Storia della filosofia/Plotino

Storia della filosofia

Plotino è considerato uno dei più importanti filosofi dell'antichità, erede di Platone e padre del neoplatonismo. Le informazioni biografiche che abbiamo su di lui provengono per la maggior parte dalla Vita di Plotino, composta da Porfirio come prefazione alle Enneadi. Queste furono gli unici scritti di Plotino, che hanno ispirato per secoli teologi, mistici e metafisici "pagani" (come, ad esempio, il suo allievo Porfirio, Amelio, Giamblico, Teodoro di Asine, la scuola siriaca e quella di Pergamo, Giuliano imperatore, Salustio, Plutarco, Domnino, Siriano, Proclo), cristiani, ebrei, musulmani e gnostici.

Biografia

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L'informazione sul suo luogo di nascita, Licopoli (in Egitto), si deve alla Suda.[1] Porfirio[2] riteneva che Plotino, suo maestro, avesse sessantasei anni quando morì nel 270 d.C., nel secondo anno di regno dell'imperatore Claudio II, il che ci fa presumere che fosse nato intorno al 204 d.C.

Plotino aveva un'innata sfiducia nella materialità (caratteristica comune al platonismo), ritenendo che i fenomeni e le forme (eidos) fossero una pallida immagine o imitazione (mimesis) di qualcosa «di più alto e comprensibile» [VI. I] che era «la parte più vera dell'autentico Essere». Questa sfiducia si estendeva al corpo, compreso il proprio; Porfirio riporta che una volta rifiutò di lasciarsi dipingere un ritratto, probabilmente per questo scarso apprezzamento della propria figura.[3] Allo stesso modo, Plotino non parlò mai dei suoi avi, della sua infanzia, e del suo luogo e data di nascita.[2] Eunapio tuttavia riporta che nacque a Licopoli, nella provincia romana d'Egitto, ed è possibile che fosse un egiziano ellenizzato. Da tutti i resoconti biografici risulta che si mostrò sempre persona di altissime qualità morali e spirituali.

Plotino intraprese lo studio della filosofia a ventisette anni, attorno al 232, e a tal fine si recò ad Alessandria d'Egitto. Qui non fu soddisfatto di nessun insegnante, finché un conoscente gli suggerì di ascoltare le lezioni di Ammonio Sacca. Dopo aver assistito a una sua lezione, dichiarò all'amico: «È questo l'uomo che cercavo», e cominciò a studiare sotto la guida del suo nuovo maestro. Oltre ad Ammonio, Plotino fu influenzato dalle opere di Alessandro di Afrodisia, di Numenio di Apamea, e da vari stoici.

Spedizione in Asia e trasferimento a Roma

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Passò i seguenti undici anni ad Alessandria fin quando, ormai trentottenne, decise di investigare gli insegnamenti filosofici dei Persiani e degli Indiani,[4] in quanto nel pensiero dell'epoca sia i gimnosofisti indiani sia i magi persiani erano considerati, accanto ai saggi d'Egitto,[5] una delle principali fonti della conoscenza sapienziale. Per questo lasciò Alessandria unendosi all'esercito di Gordiano III che marciava sulla Persia. La campagna militare però fu un fallimento e, alla morte di Gordiano, Plotino si trovò abbandonato in una terra ostile, e fu con grandi difficoltà che riuscì a trovare la via del ritorno verso la sicura Antiochia di Siria.

