Il Chassidismo di Elie Wiesel/Capitolo 1

Indice del libro
Ingrandisci
Scultura raffigurante l'Ebraismo chassidico (1730-oggi) sulla Menorah del Knesset

Dove stiamo andando? Dimmi. Lo sai?

Non lo so, bambina mia.

Ho paura. È sbagliato, dimmi, è sbagliato aver paura?

Non so. Non credo.

In tutta la mia vita non ho mai avuto tanta paura.

Mai...

Dimmi, lo sai? Dove stiamo andando?

Fino alla fine del mondo, bambina. Stiamo andando alla fine del mondo.

È così lontano?

No, non proprio.

Vedi, sono davvero stanca. È sbagliato, dimmi, è sbagliato essere così stanca?

Sono tutti stanchi, bambina mia.

Anche Dio?

Non lo so. GlieLo chiederai tu stessa.

—Elie Wiesel, Un Juif aujourd’hui[1]

Un lascito chassidico post-Olocausto

modifica
  Per approfondire, vedi Ebraismo chassidico.
 
"Ebreo in preghiera" di Antoni Kozakiewicz (1882)
  Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Chassidut, Chassidismo, Chassidei Ashkenaz, Cabala ebraica, Cabalisti ebrei e Testi cabalistici primari.

Un lascito non è solo qualcosa che conserviamo nella mente. È un'eredità, un qualcosa che riceviamo nel cuore e nell'anima. Lo abbracciamo nelle nostre parole e nelle nostre azioni. Lo teniamo tra le braccia e tra le mani, come un bambino stanco che chiede se anche Dio è stanco. L'amico di Elie Wiesel, Nikos Kazantzakis, una volta commentò che forse Dio non è così onnipotente, dopotutto, ma è indifeso come un bambino — e se non Lo salviamo, morirà: "Non può essere salvato a meno che non Lo salviamo noi con la nostra lotta; né possiamo essere salvati noi a meno che Egli non sia salvato".[2] Quindi capiamo cosa è in gioco nel ricevere l'eredità chassidica di Wiesel, perché è proprio una lotta di questo tipo. Ed è fragile quanto il Dio in pericolo, che è stanco come un bambino.

Per acquisire un senso del contesto post-Olocausto dell'eredità chassidica di Wiesel, ci rivolgiamo al maestro chassidico, Rabbi Kalonymos Kalmish Shapira, Rebbe del Ghetto di Varsavia, che fu assassinato dai nazisti nel campo di Trawnicki il 3 novembre 1943. Il 14 febbraio 1942, scrisse: "Un ebreo, torturato nella sua sofferenza, può pensare di essere l'unico a soffrire, come se il suo dolore personale e il dolore di tutti gli altri ebrei non avessero alcun effetto nell'Alto, Dio non voglia. Ma... apprendiamo dal Talmud (Chagigah 15b; Sanhedrin 46a)... Dio, veramente, soffre con un ebreo molto più di quanto quella persona stessa senta".[3] Mentre Rabbi Yose "udiva una Voce Divina come il tubare di una colomba" sulle rovine del Tempio, il Rebbe continua dicendo, "sappiamo da Geremia 25:30 che ‘Dio ruggisce dall'alto, ululando sulla Sua città’".[4] Tuttavia il Midrash ci dice che Dio siede in silenzio sulla Sua città (Eykhah Rabbah 1:1:1). Perché in silenzio? Perché, come disse una volta il maestro chassidico Menahem-Mendl di Kotzk, il grido che tratteniamo è più potente.[5] Se "Dio è silenzio", come dichiara Wiesel,[6] in un mondo post-Olocausto il Suo è il silenzio di un urlo silente. Perché ci sono momenti in cui, come il bambino di cinque anni Joël le Rouge in Un Juif aujourd’hui di Wiesel,[7] come la piccola Hanna nel suo dramma Le Procès de Shamgorod,[8] anche Dio grida senza un suono. Come ruggisce allora Dio? Ruggisce non solo attraverso le urla di "Mamma!" che risuonano nei campi e nei ghetti, urla che minacciano di minare il tessuto stesso della creazione, ma anche attraverso il sussurro di una bambina che, come un chassid che grida una preghiera silenziosa, vuole sapere se anche Dio è stanco.

Elie Wiesel inizia la sua testimonianza in La Nuit con un riferimento a una "casa di preghiera chassidica".[9] La sua eredità chassidica è quella della preghiera, senza la quale rimaniamo completamente senza casa. Queste parole, infatti, incarnano gli obiettivi primari del progetto nazista di annientare l'insegnamento e la tradizione del popolo ebraico e con esso dei chassidim dell'Europa orientale. "La maggior parte delle vittime che salirono sull'altare in fiamme erano chassidim: loro e gli assassini non potevano coesistere sotto lo stesso cielo", attesta Wiesel.[10] E così gli assassini trasformarono il cielo in un cimitero. "Per lo chassidismo", come hanno detto David Biale e altri, "l’Olocausto ha significato la decimazione".[11] Significava la decimazione di tutto ciò che significa la parola chassid.

