel, 218.
  69. Wiesel, 221.
  70. Wiesel, 218.
  71. Wiesel, 220.
  72. Steinsaltz, Essential Talmud, 36.
  73. Wiesel, Sages and Dreamers, 234.
  74. Wiesel, 232.
  75. Wiesel, 235.
  76. Wiesel, 224–25.
  77. Cfr. Emil L. Fackenheim, God’s Presence in History: Jewish Affirmations and Philosophical Reflections (New York: Harper & Row, 1970), 6.
  78. Wiesel, Sages and Dreamers, 226.
  79. Wiesel, 226–27.
  80. Wiesel, 230.
  81. Wiesel, 235.
  82. Wiesel, 237.
  83. Wiesel, 238.
  84. Wiesel, 239.
  85. Levi, Se questo è un uomo (Survival in Auschwitz), 98.
  86. Primo Levi, La tregua (The Reawakening), 33.
  87. Levi, (EN) Reawakening, 128.
  88. Wiesel, Sages and Dreamers, 240.
  89. Wiesel, La Ville de la chance (Town beyond the Wall), 100.
  90. Wiesel, Sages and Dreamers, 242.
  91. Gli altri sono: "colui che ha moglie ma non figli; e chi ha figli ma non li alleva allo studio della Torah; e colui che non ha filatteri sulla testa e sul braccio, nessun dito sulla veste e nessuna mezuzah sulla sua porta, e colui che nega le scarpe ai suoi piedi. E alcuni dicono: Anche chi non siede mai in una compagnia riunita per scopo religioso" (Pesahim 113b).
  92. Wiesel, Sages and Dreamers, 245.
  93. Wiesel, 251.
  94. Wiesel, 253.
  95. Wiesel, 246. Secondo la tradizione, I Dieci Martiri sono Rabbi Akiva, Rabbi Hananiah ben Teradyon, Rabbi Yehuda ben Bava, Rabbi Shimon ben Gamliel HaNassi, Rabbi Ishmael Kohen Gadol, Rabbi Hutzpit l'Interprete, Rabbi Elazar ben Shamua, Rabbi Hanina ben Hakinai, Rabbi Yesheivav lo Scriba, e Rabbi Yehuda ben Dama.
  96. Wiesel, 247.
  97. Elie Wiesel, From the Kingdom of Memory: Reminiscences (New York: Summit, 1990), 13.
  98. Wiesel, (EN) Legends of Our Time, 18.
  99. Wiesel, Ani Maamin, 39, 41.
  100. Wiesel, Les Portes de la forêt (Gates of the Forest), 11–12.
  101. Elie Wiesel, Twilight, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Summit, 1998), 37.
  102. Wiesel, Otage (Hostage), 191.
  103. Wiesel, Sages and Dreamers, 254.
  104. Wiesel, 254.
  105. Wiesel, 247–48.
  106. Wiesel, 246.
  107. Wiesel, 249.
  108. Wiesel, 255.
  109. Wiesel, 250.
  110. Wiesel, 199.
  111. Wiesel, 205.
  112. Wiesel, 205.
  113. Wiesel, 204.
  114. Wiesel, 206.
  115. Wiesel, 204.
  116. Wiesel, 208–9.
  117. Wiesel, 207.
  118. Wiesel, 210–11.
  119. Cfr. per esempio, Aryeh Kaplan, Inner Space (Gerusalemme: Moznaim, 1990), 120–21.
  120. Levinas, Otherwise Than Being (Altrimenti che essere), 114.
  121. Levinas, Collected Philosophical Papers, 99.
  122. Wiesel, Wise Men and Their Tales, 208.
  123. Wiesel, 219.
  124. Wiesel, 218–19.
  125. Wiesel, 216.
  126. Wiesel, 212.
  127. Wiesel, 214.
  128. Wiesel, 211.
  129. Wiesel, 223.
  130. Wiesel, Against Silence, 2:119.
  131. Wiesel, Célébration biblique (Messengers of God), 26–27.
  132. Wiesel, Sages and Dreamers, 281.
  133. Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 52; questo episodio è riportato anche nell'antologia di detti e insegnamenti dal Baal Shem Tov,Tsavaat ha-Rivash (Brooklyn: Kehot, 1999), 63–64.
  134. Wiesel, 273.
  135. Wiesel, 281.
  136. Wiesel, 275.
  137. Citato da Victor Cohen, cur., The Soul of the Torah: Insights of the Chasidic Masters on the Weekly Torah Portions (Northvale, NJ: Jason Aronson, 2000), 98.
  138. Wiesel, Sages and Dreamers, 277.
  139. Wiesel, 280.
  140. Wiesel, 285.
  141. Wiesel, 286–87.
  142. Wiesel, 289.
  143. Wiesel, 296.
  144. Wiesel, 297.
  145. Wiesel, 298.
  146. Wiesel, 302.
  147. Wiesel, 308.
  148. Wiesel, Night, 13.
  149. Wiesel, Sages and Dreamers, 306–7.
  150. Wiesel, 300.
  151. Wiesel, 302.
  152. Wiesel, 301–2.