A quarant'anni, durante il regno di Filippo l'Arabo, venne a Roma, dove passò la maggior parte degli anni successivi. Qui creò la sua scuola neoplatonica che attirò un gran numero di studenti. La cerchia più ristretta comprendeva Porfirio, l'etrusco Amelio, il senatore Castrizio Firmo e Eustochio di Alessandria, un medico che si dedicò a imparare da Plotino e gli fu accanto fino alla morte. Tra gli altri studenti si ricordano: Zethos, di origine araba che morì prima di Plotino, lasciandogli una somma di denaro e un po' di terra; Zotico, critico e poeta; Paolino, un dottore di Scitopoli; Serapione di Alessandria.[6] Aveva altri studenti nel Senato romano oltre a Castrizio, come Marcello Oronzio, Sabinillo, e Rogaziano. Tra i suoi studenti si annoveravano anche donne, come Gemina, nella cui casa visse durante la sua residenza a Roma, e la figlia di lei, anch'essa chiamata Gemina; Amficlea, moglie di Aristone figlio di Giamblico (ma non si tratta del filosofo, posteriore a Plotino, che porta lo stesso nome).

Gli anni successivi

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A Roma, Plotino si guadagnò anche il rispetto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Cornelia Salonina. Plotino tentò di interessare l'imperatore alla ricostruzione di un accampamento abbandonato in Campania, noto come la 'Città dei Filosofi', altrimenti nota come Platonopoli, in quanto gli abitanti avrebbero dovuto vivervi secondo la costituzione scritta nelle Leggi di Platone. Tuttavia non riuscì mai a ottenere un sussidio imperiale per ragioni ignote a Porfirio, che riporta l'episodio.

 
Porfirio, discepolo di Plotino

Plotino visse i suoi ultimi giorni in una proprietà in Campania, forse situata nei pressi delle antiche terme vescine[7], lasciatagli dall'amico Zethos. Secondo il racconto di Eustochio, che gli fu accanto al momento del trapasso, le sue ultime parole furono: «Sforzatevi di restituire il Divino che c'è in voi stessi al Divino nel Tutto». Eustochio racconta che un serpente strisciò sotto il letto dove giaceva Plotino, e sgusciò via attraverso un buco nel muro; nello stesso istante Plotino morì.

Plotino non scrisse nulla fino all'età di 49 anni, per mantenere la promessa, fatta al suo maestro, di non rivelare la sua dottrina per iscritto; in seguito però si convinse a scrivere i saggi che sarebbero diventati le Enneadi nel corso di diversi anni, dal 253 d.C. circa fino a pochi mesi dalla morte, avvenuta diciassette anni più tardi. Porfirio precisa che le Enneadi, prima di essere compilate e riordinate da lui stesso, erano un enorme accumulo di note e saggi che Plotino usava nelle sue lezioni e nei dibattiti, più che un vero libro.

Plotino non poté rivedere il proprio lavoro a causa di problemi di vista, anche se, secondo Porfirio, i suoi scritti richiedevano sempre una revisione dettagliata: la sua grafia era orrenda, non separava adeguatamente le parole, e gli importava poco delle sottigliezze dell'ortografia. Non gli piaceva il lavoro editoriale e affidò il compito a Porfirio, che non solo rivide le sue opere, ma le mise nell'ordine con cui ci sono giunte.

Dottrina

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La dottrina di Plotino nasce dalla constatazione che al vivere è essenziale l'unità[8]. Mentre l'artigiano costruisce l'uno a partire dai molti, cioè assemblando più parti tra loro, la natura sembra operare in senso inverso: da un principio semplice fa scaturire il molteplice. Ad esempio, nell'individuo Socrate sembra operare un unico principio o logos, che articolandosi ne determina l'aspetto, come il volto, o il naso camuso; questo non è modellato da uno scultore, ma si sviluppa da sé, in virtù di una forza interiore che è la stessa che fa vivere Socrate. Plotino chiama Anima del mondo il principio vitale da cui prendono forma le piante, gli animali, e gli esseri umani. È da questo principio universale che è possibile comprendere i gradi inferiori della natura, non viceversa. La vita, secondo Plotino, non opera assemblando singoli elementi fino ad arrivare agli organismi più evoluti e intelligenti, ma al contrario, l'intelligenza dev'essere già presente dentro di lei.

