Storia della filosofia/Scetticismo
Le origini dello scetticismo classico si collocano nella Grecia del IV secolo a.C. Una tradizione accademica ormai consolidata suddivide lo scetticismo in tre periodi:[1]
- pirronismo,
- scetticismo della media Accademia,
- neoscetticismo.
Pirronismo
modificaIl pirronismo deriva la sua denominazione da Pirrone di Elide (360-275 a.C.) e fa capo a lui e al suo discepolo Timone di Fliunte (circa 320 a.C. - circa 230 a.C.). La corrente filosofica, che si sviluppa tra la seconda metà del IV secolo a.C. e il III secolo a.C., afferma l'impossibilità di conoscere una realtà sempre contingente e mutevole; al saggio, perciò, non resta che l'aphasía: restare come muto e rinunciare ad ogni affermazione qualificante.
Poiché in queste condizioni non esiste conoscenza, ne consegue che anche il comportamento pratico, che discende dal sapere, dovrà basarsi sull'assenza di ogni specifica azione considerata buona "in sé"; in questo modo il saggio può conseguire così l'atarassia (ἀταραξία), cioè l'imperturbabilità, la capacità di non farsi coinvolgere in passioni e sentimenti, e attraverso questa imperturbabilità raggiungerà la felicità, che è il fine di ogni percorso filosofico.
Lo scetticismo di Pirrone sorgeva dalla sua stessa esperienza esistenziale, dalla sua vita. Pirrone, infatti, aveva seguito Alessandro Magno in Oriente, dove aveva potuto incontrare popoli con altri valori, altri criteri di vita: come si sarebbe potuto dare ragione agli uni piuttosto che agli altri? È inoltre possibile che, proprio in Oriente, Pirrone sia venuto a contatto con forme di pensiero che teorizzavano la vanità di ogni conoscenza (Māyā).
Lo scetticismo finì così per riempire la vita stessa di Pirrone. Il filosofo visse con coerenza il proprio essere scettico: non lasciò teorie scritte e organizzate; dimostrò che la vita ha un senso anche senza che abbia alla sua base qualcosa che si reputi come verità (è lo sconvolgimento della ricerca della physis e del collegamento physis-areté dell'intellettualismo socratico-platonico-aristotelico). Se l'essere umano non è in grado di cogliere la physis, lo scetticismo diventa esso stesso uno stile di vita, dando così un significato all'esistenza umana.
Pirrone, come riporta il suo discepolo Timone, citato a sua volta da Eusebio di Cesarea, affermava che chi vuole essere felice deve considerare:
- quale sia la natura delle cose,
- come noi dobbiamo disporci di fronte ad esse,
- quali siano le conseguenze di questa disposizione.
Rispetto al primo problema, Pirrone afferma che le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili. Ma a essere indifferenti sono le cose in sé stesse, oppure è così che si presentano a noi a causa dei nostri strumenti conoscitivi inadeguati? Molto probabilmente Pirrone deve essere interpretato nel primo senso: come uno che "sa" che le cose sono in sé indifferenti, immisurabili e indiscriminabili, come uno che sia riuscito a conoscere in qualche modo la natura del divino e del bene e di fronte a questa esperienza, che non si può verbalizzare o concettualizzare, gli enti perdono di significato e di spessore.
Si tratta, quindi, di uno scetticismo "relativo", non assoluto (non a caso Cicerone metteva Pirrone tra i filosofi dogmatici): una verità assoluta viene colta, ma è incomunicabile. La disposizione corretta di fronte alle cose è dunque quella di un distacco teoretico e pratico. Conseguenze sono proprio l'aphasia (a livello teoretico, l'atteggiamento scettico più coerente) e l'atarassia (a livello pratico: pace interiore come conseguenza dell'indifferenza).
Lo scetticismo è perciò un'ipotesi gnoseologica di carattere autolimitativo e pragmatico, che guarda alla realtà e ne trae i pochi elementi certi ed utili per impostare un orizzonte anti-dottrinario e condurre la propria esistenza in modo imperturbabile e indifferente alle emozioni della contingenza.
