Storia della letteratura italiana/Questione della lingua tra Trecento e Cinquecento
Quando si parla di «questione della lingua» si intende il dibattito sulla norma e l'identità dell'italiano,[1] che ebbe la sua fase più acuta agli inizi del Cinquecento e si protrasse con alterne vicende almeno fino all'Ottocento e Alessandro Manzoni. Pur affrontando il tema da prospettive differenti, tutti gli autori che vi parteciparono cercarono di individuare una lingua letteraria che potesse imporsi a livello nazionale.[2]
Il De vulgari eloquentia e le origini della questione della lingua
modificaL'origine del dibattito può ricercarsi nel De vulgari eloquentia di Dante, dove si riprendeva la teoria, allora comunemente accettata, della monogenesi di tutte le lingue del mondo e si identificava la lingua volgare con lo sviluppo delle varietà plebee locali già parlate nell'antichità a seguito dell'episodio della Torre di Babele narrato nella Genesi:[3] secondo la Bibbia, Dio avrebbe punito gli uomini per la loro arroganza facendo sì che le lingue da essi parlate si differenziassero tra loro. Il latino, lingua d'uso internazionale, allora generalmente adoperata nelle scritture e nei discorsi ufficiali, era definito da Dante come gramatica per antonomasia, cioè lingua convenzionale creata artificialmente perfetta. Tuttavia il volgare d'Italia, suddiviso al suo interno in quattordici principali ripartizioni dialettali, aveva meritato, grazie alla scuola poetica siciliana, di elevarsi all'uso scritto.[4] Restava però aperto il problema sulla conformazione di quel volgare che secondo Dante avrebbe dovuto avvalersi del concorso di tutti i dialetti d'Italia, e che avrebbe dovuto essere illustre (perché rende illustre chi lo usa), cardinale (è il cardine attorno a cui ruotano le parlate municipali), aulico e curiale (sarebbe stata la lingua usata alla corte d'Italia, in caso di unità della penisola italiana).
È interessante osservare che Dante nella propria opera letteraria non tentò di "inventare" un volgare pan-italiano, bensì utilizzò il nativo fiorentino, pur criticando a livello teorico il toscano:
Si possono citare, fra i tratti non pan-italiani del fiorentino di quel tempo:
Il dibattito cinquecentesco
modificaTuttavia, nel corso del Quattrocento si perse memoria del De vulgari eloquentia, che sopravviveva in pochissimi esemplari. Quando nel 1529 Gian Giorgio Trissino lo ripropose in una sua traduzione alla pubblica opinione, molti sostennero che Dante non avrebbe mai potuto scrivere tale opera, accusando Trissino di mistificazione. Nel frattempo la questione si era riaperta e si era sviluppata per altre vie grazie all'affermarsi del volgare toscano. Per la scelta di quale lingua utilizzare nella penisola italiana si cominciarono a formare tre correnti, ognuna delle quali sosteneva un volgare diverso:[1]
- una corrente, detta cortigiana, sosteneva di dover usare la lingua parlata nelle corti del Quattrocento e del Cinquecento (il maggior esponente è stato Vincenzo Calmeta, autore di un trattato Della volgar lingua oggi perduto);
- una corrente fiorentina sosteneva invece che i fiorentini fossero portatori della lingua «più vaga e gentile»;
- infine, una corrente affermava che il latino era la lingua superiore in assoluto.
In pieno Umanesimo la questione della lingua si fece più accesa, anche a causa dell'avvento della stampa, che rendeva necessaria una norma coerente e omogenea a livello nazionale. A quel tempo Venezia era la capitale europea dell'editoria, in contrasto con Firenze. Fu proprio da queste due città che nacquero le due maggiori scuole di pensiero, quella veneta e quella toscana: la prima affermava il suo predominio a livello europeo nell'editoria e quindi nella comunicazione, la seconda rivendicava la cittadinanza dei grandi letterati trasformatori della lingua (Dante, Petrarca, Boccaccio). Sempre al modello fiorentino, ma facendo riferimento alla parlata contemporanea, si ispirava la posizione espressa da Machiavelli nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Trissino, al contrario, partendo dal De vulgari eloquentia, propugnava una lingua comune italiana, cioè una lingua sovraregionale aperta ai contributi lessicali non toscani.[1]
L'affermazione del modello bembiano
modificaPunto di svolta fu la pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525), il quale, seppur veneziano di nascita, propose l'uso del toscano trecentesco, lingua letteraria per eccellenza, punto di comunicazione tra gli autori del passato e i posteri. In precedenza, Bembo aveva disputato con Pico della Mirandola sul modello da adottare per il latino, individuando in Cicerone e Virgilio i punti di riferimento a cui attenersi, rispettivamente, per la prosa e la poesia. In particolare, riprendendo una tesi sostenuta da Paolo Cortese contro Poliziano, aveva affermato che era necessaria una imitazione totale, che portasse l'imitatore a diventare simile in tutto e per tutto al suo modello.[7]
