Il Chassidismo di Elie Wiesel/Capitolo 2
Chi è come Te, Signore?
modificaQuando Elie Wiesel vinse il Premio Nobel per la Pace nel 1986, il Comitato per il Nobel lo acclamò come un "messenger to mankind". E messaggero era, un malakh, con un messaggio e un appello all'umanità, non solo dal Regno della Notte ma anche dalla testimonianza millenaria del popolo ebraico. Dal suo insegnamento e dalla sua testimonianza emana una traccia della luce che nacque dal primo enunciato della Creazione, la luce che uscì dal Monte Sinai, la luce del fuoco nero sul fuoco bianco che è la Torah scritta e orale (cfr. Tanhuma Bereshit 1; Devarim Rabbah 3:12; Shir HaShirim Rabbah 5:11:6; Zohar II, 226b). Senza i resti della tradizione ebraica che subì un attacco radicale al tempo della Shoah, Wiesel non sarebbe mai emerso da quel Regno nefasto. Infatti, una volta disse che ciò che lo mantenne in vita dopo essere sopravvissuto ad Auschwitz e Buchenwald non fu la sua incrollabile fede in Dio, perché questa era stata profondamente scossa. No, era stato il suo incrollabile amore per l'apprendimento e per lo studio dei sifrei kodesh, i testi sacri e gli insegnamenti della tradizione ebraica che i nazisti avevano consegnato alle fiamme. "Non ho mai smesso di studiare la Bibbia, il Talmud e i commentari", dichiara. "È la mia passione".[1] Fu anche la sua salvezza.
Wiesel era un romanziere di fama mondiale, un insegnante venerato e ovunque uno schietto sostenitore dell'umanità. Figlio di Sarah Feig e Shlomo Wiesel, nacque nella città di Sighet nei Carpazi rumeni il 16 Tishrei 5689 (30 settembre 1928). Proveniva da un lignaggio molto distinto: discendente del grande rabbino cabalista Isaiah Horowitz, noto come il Santo Shelah dalla sua imponente opera Shnei Luhot HaBrit (שני לוחות הברית - Due Tavolette dell'Alleanza, 1648), Wiesel poteva far risalire il suo lignaggio fino al grande esplicatore della Torah e del Talmud, Rabbi Shlomo ben Yitzhak (1040–1105), meglio conosciuto come Rashi. Il 26 Sivan 5776 (2 luglio 2016), un Sabbath, l'anima di Elie Wiesel è tornata nei reami superiori, dove forse ora studia con i suoi illustri antenati.
C'era una storia raccontata di questo saggio: quando aveva otto anni sua madre lo portò a ricevere una benedizione dal Rebbe locale. Madre e figlio entrarono nello studio del Rebbe. Il Rebbe alzò lo sguardo, vide il ragazzo e sussultò. La reazione del Rebbe spaventò Sarah. Lei condusse il piccolo Eliezer fuori dalla stanza, gli disse di aspettare lì per un momento e chiese al Rebbe: "Cosa hai visto?"
Il Rebbe fece un respiro profondo e rispose, con la testa tra le mani: "Tuo figlio diventerà una voce per il popolo di Israele, ma solo dopo aver sopportato sofferenze indicibili."[2]
E così avvenne.
Wiesel e la sua famiglia furono coinvolti nel turbine che colpì l'Ungheria quando i tedeschi entrarono nel territorio dei loro alleati ungheresi nel marzo 1944. Tra il 15 maggio e il 9 luglio 1944, quasi mezzo milione di ebrei ungheresi – tanti quanti i due anni precedenti messi insieme – furono gasati e bruciati a Birkenau. Quasi un anno dopo, dopo aver perso entrambi i genitori e sua sorella Tzipora (le sue sorelle maggiori Beatrice e Hilda sopravvissero), Wiesel giaceva su un'asse cosparsa di paglia in un isolato abbandonato di Buchenwald. Poi un'unità afroamericana della Terza Armata americana si imbattè improvvisamente nel campo di sterminio.
Wiesel una volta mi raccontò la storia di un soldato afroamericano che entrò nel blocco dove dozzine di detenuti giacevano nelle loro cuccette di legno in attesa di morire. Il soldato si fermò per un momento e si guardò intorno, abituandosi allo spazio scarsamente illuminato.
"Era un gigante", disse Wiesel dell'uomo vestito con abiti da battaglia. "Come un eroe mitico." La maggior parte di questi ebrei non aveva mai visto un uomo di colore.
Questo soldato, questo guerriero, era stato testimone di tutti gli orrori della guerra. Tuttavia, non appena il gigante cominciò a distinguere le ombre scheletriche che lo circondavano, le lacrime iniziarono a scorrergli lungo le guance. Le creature spettrali strisciarono giù dalle assi e si trascinarono verso di lui per confortarlo, dandogli pacche sulle spalle con le mani ossute.
"Quanto più cercavamo di consolarlo", mi disse Wiesel, "tanto più forte singhiozzava. Come un bambino."
Wiesel trascorse gli anni del dopoguerra in Francia, dove studiò alla Sorbona e lavorò come giornalista per periodici francesi e israeliani. Una volta mi raccontò una storia di quegli anni. Sembra che un rabbino con cui voleva studiare gli chiese cosa facesse per vivere. Wiesel rispose: "Sono uno scrittore". Il rabbino rimase scioccato, scandalizzato. "Uno scrittore!?" ribatté. "Non sai che le parole creano e distruggono mondi? E tu hai l'ardire di considerarti uno scrittore!?"