Per quanto riguarda la casa, si ricorda che prima di annientare gli ebrei d'Europa i nazisti li rendevano senzatetto, e ogni ebreo sotto l'occupazione nazista prima o poi veniva internato in un campo, in un ghetto o rifugiato in un nascondiglio. In effetti, la casa o la bayit è all'origine della Torah e della creazione, poiché la Torah inizia con una beit, una bayit, che è una dimora. Quindi, il significato della creazione è dato nella prima lettera della creazione: è trasformare questo reame in una dimora per il Santo. Come? Tramite la Torah, la preghiera e gli atti di amorevole gentilezza, come è scritto (Pirke Avot 1:2). Così i nazisti proibirono lo studio della Torah,[12] considerarono la preghiera un atto di sabotaggio,[13] e punirono chiunque rivolgesse anche solo una parola gentile a un ebreo.[14]

Ed è una casa di preghiera, di tefillah. Nell'ebraismo tefillah non è semplicemente supplica o petizione. È anche resa dei conti, confronto e lotta, come suggerisce l'affine naftolin. La casa di preghiera chassidica è una casa di confronto, come quando il gabbai in uno dei racconti di Wiesel correva alla sinagoga e dichiarava: "Signore dell’Universo! Io sono qui... ma Tu dove sei?"[15] Assumendo la modalità di preghiera, come egli stesso ha affermato,[16] gli scritti di Wiesel inquadrano proprio un simile momento di resa dei conti e di confronto. Senza questa casa di confronto, non è possibile esistere in un mondo post-Olocausto. Perché? Perché senza questa preghiera, questa tefillah, non c'è resa dei conti – e qui sta il vero orrore, l'orrore a cui Wiesel risponde: dove il mondo post-Olocausto è svuotato di preghiera, è anche svuotato del redde rationem, sia per Dio che per l'umanità. Il problema che ci affligge nel nostro tempo, mi disse una volta Wiesel, è che non sappiamo più pregare. "La mia vita?" chiede Wiesel. E risponde: "Continuo a respirare di minuto in minuto, di preghiera in preghiera".[17] Proprio così, quelli di noi che sono eredi del patrimonio di questo cantastorie chassidico, sono chiamati al compito a cui il maestro chassidico Nachman di Breslov chiamò i suoi eredi: "Trasformate i miei racconti in preghiere".[18] Dobbiamo dunque continuare a respirare, di racconto in racconto, di preghiera in preghiera, di confronto in confronto.

Alcuni gruppi di ebrei particolarmente pii sono conosciuti da secoli come chassidim. Un testo antico quanto il Salmi 149, ad esempio, si apre con un appello all'"assemblea dei chassidim" a "cantare a HaShem un canto nuovo e la Sua lode" (Salmi 149:1). Il Talmud, inoltre, invoca i chassidim ha-Rishonim (Nedarim 10a; cfr. anche Mishnah Berakhot 5:1), i "primi dei pii", che andarono ben oltre i requisiti dei comandamenti per mostrare il loro amore verso Dio e il prossimo; infatti, Rabbi Meir considerava Adamo, il primo essere umano, come il primo degli antichi chassidim (Eruvin 18b). Tra i testi più famosi del XIII secolo vi è il Sefer Hasidim attribuito a Judah ben Samuel di Ratisbona, noto come Yehuda HeHasid: è una raccolta di racconti e insegnamenti dei Chassidei Ashkenaz, o i "Pii della Germania".[19] Nel diciassettesimo secolo, in seguito all'avvento della Cabala lurianica, si trovano altri esempi dell'uso del termine chassid; nei suoi commenti allo Shulchan Arukh Ha-Ari, una versione cabalistica del Codice di Legge Ebraica, per esempio, Jacob ben Hayyim Zemah sostiene che solo chi agisce alla maniera dei Pii, dei chassidim, può avere accesso alla la saggezza nascosta.[20] Quando il chassidismo arrivò nell'Europa orientale, quindi, il concetto aveva i suoi precedenti.

Tuttavia bisogna chiedersi: cosa significa "chassidico"? In che modo gli ebrei chassidici sono diversi dagli altri ebrei? A cosa aderiscono? Da un lato, in parole povere, gli ebrei chassidici abbracciano completamente le osservanze tradizionali dell'ebraismo, ma con una dose di misticismo per informare la mente e infiammare l'anima. Infatti, come sottolinea Moshe Idel, sia Martin Buber che Gershom Scholem consideravano il misticismo ebraico come un "ponte tra la tradizione ebraica e l'ebraismo del presente",[21] un ponte che si ottiene quando altri ponti sono stati bruciati. Il lascito chassidico di Elie Wiesel – un'eredità che ha la sua dimensione mistica – potrebbe anche aiutare a costruire un ponte tra un recente passato catastrofico e un imminente futuro ebraico. Dice Idel: "Solo la coesistenza nell'ebraismo di una varietà di paradigmi mistici può spiegare come il chassidismo sia stato in grado di rimettere in circolazione tutta una serie di concetti mistici chiave che erano marginali o assenti sia dal lurianesimo che dal sabbataismo",[22] che erano tra i movimenti mistici e messianici dei secoli XVI e XVII. Una categoria ereditata dalla Cabala lurianica abbracciata dai chassidim, compreso il Baal Shem Tov, era il gilgul, o reincarnazione; infatti, il Baal Shem si dichiarò una reincarnazione del grande saggio del X secolo, Saadya Gaon.[23] Due concetti chiave nel chassidismo, tuttavia, che sono assenti nel lurianesimo sono devekut, o "aggrapparsi" strettamente a Dio in tutte le cose, e hitbodedut, che è un ritiro nella "solitudine", non per cercare una rimozione dalle relazioni umane ma per ritornare a tali relazioni con ancor maggiore intensità e devozione, per il bene di una relazione più elevata.[24] Per lo chassidismo, come per l'ebraismo, non esiste relazione superiore senza relazione umana, non esiste bein adam leMakom senza il bein adam lehevero.

