Virtù e legge naturale/Parte II

Indice del libro


Alla fine della Guida, dopo aver passato diverse pagine a descrivere l'attività intellettuale quale fine più alto e più completo dell'uomo, Maimonide chiude la sua opera con l'approvazione dell'imitazione di Dio in una vita di attività etica. "Il modo di vivere di un tale individuo, dopo aver raggiunto questa comprensione, avrà sempre in considerazione la benevolenza amorevole, la rettitudine e il giustizia, mediante l'assimilazione alle Sue azioni, che Egli sia glorificato, proprio come abbiamo spiegato più volte in questo trattato."[1] Nello spiegare il caso, Maimonide dice di Dio:

" Rosh Hashanah" di Arthur Szyk, 1948
" Rosh Hashanah" di Arthur Szyk, 1948
« Ma dice che ci si dovrebbe glorificare nell'apprensione di Me stesso e nella conoscenza dei Miei attributi, con cui intende le Sue azioni, come abbiamo chiarito con riferimento al relativo detto: "Fammi ora conoscere le tue vie", et cetera. In questo verso ci chiarisce che quelle azioni che dovrebbero essere conosciute e imitate sono benevolenza amorevole, rettitudine e giustizia. Aggiunge un'altra nozione corroborante dicendo, sulla terra: questo è un perno della Legge.[2] »

La svolta pratica verso la fine della Guida è pronunciata ed esplicita. Nel libro 10 dell’Etica Nicomachea, Aristotele sostiene che l'attività contemplativa e l'immortalità intellettuale sono il nostro fine migliore, ma sostiene anche che siamo esseri umani con necessità di vita politica e dell'attività eticamente virtuosa che fa parte della nostra perfezione. C'è un po' di oscillazione tra il sollecitarci a trascendere la nostra umanità ed il ricordarcelo, coi suoi bisogni ed eccellenze; le difficoltà interpretative sono ben note. Comunque le risolviamo, è chiaro che la visione di Maimonide non oscilla allo stesso modo. Al contrario, c'è una chiara, seppur improvvisa, transizione da ciò che sembra un ideale puramente intellettualista ad una imitatio dei che è sorprendentemente etica.

Forse la transizione è un po' meno problematica per Maimonide a causa della sua concezione di Dio come creatore e come provvidenziale ordinatore del mondo. Per tale motivo, è comprensibile che l'imitazione di Dio debba richiedere attività pratica e attualizzazione intellettuale. Un aspetto chiaro e cruciale di questa differenza è l'Alleanza. Con Noè, con Abramo, con il popolo di Israele, il Signore stipula un'alleanza che indica elementi essenziali dell'ordine provvidenziale del mondo e le promesse di Dio per il futuro. L'alleanza stessa indica l'amore e la tutela di Dio, e questo è qualcosa di alquanto estraneo ad Aristotele. Le alleanze noachiche e sinaitiche implicano chiaramente responsabilità umane. Impongono obblighi il cui adempimento è cruciale per la prosperità umana. L'alleanza sinaitica fonda un popolo la cui vita è modellata dalla Legge e che ha un'unica storia condivisa di nazionalità, anche se manca la forma di un'entità politica.

Nella metafisica di Aristotele e nella sua teoria dell'intelletto di Aristotele, l'attività dell'intelletto attualizzato non ha un organo corporeo ed esiste immortalmente senza alcuna connessione essenziale con l'individuo, il , in cui è stato attualizzato. L'immortalità è più una questione di assimilazione al pensiero che una questione di questo o quell'essere umano individuale che sopravvive alla morte fisica e perdura immaterialmente come soggetto cosciente, un sé. Certo, Maimonide sembra avere più o meno la stessa opinione, tranne (e questa è una notevole eccezione) che l'intelletto immortale è vincolato a Dio, che ha creato e ordinato il mondo. Come nella visione di Aristotele, l'individuo inteso come un "Io" autocosciente con la sua storia personale non sopravvive. Tuttavia, la sua perfezione teleologica implica una relazione con il Dio della creazione e dell'alleanza. Tale elemento provvidenziale, non trovato nella filosofia aristotelica, impone importanti requisiti pratici e fondati sulla comunità come elementi di completa perfezione umana. La redenzione riguarda il popolo, non solo questo e quell'individuo.