Wiesel, ovviamente, sapeva benissimo cosa stava dicendo il rabbino. Conosceva molto bene l'episodio del Talmud, dove durante il loro incontro, il maestro di Rabbi Meir, Rabbi Ishmael, chiese della professione del discepolo. "Sono uno scriba", rispose il rabbino Meir. "Stai attento, figlio mio", disse Rabbi Ishmael, "stai molto attento. Omettendo o aggiungendo una sola lettera, potresti distruggere il mondo intero" (Eruvin, 13a). Forse è per questo che per dieci anni Wiesel non fece alcun commento pubblico sul suo passaggio attraverso l'antimondo da cui era emerso come uno che, simile a Moshé lo Shammàsh in La Nuit, era strisciato fuori da una fossa comune per raccontarci la storia della sua propria morte. "Aveva vissuto il nostro destino prima di chiunque di noi", scrive Wiesel. "Messaggero dei morti, gridava ai quattro venti la sua testimonianza e la pronunciava in silenzio, ma in ogni caso nessuno lo ascoltava. La gente gli voltava le spalle per non vedere i suoi occhi, come se temesse di intravedere una verità che teneva in pugno d'acciaio il suo passato e il nostro futuro".[3] Proprio per questo, Wiesel ha sempre prestato molta attenzione alle proprie parole. E allo spazio silenzioso tra le parole, uno spazio infestato dalle grida dei bambini e dal mutismo dei Muselmänner.
Da giovane giornalista ebreo, Wiesel fece visita a François Mauriac, Premio Nobel per la Letteratura, per intervistare l'autore cattolico francese nel 1954. Secondo la storia, Wiesel si sedette e ascoltò il devoto cristiano confrontare le orribili sofferenze degli ebrei con le sofferenze di Gesù. Alla fine il giovane ebreo non ne poté più. Si alzò e dichiarò a Mauriac che un milione e mezzo di bambini ebrei avevano sofferto molto più di quanto il Nazareno avrebbe mai potuto immaginare. Parlò dei treni sigillati, dei bambini gettati vivi nelle fosse in fiamme, delle percosse e degli incendi, della fame e delle privazioni, tutto ciò che aveva visto con i propri occhi di internato. All'improvviso tacque: eccolo lì, essere insignificante, a rimproverare il grande François Mauriac. L'imbarazzato parvenu ebreo fuggì dall'appartamento dello scrittore cattolico, rincorso dall'anziano Mauriac. Riuscì ad afferrare il giovane e lo ricondusse a casa sua. Forzandogli fuori la storia, parola per parola, frase per frase, Mauriac scoppiò presto in lacrime, supplicando il giovane Wiesel di narrarla pubblicamente. Successivamente Mauriac fu determinante nel curare la pubblicazione di La Nuit nel 1958.
Nel 1955 Wiesel si trasferì a New York. Nel 1969 sposò Marion Erster Rose, sopravvissuta austriaca all'Olocausto, che sarebbe diventata la traduttrice di molti dei suoi libri dal francese all'inglese. Il loro figlio, Shlomo Elisha, nacque nel 1972. Nel 1976 Wieselfu nominato Andrew Mellon Professor of the Humanities presso la Boston University, posizione che ricoprì per il resto della sua vita. Utilizzò il denaro del Premio Nobel per la Pace del 1986 per fondare la Elie Wiesel Foundation for Humanity, tramite la quale venne in aiuto dell'umanità sofferente in tutto il mondo. Molte persone sanno queste cose, ma ciò che molti non sanno è che Wiesel si è sempre identificato come un Chassid Vizhnitzer. Suo nonno materno Dodye Feig era ben noto tra i chassidim di Vizhnitzer per la sua saggezza e la sua rettitudine. Dopo la Shoah, il nipote lo riconoscerà in una fotografia dell'antimondo; i nazisti gli stavano tagliando la barba, umiliandolo come avevano fatto con decine di migliaia di altri ebrei devoti.[4]
"Dai Maggidim erranti [insegnanti e narratori chassidici] della mia infanzia", ci racconta Wiesel, "ho imparato a leggere e interpretare un testo biblico. Incantato, li ascoltavo destreggiarsi tra parabole e citazioni, versi e spiegazioni, cercando di carpire un significato nascosto, un precetto morale: una lezione. Poi, dopo la guerra, a Parigi, il mio strano insegnante e maestro, Harav Shushani, mi guidò lungo lo stesso percorso".[5] Così Elie Wiesel trasmette non solo l'insegnamento della tradizione ebraica ma anche la carne e il sangue, il cuore e l'anima di quella tradizione rivelati nell'insegnamento chassidico, il Chi e non solo il Cosa di una tradizione che vive e respira. Il chassid che è in lui capì che una tradizione vivente è un Chi, così come capì che la Shoah era soprattutto un assalto al Chi che è HaShem, così come al Chi che è l'essere umano: era, in altre parole, un assalto radicale al Santo e all'anima umana creata a Sua immagine e somiglianza. Come trasmettere l'immagine e la somiglianza altrimenti se non attraverso il ritratto del Chi?
Intravediamo così il significato dell'enigmatica affermazione di Wiesel secondo cui "il mistero ultimo dell'Olocausto è che qualunque cosa sia accaduta è avvenuta nell'anima".[6] E poiché ogni anima umana è legata a ogni altra, l'Olocausto ha avuto un profondo impatto sull'anima di ogni essere umano.