Il chassidismo moderno sorse in Transilvania con l'arrivo di Israel ben Eliezer (ישראל בן אליעזר) di Medzhibozh (1700–1760), meglio conosciuto come Baal Shem Tov (il "Maestro del Buon Nome"). Nato nella città di Okopy, apparve all'indomani dei massacri di Chmielnicki del 1648-1649, avvenuti in Ucraina durante una rivolta tra cristiani cattolici e ortodossi che provocò la morte di centomila ebrei, circa il 90% dei quali ebrei ucraini. Quel massacro fu seguito dal trauma della débâcle del falso Messia Sabbatai Zevi (1626–1676), che aveva ingannato diverse migliaia di ebrei inducendoli a seguirlo in Terra Santa, solo per convertirsi all'Islam quando tutti furono arrestati dai turchi. Martin Buber e Gershom Scholem ritengono che queste catastrofi abbiano avuto un ruolo significativo nell'aprire la strada all'ascesa del chassidismo.[25] Idel, tuttavia, ritiene che Scholem e Buber possano aver sopravvalutato l'influenza della disfatta sabbatea,[26] poiché tali disastri avrebbero potuto benissimo costituire un ostacolo a qualsiasi nuova promessa. Poiché nessuno era sicuro di cosa pensare di lui, il Baal Shem suscitò tali sospetti.

Rachel Elior approfondisce l'origine di questi sospetti nel mondo ebraico, poiché il Baal Shem entrò in scena solo una generazione prima di Jacob Frank (1726–1791), che fu profondamente influenzato da Sabbatai Zevi. Lo scandalo del Frankismo giunse al culmine nel 1759, quando lui e i suoi seguaci si convertirono al cristianesimo. I chassidim, spiega Elior, furono perseguitati e scomunicati per la loro presunta associazione con il sabbataismo frankista, "even though their outlook and way of life were very different from those of the Shabateans. The error is easily explained by the proximity of time, place, and sources of inspiration. The traditional communal leadership feared any divergent organization, and any attempt to replace the established ritual practices of Ashkenaz with kabbalistic liturgies and rites".[27] In realtà i loro timori erano infondati.

Elior nota un'antica tradizione chassidica riguardante la relazione tra sabbataismo e chassidismo:

« The Baal Shem Tov... related that Shabetai Tsevi came to him and sought rectification [tikun] and he said... that tikun is to become bound up together soul and spirit. So he [the Baal Shem Tov] began to connect himself to him—carefully, for he was afraid, for he [Shabetai Tsevi] was a great evildoer. Once the Baal Shem Tov was asleep and Shabetai Tsevi, may his name be obliterated, came to the Baal Shem Tov in his sleep and tempted him to apostatize, God forbid, and he threw him down with a mighty throw until he fell into the deepest Sheol.[28] »

A differenza di Frank, Elior aggiunge:

« the Baal Shem Tov did not cut his followers off from the traditional world. He did not demand secrecy, blind obedience, or submissiveness, and he did not offer his followers a future beyond the limits of human comprehension. Instead he sought to illuminate existence in this world in the light of the divine spirit, which is apparent to all who want to see it and dispels the enigma of being. In the reality he posited, the state of human being is enlightened by the all-embracing divine being, which he conceptualized as the abundant effusion of hesed, divine joy, and sanctity.[29] »

Il Baal Shem era così addolorato per la presunta associazione tra i chassidim e gli sabbatei, dice Nachman di Breslov, che "dicono in nome del Baal Shem Tov che egli subì due perforazioni al cuore a causa dell'affare Shabetai Tsevi ed ecco perché morì" (Likutei Moharan, 1:207).

La maggior parte di ciò che sappiamo del Baal Shem Tov appartiene alla tradizione chassidica. Si dice, ad esempio, che abbia ricevuto la "Saggezza Nascosta" dal grande mistico Rabbi Adam Baal Shem di Ropczyce, che scoprì un manoscritto contenente i segreti della Torah nascosto in una grotta; gli fu rivelato in sogno che avrebbe dovuto trasmettere i segreti a Israel ben Eliezer.[30] All'inizio il Baal Shem sottolineava l'immanenza della presenza di Dio nel mondo e insegnava le vie del devekut.[31] In breve tempo divenne noto per la sua saggezza, erudizione e rettitudine. Immanuel Etkes osserva: "the Besht’s abilities to combat supernatural entities was evident also in his efforts to heal the sick. In one story, the Besht cures a child on his deathbed by confronting the soul of the child and commanding it to return to its body".[32] Come ha notato Biale,[33] contrariamente ad alcuni resoconti leggendari, quando il Baal Shem arrivò a Medzhibozh – una città distrutta durante i massacri di Chmielnicki e ricostruita nel 1660[34] – negli anni Quaranta del Settecento era già conosciuto come un grande guaritore e mistico. Moshe Rosman rafforza questa visione.[35]

