La prosa ultima di Thomas Bernhard/Conclusione 3
Conclusione
modificaLe ripetute osservazioni negative sulla natura umana, sulle strutture politiche e sociali e sui singoli personaggi hanno impedito alla maggior parte dei commentatori critici di apprezzare il vasto potenziale di felicità evidente nelle narrazioni della prosa ultima di Bernhard. I sensibili perfezionisti della prosa negli anni ’80 sono spesso infelici e perpetuamente contrariati. Ma, come sottolinea l'infelice Wertheimer in Der Untergeher: "unser Unglück ist die Voraussetzung dafür, daß wir auch glücklich sein konnen, nur über den Umweg des Unglücks können wir glücklich sein."[1] Wertheimer non può raggiungere le altezze di saggezza della sua percezione mentale e si uccide. Tuttavia, contrariamente alle opere precedenti, il narratore-protagonista qui non lo fa. Anche Reger arriva alla stessa intuizione di Wertheimer ma sopravvive, anche se non è la persona più felice: "Der denkende Mensch ist von Natur aus ein unglücklicher Mensch [...] Aber selbst dieser unglückliche Mensch kann glücklich sein".[2]
In Auslöschung, Murau apprende in tenera età l'infinita bellezza e le possibilità insite nella vita: "Die ganze Menschheit ist eine unendliche mit alien Schönheiten und Möglichkeiten, sagte mein Onkel Georg."[3] Nonostante questi segnali incoraggianti, alcuni critici hanno considerato l'intero progetto di Murau come un fallimento, in particolare Bernhard Sorg. Nella sua monografia, Sorg condanna tutti i protagonisti di Bernhard, incluso Murau, ad eterna infelicità: "Aus dem Gefängnis der Vergangenheit gibt es für Bernhards Protagonisten keinen Ausweg."[4] Uno o due critici hanno dato credito all'altro lato della medaglia; Schlichtmann usa un nome di cui Bernhard stesso sarebbe stato orgoglioso nel descrivere quest'altro lato di Auslöschung: "ein durch Geist, Menschlichkeit und Streben nach Weiterentwicklung im positiven Sinn geprägtes Gegenbild."[5] Ulrich Horn, nella sua recensione di Auslöschung, individua anche il problema della supervisione in resoconti critici troppo lenti nel rivalutare l'immagine e la reputazione consolidate di Bernhard: "Bernhard wurde oft vorgeworfen, seine Protagonisten seien reine Kopfmenschen, hätten zu viel Verstand und zu wenig Gefül. Diesen Kritikern ist entgangen, daß hinter der Verstandesattitiide eine tiefe Verletzlichkeit und Sensibilität [...] steckte."[6] Questa vulnerabilità e sensibilità possono essere tracciate proficuamente attraverso un'attenta analisi dei testi e, una volta stabilita, getta una luce diversa sull'interpretazione dell'opera: Murau può essere visto come il culmine di uno sviluppo, nella prosa di Bernhard dal 1975, dall'introversione all'impegno con il mondo, includendo in Auslöschung un impegno positivo con la cultura (le poesie di Maria) e la storia (Wolfsegg e la sua cessione) austriache.
L'esposizione di questo capitolo ha dimostrato che attraverso una valutazione letteraria di un insieme coerente di valori personali (calore umano, carattere, amore), amici intimi, il suo progetto letterario e la storia, Franz-Josef Murau impara a convivere con se stesso e le sue circostanze. Si integra socialmente nel suo ambiente di Roma molto prima dell'inizio della narrazione; è Wolfsegg e la sua famiglia che deve affrontare e risolvere. Il telegramma accelera la soluzione definitiva di Murau al "Herkunftskomplex" di Wolfsegg perché lo costringe ad affrontare le sue responsabilità riguardo all'eredità, nel suo ruolo di unico erede: "In dem Wort Zweiterbe witterte ich meine Chance".[7] Murau non discute questa possibilità o opportunità in nessun altro punto della narrazione. Anche Reger usa la stessa parola per esprimere speranza, e non è un caso che la genesi di Alte Meister coincida con Auslöschung.
La qualificazione o la definizione più stretta di "Chance" in "Überlebenschance" è qui importante; è proprio l'opportunità di autoconservazione o sopravvivenza che motiva fondamentalmente Murau. Come il personaggio cagionevole di Der Atem o Die Kälte, Murau vuole assolutamente vivere. Tuttavia, sin dall'inizio della sua narrativa, sa che i suoi giorni sono contati a causa della cattiva salute (infatti, l'ultima frase del libro – vedi sotto – ci informa tra parentesi che Murau è morto a Roma nel 1983). Ciò significa che lo scopo del progetto non è solo o principalmente la sopravvivenza fisica; è soprattutto la sopravvivenza psicologica ed emotiva, sia che rinasca a Roma diventando una "persona nuova" o attraverso esperienze rigeneranti, umanizzanti coi suoi amici, o mediante una rivalutazione del passato nazionale nella forma della sua cessione di Wolfsegg.
Murau, a differenza di Rudolf, usa il passato per superarne l'influenza liberandosi della sua costante presenza negativa che gli ricorda quanto sia infelice, sotto il giogo di parenti stretti che hanno i loro complessi e fini personali. Ecco perché in passato ha dovuto scappare per raggiungere i suoi stati di estrema felicità o paradiso, come la sua autodifesa nel rifugio della letteratura ("das Paradies ohne Ende")[9] o la sua infanzia idilliaca nelle biblioteche di Wolfsegg solo coi suoi libri e senza gli oneri della vita adulta ("das Paradies [Wolfsegg]").[10]
Murau è l'unico protagonista di Bernhard a completare con successo il progetto di "Durcharbeiten" personale iniziato dai narratori autobiografici. Laddove l'obliterazione da parte di Murau degli effetti negativi del passato assume un valore positivo è nella sua vita ormai da adulto, e la connessione viene stabilita ancora una volta da un collegamento verbale ("Paradies"): "Wir waren aus dem Hassler herausgegangen, eine dieser herrlichen römischen Nächte [...] in welchen man tatsächlich an das Paradies glaubt."[11] Solo Roma presenta tali possibilità a Murau nella sua vita adulta ("die Erneuerung meiner Existenz"),[12] e quando si tratta di decidere sul destino di Wolfsegg, le persone – i suoi amici a Roma, Schermaier e le vittime della guerra – ne determinano la decisione.[13] È vero che Murau si aggrappa alla sua vita in senso fisico ("denn wir wollen ja leben, wenn wir das Leben auch noch so heruntermachen [...] wir klammern uns doch an ihm [dem Leben] fest und wollen es tatsächlich ewig haben"), ma è il completamento del suo progetto che è più importante.[14] Considerato in questo modo, il finale, con la sua cessione di Wolfsegg, è per lui decisivo. Sebbene il lettore venga informato che Murau muore, egli ha completato il suo progetto, è tornato nel luogo in cui vuole stare ("und wo ich bleiben werde"), e ha aggiunto alla presunta estinzione o sfacelo (da qui la qualifica "Zerfall" del sottotitolo) del suo passato dando la proprietà di famiglia alla comunità ebraica, proprio quel gruppo di persone brutalmente perseguitate dai nazisti — nazisti che a loro volta avevano beneficiato di Wolfsegg sotto il regime dei suoi genitori.[15] Come parte della ricerca di Murau della autocoscienza, autoconservazione e felicità, la fine di Auslöschung può essere vista come essenzialmente positiva. La morte non è una dichiarazione sul suo fallimento o un simbolo di futilità o l'estinzione ultima della sua vita. Al contrario, il finale afferma la credenza positiva di Murau nell'affrontare il passato suo, della sua famiglia e della sua nazione; sono tutti collegati tra loro e Murau è il primo protagonista di Bernhard che è in grado di vedere questa connessione e di "superarla" con successo nel suo progetto intellettuale.