Il Lascito Chassidico del Chi
modificaNé il Concetto primitivo né l'Idea di Dio dei filosofi sono un Chi. Nessuno, infatti, ha mai gridato "Padre!" al Concetto primitivo, e nessuno ha mai pregato ad un'idea. Né il Dio oggetto della speculazione teologica è un Chi. Al contrario, Dio è tutto soggetto, come lascia intendere Abraham Joshua Heschel, che Wiesel conosceva molto bene: "We approach Him, not by making Him the object of our thinking, but by discovering ourselves as the objects of His thinking".[7] Il Dio che i pagani equiparavano alla natura non è un Chi. Il Dio pagano è una forza o una potenza con la quale non può esserci alcun rapporto di alleanza. Solo il Dio dell'Alleanza, il Dio sofferente, il Dio con cui si può discutere, come sostenevano Abramo e Mosè, non solo per il bene del "nostro popolo" ma per il bene di tutti i popoli, è un Chi. La trasmissione chassidica di Wiesel, attraverso i suoi ritratti, della vita fatta di Chi avviene in risposta all'assalto nazista al Dio che è un Chi: i ritratti di Wiesel rappresentano tutto ciò che i nazisti si proponevano di cancellare nel loro assalto al legame tra parola e significato e tra il nome e l'anima, in cui è emerso l'Olocausto.
Secondo un insegnamento del maestro chassidico Levi Yitzchok of Berditchev (1740–1809), "Uno dei nomi di Dio è: Chi, come apprendiamo quando il Faraone sfidò Mosè dicendo: ‘Chi è HaShem?’ [Esodo 5:2]" (Kedushat Levi, Vayera 29). Se Dio è un Chi, allora Israele è un Chi, e se Israele è un Chi, allora la Torah è un Chi. "La Torah ci viene presentata come una persona", dice Wiesel. "L'ebreo ha un atteggiamento personale nei confronti della Torah, un amore intimo per essa. Nel Talmud questo legame è così estremo che Dio, ci viene detto, consultò la Torah prima di creare Adamo, e talvolta Egli parla con la Torah, che Gli risponde. La Torah è quindi come una persona vivente, e in questo senso la amiamo tanto quanto amiamo Dio".[8] E così vediamo che l'ebraismo è un Chi, da tramandare non solo attraverso la delucidazione dei testi ma anche tramite l'interpretazione di ritratti viventi, come comprese Elie Wiesel. Non ci presenta semplicemente commentari sui saggi, e nemmeno semplicemente i loro insegnamenti, ma i loro ritratti viventi e respiranti. Nella comprensione chassidica dell'ebraismo di Wiesel, l'insegnamento e l'insegnante, il Cosa e il Chi, sono inseparabili.
Attraverso i suoi ritratti di queste anime in fiamme, Wiesel trasmette la fiamma della propria anima e accende le anime di coloro che le incontrano. All'indomani di un attacco all'anima senza precedenti, Wiesel dichiara: "Hineni: Eccomi!" come chassid e come testimone che trasmette la vita del Chi, la vita dell'anima, contenuta non solo negli insegnamenti ma anche nelle personalità dei maestri: nell'ebraismo, il ritratto, l'anima, la persona è l'insegnamento . Attraverso il ritratto ci troviamo faccia a faccia con il maestro e l'insegnamento. Attraverso il ritratto fissiamo gli occhi che guardano nelle nostre anime. Attraverso il ritratto ci troviamo davanti al volto.
Amare il Chi che è Dio è amare il Chi che è nell'essere umano; certo, amare l'uno vuol dire amare l'altro, come afferma Emmanuel Levinas, il grande pensatore ebreo che studiò con Harav Shushani, amico di Wiesel: "‘Andare verso Dio’ non ha senso se non visto nei termini del mio primario andare verso l'altra persona. Posso andare verso Dio soltanto preoccupandomi eticamente dell'altro e per l'altro".[9] Perché? Proprio perché Dio è un Chi, come insegna lo Zohar:
il Chi, dice lo Zohar, creò il cielo e la terra tramite un movimento verso una relazione di alleanza, come spiega il grande saggio Nahmanide (1194–1270), notando che la parola ebraica per "creato", bara, è affine alla parola per "alleanza", brit.[10] Nessuno ha mai stretto un'alleanza con una Cosa, con un oggetto, un concetto, o una nozione, primitiva o meno.
Questo è, in parte, il motivo per cui il grande maestro chassidico Moshe-Leib di Sasov insegnò che "l'inizio di tutta la conoscenza è sapere che Dio ha creato ogni cosa".[11] Sapere infatti che Dio ha creato ogni cosa significa rendersi conto che l'anima vive solo in relazione ad un Chi. Lasciati solo con un Cosa – lasciati solo con la neutralità materiale di tutto ciò che è – rimaniamo senza significato, senza un Perché. Alla fine ci rimane Auschwitz, il reame in cui c'è kein Warum, nessun Chi, come attesta Primo Levi.[12] Dove non c'è Perché, non c'è Chi, e dove non c'è Chi non c'è Perché. Senza questo legame tra il Chi e il Perché, non c'è niente da sentire se non il silenzio infinito e terrificante, il silenzio che infesta il suono e la furia che non significa nulla. Questi ritratti si contrappongono a quello.