Un altro punto di divergenza rispetto ad Aristotele riguarda la visione di Maimonide sulla possibilità, la natura e il carattere obbligatorio del pentimento. Nell'etica di Aristotele, un'azione virtuosa a tutti gli effetti è quella che (a) viene fatta consapevolmente, (b) viene scelta per se stessa (come buona o giusta, non semplicemente come mezzo per qualcosa), e (c) riflette un carattere fisso e immutabile. Insieme, queste costituiscono un ideale. Aristotele non afferma esplicitamente che possiamo sapere se il carattere di una persona sia così fisso che l'agente virtuoso è incorruttibile e l'agente vizioso è incorreggibile. Ma sostiene che gli stati caratteriali tendono a stabilirsi saldamente – la seconda natura – e che è molto difficile alterare gli stati maturi del carattere. È il marchio di uno stolto non riuscire a vedere che attività di un determinato tipo porteranno a determinate disposizioni, a determinati stati di carattere. Il fatto che i nostri atti siano volontari non significa che abbiamo il controllo, atto per atto, sui modi in cui modellano il carattere. (Non possiamo proprio dire quale effetto avrà sul nostro carattere questo o quel particolare atto.) Tuttavia, siamo responsabili dei nostri stati di carattere a causa del nostro ruolo nella loro formazione. E agiamo non meno volontariamente una volta che gli stati di carattere si sono stabiliti in noi. Non è come se fossimo responsabili di questi, ma non degli atti che compiamo perché il nostro carattere è tale.[3]

L'ideale indicato dalle tre condizioni di Aristotele presumibilmente ha una controparte viziosa. L'agente stabilitosi in stati di carattere vizioso, sceglie gli atti sulla base di ciò che considera buono, utile e desiderabile. Non si tratta di qualcuno che la sa lunga ma fa concessioni o è distratto da forti desideri o passioni nel deliberare circa un'azione o nel momento dell'azione. Piuttosto, questa è una persona con concezioni sbagliate o perverse del bene, che fa ciò che crede sia bene fare. L'agente vizioso è diverso in questo senso dall'agente incontinente.

Un merito importante dell'agente profondamente virtuoso è che è solo minimamente attratto da ciò che è abietto o ingiusto. Tali cose non hanno risonanza per la persona virtuosa e possono semplicemente passare inosservate. Oppure, se vengono suggerite come considerazioni di guida all'azione, l'agente virtuoso può rispondere sulla falsariga di "Ma che dici? Non posso farlo ", laddove l'avversione all'atto è una questione caratteriale dell'agente, non una questione di circostanze, opportunità, logica o causalità naturale. Le considerazioni che pesano come ragioni a favore del fatto che l'agente vizioso faccia X pesano come ragioni contro il fatto che l'agente virtuoso compia un simile atto. Quest'ultimo non gradirebbe e non vedrebbe alcun senso nell'agire per tali motivi.

Uno dei difetti dell'agente vizioso è che probabilmente non sarà motivato a intraprendere il tipo di riflessione che porterebbe al giudizio – e quindi alla decisione – di autocorreggersi eticamente e darsi da fare per acquisire abitudini diverse e migliori. Oppure potrebbe rendersi conto che il suo carattere è arido in modi di cui si rammarica, ma è così radicato che non può andare oltre al rimpianto onde ottenere una riforma etica interiore. Forse può vedere cosa c'è che non va, ma non può cambiare – "non può farlo" – poiché, ancora una volta, l'impossibilità del cambiamento è fondata sul carattere. Questo non vuol dire che nessuna circostanza e nessuno sforzo non potrebbero far superare i vizi a questa persona. Tuttavia, potremmo scoprire che, dato quello che sappiamo di una determinata persona, non sarebbe ragionevole aspettarsi che tale persona cambi in meglio: la comprensione corrotta dell'agente e gli affetti e gli appetiti mal combinati, possono rendere molto improbabile che egli/ella riconosca la giusta ragione in quanto tale. Potrebbe essere irraggiungibilmente alienato/a dalla comprensione della persona virtuosa.

Note modifica

  1. Mosè Maimonide, La guida dei perplessi (qui, e in tutto il presente studio, faccio uso della trad. ingl. The Guide for the Perplexed di Shlomo Pines, con introduzione di Leo Strauss, vol. 2, University of Chicago Press, 1963, 3:54, p. 638).
  2. The Guide for the Perplexed, 3:54, p. 637.
  3. Si vedano Terence Irwin, I principi primi di Aristotele, Vita e Pensiero, 1996; Marvin Fox, Interpreting Maimonides, University of Chicago Press, 1990, passim.