Il più grande successo di Murau è l'autoconservazione in cui i precedenti protagonisti sono rimasti frustrati — nel dominio della loro vita quotidiana. Reger prefigura questo sviluppo quando dice: "die logische Folge wäre immer die totale Verzweiflung über alles. Aber gegen diese totale Verzweiflung über alles wehre ich mich."[16] Reger si riferisce qui all'azione che contrasta le intuizioni e le conclusioni logiche della mente. L'azione di retroguardia di Murau va oltre perché, a differenza del Reger pensieroso ma frustrato, ha un'esistenza ben bilanciata e confortevole (a Roma). Come egli dice tra sé con aria di sfida quando la sua identità è minacciata in Wolfsegg: "ich habe mich nicht geändert, ich ändere mich nicht".[17] L'enfatico "ich" in corsivo rimane fermo laddove persino Rudolf e i narratori delle autobiografie disperano. In questa affermazione, Murau prende la sua posizione ultima; la sua nitidezza critica verso il mondo che lo circonda non lo lascia mai, ma egli si sta accettando. A questo proposito, Murau è legato al suo creatore in un modo che è stato spesso trascurato. In un'intervista del 1985, alla domanda se avesse dichiarato guerra a tutta la creazione Bernhard rispose con le parole: "Im Gegenteil, ich höre nicht auf, die Welt zu bewundern, so wie sie ist."[18] Auslöschung, confermando questa asserzione, fornisce a Murau risposte che nessuno dei suoi predecessori era riuscito a trovare.
Stralcio
modificaConcludo questo Capitolo dedicato a Auslöschung riportando lo stralcio finale della rispettiva versione italiana — Estinzione — nell'ottima traduzione della già citata Andreina Lavagetto (1996):
Ultimo fra i romanzi di Thomas Bernhard, Estinzione è anche quello dal respiro più vasto, dove l'orchestrazione sottile e ossessiva della sua prosa raggiunge l'esito supremo. Come se Barnhard avesse voluto riprendere, una volta per sempre, tutto ciò che aveva oscuramente nutrito la sua «arte dell'esagerazione». E già nel titolo si può avvertire tale furia liquidatoria. (Dal risvolto di copertina di Estinzione, Adelphi Edizioni, 1996)
|
[... ...]
Per tutto questo tempo, per settimane, pensai, non ho mai preso coscienza del mio vero stato di salute, ma ciò accadeva ora con brutalità tanto maggiore, mentre giacevo a letto, insonne, in collera con tutto. Proprio quando dovevo fare di tutto per riguardarmi, anche nell'idea di scrivere un giorno, forse, quell’Estinzione che mi si era radicata in testa, mi lascio prendere ora da un'agitazione che, se non fatale, può tuttavia esserci dannosa, pensai. A Roma mi sono abituato a un ritmo benefico per la mia malattia, pensai, anche per quanto riguarda le lezioni a Gambetti, ho misurato quel ritmo esattamente sulla mia condizione di malato, a Roma ho subordinato tutto alla mia condizione di malato, e ora mi lascio prendere da un'agitazione che per nessun motivo posso permettermi, pensai. Ma sempre, ogni volta che andavo a Wolfsegg negli ultimi anni, mi sono agitato e ho sovraffaticato il mio cuore, pensai, cosa che gli è sempre stata estremamente dannosa. Dopo le mie visite a Wolfsegg, infatti, andavo sempre dal mio medico romano e lui constatava che avevo sovraffaticato il mio cuore semplicemente con il soggiorno a Wolfsegg, con il soggiorno in Austria, come precisai fra me e me. Tutti quei soggiorni in Austria e a Wolfsegg, negli ultimi anni, sono stati estremamente dannosi per il mio cuore, lo hanno sempre spinto ai limiti delle sue possibilità. Ma io non ho mai avuto riguardi per il mio cuore, pensai, per questo il mio cuore è ridotto così, perché non ho mai avuto riguardi, fin dall'infanzia, un cuore non può reggere una natura come la mia, mi dissi, si ammala, si indebolisce presto, perché fin dall'infanzia se ne è abusato, fin dalla primissima infanzia ho abusato del mio cuore e l'ho sempre sovraffaticato, pensai, non gli ho mai dato pace. Il mio cuore non ha mai conosciuto la pace che avrebbe dovuto avere, pensai, e ora è a pezzi. Ma anziché risparmiarlo, risparmiarlo a Roma, con il mio ritmo a lui subordinato, come pensai, vado a Wolfsegg recandogli il più gran danno, e torno a metterlo in una terribile agitazione. Ma è solo questo giorno, mi dissi, e tornerò a Roma il più presto possibile, se non altro per il mio cuore, a casa, come mi dissi, perché è a Roma che sono a casa, non qui a Wolfsegg, e poi tornerò ad aver cura del mio cuore, senza più chiedergli troppo, come ha detto l'internista e come Maria continua a ripetermi, tu chiedi troppo al tuo cuore, ripete sempre, fa' attenzione al tuo cuore, io la ascolto sempre quando lo dice, e intanto non penso nulla, anche se ha ragione, pensai. Maria, la mia dottoressa romana, pensai, la mia grande poetessa, il mio grande medico, la mia grande maestra nell'arte della vita, quando sono agitato corro da Maria, pensai. Siccome non riuscivo più a restare a letto con quel cuore in affanno, mi alzai, mi rinfrescai in bagno e, ancora con l'accappatoio addosso, mi sedetti sulla poltrona accanto alla finestra, dallo scaffale avevo preso una cosiddetta monografia su Descartes. Contro ogni aspettativa, Descartes è riuscito di colpo a sviarmi da tutte le mie angosce, fin dalle prime frasi di Descartes, non su di lui, fui in salvo. Leggevo quelle frasi e mi sviavo da me stesso, non voglio dire che mi calmassi, ma tuttavia mi sviavo. I grandi filosofi sono i miei salvatori, ho pensato, qualsiasi cosa io legga di loro, mi svia, mi salva, pensai. Pare che nessuna conoscenza certa sia possibile, finché non si conosce l'artefice della propria esistenza, lessi, e fui sviato, salvato. Con quella frase riuscii a trascorrere alla finestra quelle poche ore, finché non dovetti alzarmi e scendere, perché il funerale aveva inizio. Già da qualche tempo, dalla finestra, stavo osservando le mie sorelle, che erano davanti all'orangerie e parlavano con i cacciatori e i giardinieri e con le altre persone, frattanto comparse numerose, che, per così dire, partecipavano al funerale con una precisa funzione, compreso mio cognato, ma non ero sceso da loro, ebbi l'impressione che mi aspettassero, tuttavia non ero sceso da loro, avevo l'impressione che mi stessero aspettando, ma non sono sceso da loro perché non volevo interrompere la mia osservazione, che dalla finestra avevo potuto intensificare in maniera ideale, perfettamente indisturbato. Facevano già molta confusione fuori e senza dubbio ancora più confusione dentro l'orangerie, e su due grandi carri avevano caricato giganteschi mucchi di corone e mazzi di fiori, quei carri erano stati spinti dai giardinieri e da due stallieri, ne abbiamo ancora, a Wolfsegg!, contro il muro del portale, in modo che il convoglio funebre potesse passare senza incontrare ostacoli, tutto ciò che vedevo dalla