"Auschwitz", scrive André Neher, "è soprattutto silenzio".[13] Ad Auschwitz, dice, "il silenzio – il silenzio ‘inerte’, grande e solenne – si presenta non come sospensione temporanea della Parola, ma come portavoce dell'invincibile Nulla. Così il Silenzio si sostituisce alla Parola perché il Nulla prende il posto dell'Essere".[14] Yehiel De-Nur, sopravvissuto all'Olocausto e autore noto come Ka-tzetnik 135633, lo chiama "il Luogo del Silenzio": "Qui non ci sono urla, né parole. Il Luogo del Silenzio. Il silenzio era tutt'intorno, inghiottendo il deflusso dell'umanità dai carri bestiame... La notte ovattata, che si insinua muta in punta di piedi per avvolgerti, inudibile, per non sconfinare nel terrificante silenzio che regna sovrano".[15] E così tornano a noi le parole di Wiesel: "Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata... Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto... Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere".[16] Così il silenzio assordante del Cosa, dell’Esso indifferente, schiaccia l'anima. Wiesel così intraprese una riparazione del Chi attraverso un impegno con il silenzio attraverso il linguaggio, attraverso la parola che esce dal volto, attraverso il volto che emerge dal ritratto. Infatti, "cos’è il linguaggio", scrive, "se non una metamorfosi del silenzio?"[17] È una metamorfosi del Cosa nel Chi. Questo è ciò che abbiamo nei suoi ritratti: una metamorfosi del Cosa nel Chi.
Laddove prevale solo il Cosa, non abbiamo altro che il rimbombo anonimo del "c'è", come dice Levinas: "‘C'è’ è il fenomeno dell'essere impersonale: ‘esso’... [È un] ‘rimbombo’,... come se il vuoto fosse pieno, come se il silenzio fosse un rumore".[18] Se il Chi della Rivelazione al Monte Sinai ha creato i cieli e la terra, allora tutta la creazione nasconde un inafferrabile, ineffabile, eppure ineluttabile Perché che penetra il silenzio del "c'è" ontologico. L'assalto al Perché è un assalto al Santo. È l'assalto a cui Elie Wiesel risponde mediante i suoi ritratti, anzi, proprio attraverso la ritrattistica: il ritratto del Patriarca, del Profeta, del Saggio e del Maestro chassidico è proprio un ritratto del Perché perseguito in conseguenza dell'attacco radicale al Perché. Si tratta di un restauro del volto, che è sempre il soggetto del ritratto.
Dato che è la dimensione del senso, il Perché è la dimensione del futuro, che, capisce Levinas, è un Chi: "L'altro è il futuro".[19] I ritratti di Wiesel non rappresentano solo i Saggi del passato ma anche le possibilità per il futuro. Poiché il Chi è il futuro, colui verso il quale e per il quale dobbiamo ancora adempiere a una responsabilità infinita, come comandato dall'Infinito Chi. Dove c'è un senso, c'è una risposta alla chiamata di qualcuno che ci chiama verso un orizzonte che dobbiamo ancora raggiungere, un orizzonte che, in verità, si allontana man mano che ci avviciniamo ad esso. Quel qualcuno si nasconde in questi ritratti. Alla demolizione del significato nell'antimondo di Auschwitz si accompagna quindi la demolizione del tempo stesso, la demolizione del dopo, come nota Wiesel.[20] Tuttavia questo dopo, il futuro, il Perché e il Chi – tutto ciò – costituiscono la matrice dei ritratti che fanno parte dell’eredità chassidica di Elie Wiesel. Questi ritratti non sono i fantasmi di un passato in dissolvenza, ma le voci vive che ci chiamano a un futuro vivente e a una testimonianza vivente. Nei suoi ritratti Wiesel grida: "Hineni: eccomi!" non solo agli insegnamenti ma agli insegnanti della tradizione per realizzare una sorta di resurrezione dell'anima in seguito alla desolazione dell'anima. Perché l'anima è fatta di significato. Vale a dire: l'anima è fatta di relazione. Questi sono ritratti della relazione che è anima.
Il recupero della relazione umana
modificaNella sua risposta all'assalto nazista alle relazioni umane, Elie Wiesel trasmette attraverso la narrazione i ritratti e le anime che incarnano il lascito ebraico, narrazione senza la quale non esiste né un Perché né una relazione. Trasmettendo i ritratti, Wiesel coinvolge i suoi ascoltatori e i suoi lettori in un dialogo, in un parlare che è un relazionarsi. Nota bene: il Perché che sostiene la vita dell'anima emerge non da un qualche trattato filosofico o teologico ma dal racconto. La posta in gioco nella trasmissione di questi ritratti e racconti da parte di Wiesel può essere trovata in una storia chassidica, che Wiesel riferisce come epigrafe al suo romanzo Les Portes de la forêt.
Secondo la storia, ogni volta che una calamità minacciava la comunità ebraica, il Baal Shem Tov si recava in un posto speciale nella foresta, accendeva un fuoco in un modo particolare e recitava una preghiera speciale. E la comunità veniva salvata. Una generazione dopo, il compito ricadde sul discepolo del Baal Shem, Dov Ber, il Maggid di Mezeritch. Anche lui andava in quel posto nella foresta. Tuttavia, non sapeva come accendere il fuoco. Ma conosceva la preghiera e questo bastava. Dopo il Maggid venne Rabbi Moshe Leib di Sasov. Quando una catastrofe minacciava gli ebrei, Moshe cercava quel posto nella foresta, ma non conosceva né il rituale del fuoco né la preghiera corretta. Eppure era sufficiente. Alla fine, la responsabilità ricadde su Rabbi Yisrael di Rizhin, che rimase come paralizzato nel suo studio, sussurrando: "Oh, Signore, Re dell'Universo! Il segreto del rituale del fuoco del Baal Shem e la sua preghiera per la salvezza sono da tempo dimenticati. Sono qui, incapace perfino di trovare quel posto nella foresta. Tutto quello che posso fare è raccontare la storia. E questo deve bastare!" E così è stato.