La potenza della presenza di Baal Shem, prima dell'avvento di qualsiasi -ismo, mise in moto una trasformazione di tutti coloro che lo incontrarono. Etkes ci ricorda che "the Besht did not regard himself as the leader of a movement, not only because in his day the Hasidic movement did not yet exist, or because it had never even occurred to him to found such a movement, but mainly because he perceived himself as bearing responsibility for the welfare of the Jewish people as a whole".[36] C'è quindi una categoria che definisce il movimento chassidico e l'eredità chassidica di Wiesel: la responsabilità che spetta a ciascuno per il bene di tutti. La popolarità del Baal Shem attirò il rimprovero da parte degli ebrei conosciuti come Mitnagdim, o gli "Oppositori", il principale tra i quali era il famoso Elijah ben Solomon Zalman, il Gaon di Vilna; credeva che i chassidim stessero diffondendo troppi insegnamenti esoterici tra troppe persone e troppo rapidamente. Biale sostiene, tuttavia, che il conflitto tra i Mitnagdim e i chassidim fu relativamente insignificante.[37] Tuttavia, ammette che, quando i chassidim celebrarono la morte del Gaon di Vilna nel 1797, la situazione assunse un'intensità senza precedenti.[38] Nel 1798, ad esempio, i Mitnagdim andarono dai russi e accusarono di spionaggio il rabbino Shneur Zalman di Liadi, fondatore della dinastia chassidica Chabad-Lubavitch.

Il Baal Shem attirò numerosi seguaci, sia dai segmenti elitari degli ebrei dell'Europa orientale che da quelli non così elitari di quel mondo. Figure chiave nella trasmissione della sua eredità furono Yaakov Yosef di Polonne e Dov Ber, il Maggid di Mezeritch. Attraverso questi leader emerse la persona dello zaddiq (צדיק), un "giusto", che è in grado di elevare tutto il suo seguito e di servire da ponte tra questo reame e i reami superiori. Questa particolare comprensione dello zaddiq, così come si è evoluta nel corso delle generazioni immediatamente successive all'avvento del Baal Shem Tov, è un'altra caratteristica distintiva del chassidismo.

Lo zaddiq, spiegano Biale e altri, "must bridge the chasm between himself and his followers by ‘descending to the people.’ He must periodically interrupt his state of communion with God and go down to the level of his followers in order to raise them up by joining himself to them... What, more precisely, is the relationship between tsaddik and Hasid? The tsaddik is obliged to take care of both the spiritual and material needs of his followers, while the Hasidim are obliged to believe in the powers of the tsaddik and consequently to ‘adhere’ to him".[39] È importante notare, aggiunge, che "the tsaddik is not a passive conduit between the upper and lower worlds. Instead, he is the quintessential expression of the movement in and out of the state of devekut".[40] Nota bene: lo zaddiq attira i suoi chassidim nei reami superiori non solo spiritualmente ma anche fisicamente. Questa visione "of the whole person of the addiq as a channel, and not only his soul", osserva Moshe Idel, può essere fatta risalire al tempo del grande mistico lurianico Moses Cordovero (1522–1570), se non prima.[41] Idel prosegue notando che non ci possono essere dubbi che i maestri chassidici avessero familiarità con il testo cabalistico più famoso di Cordovero, il Pardes Rimonim (פרדס רימונים‎), con gli scritti di Isaiah Horowitz (1555-1630) e con altri cabalisti, che spiegano questa nozione dello zaddiq come canale.[42] Nel XIX secolo si affermarono le dinastie chassidiche derivanti dagli zaddiqim, a seconda dei luoghi in cui vivevano i loro seguaci, come Belz, Bobova, Lubavitch, Bratzlav, Ger, Satmar (Szatmárnémeti) e Vizhnitz, il nome yiddish per Vyžnycja, una città nell'attuale Ucraina. È la dinastia di cui fu erede Elie Wiesel: si identificò sempre come un Chasid Vizhnitzer.

Per gli ebrei chassidici e per il patrimonio chassidico di Wiesel, la gratitudine e la gioia che poggiano sulla relazione sono fondamentali. Questo è un modo in cui lo chassidismo incarna l'ebraismo: nel suo accento sulla relazione, sul rapporto. "Che cos’è il chassidismo", scrive Wiesel, "se non la convinzione che l'uomo debba avere fede in Dio e nelle persone? Tu soffri? Prega Dio ma parla con il tuo amico.[43] Pochi di noi riescono a capire quanto siano straordinarie queste parole, provenienti da un chassid emerso dalla gola dell'antimondo. Fede in Dio? Fede nelle persone? Cosa possono significare queste parole nel periodo successivo ad Auschwitz? Eppure gli insegnamenti e le testimonianze ebraiche di Wiesel sono un tentativo di restituire significato a queste parole all'indomani di un attacco radicale al legame tra parola e significato. Il suo, infatti, è uno sforzo per restituire significato proprio alla stessa parola dopo. "Dopo?" ha scritto. "Hai detto: dopo? Cosa significa?"[44] Solo un lascito può restaurare un dopo.

E così arriviamo al dopo del lascito chassidico. Qui Arthur Green, con la sua nozione di neo-chassidismo, è di particolare aiuto. La Shoah è una lacerazione della vita così radicale e senza precedenti, dell’insegnamento, della tradizione e della testimonianza ebraica – compresi la vita e l'insegnamento dei chassidim – che dovremmo pensare all'eredità chassidica di Wiesel in termini di eredità neo-chassidica. Cosa significa neo-chassidico? Green spiega che "it is the notion that Hasidism has a message wider than the borders of the traditional Hasidic community, that Jews and others who do not live the lives of Hasidim and who have no intention of doing so might still be spiritually nourished by the stories, teachings, music of Hasidism—indeed by the telling of the narrative of Hasidic history itself".[45] Qui Green ha colto il significato di lascito, come anche l'innovazione che Wiesel apporta sia al chassidismo che all'ebraismo. Il patrimonio chassidico di Wiesel – la sua rivendicazione chassidica – è per tutta l'umanità, e non solo per il popolo ebraico, il pubblico tradizionale dei saggi chassidici. I nazisti cancellarono il mondo chassidico che era confinato nell'Europa orientale; Wiesel è il principale tra quei testimoni che estendono tale mondo al resto del mondo. In Le Mendiant de Jérusalem dà voce all'insegnamento racchiuso in questa universalità: "Arriva un tempo in cui non si può essere uomo senza assumere la condizione ebraica".[46] Dice Green: "If Wiesel offers the first significant retelling of the story of Hasidism after the Holocaust, it is because Wiesel's legacy is Hasidic through and through".[47] Per Wiesel, ebraico e chassidico (per non parlare di umano e chassidico) sono diventati praticamente la stessa cosa.