finestra aveva l'aria di procedere esattamente secondo il piano del funerale del quale parlava sempre nostra madre e come se nulla accadesse al di fuori di quel piano e tanto meno in contraddizione, in violazione di quel piano. Era una giornata piovosa, ma non pioveva, e pensai che non sarebbe piovuto neanche dopo. La gente era tutta più o meno in lutto, se non vestita completamente di nero, molta gente del paese si era già messa davanti all'orangerie. Vidi anche i primi suonatori della banda del paese che prendevano posizione. Gli strumenti sfavillavano, le uniformi della banda erano verde cupo, il colore che preferisco. Caecilia, come vidi dalla finestra, aveva in mano le redini dello spettacolo, che ora, a poco a poco, stava assumendo proporzioni imponenti. Ogni momento sussurrava qualcosa all'orecchio di Amalia, o anche di suo marito, il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, questi allora andavano nell'orangerie, indubbiamente a eseguire ordini, di quali ordini si trattasse non riuscii ad appurarlo. Con ogni evidenza, le luci nell'orangerie erano state spente. Ora si trattava di dare inizio al funerale, di suggerire a tutti un'ultima volta, per così dire, la battuta giusta, discutere un'ultima volta la loro entrata in scena. La regista viveva già i suoi grandi momenti, pur non avendo ancora raggiunto i vertici, ma quei vertici, pensai, sono ormai vicinissimi. Come per una prova, i suonatori si erano messi davanti all'orangerie, per poi tornare a disperdersi, i giardinieri e i cacciatori avevano spinto innanzi i due carri con le corone e i mazzi di fiori, per tornare poi subito a fermarli, anch'essi come per una prova, tutto sotto il controllo di mia sorella Caecilia, come vidi. Amalia stava sempre alle sue spalle, e così pure mio cognato. Sempre più gente usciva dalla fattoria, veniva dalla casa dei cacciatori, saliva dal paese. Ma dei cosiddetti notabili non era ancora comparso nessuno, c'era tempo. Alla fine Caecilia venne di corsa alla casa padronale, il che mi ha fatto capire che dovevo lasciare la mia stanza e raggiungerla di sotto. Scendendo m'imbattei nella zia di Titisee, la salutai, ma poi girai al largo, durante tutto il funerale avevo girato al largo da lei, per quanto possibile. In cucina mi avevano preparato una colazione che ho mangiato più o meno in fretta, con mio cognato che mi faceva compagnia. Che uomo ottuso, privo di anima addirittura, ho pensato e l'ho osservato mentre prendeva il pane, vi spalmava sopra il burro e la marmellata con i suoi movimenti grevi, ma queste persone non ne hanno colpa, ho pensato tutto il tempo mentre lo osservavo, non ne hanno assolutamente colpa, ho continuato a pensare che quelle persone non ne hanno colpa finché non mi sono accorto che lo pensavo, e allora ho troncato quel pensiero e tutto quell'osservare, perché d'un tratto mi è parso indecente, non ingiusto, indecente, quel pensiero mi aveva riempito di una profonda repulsione per me stesso. Non dovremmo osservare di continuo queste persone, sorvegliarle senza sosta, mi dissi, non serve a nulla, se non a costringerci poi a disprezzare profondamente noi stessi. Caecilia mi disse di mettermi una cravatta nera, cosa che ho fatto senza protestare, perché mi pareva ovvio presentarmi al funerale, se non in abito nero, almeno con la cravatta nera. Prima mi ero messo delle scarpe nere ed un abito grigio, perché in effetti non ho mai posseduto un abito nero, né mi è mai venuto in mente di comprarmi un abito nero, neppure in quei due terribili giorni. Le basterebbe che mi mettessi una cravatta nera, ha detto Caecilia. Non mi aveva dato, nel dirlo, l'impressione della persona malevola, al contrario, di quella comprensiva, come ho pensato. Mia sorella mi era parsa d'un tratto comprensiva, è comprensiva nei miei confronti, ho pensato, perché adesso è nel suo elemento. Le persone più diverse, di cui non sospettavo neppure la presenza, avevano riempito d'un tratto la cucina per mangiare qualcosa, ma io non parlai con nessuna di quelle persone. Sebbene io fossi il personaggio principale di quell'evento, non mi consideravo tale. La gente mi fissava, ma io mi volsi dall'altra parte. A diversi avrei dovuto porgere la mano, pensai, ma non ho porto la mano a nessuno. Come faccio a stringere la mano a tutta questa gente, pensai. A esibirmi come ipocrita, cosa che non era nelle mie intenzioni. Bevvi una tazza di caffè e mangiai un pezzo di pane ed uscii nell'atrio, le mie sorelle erano là con il borgomastro, che solo allora era venuto a porgere le condoglianze, come vidi, il borgomastro ha detto alle mie sorelle molte di quelle frasi insulse che si dicono di solito nel porgere le condoglianze, entrambe si comportavano come ci si aspettava da loro, a differenza di me, che per tutto il tempo, come vuole la mia natura, non mi sono affatto comportato come ci si aspettava da me. Le mie sorelle rimasero nell'atrio a ricevere tutta una serie di condoglianze, da cosiddette persone altolocate, possibili e impossibili, funzionari pubblici, come pensai, nel frattempo io mi ero tenuto del tutto in disparte, nell'angolo oscuro davanti alla porta della cappella, dove si può stare senza essere riconosciuti. Che almeno non mi si riconosca, pensai, se sto qui, e infatti nessuno mi ha riconosciuto, perché altrimenti tutta quella gente si sarebbe precipitata su di me, pensai, e non sulle mie sorelle, sul figlio, come si conveniva, non sulle figlie. Così invece tutti si precipitarono direttamente sulle figlie e mi lasciarono in pace. Tutti continuavano a chiedere di me, ma le mie sorelle non rispondevano a quelle domande, perché temevano che poi, dopo il funerale, potessi chieder conto di quelle risposte, come pensai, anche se oppure poiché sapevano che stavo davanti alla cappella. Non avevo più voglia di contare la gente che entrava, come avevo fatto da principio, ben presto furono in troppi. Infine invasero la casa a schiere, dal mio angolo io avevo la possibilità di osservare indisturbato tutta quella gente. Ma poi la folla si aprì d'un tratto, perché era arrivato il vescovo di Linz. Da questo debbo andare, ho pensato, non mi resta altro da fare, così sono andato a porgere i miei saluti al vescovo di Linz. Dietro di lui c'era già il vescovo di Salisburgo. Ora dovevo restare con i vescovi. Li accompagnai al primo piano. L'abile Spadolini comparirà solo all'ultimo momento, pensai, e così fu infatti. Conversavo con i vescovi da almeno mezz'ora, quando Spadolini entrò, accompagnato da Caecilia. I vescovi salutarono Spadolini come se fosse di rango molto superiore al loro, non si erano alzati, per salutarlo, erano balzati in piedi. Una triste occasione, ha detto il vescovo di Linz, e Spadolini di rimando: una terribile disgrazia, al che