Ciò evidentemente è possibile perché l'Anima discende a sua volta da una superiore unità in cui immediatamente coesistono quelle forme intelligibili (le idee platoniche), che per il suo tramite diventano le ragioni immanenti e formanti degli organismi. Le idee devono tuttavia restare in sé trascendenti, espressioni di un medesimo Intelletto o Pensiero autocosciente, che pensandosi si rende oggetto a sé stesso. In lui, essere e pensiero formano così un unicum. Tale identità di essere e pensiero è però ancora un'identità di due realtà distinte, benché coincidenti. Secondo Plotino occorre allora ammettere il puro Uno al di sopra di questa stessa identità, quale principio ineffabile del Tutto.

L'Uno è la prima, totalmente trascendente ipostasi, cioè la prima realtà sussistente. Esso non può contenere alcuna divisione, molteplicità o distinzione; per questo è al di sopra persino di qualsiasi categoria di essere. Il concetto di "essere" deriva infatti dagli oggetti dell'esperienza umana, ed è un attributo di questi, ma l'infinito trascendente Uno è al di là di tali oggetti, quindi al di là dei concetti che ne deriviamo.

Anche Parmenide, a cui Plotino intende esplicitamente richiamarsi,[9] aveva individuato nell'unità l'attributo primario dell'essere (per un'impossibilità logica di pensarlo diviso). Ma nel rifarsi a lui, Plotino cerca di dare maggiore coerenza e organicità al pensiero di Platone, di cui si considera erede, conservando la nozione di filosofia come eros e come dialettica. Platone aveva posto al principio di tutto non l'Uno, ma una dualità, tentando così di fornire una spiegazione razionale al molteplice. Secondo Plotino invece la dualità è un principio contraddittorio, che egli collocherà piuttosto nell'Intelletto, da lui identificato anche con l'essere parmenideo. Plotino così pone l'Uno al di sopra dell'Essere a differenza non solo di Parmenide, ma anche di Aristotele e Platone.

L'Uno «non può essere alcuna realtà esistente» e non può essere la mera somma di tutte queste realtà (diversamente dalla dottrina stoica che concepiva Dio immanente al mondo), ma è «prima di tutto ciò che esiste». All'Uno quindi non si possono assegnare attributi. Ad esempio, non gli si possono attribuire pensieri perché il pensiero implica distinzione tra il pensante e l'oggetto pensato. Allo stesso modo, non gli si può attribuire una volontà cosciente, né attività alcuna[10]. Plotino nega implicitamente anche una natura senziente o autocosciente per l'Uno[11]. Acconsente di chiamarlo "Bene", ma con tutte le cautele del caso:

« L'Uno non può essere una di quelle cose alle quali è anteriore: perciò non potrai chiamarlo Intelligenza. E nemmeno lo chiamerai Bene, se Bene voglia significare una tra le cose. Ma se Bene indica Colui che è prima di tutte le cose, lo si chiami pure così. »
 
L'Uno emana le ipostasi «come un'irradiazione, come la luce del sole splendente intorno ad esso».[12]

In IV,5,6 Plotino paragona l'Uno al sole, l'Intelletto alla luce, e infine l'Anima alla luna, la cui luce è solo un «derivato conglomerato della luce del sole». Dell'Uno nulla si può dire, a meno di non cadere in contraddizione. L'Uno può essere arguito solo per via negativa, dicendo ciò che esso non è: quella di Plotino è pertanto una teologia negativa o apofatica, assimilabile alle religioni orientali come l'induismo, il buddhismo e il taoismo.