Una volta ripetei a Elie Wiesel una storia sul maestro chassidico Rabbi Uri di Strelisk, tratta dal suo libro Somewhere a Master. Secondo il racconto, ogni mattina Rabbi Uri salutava definitivamente la sua famiglia prima di recarsi alla sinagoga per le preghiere del mattino. Rabbi Uri era convinto che se fosse riuscito a raggiungere i reami superiori richiesti dalle preghiere, la sua anima avrebbe potuto non tornare in questo mondo.[48] Rendendomi conto che l'anima di Wiesel non sarebbe salita ma sarebbe discesa in reami pericolosi quando avesse accettato il compito di scrivere i suoi romanzi, gli chiesi: "Come sopravvivi scrivendo uno dei tuoi romanzi? Non ti avvicini all'orlo dell'abisso quando scandagli quelle profondità?" Lui mi rispose: "Sì. Scendo... da qualche parte. Ma ho le mie... misure di sicurezza. Le mie ancore di salvezza. Non scrivo mai un romanzo senza studiare o scrivere anche di qualcos'altro: la Bibbia, il Talmud, il Midrash, il chassidismo. Senza quell'ancora di salvezza, non potrei ritrovare la strada per tornare alla vita". Tale ancora di salvezza era fondamentalmente chassidica. Molte delle prime conferenze di Wiesel alla 92nd Street Y negli anni ’60 riguardavano i Maestri chassidici. La sua prima collezione di ritratti erano ritratti di Maestri chassidici. E pregava sempre secondo l'usanza dei chassidim di Vizhnitzer, proprio come pregava ad Auschwitz.

Il saggio talmudico Simeon ben Azzai sostiene che il più fondamentale di tutti gli insegnamenti ebraici – e quindi di tutti gli insegnamenti chassidici – è che tutti gli esseri umani hanno il loro inizio in un singolo essere umano (Talmud Yerushalmi, Nedarim 9:4; Bereshit Rabbah 24:7 ). Questo insegnamento contiene ciò a cui si riferisce Wiesel quando dice che "ad Auschwitz non morì solo l'uomo, ma anche l'idea dell’uomo".[49] Questo insegnamento ebraico fondamentale sarebbe diventato l'insegnamento più radicalmente opposto alla visione nazista su ciò che conferisce significato e valore all’altro essere umano. Perché Dio ha cominciato con un solo essere umano e non con due? I saggi dicono che era cosicché nessuno potesse dichiarare a un altro: "La mia parte di famiglia è migliore della tua parte di famiglia" (Tosefta Sanhedrin 8:4). C'è solo una parte di famiglia, il che significa che tutta l'umanità è interrelata, fisicamente attraverso Adamo, metafisicamente attraverso il Creatore, con tutte le esigenze etiche che derivano dall'essere parte di una famiglia. In effetti, il termine ebraico per "essere umano" è ben adam, "figlio/a di Adamo". Non esiste insegnamento più ostile all'affermazione fondamentale del nazionalsocialismo secondo cui non esiste alcuna connessione tra ariano e non-ariano e nessun obbligo etico di un essere umano verso l'altro. E questa richiesta etica è al centro del lascito chassidico di Wiesel.

Il Baal Shem non invocò una rinascita dello studio confinato ai circoli ristretti degli studiosi, né si rivolse all'ascetismo che era stato associato ai precedenti chassidim. Certo, il Baal Shem attirò nella sua cerchia uno dei suoi più stretti discepoli, Yaakov Yosef di Polonne, allontanandolo dall'ascetismo.[50] Piuttosto egli aprì le porte di Dio a chiunque fosse capace di gratitudine e di gioia, proprio in una tempo in cui tutti erano insensibili verso qualsiasi cosa di cui potessero essere grati o di cui potessero rallegrarsi. Il Baal Shem Tov, dice Wiesel, "insegnò loro a combattere la tristezza con la gioia. ‘L'uomo che guarda solo se stesso non può che sprofondare nella disperazione, ma appena aprirà gli occhi sulla creazione che lo circonda, conoscerà la gioia’. E questa gioia conduce all'assoluto, alla redenzione, a Dio; tale era la nuova verità definita dal Baal Shem".[51] Dato il loro contesto post-Olocausto, queste parole sono straordinarie quanto l'eredità post-Olocausto di Wiesel.

Altrettanto straordinaria è l'enfasi chassidica sulla gratitudine, che è anche una chiave per la redenzione. Dice Wiesel nel suo commento alla Haggadah pasquale: "Un ebreo si definisce per la sua capacità di gratitudine. Una volta fu chiesto a un filosofo ebreo: ‘Qual è il contrario del nichilismo?’ E lui rispose: ‘Dayenu’, la capacità di essere grati per ciò che abbiamo ricevuto, per ciò che siamo".[52] Il lascito chassidico di Wiesel ci dice che il percorso verso la redenzione, sia per Dio che per l'umanità, risiede nella gioia anche in mezzo alla disperazione, nella gratitudine anche quando abbiamo fame, e nella lotta con Dio.