tutti si sedettero. Conversarono fra loro, senza che io dovessi partecipare al loro colloquio, parlarono di Roma, cosa che ha fatto grande impressione ai vescovi austriaci, tutto ciò che Spadolini diceva era una novità per loro, e Spadolini sapeva cosa dire per stupire i vescovi. L'abate di Kremsmunster, che frattanto era comparso, si era seduto con loro in silenzio, senza alcuna formalità. Era grasso, e sembrava un oste ben nutrito dell'Innviertel. Per una mezz'ora Spadolini aveva parlato di Roma e del Vaticano, aveva detto tutto e niente, per così dire, poi Caecilia pregò i vescovi di scendere. Nell'atrio i vescovi, il cui capo era indubbiamente l'elegante Spadolini, aspettarono il cenno che Caecilia avrebbe dato quando fosse venuto il momento di raggiungere l'orangerie, per dare inizio, per così dire, al funerale vero e proprio. Tranne i vescovi non c'era più nessuno nell'atrio, la folla era già all'orangerie, e già ora si estendeva lontano oltre il grande portale del muro di cinta, probabilmente, così pensai, fin giù in paese, sicché in effetti non si poteva più parlare di corteo funebre, perché probabilmente il corteo era lungo quanto l'intero percorso fra l'orangerie ed il cimitero. La benedizione, come prescritto, non veniva impartita nella cappella, bensì nella chiesa del paese. I vescovi conversarono prima di Roma, poi di Wolfsegg, dopo essersi rivolti esclusivamente a me e dopo che Spadolini si fu fatto riconoscere da loro come uno dei miei migliori amici, il mio primissimo amico romano, come disse. Era da decenni un grande amico di famiglia, era spesso nostro ospite ed era sempre stato entusiasta di Wolfsegg, un paesaggio magnifico, errlich, un edificio magnifico, errlich, uno stile di vita magnifico, errlich, disse. I vescovi non si saziavano di guardarlo e di ascoltarlo, lui portava i vestiti più eleganti che probabilmente avessero mai visto. Il mio ruolo era quello del familiare sconvolto, un ruolo che consideravo il più vantaggioso. Non dovevo dire quasi nulla e badare soltanto ad avere sempre, se possibile, il capo chino quando mi si osservava, il che non significa che il tutto mi lasciasse perfettamente freddo, ma in effetti non provavo nulla più di quanto provassi ad altri funerali, il fatto che ora fosse la mia famiglia, a essere portata alla tomba, non mi sconvolgeva, perché lo spettacolo era troppo grande per consentire, comunque, un tale sconvolgimento, ma quello sconvolgimento non l'avevo ancora provato, verrà, mi dissi, quando tutto sarà passato, lo shock l'ho avuto, ma lo sconvolgimento deve ancora venire, cosi pensai, in piedi nell atrio insieme ai vescovi. Ammiravano il mio contegno, che non era tuttavia, come loro credevano, il contegno di chi domini un'immensa infelicità, bensì il contegno che mi ero prefisso, faceva parte del mio ruolo. Io stesso sentivo che, seppur disgustato, recitavo il mio ruolo in maniera eccellente, almeno fino a quel momento, l'attore, quando è bravo, sente quando è bravo, non occorre che glielo dicano, pensai. Spadolini ebbe la spudoratezza di richiamare l'attenzione dei vescovi, più volte, sul mio straordinario contegno, proprio Spadolini, che sicuramente mi aveva letto dentro, ma continuava a dire ai vescovi, in maniera che mi riusciva ora più, ora meno disgustosa, quanto fosse straordinario il mio comportamento, tenuto conto del fatto che i miei genitori e mio fratello venivano portati alla tomba. Io mi comportavo in conformità al mio ruolo. Caecilia pregò i vescovi di avviarsi all'orangerie. Là avevano già chiuso e caricato le bare. I vescovi seguirono le bare che, su carri trainati ciascuno da due cavalli, ciascuna bara su un proprio carro, senza fiori che le ornassero, producevano esattamente l'impressione di austerità prescritta dal piano del funerale, i carri si misero lentamente in movimento, i vescovi seguirono, quindi venivo io, accanto a me le mie sorelle e dietro di noi tutti i parenti, Alexander ovviamente in prima fila. Dopo i parenti venivano, proprio come avevo temuto, gli ex Gauleiter e altri nazionalsocialisti di spicco, di fronte ai quali ho provato il più grande orrore e la più grande paura, come debbo dire. Si erano presentati con tutte le loro onorificenze nazionalsocialiste appuntate sul petto. Dietro di loro aveva preso posizione il cosiddetto Kameradschaftsbund, un'associazione di ex combattenti dalle idee in tutto e per tutto nazionalsocialiste. Seguivano diversi altri gruppi, si era formato un corteo di molte centinaia di persone, che solo a fatica fu possibile mettere in movimento, perché era effettivamente lungo quanto l'intero percorso, e fu solo grazie all'arte organizzativa di mia sorella Caecilia che fu possibile dare ordine a un simile corteo; aveva fatto in modo che la folla prendesse posto dietro la fattoria e davanti alla villa dei bambini. I carri con le bare, com'è naturale, scendevano solo lentamente verso il paese, non nel corteo funebre, ma passandogli dinanzi, sotto i suoi occhi stupiti, perché non sarebbe stato possibile altrimenti, la gente, per quanto poteva, si faceva da parte sulla strada di pietrisco che saliva dal paese, per cedere il passo ai carri con le bare ed a noi, il piano di Caecilia era riuscito, tutto funzionava, era stato effettivamente possibile formare e mettere in movimento un corteo funebre, lei mi camminava accanto come l'inquietudine in persona, tremando in tutto il corpo, come sentivo, perché ora, dovendo seguire anche lei il corteo funebre, era stata costretta a cedere le redini della cerimonia, come si usa dire. Ma non aveva nulla da temere, il piano veniva eseguito nonostante le molte centinaia di persone. Se già a un normalissimo funerale di campagna vanno almeno cento persone, al nostro, come pensai, erano forse migliaia i partecipanti, non lo so. L'arcivescovo di Salisburgo celebrò come previsto la messa funebre. Mentre lo guardavo dire messa, le bare erano disposte davanti all'altare, pensai che ho abbandonato la Chiesa, come si usa dire, ormai oltre vent'anni fa. Ora potevo quindi permettermi di osservare in piena indipendenza lo svolgimento religioso del funerale. I miei non mi hanno mai perdonato di aver abbandonato la Chiesa, questa è stata forse la ragione principale della condanna che hanno pronunciato contro di me, pensai. Ma ho abbandonato la Chiesa esattamente nel momento in cui con la Chiesa non avevo più nulla a che vedere, spiritualmente, come mi ripetei anche ora, né volevo più aver nulla a che vedere. I vescovi erano naturalmente a conoscenza del fatto che avevo abbandonato la Chiesa oltre vent'anni prima. Aver abbandonato già tanto giovane la Chiesa cattolica e non esservi più legato, mi procurò una sensazione piacevole durante la messa, vedi questo sfarzoso spettacolo, ma