Gershom Scholem ritiene che questo sia un racconto sul declino dei maestri chassidici da una generazione a quella successiva.[21] Non è così per Elie Wiesel: per lui, come sottolinea Nehemia Polen, "il maestro resta centrale".[22] Sarà ora sufficiente trasmettere il racconto? Basterà affidarci i ritratti dei saggi e dei patriarchi affinché possiamo raccontarli? Qui sta la fede disperata contro la fede, la speranza contro la speranza, di Elie Wiesel e della sua eredità chassidica. Fede in cosa e speranza in cosa? Nel rapporto umano, senza il quale non può esserci né fede né speranza. La fede non consiste nel credere in Dio ma nell'abbracciare l'altro essere umano. La speranza non è aspettare che qualcosa arrivi, ma dichiarare "Eccomi" in un movimento verso l'altro essere umano. Il Chi preso di mira per l'annientamento nell'assalto all'anima da parte dei nazisti non si trovava nei recessi più interni della psiche ma nello spazio intermedio della relazione uomo-uomo, che è essenziale per la relazione uomo-divino. Quindi le due tavole dell'Alleanza significano la relazione ben adam leMakom (tra umano e Dio) e ben adam lehevero (tra umano e prossimo). Entrambi i rapporti, che in realtà sono uno solo, subiscono un assalto definitivo e radicale nell'antimondo. Ne La Nuit di Wiesel abbiamo una delle battute più agghiaccianti tra tutte le testimonianze emerse dal Regno della Notte: "Qui non c'è padre che tenga, né fratello, né amico. Ognuno vive e muore per sé, solo".[23] Primo Levi fornisce una elaborazione breve ma profondamente potente su questo solo: "Ognuno è disperatamente e ferocemente solo".[24] Sì, ferocemente solo in un universo privo di carità e compassione. Ferocemente solo come lo è Dio.
Subito comprendiamo a un livello più profondo la verità dell'affermazione divina secondo cui "non è bene che l'uomo sia solo (Genesi 2:18). Non puoi essere caritatevole o compassionevole da solo; nell'isolamento non può esserci pace, non può esserci shalom, perché non può esserci interezza, shalem, senza la relazione umana. Perché l'anima non vive dentro di noi ma tra di noi, nello spazio intermedio delle relazioni umane, dove l'anima respira.
"Proprio come l'uomo può raggiungere la sua verità ultima solo attraverso altri esseri umani", scrive Wiesel, "solo attraverso l'uomo Dio può unirsi alla Sua creazione. L'uomo ha bisogno che l'altro sia umano, proprio come Dio ha bisogno che l'uomo sia Dio".[25] In che modo, allora, un chassid trasmette il patrimonio millenario dell'insegnamento e della testimonianza ebraica? Attraverso la narrazione. E il chassid Elie Wiesel è soprattutto un narratore. È un cantastorie che ha il senso della posta in gioco di vita o di morte nel raccontare queste storie che ci trasformano in testimoni e messaggeri. È come il vecchio del suo romanzo Le Serment de Kolvillàg che salva un giovane deciso a suicidarsi raccontandogli una storia e trasformandolo così in un messaggero. Ascolta: "Gli trasmetterò la mia esperienza e lui, a sua volta, sarà costretto a fare lo stesso. A sua volta diventerà un messaggero. Diventato messaggero, non ha alternative. Deve rimanere in vita finché non avrà trasmesso il suo messaggio".[26] Ecco perché conoscere la storia deve essere sufficiente: Wiesel ci restituisce alla vita trasformandoci in messaggeri attraverso questi ritratti che sono fatti dei racconti dei Patriarchi e dei Profeti, dei racconti dei saggi e dei chassidim, gli stessi racconti che i nazisti cercarono di mettere a tacere nel loro attacco al significato e alla santità dell'umanità.
Come nel caso del vecchio che racconta la storia al giovane, Wiesel ci racconta i suoi racconti dei saggi, trasformandoci in messaggeri e allungandoci così un'ancora di salvezza. Dopo aver ascoltato il grido di questo narratore: "Eccomi", dobbiamo a nostra volta dichiarare: "Eccomi per te". Interpretando i ritratti di Elie Wiesel come una restaurazione della relazione umana all'indomani di un attacco radicale a tale relazione, li comprendiamo, se così si può dire, come una restaurazione della presenza divina. Ciò lo realizza attraverso la narrazione, attraverso ciò che nella tradizione ebraica è nota come Aggadah.
Ricordiamo il Sifre su Deuteronomio 11:22: "Vuoi riconoscere Colui che parlò e diede all'esistenza il mondo? Impara l'Aggadah perché in Aggadah troverai Dio". Dove incontriamo Aggadah? Nel volto che ci guarda dal profondo dei ritratti di Wiesel. Levinas dice: "Il volto parla. Parla, è in questo che rende possibile e dà inizio a ogni discorso".[27] Ciò ci riporta alla massima: poiché il volto parla, "il volto è ciò che ci vieta di uccidere".[28] I ritratti di Wiesel ci vietano di uccidere. Ci vietano di uccidere perché parlano: parlare è vietare l'omicidio. Parlare è relazionarsi; relazionarsi è raccontare una storia; e raccontare una storia significa vietare l'omicidio, a cominciare dall'auto-omicidio. Ancora una volta, nota bene: la forza del divieto di omicidio non si esercita nel trattato ma nel racconto, poiché il racconto – il ritratto – ci mette di fronte al volto da cui ha origine il divieto. Vuoi riconoscere il Santo, che nello sterminio dei Suoi testimoni è stato scelto per un annientamento unico? Impara i racconti aggadici che compaiono nei ritratti di Wiesel. In quei volti incontrerai – o ti scontrerai – con i volti dei morti che non sono morti, i volti di coloro che, mi disse una volta Wiesel, lo guardano da sopra le sue spalle ed esaminano ogni riga che scrive. Se guardano dalle sue spalle, ci guardano negli occhi. Disegnando i suoi ritratti, Wiesel ci mette faccia a faccia non solo con l'insegnamento ma anche con il maestro, le cui labbra si muovono mentre ripetiamo l'insegnamento uscito da quelle labbra.
