Storia della letteratura italiana/Teatro del secondo Novecento
Nel dopoguerra il teatro mantiene una continuità con la produzione dell'epoca precedente. Perde tuttavia di importanza la figura dello scrittore che compone testi teatrali per affidarli a una compagnia. Nella drammaturgia del Novecento, l'autore è un uomo di teatro in senso ampio, spesso un attore, che elabora da sé i copioni per gli spettacoli e nella maggior parte dei casi ne cura anche la regia.[1]
In questo scenario si distinguono le opere di autori come Ugo Betti e Diego Fabbri, che nella forma simbolica del processo e dell'indagine affrontano tematiche morali. Importanti sono anche le esperienze drammaturgiche di alcuni scrittori di cui si è già parlato: in questo caso si possono citare Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Alberto Moravia, Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini.[2] Degne di nota sono infine le personalità di Eduardo De Filippo e Dario Fo, Premio Nobel per la letteratura nel 1997.
Nascita e affermazione del teatro di regia
modificaSi può affermare che il 1947 rappresenta uno spartiacque nella storia del teatro italiano contemporaneo. Il 24 luglio si chiudeva infatti la prima stagione del Piccolo Teatro di Milano con l'Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, con la regia di Giorgio Strehler (Trieste, 14 agosto 1921 – Lugano, 25 dicembre 1997). Nei primissimi anni del dopoguerra è forte a Milano - e in generale in tutta Italia - l'esigenza di rinnovamento e di riscoprire la propria identità culturale. Un tentativo di rispondere a questa necessità è proprio la nascita del Piccolo Teatro, fondato da Strehler insieme a Paolo Grassi, Virgilio Tosi e Mario Apollonio.
Con l'obiettivo di fare un teatro d'arte che sia accessibile a tutti, ci si propone di restituire all'arte drammatica la sua funzione sociale e formativa, senza però scadere nella propaganda ideologica. Si spiega così la decisione di cambiare il protagonista della commedia da Truffaldino ad Arlecchino, una maschera conosciuta a un pubblico più ampio. Strehler crea inoltre una struttura metateatrale all'opera di Goldoni: sul palcoscenico una compagnia di attori finge di voler mettere in scena lo spettacolo. In questo modo la commedia dell'arte viene calata nella realtà concreta del corpo dell'attore. Allo stesso tempo, la cornice contestualizza la commedia nel suo momento storico. Viene inoltre esaltata la comicità gestuale tipica della commedia dell'arte.[3]
Veniva così introdotto in Italia, con un certo ritardo rispetto al resto d'Europa, il teatro di regia. Il regista diventa una figura centrale del fare teatro, che non si limita agli aspetti esecutivi e organizzativi ma partecipa all'ideazione dello spettacolo. Dopo Milano, il teatro di regia a Genova, Torino, Roma e poi nel resto della penisola. Oltre a Strehler il teatro italiano del Secondo Novecento conosce altri registi, con metodi e sensibilità diverse, come Luchino Visconti (Milano, 2 novembre 1906 – Roma, 17 marzo 1976), Luigi Squarzina (Livorno, 18 febbraio 1922 – Roma, 8 ottobre 2010), Vito Pandolfi (Forte dei Marmi, 24 dicembre 1917 – Roma, 19 marzo 1974).
Ma al di là delle differenze, la regia italiana del dopoguerra opera interpretando il testo, analizzandolo nel suo contesto storico e cercando di capire quali relazioni può instaurare con la contemporaneità. Il regista si pone quindi in una posizione critica nei confronti dei lavori da portare in scena, studiandone anche la struttura narrativi e la stratificazione dei linguaggi possibili. Si procede poi a una scomposizione del copione, che viene poi ricomposto in un ordine che non segue necessariamente l'organizzazione narrativa prevista inizialmente.[4]
La seconda generazione del teatro di regia
modificaTuttavia già negli anni Sessanta, nel generale clima di contestazione artistica e sociale, si assiste a una reazione al teatro di regia, che ne mette in discussione l'asse testo-interpretazione e la stessa autorità del regista. Questa è osservabile anche all'interno del teatro di regia, con l'affermazione di una seconda generazione di registi che ha tra i suoi principali rappresentati Massimo Castri (Cortona, 25 maggio 1943 – Firenze, 21 gennaio 2013) e Luca Ronconi (Susa, 8 marzo 1933 – Milano, 21 febbraio 2015).