non ti riguarda, ho pensato tutto il tempo, respiri l'incenso, ma non ti stordisce. Senti le parole, ma non hanno su di te alcun effetto distruttivo. Per decenni, per tutta l'infanzia e la prima giovinezza, pensai, ho temuto il clero cattolico, ora non lo temi. Non occorre più che tu lo tema. Lo spettacolo è grandioso, ho pensato, ma in tutta la sua grandiosità ti dà sui nervi, senza tuttavia minimamente toccarti. E dai tuoi genitori e da tuo fratello hai già preso congedo, con una certa concisione, quando hai ricevuto il telegramma, pensai. Il funerale è ormai soltanto un dramma che ti hanno imposto, e dal cui titolo, rendere gli estremi onori, in fondo sei solo disgustato, perché è una menzogna. Ma ogni dramma è una menzogna, pensai. E questo genere di dramma è la menzogna più grande. Un funerale come questo è il dramma più grandioso che si possa immaginare, pensai. Nessun autore drammatico, neppure Shakespeare, ho pensato, ha mai scritto un dramma tanto grandioso, al confronto l'intera letteratura drammatica mondiale è ridicola, pensai mentre guardavo e ascoltavo l'arcivescovo di Salisburgo che diceva la messa funebre, e la folla dinanzi a lui. Che ottima cosa, essermi sottratto così presto alla Chiesa cattolica, pensai. Sedevo nella prima fila di banchi, alla mia sinistra Caecilia, alla mia destra Amalia, esattamente secondo le prescrizioni, accanto ad Amalia aveva preso posto Alexander. Spadolini sedeva dove di solito siedono i sacerdoti, con l'abate di Kremsmunster e con i vescovi di Linz e di Sankt Polten, per così dire in luogo elevato, subito a fianco dell'altare, separato dalla gente comune. È lui il protagonista del tutto, pensai, non l'officiante, l'arcivescovo di Salisburgo, che verso la fine della messa ha tenuto un breve discorso in memoria dei morti, più che altro un'allocuzione, parlando però di nostro padre come dell’amico scomparso in maniera tanto tragica, della madre di profonda bontà, del figlio di bontà altrettanto profonda. Gli arcivescovi hanno un modo di parlare tutto loro, pensai, salmodiano tutto quel che dicono, frequentando il seminario sono andati in realtà all'accademia cattolica di arte drammatica, pensai, anche gli animi semplici fra i vescovi, come quelli di Salisburgo e di Linz, parlano salmodiando, come se fossero attori consumati, attori di provincia d'altronde, amati e stimati, non come Spadolini, il quale in ogni parola che dice, in ogni gesto che fa, è, per così dire, un genio drammatico tale da lasciarsi alle spalle tutti quegli attori di provincia, è, per così dire, assoluto teatro universale cattolico. Spadolini si è immerso nel suo ruolo del silenzio, pensai, il capo chino, sedeva nel banco riservato esclusivamente a lui, ed era consapevole del suo genio drammatico, del suo genio arcivescovile, pensai. Il fatto che fosse venuto da Roma gli conferiva, nella nostra chiesa di paese, un'aura ulteriore, davvero inaudita. La gente nella chiesa guardava con stupore lui, l'arcivescovo venuto da Roma, non quello officiante di Salisburgo, il quale, al confronto, non poteva che apparire ancora più semplice, davvero più primitivo di quanto non fosse in realtà. Dopo la messa, cantata dai cantori del paese, la banda del paese ha suonato esattamente il brano di Haydn che aveva provato il pomeriggio della vigilia, con molta calma, senza errori, come pensai. Spadolini aveva fatto mostra di essersi completamente ritratto in se stesso per quella messa funebre, non si è neppure permesso di alzare lo sguardo. Con le mani giunte, era per così dire interamente sprofondato nel lutto, e quando si arrivò a parlare di nostra madre, sembrò che quel lutto non fosse neppure simulato, ma autentico, ma fu solo l'impressione di un istante, padroneggia il suo ruolo alla perfezione, tornai a pensare subito dopo. Lo amai davvero, quando lo vidi in quell'atteggiamento, perché amavo in lui l'attore Spadolini, non ne conosco di più grandi, di maggior effetto sul pubblico, come si usa dire. I molti viaggi che ha fatto con mia madre, anche quelli fatti con me e quindi a tre, mi affiorarono d'un tratto alla mente. Spadolini, che ha reso tutti quei viaggi un così grande piacere, che a suo modo ha trasformato tutti quei viaggi in un incanto, come si usa dire, vedevo lo Spadolini charmeur, l'uomo di mondo, cui mia madre si era data anima e corpo, come pensai. Mentre lo osservavo, lui, e non il vescovo di Salisburgo, lo vedevo camminare per Roma, andare nei negozi più eleganti, nei locali più esclusivi, lui che entra in quei negozi eleganti, che va in quei locali, lo vedevo al Pincio, a Villa Borghese, lo vedevo risplendere alle ambasciate, brillare ai vernissage, come si usa dire, tutti si accalcano attorno all'elegante uomo di mondo cattolico, che può chiamarsi arcivescovo e nunzio e vantare molte centinaia di amicizie, pensai. Spadolini, pensai, a cui mia madre ha pagato tutti quei viaggi, ha finanziato due viaggi in America, un soggiorno al Cairo che lui desiderava, un viaggio a Persepoli e un viaggio in Tunisia, perché vedere Cartagine era il suo più grande desiderio, Spadolini a cui lei ha comprato gran parte del guardaroba e allestito un'intera biblioteca. Spadolini, che con eleganza ineguagliabile sa bere un bicchiere di vino tenendo un libro in mano, Spadolini che è assediato tanto dalle signore della cosiddetta alta società quanto dai funzionari comunisti della città di Roma, dal cui sindaco comunista viene infatti ricevuto amichevolmente ogni due o tre settimane. Spadolini che è in corrispondenza con tutto il mondo e con tutte le categorie di persone, Spadolini che conosce il Vaticano come le sue tasche, e così pure la città di Roma, che lo venera e ne ha fatto il venerato e universalmente amato Spadolini. Lo osservavo di lato, come si osserva un grande attore, studiando ogni suo gesto, la sua è senza dubbio grande arte, pensai, non mostra debolezze, non si concede la minima negligenza. Come in teatro i ruoli più difficili sono quelli senza testo, non i loquaci, non i ciarlieri, così Spadolini, in questo spettacolo, si è assunto il ruolo indubbiamente più difficile, pensai, e il costume che si è scelto è ideale per questo spettacolo, perfetto. Vedere Spadolini senza venerarlo all'istante, pur senza necessariamente amarlo, è impossibile, pensai. Chiunque veda Spadolini è vinto all'istante dal suo fascino, pensai. Gambetti mi ha detto una volta che per lui Spadolini è il più straordinario di tutti gli attori, inclusi tutti gli attori che lui conosca al mondo, il più seducente, e che è un peccato che si esibisca solo entro la Chiesa cattolica e non in uno dei nostri maggiori teatri. Nessun regista ha qualcosa da insegnare a questo Spadolini, ha detto Gambetti, sa già tutto, può già tutto, è già