Quando nell’Ani Maamin di Wiesel, Abramo, Isacco e Giacobbe confrontano il Santo con l'uccisione dei bambini, leggiamo: "Abramo, Isacco e Giacobbe se ne vanno rincuorati da un'altra speranza: i loro figli. Lasciano il cielo e non vedono, non possono vedere che non sono più soli: Dio li accompagna, piangendo, sorridendo, sussurrando: Nitzhuni banai, i miei figli mi hanno sconfitto, meritano la mia gratitudine. In tal modo parlò. E sta ancora parlando. La parola di Dio continua ad essere ascoltata. Così per il silenzio dei suoi figli morti".[53] Pertanto, proprio come la redenzione dell'umanità poggia sulla gratitudine umana, così anche la redenzione della Shekhinah poggia sulla gratitudine divina, anche in mezzo al silenzio dei suoi figli morti: gratitudine non per la loro immensa sofferenza ma per la verità che la loro la sofferenza conta, nonostante l'impossibilità di ricavarne un significato. Come dichiara il personaggio Gregor al Rebbe in Les Portes de la forêt: "Ti dico questo: se la loro morte non ha significato, allora è un insulto, e se ha un significato, lo è ancora di più".[54] La redenzione aperta dalla gioia, dalla gratitudine e dalla lotta con Dio, così come Dio lotta con Se Stesso, non avviene attraverso la sofferenza, ma piuttosto nonostante la sofferenza.

Se Auschwitz è centrale per il lascito post-Olocausto di Wiesel, Gerusalemme è centrale per la sua eredità chassidica. Il maestro chassidico "Rabbi Nachman di Breslov", riferisce Wiesel, "il cantastorie del chassidismo, amava dire che non importa dove camminasse, i suoi passi si dirigevano verso Gerusalemme".[55] Essendo il sito dove sorgeva il Tempio, Gerusalemme significa l'emanazione di Torah nel mondo, e Torah significa la santità della vita nel mondo. Il Midrash insegna che le finestre del Tempio erano progettate non per far entrare la luce ma per consentire alla luce della Torah di irradiarsi dal Tempio e verso il mondo (Tanhuma Tetzaveh 6). Pertanto il saggio Rabbi Yehoshua ben Levi del terzo secolo insegnò che il Tempio era una benedizione maggiore per le nazioni che non per Israele (Bamidbar Rabbah 1:3). Le nazioni, e non solo gli ebrei, non possono vivere senza Gerusalemme più di quanto non possano vivere senza Dio. Come uno zaddiq, Gerusalemme è per tutti un ponte tra questo reame e i reami superiori. "Lì sembra che sia adesso la città della mia infanzia", dice Wiesel, "lassù, in una Gerusalemme di fuoco, aggrappata ai ricordi eterni della notte".[56] Ecco perché il giovane Eliezer piangeva di notte per la distruzione di il Tempio,[57] anche se allora forse non lo sapeva: la città della sua infanzia sarebbe stata la Gerusalemme celeste di fuoco, appesa ai ricordi eterni di fuoco, di fiamme come non ce ne sono mai state.

"Come avrei potuto conciliare Auschwitz e Gerusalemme?" chiede Yedidyah, il personaggio principale di Le cas Sonderberg di Wiesel. "Il primo sarebbe semplicemente l'antitesi, l'antievento del secondo? Se Auschwitz è per sempre la domanda, Gerusalemme sarà per sempre la risposta? Da una parte l'oscurità dell'abisso, dall'altra la luce abbagliante dell'alba? A Birkenau e Treblinka il roveto ardente si è consumato, ma qui la fiamma continua a scaldare i cuori dei sognatori messianici".[58] Tra le fiamme della casa di preghiera chassidica consumata nell'Olocausto c'è un'altra fiamma, una fiamma che riscalda i cuori dei sognatori messianici. È la fiamma del patrimonio chassidico che Elie Wiesel ci ha lasciato in eredità attraverso i suoi ritratti dei Patriarchi e dei Profeti, come anche dei Saggi e dei Maestri. È un'eredità che riceviamo da un chassid che ama ebrei ed ebraismo e li celebra entrambi. I suoi primi due volumi di ritratti, infatti, furono delle celebrazioni: Celebration hassidique: portraits et legendes (1972) e Célébration biblique: Portraits et Legendes (1975).

Infine, per quanto riguarda il lascito chassidico di Elie Wiesel, dovremmo notare ancora una cosa sul suo approccio innovativo all'ebraismo. Wiesel capì che dopo l'Olocausto nulla rimaneva più come prima. "In principio ci fu l'Olocausto", afferma. "Dobbiamo quindi ricominciare tutto da capo".[59] Il chassidismo di Wiesel gli permette di ricominciare tutto da capo. Gli si apre l’eppure, che egli descrive come le sue "due parole preferite"[60] e che sono così cruciali per il suo approccio all'ebraismo all'indomani della Shoah. È un ebraismo che ci porta a mettere Dio sotto processo ma a fare una pausa per la Minchah, la preghiera del pomeriggio. È un ebraismo che ci porta a gridare Ayekah!? – Dove sei!? – a Dio in mezzo agli Hineni! – Eccomi per Te! – che Gli offriamo. È un ebraismo che rende possibile amare gli ebrei, amare Dio e celebrare entrambi all'indomani dell'impensabile.