Ritrattistica: la risposta chassidica di Elie Wiesel ad Auschwitz
modificaQuando si considera la questione della ritrattistica, ciò che di solito viene in mente è un'immagine visiva, spesso di ritratti famosi, sia in pittura che in fotografia, come la Gioconda di Leonardo da Vinci, Le Désespéré di Courbet o la fotografia "The Migrant Mother" di Ansel Adams. Molto spesso sono gli occhi la caratteristica più evidente del ritratto: ci seguono, ci interrogano, ci implorano. Guardando quegli occhi silenziosi cerchiamo il volto che ci guarda e incontriamo la verità che ci cerca. Il ritratto parla. Inoltre, il ritratto interroga: mentre scrutiamo quegli occhi, loro scrutano le nostre anime. Questo è ciò che rende i ritratti di Wiesel tanto inquietanti quanto edificanti.
I ritratti di Wiesel trasmettono una traccia della parola pronunciata, poiché si basano su discorsi e conferenze che tenne nel corso degli anni: c'è qualcosa di sorprendentemente uditivo in queste interpretazioni testuali. A dire il vero, quelli di noi che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo tenere un discorso possono sentire la sua voce levarsi da queste pagine cariche di memoria, di testimonianza e di fiamme di anime infuocate. Attraverso la voce del professor Wiesel, tramite la voce dei suoi ritratti, emerge una sorta di Torah Orale, che trasmette gli insegnamenti e la Torah dei saggi in modo tipicamente midrashico. Uno degli studenti di Wiesel, il noto studioso dell'Olocausto Alan Rosen, mi descrisse i ritratti di Wiesel come incontri tra il professor Wiesel e il soggetto del suo ritratto, un dire "Hineni: Eccomi" rivolto al profeta, al saggio o al maestro chassidico: che si tratti di Geremia o del Kotzker Rebbe, Wiesel impegna una voce viva in un dialogo vivente. Ciò che incontriamo in questi ritratti non può essere oggetto di analisi. Piuttosto, c'è uno spazio intermedio che si apre quando Wiesel si rivolge al suo pubblico. In quello spazio intermedio l'anima nel ritratto respira. E da quel respiro si sviluppa una storia.
I ritratti di Wiesel sono imbevuti di quella che Emil Fackenheim chiama "midrashic madness". Spiega: "If sanity is not of the spirit only, but rather contact with the world (and with God in and through the world), then such sanity, when the world is Auschwitz, is destroyed by madness. And if sanity consists of flight from the world (and to gods who have themselves fled from the world), then such flight, when the world is the Nazi holocaust, is necessary if even a shred of sanity is to remain".[29] Fackenheim racconta una storia che ha sentito da Elie Wiesel. Si tratta di un gruppo di ebrei che si erano riuniti per pregare in una città dell'Europa nazista. All’improvviso un pio ebreo, muovendosi furtivo di ombra in ombra per le strade della città, irrompe dalla porta e, in un forte sussurro, dice: "Shhhh, ebrei! Non pregate così forte! Dio vi ascolterà! Allora saprà che ci sono ancora alcuni ebrei vivi in Europa!"[30] Si vede la follia in questo racconto midrashico. Dopo Auschwitz l'unico modo per restare sani di mente è impazzire. Ma è proprio qui che entra in gioco il Midrash. Non solo il pazzo apparteneva al mondo di Wiesel, ma lo spettro del pazzo, come mi disse una volta, infestava tutti i suoi scritti. In questi ritratti si avverte in Wiesel un folle desiderio di ballare, che tra i chassidim è un folle desiderio di pregare. Lì sta una chiave nella ritrattistica di Wiesel: è una forma di preghiera — e di danza. Reb Leib, il figlio del Grande Maggid, una volta dichiarò ai suoi chassidim: "La tua danza conta più delle mie preghiere".[31] Wiesel non solo dà voce a questi ritratti, ma li fa danzare.
Si inizia a capire perché Wiesel si rivolge alla ritrattistica non solo come risposta all'assalto nazista all'anima, ma anche come mezzo per trasmettere un'eredità tipicamente chassidica. A dire il vero, i primi ritratti di Wiesel dati nelle sue presentazioni alla 92nd Street Y negli anni ’60 e ’70 erano di Maestri chassidici, e il metodo di trasmissione tramite quei ritratti è ciò che rende la sua eredità allo stesso tempo chassidica e completamente ebraica. Dice Wiesel, il Chassid Vizhnitzer: "Nella nostra tradizione un essere umano è definito soprattutto dai suoi legami con altri esseri umani. Importa solo il faccia a faccia con l'altro; solo la vita dell'altro è la misura di una vita, e non la morte che ci attende o ci ha preceduto".[32] I ritratti di Wiesel ci trascinano in questo faccia a faccia. Il grande saggio del Talmud, Rabbi Akiva, sostiene che l'umanità e la dignità dell'essere umano si rivelano nel volto; nel volto, sosteneva, sta l'immagine del Santo,[33] e nell'immagine del Santo sta l'esigenza del santo.