tutto. Di quell'asserzione di Gambetti mi ricordai mentre osservavo Spadolini di lato, a mio agio, come debbo dire, senza alcun interesse per quanto mi stava immediatamente intorno. Mi alzavo in modo automatico, come gli altri, in conformità al cerimoniale della messa, tornavo a sedermi quando tutti si sedevano, ma in verità non facevo altro che ammirare l'arte di Spadolini. Come se fossi di nuovo schiavo di quell'arte di Spadolini, al pari di tante altre volte. È come se il più grande attore dell'epoca fosse venuto in un piccolo paese, sconosciuto e più o meno insignificante, per recitarvi la parte dell'Amleto arcicattolico, pensai osservando Spadolini. Alla fine della messa le bare furono portate fuori dalla chiesa, prima la bara di mio padre, poi la bara di mia madre, poi quella di Johannes. D'un tratto, in effetti, mi tremarono le ginocchia, quando i giardinieri mi sono passati dinanzi portando fuori dalla chiesa la bara di Johannes. L'avevano presa in spalla con grande abilità, come se non facessero altro tutti i giorni, pensai. I cacciatori avevano portato fuori dalla chiesa la bara di mio padre e la bara di mia madre, per mio esplicito desiderio Johannes era stato portato fuori dai giardinieri. Caecilia non pianse, di guardare Amalia negli occhi non avevo avuto occasione, il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, in quanto nostro cognato, aveva fatto buon (e sprovveduto) viso a cattiva sorte, per così dire. In tutto quell'insieme lui era in effetti il personaggio fuori posto, ora riconoscibile come personaggio completamente fuori posto con chiarezza assai maggiore che in passato. Tutti gli occhi erano puntati da una parte su me, dall'altra su Spadolini. Caecilia, com'è naturale, aveva costretto suo marito, nostro cognato, e non me, a sorreggerla, fu il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, al mio fianco, a condurre Caecilia fuori dalla chiesa, all'altro fianco veniva Amalia, durante questi giorni di lutto si è abituata a stare sempre a capo chino, pensai osservandola. Le facce beffarde delle mie sorelle si son fatte prima esacerbate, ora luttuose, pensai. Caecilia era la più controllata delle due, com'è naturale, Amalia continua a sembrare molto più giovane di quanto non sia, pensai, ma non è mai attraente. Il che ha fatto sì che restasse sola fino a oggi, pensai, perché nessun uomo fino a oggi si è sentito attratto da lei, neanche uno del genere del fabbricante di tappi per bottiglie da vino. Per un istante Amalia mi ha fatto pena, ma subito non potei fare a meno di pensare ai modi davvero balordi con i quali si presenta dappertutto, ovunque si trovi, come pensai. Amalia non sarà mai una persona felice, neppure contenta, ma neanche Caecilia, la sua infelicità ora ce l'ha letteralmente al braccio, pensai e guardai di lato il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, ha la faccia di uno al di sotto della media, ho pensato, che è riuscito a insinuarsi a Wolfsegg. Non ero riuscito a reprimere quel pensiero. La banda del paese suonava di nuovo il brano di Haydn, meglio di prima, come pensai, il corteo funebre si muoveva ora verso il cimitero ancor più lentamente che non prima verso la chiesa. Ho sempre odiato i cortei, le parate mi disgustano come null'altro, tanto più se con accompagnamento musicale, tutte le sventure del mondo hanno sempre avuto origine da cortei e parate del genere, pensai. Il pensiero che non lontano, alle mie spalle, venivano gli ex Gauleiter dell'Alto Danubio e del Basso Danubio, che mi hanno insudiciato la villa dei bambini e in definitiva me l'hanno rovinata per tutta la vita, mi riempiva di repulsione, dietro gli ex Gauleiter venivano gli uomini del Kameradschaftsbund, in parte con le grucce, i vecchi combattenti, decorati dell'Ordine del Sangue per i loro esecrabili ideali nazionalsocialisti. E dietro quelli, così mi ha sussurrato Caecilia poco prima che il corteo funebre si mettesse in movimento, veniva il mio compagno di studi Eisenberg, il mio fratello nello spirito, il rabbino di Vienna, col quale parlerò subito alla fine della cerimonia, pensai. Un simile corteo funebre è grottesco, pensai. Un simile corteo funebre è un'infamia. Un corteo funebre talmente protratto nel tempo non è soltanto un'impudenza, bensì un'inaudita mancanza di gusto, pensai, sapendo benissimo che nessuno in quel corteo funebre la pensava come me, osava pensarla come me, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di pensare così, al contrario, se per così dire mi avessero visto e sentito pensare, tutti avrebbero pensato che ero io, più di chiunque altro, a mancare di buon gusto. E forse sono davvero quest'uomo che, più di chiunque altro, manca di buon gusto, pensai. Ma non provai nessuna vergogna, fin davanti alla fossa aperta. Non c'è altro che tradimento in noi, quando siamo dinanzi a una tomba aperta, ho detto una volta a Gambetti. Della perversità della cerimonia mi resi conto quando l'arcivescovo di Salisburgo si avvicinò alla tomba aperta per tenere un discorso in cui fin dal principio si parlava del grande valoroso guerriero sul campo di battaglia, espressione con cui l'arcivescovo di Salisburgo altri non intendeva che mio padre. Si parlò solo di mio padre, mia madre non venne neppure menzionata, e neanche Johannes, ma non di proposito, bensì per smemoratezza, per arroganza, per maschile egoismo e maschile presunzione, come pensai. Dodici allocuzioni sono state tenute, dinanzi alla fossa aperta, da uomini che ora si facevano passare tutti per i migliori amici di mio padre, cosa che invece non sono mai stati, com'è naturale, lo affermarono l'arcivescovo di Salisburgo e i vescovi di Sankt Polten e Linz, lo affermarono i due ex Gauleiter, lo affermarono i due SSObersturmbannfuhrer, anche il cosiddetto responsabile del Kameradschaftsbund, anche il presidente della società di caccia. Per un'ora intera mio padre era stato definito il migliore amico proprio da coloro che mai avrebbero dovuto arrogarsi quel diritto, che però, come accade di solito ai funerali, non ebbero smentite. Le bare erano da tempo nella fossa. Da ultimo si era fatto avanti Spadolini, e io ho pensato che avrebbe detto qualcosa, ma sarebbe stato un gesto contrario al vero Spadolini, tornò subito a ritrarsi nella più completa discrezione, come voleva far credere, cosa che però, proprio perché lui era stato il centro assoluto della cerimonia, era una menzogna; senza essersi macchiato di una sola banalità, si mise fra la gente che si accalcava intorno alla fossa. Stavo per sottovalutare Spadolini, pensai. Il discorso del cosiddetto responsabile del Kameradschaftsbund fu meschino, anzi addirittura abietto, il responsabile aveva detto infatti che mio padre, in realtà, aveva vissuto soltanto