"Uno" è anch'esso un termine improprio, usato solo per distinguerlo dai molti. Nel risalire a Lui, Plotino ricorre al principio logico secondo cui il "meno perfetto" deve di necessità emanare dal "più perfetto". Così tutta la "creazione" discende dall'Uno in stadi successivi di sempre minore perfezione. Volendo trovare un perché a questa discesa, potremmo immaginare l'Uno come volontà[13] che dona all'esterno di sé il risultato della sua natura attributiva (essendo la natura della volontà quella di volere). Questo donare però esula chiaramente da qualunque esigenza razionale; se infatti l'Uno andava ammesso per una necessità della logica formale, poiché non potremmo avere coscienza dei molti senza rapportarli all'uno, una tale necessità viene invece a mancare quando, nel discendere, cerchiamo ragioni che costringano l'Uno a uscire da sé e generare il molteplice. Egli infatti è del tutto autosufficiente, essendo "causa di sé". Assegnare ragioni all'Uno è peraltro impossibile, essendo Egli piuttosto la fonte di ogni ragione: diciamo allora che la necessità del donare fa parte della sua natura, ma non perché ne abbia bisogno. L'Uno genera in maniera assolutamente disinteressata e involontaria gli stadi a sé inferiori.[14] Questi stadi non sono temporalmente isolati, ma si susseguono lungo un processo costante, in un ordine eterno. I filosofi neoplatonici successivi, specialmente Giamblico, aggiunsero centinaia di esseri ed emanazioni intermedie tra l'Uno e l'umanità, mentre il sistema plotiniano rimane relativamente semplice.

L'Intelletto (Nous)

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La seconda ipostasi è quella dell'Intelletto, generato — non creato — per emanazione o processione (apòrroia). L'emanazione avviene per una sorta di auto-contemplazione estatica dell'Uno: nel contemplarsi, l'Uno si sdoppia in un soggetto contemplante e un oggetto contemplato. Questa autocontemplazione non appartiene propriamente all'Uno, perché in Lui non c'è dualismo alcuno. L'autocontemplazione o autocoscienza è soltanto la conseguenza del traboccare dell'Uno, che ne rimane al di sopra. Tale autocoscienza, che tra l'altro è ancora piena identità di soggetto e oggetto, è l'Intelletto (o Essere). In altre parole, l'Intelletto è l'estasi dell'Uno: estasi vuol dire infatti "uscire da sé". L'Uno esce di sé non per un libero atto di amore, ma per un processo necessario ed eterno, «verosimilmente perché è ridondante» dice Plotino:[15] si tratta come abbiamo visto di una necessità originata dall'Uno stesso, che ne resta comunque superiore.

Nell'Intelletto il Soggetto, cioè il Pensiero, è identico immediatamente all'Oggetto, cioè l'Essere: sono infatti due termini complementari, che non possono logicamente sussistere senza l'altro. Si tratta dell'identità di essere e pensiero di cui già aveva detto Parmenide. Plotino però la chiama "Noùs", che è il nome dato da Aristotele al "pensiero di pensiero" (Nòesis noèseos in greco), e prima ancora da Anassagora all'Intelletto ordinatore. Nòesis in greco vuol dire intuizione: l'Intelletto è infatti auto-intuizione, ovvero riflessività. Ma l'originalità di Plotino rispetto ad Aristotele sta nel collocare nell'Intelletto le idee platoniche: in tal modo, egli sottrae il "pensiero di pensiero" all'apparente astrattezza aristotelica, dandogli un contenuto e rendendolo più articolato. Le idee platoniche costituiscono infatti il principium individuationis, la ragione o lògos per cui una certa realtà risulta fatta così, e non diversamente.

Le idee platoniche non sono per Plotino degli oggetti di pensiero: l'Intelletto non pensa le idee, piuttosto, le Idee sono tutte identiche all'Intelletto stesso, e sono perciò principalmente Soggetti di pensiero. In altri termini, le idee sono infiniti modi di prospettarsi dell'unico Intelletto. In esso è presente un'alterità solo in potenza; nell'Essere ogni idea è tutte le altre.