Ronconi in particolare modifica gli equilibri che avevano caratterizzato il teatro di regia italiano. Il regista si pone nei confronti del testo assumendo un ruolo drammaturgico, lavorandoci e riadattandone la struttura drammatica secondo criteri più personali. In altre parole, dall'interpretazione del testo (la cui validità viene messa in discussione) si passa a una riscrittura drammaturgica. Su questa linea si collocano anche i lavori di drammatizzazione di opere letterarie, come gli spettacoli tratti da Quer pasticciaccio brutto di via Merulana di Gadda (1996) e dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij (1998).
Apice di questa sua attività è la trasposizione teatrale dell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto, a cui collabora anche Edoardo Sanguineti per la stesura del copione. Ronconi la porta sulle scene al Festival di Spoleto il 24 luglio 1969, nel pieno della contestazione che stava investendo la società, la cultura e anche il teatro. L'Orlando furioso di Ronconi presenta vari elementi di novità, a cominciare dal luogo scelto per la rappresentazione: una chiesa sconsacrata. L'azione non avviene su un palcoscenico ma in mezzo al pubblico, che è chiamato ad avere un ruolo attivo, in una contaminazione tra attori e spettatori. Lo spazio scenico era inoltre strutturato su due palchi, sui quali si svolgevano le diverse azioni, che spesso erano simultanee. Il pubblico era così costretto a una ricezione policentrica di quello che stava avvenendo. In questo modo, Ronconi frammenta la linearità della narrazione e i frammenti vengono ricostruiti dallo spettatore attraverso la sua scelta percettiva.[5]
Il Nuovo Teatro italiano
modificaNegli anni sessanta la contestazione delle forme istituzionalizzate trova la sua espressione più radicale in quello che veniva chiamato "Nuovo Teatro". Si tratta di un fenomeno variegato e complesso, le cui origini si possono fare risalire già al 1959, quando in Italia e in Europa si presentano i primi esempi di teatro alternativo a quello di regia. Alla loro base c'erano princìpi come la maggiore attenzione alla scena rispetto alla parola, e la centralità dell'azione creativa rispetto al prodotto artistico finito. A questo si aggiunge la decostruzione dello spettacolo e della sua narrazione.
Un momento fondamentale è il convegno sull'avanguardia tenutosi a Ivrea nel 1967 e promosso da Giuseppe Bartolucci, Franco Quadri, Edoardo Fadini ed Ettore Capriolo. Sebbene fermenti di rinnovamento fossero già in corso da anni, il convegno, e il manifesto programmatico che ne è scaturito, ha rappresentato una demarcazione in grado di dare un orizzonte comune alle diverse esperienze fino ad allora tentate.
Negli Elementi di discussione del Convegno per un Nuovo Teatro, firmato dai quattro promotori, sono indicati alcuni punti chiave attorno ai quali ruota la nuova estetica. Basilare è il concetto di teatro collettivo, dietro a cui si cela il rifiuto dei linguaggi usati dal teatro di regia. A questo viene preferita una creazione collettiva, frutto di un lavoro di gruppo. Gli autori parlavano inoltre di teatro laboratorio, auspicando un rinnovamento del teatro e dei suoi codici, attraverso la sperimentazione di nuove strade. Bartolucci utilizzava l'espressione scrittura scenica per indicare pratiche sperimentali che miravano a finalità espressive e non rappresentative. Parola, gesto, suono, spazio costituiscono insieme il linguaggio teatrale e sono un tramite comunicativo diretto con il pubblico, che quindi non richiede più la mediazione del regista.[6]
Il Teatro immagine e la Postavanguardia
modificaIn continuità con il Teatro Nuovo si collocano due tendenze che si sviluppano nel corso degli anni settanta: il Teatro immagine e la Postavanguardia. Dietro a entrambe si staglia la figura di Giuseppe Bartolucci (Fratte Rosa, 18 agosto 1923 – Roma, 22 settembre 1996), che da critico teatrale assume il ruolo di vero e proprio animatore, fornendo le basi teoriche necessarie.[7]
Il Teatro immagine è attivo nella prima metà degli anni settanta. I suoi principali esponenti sono Memè Perlini, Giuliano Vasilicò e il gruppo del Carrozzone. Queste esperienze sono accomunate dal fatto di privilegiare gli elementi visivi della scena rispetto alle altre componenti. La narrazione si svolge attraverso singole immagini accostate le une alle altre. Il nuovo linguaggio teatrale evita il filtro della rappresentazione, ma si riduce a cosa agita in maniera diretta.