Il suo chassidismo lo porta alla reintroduzione di un'altra categoria nei testi ebraici: il ritratto. La tradizione ebraica della ritrattistica è, da un certo punto di vista, antica. Esempi si possono trovare negli scritti di Flavio Giuseppe (37–100 EV),[61] di Tzena Ureina del 1590 (a volte chiamata la Bibbia delle Donne),[62] e nel MeAm Lo’ez di Yaakov Culi (morto nel 1732), come anche nella letteratura agiografica, vedi certe parti del Sefer HaKabbalah di Abraham ibn Daud (1110–1180),[63] i martirologi dell'epoca delle Crociate e parti dello Zohar. Altri includono il Sefer HaHezyonot,[64] che contiene i ritratti di Isaac Luria disegnati dal suo allievo Hayim Vital (1542-1620), così come lo Shivhei HaBesht compilato dal discepolo del Baal Shem, Dov Ber di Mezeritch.[65] Anche se esistono altri precedenti per la ritrattistica, come il volume di Hillel Zeitlin (1871–1942) su Nachman di Breslov,[66] il contesto post-Olocausto conferisce ai ritratti di Wiesel una dimensione senza precedenti. Inoltre, a differenza dei precedenti esempi di ritratti dei saggi, Wiesel usa la parola ritratto (portrait) nei titoli dei suoi scritti.

Tramite la sua ritrattistica, Wiesel fa emergere la carne e il sangue, il cuore e l'anima, e l'umanità stessa di questi uomini e donne che altrimenti si perderebbero negli insegnamenti e nelle tradizioni che ci lasciano in eredità. Perché il meser o "messaggio" trasmesso attraverso la mesorah o "tradizione", non sono semplicemente gli insegnamenti che appartengono a una dottrina; se questo fosse tutto ciò che l'ebraismo rappresenta, allora sarebbe andato perduto nella Shoah. No, il messaggio trasmesso attraverso la tradizione risiede nell’umanità dei nostri Maestri e non solo nei loro insegnamenti. Si trova nel significato stesso dell'umanità che è stata sottoposta ad un attacco radicale al tempo della Shoah. Consideriamo allora questa innovazione che Wiesel apporta all'ebraismo e che costituisce la sua eredità chassidica: il ritratto.