Il Nous è rivolto verso l'Uno, ne guarda la bellezza, la pienezza originaria[16], e non potendola più raggiungere, pensa sé stesso, all'interno di un circolo ermeneutico soggetto – oggetto, pensiero – essere. L'Intelletto non è più Uno, ma è un Uno-molti, poiché ha un'unità solo nella diversità, un'unità nel senso di identità "dell'identico e del diverso" (pensiero ed essere). Grazie a questa distinzione può pensare ed essere pensato senza contraddizione, non è più ineffabile e impredicabile. È la prima forma di intuizione, il livello estremo a cui il nostro pensiero può arrivare. Plotino lo paragona alla luce, che si rende visibile nel far vedere: così l'Intelletto si rivela come condizione del nostro pensare.

L'Anima

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La terza ipostasi è quella dell'Anima, sorgente della vita, che si fa veicolo dell'Uno nel mondo[17]. L'Anima procede dall'auto-contemplazione dell'Intelletto; è un'unione non più immediata, bensì mediata (dal Noùs) di essere e pensiero. Essa così rende possibile il ragionamento dialettico, fungendo da tramite: per un verso è rivolta verso l'Intelletto, per un altro guarda verso il basso, risultando sdoppiata in due parti, una superiore e una inferiore[18]. Questo articolarsi dell'Anima ha come riflesso l'articolarsi del pensiero, che può volgersi alla ricerca dell'unità, e al contempo passare a distinguere e definire il molteplice allontanandosi dall'astrattezza dell'assoluto. Come questi due procedimenti sono solo apparentemente antitetici, così anche l'Uno e il molteplice vanno conciliati l'uno con l'altro.

L'Anima inferiore, per la sua capacità di unificare in sé il molteplice disperso nell'universo, si fa anima del mondo[19]: quest'ultimo risulta così tutto vivo e intimamente popolato da energie. Nel vitalizzare il cosmo, l'Anima non opera "deliberando": la sua attività non è progettuale né tantomeno riproducibile pragmaticamente nei suoi passaggi, perché antitetica al meccanicismo o a un operare artigianale. Si può arguirla solo per via di negazione. Si tratta di un principio naturale dominato da una volontà cieca o inconscia, che genera involontariamente il molteplice dall'uno. Si potrebbe per certi versi paragonarla all'operare onirico di un artista.

Con l'ipostasi dell'Anima, Plotino raccoglie le critiche che Aristotele aveva mosso al platonismo; l'Anima consente infatti a Plotino di concepire le idee non solo come trascendenti, ma anche immanenti, in quanto vengono veicolate dall'Anima in ogni elemento del mondo sensibile; egli si avvicina così al concetto aristotelico di entelechia.

L'Anima infatti, sia quella superiore sia quella inferiore, ha una funzione intellettiva che le deriva dal Noùs, rendendo attuale nel tempo la potenza eterna delle idee intelligibili. Queste vengono ridestate tramite la reminiscenza; ma rispetto a Platone, Plotino intende sminuire il ricordo cosciente rivalutando invece l'importanza del rammemorare inconscio o non deliberato, nel quale le Idee sembrano ridestarsi con maggiore vitalità e purezza. Il tempo stesso, al cui tema viene dedicato un intero trattato della III Enneade, è per Plotino immagine e ricordo dell'eternità: egli intuisce la relatività del tempo, come entità priva di sussistenza autonoma. Questo rapporto fra tempo ed eternità sarà poi studiato soprattutto da Agostino d'Ippona e dai pensatori del Novecento.

Dalla grande Anima dell'Organismo universale prendono quindi forma le singole anime degli esseri viventi[20]. Ciò che avveniva a livello universale, ossia la duplicità di Anima originaria e Anima del mondo, si ripropone a livello individuale, come sdoppiamento tra un'anima superiore, rimasta a guardare verso l'alto, e una "scesa giù", preposta al governo dell'io terreno. Plotino tiene a sottolineare non solo che l'anima è distinta dal corpo, ma che essa viene prima del corpo. Questo "prima" va inteso non in senso cronologico, ma nell'ordine dell'essere, cioè in senso ontologico. L'anima modella il proprio corpo per via di un suo offuscamento, in maniera simile all'energia di un fuoco che spegnendosi si solidifica; è lo svanire della potenza dell'anima che dà luogo a uno spazio in cui essa prende corpo. La "voglia di appartenersi" che Plotino attribuisce all'anima umana è la volontà-distacco dall'Uno che in un istante immediato diviene essere e pensare un corpo in cui si ritrova incarnata. Nell'anima umana tuttavia rimane una presenza divina e trascendente, quella della sua parte originaria che era prima del corpo, e spinge per tornare all'Uno.