Ciò non comporta affatto la negazione dell'esistenza stessa del mondo reale, ma piuttosto che le teorie su di esso non possono pretendere di spiegarne la natura profonda. Così anche «Timone, discepolo di Pirrone, è convinto che l'indifferenza assoluta di fronte a tutte le cose porti all'afasia e all'imperturbabilità. Cioè alla felicità.» [2]
Scetticismo nella media Accademia
modificaIn questa sua seconda stagione, lo scetticismo si muove verso posizioni più radicali: i filosofi che difendono questa posizione si fanno sostenitori dell'inesistenza di ogni principio di conoscenza o verità, e rivolgono tutto il proprio impegno a combattere il dogmatismo, in specie quello sostenuto dagli stoici.
Il problema della conoscenza
modificaL'unico atteggiamento del saggio deve essere quello della epoché (ἐποχή), ossia della sospensione del giudizio, ossia l'astensione da un determinato giudizio o valutazione qualora non risultino disponibili sufficienti elementi per formulare il giudizio stesso, sino a giungere al radicale rifiuto della catalessi, cioè dell'assenso a qualsiasi pronunciamento della ragione a proposito della realtà.[3]
Uno dei principali esponenti dello scetticismo della Media Accademia fu Arcesilao, che negava la possibilità di qualsiasi conoscenza vera come sostenevano gli stoici, secondo i quali noi riceviamo dagli oggetti una sensazione, che produce una rappresentazione alla quale l'uomo dà razionalmente il suo assenso (catalessi). Arcesilao contestava questa concezione degli stoici poiché la rappresentazione si origina da un evento sensibile, per sua natura contingente, a cui la catalessi si applica in modo automatico e acritico.
Carneade allargò la critica di Arcesilao a tutti i sistemi filosofici, non solo a quello stoico: non esiste alcun criterio assoluto di verità, né la via empirica, né la via razionale, né l'unione delle due.
Il problema morale
modificaSe però secondo lo scetticismo alla ragione non è data la possibilità di conoscere il vero come potrà essa guidare i comportamenti morali dell'uomo? Per l'etica stoica, il saggio conosce la verità e si comporta di conseguenza, e per la massa di coloro che non riescono a raggiungere personalmente la verità la guida da seguire sarà quella del dovere, imposto dalla società e dalle tradizioni morali.
Per Arcesilao il comportamento morale non è dettato da sicuri motivi razionali ma solo su ciò che appare "ragionevole", "plausibile". Noi umani non siamo in grado di dare fondamento ad un'etica: l'etica stessa si impone, senza motivare razionalmente ciò che prescrive di mettere in atto.
Gli stessi principi di non assolutezza guidano la morale secondo Carneade che la fonda sul πιθανόν (pithanòn, "persuasivo"), sul "probabile":
- l'uomo deve seguire quei giudizi, quelle rappresentazioni, che sembrano avere qualche probabilità di essere vere (senza cercarne la verità in assoluto);
- tra questi giudizi, bisogna scegliere quell'unico che appaia probabile e che non sia contraddetto dall'insieme degli altri giudizi.
Quindi, anche se non si può fondare l'etica su una base di affermazioni "assolutamente vere", le scelte non possono essere fatte a caso: il probabilismo diventa così l'esito etico dello scetticismo.
La fine di ogni certezza
modificaGli scettici del periodo centrale dell'Ellenismo, inoltre, sembrano prendere coscienza che dalla estremizzazione del dubbio non può sfuggire neanche lo scetticismo stesso: anche ciò che sostiene lo scettico ricade sotto il dubbio radicale, come facevano notare gli stessi Arcesilao[4] e Carneade,[5] i quali affermavano che alla fine non potevano avere nessun principio di certezza, neppure i principi da essi stessi assunti come guide dell'azione pratica (la "ragionevolezza" secondo Arcesilao, e il "persuasivo" secondo Carneade).
Neanche questi criteri dell'azione pratica, quindi, hanno un valore di certezza dogmatica o sono in grado di farci conseguire con certezza la felicità ma comunque possono facilitare il nostro agire indicandoci ciò che è opportuno e utile fare, così come risulta dalla constatazione di un gran numero di casi nei quali quei criteri proposti dallo scetticismo sono stati efficaci.
Note
modifica- ↑ Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1981, p. 826
- ↑ Aristocle di Messene in Eusebio di Cesarea, Praep. evan., XIV, 18, 2-5
- ↑ Cicerone, Lucullo, XVIII, 59; Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 156-157
- ↑ Cicerone, Varrone, XII, 45
- ↑ Cicerone, Lucullo, IX, 28