Attraverso i ritratti di Wiesel incontriamo non solo i volti degli individui unici della tradizione ebraica, ma anche il significato del volto in quanto tale – e quindi il significato della sua ritrattistica in quanto tale. Poiché il volto in quanto tale significa santità, dice Levinas, "il volto è significazione, e significazione senza contesto. Voglio dire che l'Altro, nella rettitudine del suo volto, non è un personaggio inserito in un contesto. Ordinariamente,... il significato di qualcosa è nella sua relazione con un'altra cosa. Qui, al contrario, il volto ha significato tutto da solo".[34] Infatti, senza questo significato fuori contesto, senza questo assoluto, che entra in questo mondo attraverso l'anima incarnata nella carne e nel sangue del volto, questo mondo non ha senso; è semplicemente lì, muto e indifferente. Solo il volto dell'altro essere umano può penetrare questa muta indifferenza. Poiché il volto ha significato senza contesto, conferisce significato a ogni contesto, a ogni istanza della relazione umana. Nei ritratti di Wiesel incontriamo un significato al di là del contesto. Incontriamo ciò che conferisce significato a qualsiasi contesto. Incontriamo – o entriamo in collisione con – il Chi oltre il Cosa.
Quando riceviamo i ritratti che Wiesel ci pone davanti, siamo chiamati a una responsabilità etica infinita che nessun altro può affrontare, richiamata non solo dalla memoria ma anche dall'immemorabile, che è la sostanza della memoria, perché convoca e santifica tutto ciò che può essere ricordato. Se, come hanno detto sia Elie Wiesel che Primo Levi, la Shoah è stata una guerra contro la memoria,[35] è stata una guerra contro Dio e il Bene rivelato dal volto, Dio e il Bene che ci sceglie prima di ogni scelta che facciamo e che quindi rendiamo importanti le nostre scelte. Questo prima di, questo già sempre, è l'immemorabile trasmesso attraverso l’opposizione di Wiesel alla guerra contro la memoria e la restaurazione dell'esigenza etica trascendente. La sua arma? La ritrattistica.
I ritratti di Wiesel ci coinvolgono profondamente, non solo nei confronti dei vivi e di coloro che non sono ancora nati, ma anche nei confronti dei morti, quelli relegati al ricordo o all'oblio. Se non abbiamo alcuna responsabilità etica verso i morti, allora non abbiamo alcuna responsabilità etica verso i vivi. Ecco perché i nazisti derubarono gli ebrei dei loro morti, così come derubarono gli ebrei della loro morte, come ha detto Wiesel: "La mia generazione è stata derubata di tutto, anche dei nostri cimiteri".[36] Il cielo si trasformò in un cimitero, il cielo in cui giace la potenza dell'Infinito, come è scritto (Salmi 68:34). Privati dei loro cimiteri, dove giacciono? Wiesel una volta disse: "Noi siamo i loro cimiteri".[37] Altrove grida: "Io non sono la tomba di nessuno!"[38] Dove giacciono dunque queste anime? Dove dimorano? Nei ritratti di Wiesel.
Nei suoi ritratti di queste anime in fiamme incontriamo l'anima dell'altro e la nostra anima, l'altro che è la nostra anima, come ha detto Levinas: "The soul is the other in me".[39] L'anima è la Torah in me. L'anima è il grido dell'altro che mi invade e disturba il mio sonno. Sì, è proprio così: invitandoci all'incontro con questi ritratti, il grido di Wiesel "Hineni – Eccomi" ci porta una speranza di redenzione disturbando il nostro sonno. Dall'interno della sua dichiarazione "Eccomi" una domanda – o una supplica – ci individua, come ha individuato il primo essere umano: "Ayekah? – Dove sei?" (Genesi 3:9). Attraverso i suoi ritratti dei saggi della tradizione ebraica Elie Wiesel, maestro e saggio, accende l'anima in noi scuotendoci dal nostro sonno insidioso. I ritratti di Wiesel evocano in noi la risposta "Eccomi". E "il soggetto che dice ‘Eccomi’", asserisce Levinas, "testimonia l’Infinito",[40] testimonia cioè una responsabilità infinita verso e per Colui che gli è infinitamente caro. Nei ritratti dei nostri saggi e insegnanti fatti da Wiesel, l’infinito e il finito si fondono in una voce imponente. Pertanto non esiste una lettura innocente dei ritratti di Wiesel e non è possibile incontrarli senza esserne implicati.
Levinas una volta disse che "gli attributi di Dio non si danno all'indicativo, ma all'imperativo. La conoscenza di Dio arriva a noi come un comandamento, come una Mitzvah. Conoscere Dio è sapere cosa bisogna fare".[41] Allo stesso modo, conoscere il testimone e messaggero di Dio, Elie Wiesel, significa sapere ciò che ci è stato comandato di fare e quindi cosa deve essere fatto. Mentre Wiesel abbozza i suoi ritratti, sentiamo parlare i profeti e i saggi: originato dalla voce e non dall'inchiostro, ciò che egli abbozza non è tanto un'immagine visiva quanto una voce, attraverso la quale risuona un appello imponente, derivante non solo dalla millenaria tradizione ebraica ma anche dalle ceneri dell'antimondo che ormai inghiottiscono il nostro stesso mondo. Perché qui ci troviamo davanti ai volti dei nostri insegnanti, ci troviamo davanti ai volti delle nostre madri e dei nostri padri, come sottolinea Wiesel nel suo ritratto di Rashi.[42] L'amore con cui Wiesel li ritrae è un amore non solo per questi maestri le cui voci ci giungono nel corso dei secoli; è anche amore per i suoi ascoltatori e per i suoi lettori, che sono i suoi studenti, che Wiesel amava come un padre ama i suoi figli. E così arriviamo al segreto della ritrattistica di Wiesel: esplorando i suoi ritratti dei Patriarchi e dei Profeti, dei saggi talmudici e dei maestri chassidici, scopriamo un ritratto profondo e vivo dello stesso Elie Wiesel mentre si dipana nel suo amore per l'altro essere umano. Questo è ciò che spero emergerà dalle pagine che seguono.