Il male come diversità

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Al punto più basso dell'emanazione o processione dall'Uno si trova la materia, che è un semplice non-essere perché non è un'ipostasi. Essa è soltanto il limite estremo della discesa. È il luogo delle illusioni sensibili, delle presenze oscure e maligne. Le idee dell'essere si fondono qui con la chora, la materia che per Platone è poter essere, via di mezzo fra essere (in quanto fa esistere il mondo sensibile) e non-essere (in quanto non è idea ed è quindi fuori da questo). A differenza di Platone, però, secondo Plotino la materia non è plasmata deliberatamente da un Demiurgo, ma sottostà a una necessità cieca.

Il mondo sensibile non è un'ipostasi perché non ha una sua vera consistenza: quanto i organi di sensi percepiscono infatti è mera apparenza; solo l'invisibile costituisce la vera realtà. La materia dunque non è un male assoluto, ma un male inteso in senso relativo, come semplice mancanza, privazione di essere, così come il buio è solo assenza di luce.

Il male di ogni ente, compreso l'uomo, è la diversità, il non essere gli altri enti: «Nel mondo intelligibile ogni essere è tutti gli esseri, ma quaggiù ogni cosa non è tutte le cose» dice Plotino. Quaggiù l'unità delle idee che coincidevano tutte nel medesimo Intelletto risulta frantumata; ogni organismo appare distinto dagli altri. Gli enti di questo mondo sono bene in quanto a immagine dell'essere, ma male in quanto non sono gli altri enti e non sono la medesima realtà.

Anche il male tuttavia ha una sua ragion d'essere, essendo qualcosa di inevitabile e necessario. È infatti per necessità che l'Uno emana il Noùs, il Noùs l'Anima, e l'Anima il mondo sensibile. A coloro che vorrebbero toglier via il male dal mondo, Plotino risponde citando dal Teeteto platonico l'obiezione di Socrate, che «ciò non può avvenire, perché il male esiste necessariamente, essendo necessario un contrario al Bene».[21] Plotino attribuisce al male anche una funzione etica: egli vi vede una sorta di espiazione di una colpa originaria.

Da qui si può capire come Plotino esamini il mondo sensibile in modo diverso dagli scienziati: costoro studiano solo l'aspetto pratico ed esteriore della realtà, seguendo il prodursi dei fenomeni secondo una prospettiva sufficiente a sé stessa. Per Plotino invece i fenomeni sono indice di qualcosa di superiore: essi sono un segnale da cogliere, un "nunzio" dell'intelligibile.

Per ricomporre l'identità delle idee andata smarrita, la soluzione non è il conformismo (dalla valenza puramente esteriore), ma al contrario la fuga dal mondo (ovvero il differenziarsi); tema e scelta di rilievo nel Medioevo, che fu dovuta in parte a guerre e situazioni storiche, ma trova qui un contributo fondamentale nell'orientare molti posteri alla vita monastica o alla solitudine dal mondo.

«Fuggi il molteplice» (Áphele tà pànta = lett. fuggi tutte le cose[22]) è il motto del filosofo, come «conosci te stesso» lo era per Socrate: la fuga dal mondo non vuol dire impoverirsi, ma un arricchirsi ritrovando dentro di noi l'Uno che è il mondo e molto più. Perciò la fuga dal mondo non vuol dire tanto abbandonare ogni bene, che poi si ritrova molto più nell'Uno, ma fuggire il molteplice. È molto vicino all'evangelico impoverirsi per ritrovare Dio, ma il filosofo resta da solo sebbene mostri al mondo la via dell'Uno.