 
Elie Wiesel a 15 anni, 1943/44
  Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna.
  1. Elie Wiesel, Un Juif aujourd’hui (1977), mia traduzione. Cfr. anche John K. Roth, "Wiesel’s Contribution to a Christian Understanding of Judaism", in Alan Rosen e Steven T. Katz, curr., Elie Wiesel: Jewish, Literary, and Moral Perspectives, (Bloomington: Indiana University Press, 2013), 264.
  2. Nikos Kazantzakis, Ο Βραχόκηπος (Il giardino roccioso) mia trad. Cfr. anche (EN) The Rock Garden, Simon and Schuster, 1963, 105–6.
  3. Kalonymos Kalmish Shapira, Sacred Fire: Torah from the Years of Fury 1939–1942, mia trad. da (EN) quella di J. Hershy Worch, cur. Deborah Miller (Northvale, NJ: JasonAronson, 2000), 286–87.
  4. Shapira, Sacred Fire, 286–87.
  5. Elie Wiesel, Souls on Fire: Portraits and Legends of Hasidic Masters, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Vintage, 1973), 240.
  6. Elie Wiesel, Against Silence: The Voice and Vision of Elie Wiesel, ed. Irving Abrahamson, vol. 2 (New York: Holocaust Library, 1985), 60; cfr. anche Elie Wiesel, The Gates of the Forest, trad. (EN) France Frenaye (New York: Holt, Rinehart and Winston, 1966), 63.
  7. Wiesel, A Jew Today, 132.
  8. Elie Wiesel, The Trial of God, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Random House, 1979), 104.
  9. Elie Wiesel, Night, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Hill & Wang, 2006), 3.
  10. Elie Wiesel, Somewhere a Master: Hasidic Portraits and Legends, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Summit, 1982), 49–50.
  11. et al., Hasidism: A New History (Princeton, NJ: Princeton University Press, 2017), 652.
  12. Chaim A. Kaplan, Scroll of Agony: The Warsaw Diary of Chaim A. Kaplan, trad. (EN) e cur. Abraham I. Katsh (New York: Collier, 1973), 82.
  13. Kaplan, Scroll of Agony, 179.
  14. Victor Klemperer, I Will Bear Witness: A Diary of the Nazi Years,1942–1945, trad. (EN) Martin Chalmers (New York: Random House, 1999), 277.
  15. Elie Wiesel, One Generation After, trad. Lily Edelman e Elie Wiesel (New York: Pocket, 1970), 73.
  16. Elie Wiesel, Legends of Our Time (New York: Avon, 1968), 25.
  17. Elie Wiesel, Open Heart, trad. Marion Wiesel (New York: Alfred A. Knopf, 2012), 79.
  18. Wiesel, Souls on Fire, 173.
  19. Cfr. Ivan G. Marcus, "Sefer Hasidim" and the Ashkenazic Book in Medieval Europe (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2018).
  20. Cfr. il capitolo su Jacob ben Hayyim Zemah e il Shulchan Arukh Ha-Ari in Marvin J. Heller, The Seventeenth Century Hebrew Book: An Abridged Thesaurus, vol. 2 (Leiden, The Netherlands: Brill, 2011), 827ss.
  21. Moshe Idel, Hasidism: Between Ecstasy and Magic (Albany: State University of New York Press, 1956), 6.
  22. Idel, Hasidism, 10.
  23. Immanuel Etkes, The Besht: Magician, Mystic, and Leader, trad. (EN) Saadya Sternberg (Waltham, MA: Brandeis University Press, 2005), 50.
  24. Idel, Hasidism, 13–14.
  25. Cfr. il saggio di Martin Buber, "Spinoza, Shabbatai Zvi, and the Baal-Shem" nel suo libro The Origin and Meaning of Hasidism, trad. e cur. Maurice Friedman (New York: Harper & Row, 1960), 89–112; si veda anche il saggio di Gershom Scholem "Hasidism: The Latest Phase" nel suo libro Major Trends in Jewish Mysticism (New York: Schocken, 1974), 325–50.
  26. Idel, Hasidism, 10.
  27. Rachel Elior, Mystical Origins of Hasidism (Oxford: The Littman Library of Jewish Civilization, 2006), 180–81.
  28. Elior, 182–83.
  29. Elior, 186.
  30. Si veda per esempio, Dov Ber, In Praise of the Baal Shem Tov, trad. e cur. Dan Ben-Amos & Jerome R. Mintz (New York: Schocken, 1970), 13–17.
  31. Qui si deve notare, come specifica Immanuel Etkes, che "Yeshaya Tishbi, Gedaliah Nigal, Mendel Piekarz, Ada Rapoport-Albert, and others—all for their own reasons have rejected the notion that Hasidism transformed dvekut into a spiritual path that each and every Jews could access." cfr. Etkes, Besht, 3.
  32. Etkes, Besht, 53.
  33. Biale et al., Hasidism, 17.
  34. Moshe Rosman, Founder of Hasidism: A Quest for the Historical Ba’al Shem Tov (Berkeley: University of California Press, 1996), 69.
  35. Rosman, Founder, 82.
  36. Etkes, Besht, 79.
  37. Biale et al., Hasidism, 86.
  38. Biale, 93–99.
  39. Biale, 168.
  40. Biale, 169.
  41. Idel, Hasidism, 199.
  42. Idel, 202.
  43. Wiesel, mia trad. da (EN) Somewhere a Master, 110.
  44. Wiesel, Entre deux soleils, 72–73.
  45. Arthur Green, "Wiesel in the Context of Neo-Hasidism", in Rosen & Katz, curr., Elie Wiesel: Jewish, Literary, and Moral Perspectives, ed. (Bloomington: Indiana University Press, 2013), 51.
  46. Elie Wiesel, Le Mendiant de Jérusalem (1968); cfr. anche A Beggar in Jerusalem, trad. (EN) Lily Edelman e Elie Wiesel (New York: Random House, 1970), 77.
  47. Green, "Wiesel in the Context of Neo-Hasidism", 54.
  48. Wiesel, Somewhere a Master, 152–53.
  49. Wiesel, Legends of Our Time, 230.
  50. Biale et al., Hasidism, 174.
  51. Wiesel, Célébration hassidique (1972), cfr. trad. (EN) di Marion Wiesel, Souls on Fire, 26.
  52. Elie Wiesel e Mark Podwal, A Passover Haggadah: As Commented Upon by Elie Wiesel and Illustrated by Mark Podwal (New York: Simon & Schuster, 1993), 63.
  53. Elie Wiesel, Ani Maamin: un chant perdu et retrouvé, cfr. anche A Song Lost and Found Again, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Random House, 1973), 105, 107.
  54. Wiesel, Les Portes de la forêt - cfr. anche (EN) The Gates of the Forest, 197.
  55. Wiesel, A Beggar in Jerusalem, 12.
  56. Wiesel, Against Silence, 3:1.
  57. Wiesel, La Nuit, 3.
  58. Elie Wiesel, Le cas Sonderberg, cfr. anche (EN) The Sonderberg Case, trans. Catherine Temerson (New York:Alfred A. Knopf, 2010), 46–47.
  59. Wiesel, Against Silence, 1:206.
  60. Elie Wiesel, Tous les fleuves vont à la mer (1994), cfr. anche All Rivers Run to the Sea: Memoirs (New York: Alfred A. Knopf, 1996), 16.
  61. Cfr. Flavio Giuseppe, Tutte le opere.
  62. Cfr. Yaakov ben Yitzchak Ashkenazi, cur., Tz’enah Ur’enah: The Classic Anthology of Torah Lore and Midrashic Commentary (Brooklyn, NY: Mesorah, 1989).
  63. Cfr. Abraham Ibn Daud, The Book of Tradition, trad. (EN) Gershon D. Cohen (Philadelphia: Jewish Publicaitons Society, 2010).
  64. Cfr. Hayim Vital, Sefer HaHezyonot (Gerusalemme: Mekhon Ben-Tsevi, 2005).
  65. Cfr. Dov Ber, In Praise of the Baal Shem Tov, trad. (EN) e cur. Dan Ben-Amos e Jerome R. Mintz (New York: Schocken, 1970).
  66. Hillel Zeitlin, R. Nahman Braslaver: der zeer fun Podloye (New York: Matones 1952). Si dovrebbe forse notare che alcuni commentatori cristiani hanno usato il termine "ritratti" nel loro approccio alle figure bibliche. Cfr. per esempio, Arthur Penrhyn Stanley, Scripture Portraits and Other Miscellanies (Londra: Alexander Strahan, 1867); anche John William George Ward, Portraits of the Prophets: Character Studies of Men Who Blazed the Trail (New York: Richard R. Smith, 1930).