per i fini del Kameradschaftsbund. Dapprima avevo trovato meschino e abietto il discorso del responsabile, ma qualche minuto dopo già non più, perché dovetti dirmi che fino a un certo punto il responsabile aveva detto la verità. Anche il presidente della società di caccia ha detto la verità, dovetti dirmi, anche i due ex Gauleiter avevano detto la verità, mio padre, il camerata, era uno dei loro, per tutti quelli che ora parlavano lì era stato uno dei loro. Continuavo a ripetermi che era imbarazzante che nessuno, per negligenza, avesse speso una sola parola su mia madre. Ancora davanti alla fossa aperta ho detto a Caecilia che nessuno aveva stimato valesse la pena di dire una parola su nostra madre. Ha parlato il mondo degli uomini, pensai, quel mondo degli uomini non aveva preso atto di nostra madre. E Johannes era una persona affatto irrilevante in tutto quell'insieme, con la sua morte precoce si è reso da solo una persona totalmente irrilevante ed anche priva d'interesse. Di lui, oltre che a portare la sua bara e a calarla nella fossa, non si era più fatta menzione. Era mio padre la grande personalità che andava sfruttata davanti alla fossa, e che tutti sfruttarono a dovere. Una volta di più, era mio padre colui che tornava utile ai loro fini, nessun altro, pensai. L'arcivescovo di Salisburgo e i vescovi gettarono un ultimo sguardo nella fossa aperta e si ritirarono. Al che tutti ci sfilarono dinanzi, a me e alle mie sorelle, com'è consuetudine. Centoventidue boscaioli, ora sono venti, pensai, due dozzine di giardinieri, ora sono sette, pensai davanti alla fossa aperta. Giganteschi danni forestali a nord, fin giù a Gallspach, pensai, trentadue ettari di prima qualità andati perduti solo per il cosiddetto accorpamento fondiario, la collera di mio padre durò settimane. D'altra parte pensavo alla gigantesca evasione fiscale a opera del fiscalista di Wels. Il modo in cui quello pronuncia la parola Wolfsegg mi riempie di repulsione, ed egualmente il modo in cui la pronunciano gli altri, quelli di Wels e di Linz e di Vöcklabruck e di Ebensee. Ho sempre odiato la parola Wolfsegg, pensai davanti alla fossa aperta, ho sempre odiato, esecrato e odiato tutto quanto avesse a che fare con la parola Wolfsegg. Di conseguenza ho sempre odiato, sin dall'infanzia, tutto quanto avesse a che fare con Wolfsegg, questa è la verità, pensai. Gli uni scendono da Wolfsegg al paese ed alle campagne con la stessa falsità con cui gli altri, dal paese e dalle campagne, salgono a Wolfsegg. Fin da molto giovane mi sono ritratto in me, disgustato da loro, pensai ora davanti alla fossa aperta. Il tutto, una gigantesca frode da parte di Wolfsegg, pensai, un'associazione a delinquere vecchia di secoli. Prima ho temuto, poi ho odiato la Chiesa, pensai, prima ho temuto e poi odiato tutto ciò che veniva dalla Chiesa, di un odio sempre più profondo, pensai. In questo paese ed in questo Stato, in definitiva, la Chiesa continua a dominare tutto, pensai davanti alla fossa aperta, in questo paese ed in questo Stato il cattolicesimo continua ad avere tutto in pugno, qualunque sia il governo. Cattolici, ciarlatani, pensai, pastori d'anime intrisi di menzogna. Non vogliamo più averci nulla a che fare, diciamo, e ne siamo nauseati. Al clero cattolico continua a non sfuggire nulla, in questo paese ed in questo Stato, pensai. Sottrarsi, sottrarsi a tutto, non avevo più altro pensiero. Sopportare la cerimonia e poi sottrarmi per sempre, pensai. Vedevo come tutti mi odiassero, neppure in segreto. Interesse filosofico da un lato, disinteresse filosofico dall'altro. Fanatismo dell'arte, rivoltante, pensai. La gente a Roma non è diversa, ancora più bugiarda, ma con che alto grado d'intelligenza, pensai. Qualche centinaio di persone semplicemente non basta, devono essere qualche milione, pensai, milioni di bugiardi, non solo centinaia, milioni di individui repellenti, non solo centinaia. Fare, per così dire, un bagno dello spirito in una città come Roma, e in quel bagno dello spirito scomparire, pensai. I passi degli odiati, le voci degli odiati, pensai davanti alla fossa aperta, l'assoluta repellenza degli odiati. Il funerale è il punto conclusivo, pensai. Non mi hanno insudiciato solo la villa dei bambini, mi hanno insudiciato tutto, pensai. Prima ho temuto la vita, poi l'ho odiata, pensai davanti alla fossa aperta. Se crediamo che Roma sia la soluzione, facciamo un altro errore, com'è naturale. Ci aggrappiamo a una persona come Gambetti, che forse ho già distrutto, o a una persona come Maria, e, malgrado tali persone di carattere, siamo perduti, pensai davanti alla fossa aperta. Ah, sa Gambetti, gli ho detto davanti all'Hotel Hassler, pensai ora davanti alla fossa aperta, se siamo sinceri, il generale processo di istupidimento è già così avanzato che ormai non c'è più ritorno. Dall'invenzione della fotografia, ossia dall'inizio di questo processo di istupidimento oltre cent'anni fa, lo stato mentale della popolazione mondiale non fa che peggiorare. Le immagini fotografiche, ho detto a Gambetti, hanno messo in moto questo processo di istupidimento mondiale, che ha raggiunto una velocità effettivamente letale per l'umanità nel momento in cui quelle immagini fotografiche sono diventate mobili. Ottusamente, l'umanità non guarda ormai altro, oggi e da decenni, se non quelle letali immagini fotografiche, e ne è come paralizzata. Al volgere del millennio il pensiero non sarà più possibile a questa umanità, Gambetti, e il processo di istupidimento, messo in moto dalla fotografia e divenuto abitudine mondiale con le immagini mobili, toccherà i suoi vertici. Esistere in un mondo simile, dominato ormai soltanto dall'ottusità, non sarà più possibile, Gambetti, gli dissi, pensai ora davanti alla fossa aperta, e sarà bene che, prima che quel processo di istupidimento del mondo si sia interamente compiuto, ci togliamo la vita. In questo senso è solo logico, Gambetti, che al volgere del millennio quelli che vivono di pensiero e grazie al pensiero, si siano già tolti la vita. Il mio consiglio a coloro che pensano può essere soltanto quello di togliersi la vita prima del volgere del millennio, Gambetti, è effettivamente la mia convinzione, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Sembrava sempre che volesse piovere da un momento all'altro, ma non piovve. Mi ero prefisso di non porgere la mano a nessuno di coloro che mi sfilavano dinanzi. E così fu. Alcuni fecero il tentativo di porgermi la mano, ma io non presi loro la mano. Mi sono assunto in piena coscienza il peso di quella spiacevolezza. Il solo pensare a questa Austria mutilata e decaduta e ormai finita, pensai, ho detto a Gambetti soltanto qualche giorno prima di questo funerale di quasi intollerabile cattivo