La provvidenza

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Il male si comprende meglio alla luce della provvidenza, la cui dottrina plotiniana riveste una notevole importanza teorica e storica. La provvidenza, secondo Plotino, è il segno dell'originarsi dall'alto degli elementi di questo mondo. Essa è il necessario adeguarsi della realtà all'Idea di cui è immagine.

Il termine greco πρόνοια (prònoia), con cui si traduce "provvidenza", va inteso non come un provvedere fattivamente a qualcosa, poiché l'intelligibile non si occupa affatto del mondo sensibile. La prònoia per Plotino è solamente "precedenza" o antecedenza del noùs rispetto al sensibile. Da ciò deriva che il mondo sia buono. Plotino non ha la pretesa di spiegare il male, di giustificarlo razionalmente, come farà ad esempio Leibniz; né vuole sminuirlo, come facevano gli stoici, secondo cui tutto avviene sempre secondo ragione. Egli rigetta inoltre il finalismo antropomorfo della Bibbia, anche se nella concezione biblica (libro di Giobbe) provvidenza non significa che tutto vada sempre per il meglio.

Ma la polemica di Plotino è rivolta principalmente contro il meccanicismo, il quale attribuisce al caso la formazione dell'universo, il che è per lui un'assurdità. Se la logica del cosmo fosse accidentale, infatti, sarebbe non solo una logica insensata, ma anche estranea al suo costituirsi. Da questo punto di vista, il meccanicismo non si distingue dalla concezione finalistica di un'intelligenza che costruisca artificialmente il mondo dall'esterno, tramite un incontro meccanico di atomi. Che questo incontro avvenga deliberatamente o per puro caso, cioè, si tratterebbe sempre di un meccanismo eterònomo (ovvero soggetto a leggi esterne, e non a una ragione interiore).

Usando per influsso stoico il termine "Logos" per designare la Provvidenza, Plotino afferma piuttosto che il mondo deriva da un essere superiore che genera in maniera autonoma, "per natura" e non per uno scopo deliberato, un essere simile a sé. Gli inconvenienti del mondo sono dovuti unicamente all'inevitabile dispersione e affievolimento della luce e della bellezza originari, al pari di un raggio di sole che si allontana via via nelle tenebre. Questa idea di provvidenza sarà poi ripresa nel Settecento da Giambattista Vico.

L'anima umana e il suo ritorno all'Uno

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Giunti al punto più basso dell'emanazione ha inizio la risalita o conversione (epistrofé), che soltanto l'uomo è in grado di compiere. Fra tutte le creature viventi, l'uomo è infatti l'unico essere dotato di libertà capace di invertire la necessità della dispersione, volgendosi alla contemplazione dell'intelligibile. Soltanto l'anima del sapiente però sa compiere questa ascesa: la maggior parte delle anime individuali, incarnate nel corpo, non avverte l'esigenza del ritorno all'unità perché non conosce la meta da raggiungere o perché non è in grado di arrivarci. Si crea così una profonda differenza tra i pochi uomini che riescono a raggiungere la salvezza, e le anime dei sofferenti che restano ciechi alla luce.

 
Il circolo nella filosofia di Plotino: dalla contemplazione all'estasi; dalla processione all'anima umana.

Per le poche anime elette si viene a determinare un sistema circolare: l'Anima universale, nata dall'emanazione delle precedenti ipostasi, emana l'anima individuale che ha la possibilità del ritorno. Si tratta di un ciclo che dalla processione risale alla contemplazione; dalla necessità alla libertà: sono due poli complementari, i due aspetti di una realtà sola. Il percorso delle Enneadi ricalca tale cammino circolare, descrivendo il passaggio dalla materia all'Uno, e il ritorno dell'Uno alla materia. Non è solo un percorso filosofico della mente, un modo di esposizione efficace delle teorie filosofiche, ma è un percorso dell'essere, un'ascesi di vita che fissa le tappe che ognuno può percorrere per la realizzazione di sé, in maniera simile a un percorso per iniziati.