Passato a occuparsi del volgare, Bembo applicò la medesima "teoria dell'imitazione" e indicò come modelli Boccaccio e Petrarca (di cui Bembo possedeva l'autografo del Canzoniere). Il terzo modello, Dante, fu escluso sia perché il lessico da lui utilizzato era più vasto e meno ripetibile, sia perché ricorreva a vocaboli ora di livello alto ora di livello basso, compiendo quello che Bembo considerava una caduta di stile. Dello stesso Boccaccio, peraltro, si invitava a considerare solo i passi in cui lo stile è più alto, evitando quelli in cui l'autore fa ricorso a una mimesi del parlato.[1]
Bembo, in sintesi, propendeva per il monolinguismo petrarchesco e avversava ogni contaminazione con la lingua parlata e popolare. Questa concezione classicista e arcaizzante veniva motivata con la natura effimera della lingua utilizzata dai contemporanei, destinata a mutare e sparire, mentre ai modelli trecenteschi veniva riconosciuta una perfezione tale da garantire la comunicabilità anche con i posteri. Posizioni simili, d'altra parte, erano state espresse anche da Leon Battista Alberti e Poliziano. Con Bembo queste teorie trovano una esposizione più sistematica e rigorosa.[1] Dietro a queste c'era inoltre la volontà di avere una lingua che favorisse la nascita di una letteratura aristocratica sia negli spiriti sia nelle forme e che, aderendo a una sorta di «neoplatonismo linguistico», fosse stabile ed estranea ai mutamenti che avvengono nella lingua parlata.[8]
Nelle Prose viene inoltre dedicato ampio spazio alle teorie linguistiche diffuse tra Quattrocento e Cinquecento, allo scopo di fare emergere come migliore la teoria fiorentinista arcaizzante. In particolare, a chi sosteneva la superiorità del fiorentino contemporaneo perché più naturale, Bembo obiettò al rischio di contaminazione della lingua letteraria con elementi popolari, a cui i fiorentini non potevano essere immuni.[1] La questione si risolse di fatto con l'affermazione del modello bembiano, e quindi con la sanzione della lingua letteraria toscana. Il successo fu sancito anche grazie alla pubblicazione della terza edizione dell'Orlando Furioso, che fu revisionato da Ariosto per rispettare i canoni bembiani.[8] Cadde così la preminenza del latino e fu impresso un nuovo sviluppo alla letteratura italiana, con l'imposizione di una omogeneizzazione della lingua letteraria nazionale.[9]
Si registrarono tuttavia reazioni negative a Firenze, dove vigeva una fiducia assoluta nella parlata locale e veniva visto con sospetto il fatto che un veneziano desse le regole del volgare toscano. Tra le risposte a Bembo si ricorda la Difesa della lingua fiorentina di Carlo Lenzoni, in cui si immagina che Machiavelli spieghi a un interlocutore veneto come sia ridicola la pretesa che un forestiero insegni il toscano ai toscani.
Fu con l'Ercolano di Benedetto Varchi (1570) che il modello bembiano si conciliò con le posizioni dei fiorentini. Seppur da un lato Varchi tributi onori a Bembo, dall'altro ne critica il rigore in favore della naturalezza del fiorentino vivo, sottolineando la vivacità tipica del parlato. Viene così sancito il principio dell'autorità popolare, che deve affiancare i modelli dei grandi scrittori. In seguito l'umanista Leonardo Salviati collocò, accanto a Dante, Petrarca e Boccaccio, una serie di autori minori, molti dei quali di livello popolare. In questo modo però la teoria di Bembo, che era fondata sul valore letterario dei modelli trecenteschi, veniva trasformata in mero culto dell'arcaismo. D'altra parte, Salviati in questo modo superava le tesi di intellettuali come Giovan Battista Gelli: questi, sottolineando il valore dell'uso della lingua viva, in continua evoluzione, rimarcava anche le difficoltà nello stabilire regole precise e strumenti normativi, di cui il pubblico italiano aveva bisogno. Anche per questo motivo la teoria fiorentinista modernista faticò a diffondersi, mentre grande fortuna ebbe il modello bembiano. Sulla strada segnata da Salviati si svilupperà, nel corso del Seicento, l'attività dell'Accademia della Crusca.[1]
Note
modifica- ↑ 1,0 1,1 1,2 1,3 1,4 1,5 1,6 Claudio Marazzini, Questione della lingua, in Enciclopedia dell'Italiano, Treccani, 2011. URL consultato il 15 febbraio 2015.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 278.
- ↑ Genesi 11,1-9.
- ↑ Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 98.
- ↑ Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966-69, sezioni 593, 597. Dante stesso usava entrambe le forme, ma con preferenza per quella fiorentina: sarei.
- ↑ Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966-69, sezione 530. Dante stesso usava talvolta la forma analogica: vivemo.
- ↑ Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 263.
- ↑ 8,0 8,1 Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 264.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 305.