gusto, fa già venire la nausea, per tacere di questo Stato in tutto e per tutto decaduto, Gambetti, la cui meschinità e bassezza restano senza eguali non solo in Europa ma in tutto il mondo; da decenni, governi ottusi, meschini e decaduti, e un popolo che quei governi ottusi, meschini e decaduti hanno mutilato a morte fino a renderlo irriconoscibile, avevo detto a Gambetti, pensai ora. Prima quel meschino e ignobile nazionalsocialismo e poi quel meschino e ignobile e criminale pseudosocialismo, ho detto a Gambetti al Pincio, pensai ora davanti alla fossa aperta. La distruzione e l'annientamento nazionalsocialista e pseudosocialista della nostra patria austriaca, in collaborazione con il cattolicesimo austriaco, che per quest'Austria non è mai stato altro se non fonte di sventura. Oggi l'Austria è un paese governato da affaristi senza scrupoli di partiti senza coscienza, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Questo popolo austriaco defraudato di tutto, ho detto a Gambetti, cui negli ultimi secoli, nella maniera più infame, cattolicesimo, nazionalsocialismo e pseudosocialismo hanno estirpato dalla testa l'intelletto, Gambetti, ho detto a Gambetti, pensai ora. Meschinità è la parola d'ordine, bassezza il motore, menzogna la chiave di quest'Austria di oggi, Gambetti. Ogni mattina che ci svegliamo dovremmo vergognarci a morte di quest'Austria di oggi, Gambetti, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Senza sosta torno a dirmi che amiamo questo paese, ma odiamo questo Stato, Gambetti. A Roma, e ovunque nel mondo, Gambetti, pensai ora, ho detto a Gambetti, quest'Austria non ci riguarda più. Ovunque andiamo in quest'Austria di oggi, entriamo nella menzogna, ovunque guardiamo in quest'Austria di oggi, guardiamo solo dentro la menzogna, con chiunque Lei parli in quest'Austria di oggi, Lei parla con un bugiardo, Gambetti, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. In fondo non val la pena di parlare di questo paese ridicolo e di questo Stato ridicolo, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta, e ogni pensiero al riguardo non è altro che tempo sprecato. Ma guai a colui che non sia cieco in questo paese, ho detto a Gambetti, e sordo, e non abbia perduto l'intelletto! Essere austriaco oggi è una pena capitale, e tutti gli austriaci sono condannati alla pena capitale, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Tutto ciò che è austriaco è privo di carattere, ho detto a Gambetti, pensai ora. Il ritorno in Austria produce ogni volta l'impressione di insudiciarsi totalmente, pensai davanti alla fossa aperta. Da parte loro, i decorati dell'Ordine del Sangue, gli SS-Obersturmbannfuhrer appoggiati alle loro grucce ed ai loro bastoni, gli eroi nazionalsocialisti, non mi degnarono di uno sguardo, come si usa dire. Gli invitati al funerale, a eccezione degli arcivescovi e vescovi e dei nostri parenti più stretti, sono stati invitati ad accomodarsi nelle locande Brandl e Gesswagner. La banda, distaccata da mia sorella Caecilia in parte da Brandl, in parte da Gesswagner, si mise a suonare per loro. Gli arcivescovi e i vescovi e i parenti erano stati invitati a pranzo, come si usa dire, su a casa nostra. I più si trattennero fino al tardo pomeriggio. Spadolini partì quella sera stessa per Roma, parto subito con lui, ho pensato dapprima, ma quel pensiero, come ho capito immediatamente, era del tutto insensato. Ci vediamo a Roma fra qualche giorno, gli ho detto. È scomparso con grande discrezione. Mi sono ritirato nella mia stanza con Alexander, chiudendomi nella mia stanza per quei momenti in sua compagnia, non volevo più essere disturbato. Alexander era di nuovo ossessionato da una delle sue idee per la vita, voleva chiedere al presidente del Cile di liberare tutti i prigionieri politici in Cile, la più atroce di tutte le dittature. Non lo infastidì che gli dicessi che la sua richiesta non avrebbe avuto successo. Ripartì per Bruxelles un'ora dopo Spadolini. Rimasi rinchiuso nella mia stanza fino a tarda notte e ne uscii solo quando fui certo di non incontrare più nessuno degli invitati al funerale. In quelle ore avevo riflettuto su cosa avrei fatto di Wolfsegg che, come nel frattempo era stato accertato in maniera inconfutabile, ora apparteneva esclusivamente a me, con tutti i diritti e i doveri, come si dice in linguaggio giuridico. Avevo già in testa un piano per il futuro di Wolfsegg, e di tutto ciò che in Bassa Austria e nel Burgenland e a Vienna fa parte della proprietà, quando, senza ammettere la partecipazione di mio cognato, cosa che espressamente non avevo consentito, ho parlato con le mie sorelle del futuro di Wolfsegg fino alle due del mattino. Alla fine del colloquio non potei dire alle mie sorelle cosa ne sarebbe stato di Wolfsegg, sebbene a quel punto già lo sapessi, dissi loro, che durante l'intera conversazione non avevano avuto nulla da dirmi, ma mi avevano sempre mostrato le loro facce beffarde ed esacerbate, che non sapevo cosa ne sarebbe stato di Wolfsegg, che non avevo la minima idea in proposito, mentre invece ero fermamente deciso a chiedere un colloquio ad Eisenberg a Vienna, nel corso del quale intendevo offrire Wolfsegg, nelle sue attuali condizioni, e tutto ciò che ne fa parte, come dono assolutamente incondizionato, alla Comunità Israelitica di Vienna. Ho avuto quel colloquio con Eisenberg, il mio fratello nello spirito, due soli giorni dopo il funerale, e, in nome della Comunità Israelitica, Eisenberg ha accettato il mio dono. Da Roma, dove sono tornato, dove ho scritto questa Estinzione e dove resterò, scrive Murau (nato nel 1934 a Wolfsegg, morto nel 1983 a Roma), lo ringraziai di aver accettato. (estratto da Estinzione, Adelphi Edizioni, 1996)
|
Note
modifica- ↑ Bernhard, Der Untergeher, p. 93.
- ↑ Bernhard, Alte Meister, p. 108.
- ↑ Bernhard, Auslöschung, p. 34, rr. 9-11.
- ↑ Sorg, Thomas Bernhard, p. 124.
- ↑ Schlichtmann, p. 136.
- ↑ Ulrich Horn, "Überleben durch Übertreiben: Ich-Erzähler beschimpft auch sich selbst", Kölner-Stadt-Anzeiger, 8 gennaio 1987.
- ↑ Bernhard, Auslöschung, p. 507, rr. 8-9 [corsivo nell'originale].
- ↑ Bernhard, Alte Meister, p. 291.
- ↑ Bernhard, Auslöschung, p. 34, r. 15 [corsivo nell'originale].
- ↑ Ibid., p. 137, rr. 12, 14-15 e 15.
- ↑ Ibid., p. 271, rr. 1-3.
- ↑ Ibid., p. 203, rr. 14-15.
- ↑ Ibid., p. 482.
- ↑ Ibid., p. 621, rr. 10-14.
- ↑ Ibid., p. 651, r. 5.
- ↑ Bernhard, Alte Meister, p. 224 [corsivo nell'originale].
- ↑ Bernhard, Auslöschung, p. 388, rr. 2-3 [corsivo nell'originale].
- ↑ Jean-Louis de Rambures, "Ich bin kein Skandalautor", trad. Monika Natter e Isabelle Pignal, in Dreissinger, Von einer Katastrophe, pp. 119-23 (p. 122). Questa intervista venne pubblicata originalmente su Le Monde, 1 febbraio 1985.