Note
modificaPer approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna. |
- ↑ Elie Wiesel e Josy Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête (Parigi: Fayard-Verdier, 1986), 11; tutte le traduzioni di questo testo sono mie.
- ↑ Cfr. Wiesel, Tous les fleuves vont à la mer, anche (EN) All Rivers Run to the Sea, 11–13.
- ↑ Wiesel, 60.
- ↑ Elie Wiesel, Entre deux soleils, anche One Generation After, trad. (EN) Lily Edelman e Elie Wiesel (New York: Pocket, 1970), 51.
- ↑ Elie Wiesel, Sages and Dreamers: Biblical, Talmudic, and Hasidic Portraits and Legends, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Summit, 1991), 17.
- ↑ Wiesel, Against Silence, 1:239.
- ↑ Abraham Joshua Heschel, The Prophets (New York: Harper & Row, 1975), 2:267.
- ↑ Elie Wiesel, Le mal et l'exil: 10 ans après, cfr. anche Evil and Exile, trad. (EN) Jon Rothschild (Notre Dame, IN: University of Notre Dame Press, 1990), 159–60.
- ↑ Emmanuel Levinas, "Dialogue with Emmanuel Levinas", in Richard A. Cohen, cur., Face to Face with Levinas (Albany: State University of New York Press, 1986), 23.
- ↑ Cfr. Nahmanide, Commentario alla Torah, 1:112.
- ↑ Cfr. Milton Aron, Ideas and Ideals of the Hassidim (Secaucus, NJ: Citadel, 1969), 104.
- ↑ Primo Levi, Se questo è un uomo, 29.
- ↑ André Neher, The Exile of the Word: From the Silence of the Bible to the Silence of Auschwitz, trad. David Maisel (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1981), 141.
- ↑ Neher, Exile of the Word, 63.
- ↑ Ka-tzetnik 135633, Shivitti: A Vision, trad. (EN) Eliyah De-Nur e Lisa Herman (New York: Harper & Row, 1989), 158.
- ↑ Wiesel, (IT) La Notte, 39; mio corsivo.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 23.
- ↑ Emmanuel Levinas, Ethics and Infinity, trad. Richard A. Cohen (Pittsburgh, PA: Duquesne University Press, 1985), 48–49.
- ↑ Emmanuel Levinas, Time and the Other, trad. Richard A. Cohen (Pittsburgh, PA: Duquesne University Press, 1987), 77.
- ↑ Wiesel, Entre deux soleils (One Generation After), 72–73.
- ↑ Gershom Scholem, Major Trends in Jewish Mysticism (New York: Schocken, 1974), 349–50.
- ↑ Nehemia Polen, "Yearning for Sacred Place: Wiesel’s Hasidic Tales and Postwar Hasidism", in Elie Wiesel: Jewish, Literary, and Moral Perspectives, ed. Alan Rosen e Steven T. Katz (Bloomington: Indiana University Press, 2013), 74–75.
- ↑ Wiesel, La Notte, 107.
- ↑ Levi, Se questo è un uomo, 88.
- ↑ Elie Wiesel, From the Kingdom of Memory: Reminiscences (New York: Summit, 1990), 62.
- ↑ Elie Wiesel, Le Serment de Kolvillàg, cfr. anche la trad. (EN) The Oath (New York: Avon, 1973), 42.
- ↑ Levinas, Ethics and Infinity, 87.
- ↑ Levinas, 86.
- ↑ Emil L. Fackenheim, God’s Presence in History (New York: Harper & Row, 1970), 68–69.
- ↑ Fackenheim, God’s Presence, 67.
- ↑ Wiesel, Souls on Fire, 46.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 69.
- ↑ Cfr. Louis Finkelstein, Akiba: Scholar, Saint and Martyr (New York: Atheneum, 1981), 103.
- ↑ Levinas, Ethics and Infinity, 86–87; mio corsivo.
- ↑ Cfr. Wiesel, Le mal et l'exil: 10 ans après, anche (EN) Evil and Exile, 155; e Primo Levi, I sommersi e i salvati, anche trad. (EN) The Drowned and the Saved, cur. Raymond Rosenthal (New York: Vintage, 1988), 31.
- ↑ Wiesel, Legends of Our Time (New York: Avon, 1968), 25.
- ↑ Wiesel, Against Silence, 1:168.
- ↑ Wiesel, From the Kingdom of Memory, 209.
- ↑ Emmanuel Levinas, Otherwise than Being or Beyond Essence, trad. (EN) Alphonso Lingis (The Hague: Martinus Nijhoff, 1981), 193.
- ↑ Levinas, Ethics and Infinity, 106.
- ↑ Emmanuel Levinas, Difficult Freedom: Essays on Judaism, trad. (EN) Sean Hand (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1990), 17.
- ↑ Wiesel, Rashi: A Portrait, trad. (EN) Catherine Temerson (New York: Schocken, 2009), 67.