Queste tendenze trovano il loro apice nella Postavanguardia. Nata nel 1976, si sviluppa per tutta la seconda metà degli anni settanta e vi partecipano alcuni importanti rappresentanti del teatro italiano contemporaneo, come Barberio Corsetti, Tiezzi, Martone, Castellucci e Toni Servillo. Alcuni di questi rientrano nella terza generazione della regia italiana.
Proprio nel 1976, durante la rassegna Incontro/azione a Salerno, Bartolucci parla provocatoriamente di fine dell'avanguardia e proponeva un profondo rinnovamento del teatro. Le pratiche decostruttive del Nuovo Teatro vengono radicalizzate: non conta più l'atto teatrale ma in sé, ma la capacità di mettere in discussione il linguaggio attraverso quell'atto. Un esempio estremo è Autodiffamazione di Simone Carella, in cui la scena è vuota, senza attori, e il palcoscenico è occupato soltanto da una sedia vuota. Sulle pareti della sala venivano intanto mostrate riprese dai funerali di Majakovskij, un concerto di La Monte Young e Anne Paxton che danza. Lo spettacolo viene così negato. Lo spettatore è invitato non ad assistere ma a riflettere sulla mancanza, che poi è l'assenza dello spettacolo.
L'esperienza della Postavanguardia si esaurisce nel giro di tre anni. I suoi protagonisti continuano però a lavorare, recuperando elementi provenienti dalla cultura pop, per cui si parla di media teatro o teatro metropolitano. Rimane tuttavia la tendenza a trattare analiticamente il linguaggio.[8]
Il teatro d'attore
modificaAccanto al teatro di regia si afferma una forma alternativa di teatro, sviluppato da attori che portano avanti una propria scrittura teatrale. Che l'attore non sia un semplice interprete ma sia anche portatore di una propria drammaturgia è un concetto affermatosi nel corso del Novecento. Nasce così una nuova figura di attore-artista, estraneo rispetto al teatro di regia e alla drammaturgia letteraria.[9]
In questo contesto, Eduardo De Filippo viene considerato come un continuatore della tradizione, che ha portato il teatro napoletano ad affermarsi a livello nazionale e sovranazionale. Diverso è invece il teatro di Dario Fo, che nasce da una matrice intellettuale: la sua drammaturgia nasce dalla dialettica tra la parola e il linguaggio del corpo, attraverso la quale costruisce la narrazione e rinnova la tradizione.
Estremamente originale è poi il teatro di Carmelo Bene (Campi Salentina, 1º settembre 1937 – Roma, 16 marzo 2002), che procede a vere e proprie riscritture attraverso le quali scardina la coerenza narrativa dei testi. Ne è un esempio il lavoro da lui svolto su alcune tragedie di Shakespeare. I testi vengono disarticolati, perdono la loro unità originaria, e Bene li usa per scrivere al loro interno un proprio dramma. Non si tratta quindi di un'interpretazione ma, appunto, di una riscrittura, di cui l'attore-artista prende tutte le responsabilità autoriali.[10]
Affine è il procedimento di Leo de Berardinis (Gioi, 3 gennaio 1940 – Roma, 18 settembre 2008), che assume come proprio strumento drammaturgico il comico, inteso come antagonista del tragico. Questo non vuol dire assolutamente che Leo (come viene solitamente chiamato) faccia del teatro comico; piuttosto fa del teatro tragico rivolgendosi al grottesco. Negli spettacoli in cui prevale l'aspetto irriverente, il tragico interviene all'improvviso per squarciare il riso; vicevera, quando è il tragico a dominare, una nota irriverente giunge per rompere l'intensità del momento e l'equilibrio del dramma. La sua è una drammaturgia "instabile", ed è anche il più ardito ed estremo tentativo di eliminare ogni forma e formalismo. Il teatro di Leo si costruisce di fronte al pubblico, nel momento in cui il riso distrugge ogni elemento, attribuendogli allo stesso tempo un'aura sublime.[11]
Note
modifica- ↑ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 189.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1062.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 321-323.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 324-325.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 326-328.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 329-331.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, p. 332.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 333-335.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 339-340.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, p. 345.
- ↑ Lorenzo Mango, Il teatro italiano dal dopoguerra a oggi, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, p. 348.