Questa polarità dentro l'unità si riflette anche nell'uomo, nel quale si trovano due opposte forze che confliggono, quelle due parti della nostra anima distinte e contrapposte che la dividono in una superiore e una inferiore. Secondo Plotino, al momento della nascita l'anima umana perde coscienza del suo contatto con l'Uno, e l'intera vita del filosofo non è che un ritorno al principio originario. Platone affermava che l'uomo non cercherebbe con tanta energia qualcosa della cui esistenza non è nemmeno certo; al contrario, la forza con cui cerca la bellezza originaria è conseguenza del fatto che l'ha vista, e il conoscere non è altro che un ricordare sempre più quel momento in cui, prima di incarnarsi, aveva la verità davanti a sé.

Ora che l'anima umana si trova esiliata in questo mondo, forse per espiare una colpa, la parte originaria di sé, quella "non discesa", avverte dunque in maniera più o meno inconsapevole la nostalgia del ritorno. Per ritrovare la via verso l'Uno e trascendere sé stessi, occorre secondo Plotino sprofondare in sé stessi: le ipostasi dimorano infatti nell'interiorità dell'anima. Il percorso di ascesi avviene tramite la catarsi, cioè la purificazione dalle passioni, liberandosi degli affetti terreni, cercando di avvicinarsi all'Uno ricorrendo al metodo della teologia negativa, cioè prendendo coscienza di ciò che non ci appartiene. Come già diceva Platone nel mito della caverna, occorre liberarsi dalle catene e dagli idoli della vita per arrivare a contemplare la verità. In maniera simile al suo maestro, anche Plotino ricorre spesso a immagini poetiche e suggestive. La catarsi è da lui paragonata all'azione dello scultore, che lavorando su un blocco di marmo elimina tutto il superfluo per trarne fuori la statua[23]; è analoga al silenzio di chi vuole ascoltare la voce che desidera, non disturbata da rumori profani; è come una fuga da una terra straniera per tornare nella patria originaria. Al culmine delle potenzialità umane si ha l'estasi, vissuta dall'asceta quando l'anima è rapita in Dio, e si identifica con l'Uno stesso, compenetrandosi in Lui. L'Uno non viene contemplato perché non è un oggetto, ma il fondo stesso dell'anima: questa non lo può possedere, viceversa ne viene posseduta.

« Questa è la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: liberazione dalle cose di quaggiù, vita sciolta dai legami corporei, fuga del solo verso il Solo.[24] »
(Enneadi, VI, 9, 11, trad. di G. Faggin)

È opportuno evitare anche di parlare di panteismo naturalistico nel plotinismo,[25] per il fatto che l'Uno è identico soltanto all'anima individuale, a cui sola è permessa l'estasi. Poiché vivere una tale esperienza è dato però raramente a pochissimi, Plotino raccomanda per lo più di condurre una vita virtuosa: la virtù dunque come semplice "mezzo" di elevazione. L'etica è da intendersi qui aristotelicamente come ricerca della felicità, consistente nella realizzazione della propria essenza, che è qualcosa di eterno, ingenerato e imperituro.

Oltre all'etica, un'altra via fondamentale indicata da Plotino consiste nella ricerca estetica del bello. Quell'unione che il filosofo teorizza, infatti, la vivono in primo luogo (senza rendersene conto del tutto) il musico e l'amante. Plotino corregge in parte il giudizio negativo che Platone aveva dato dell'arte: l'operare dell'artista non deriva dalla semplice imitazione di un'imitazione, ma è ispirato da un'idea attinta da una visione interiore del bello a lui rivelatasi[26]. Si ripropose però anche in Plotino, per certi versi, lo stesso conflitto platonico per cui la bellezza assoluta non può essere contaminata dalla materia dell'opera prodotta; fu solo col Cristianesimo che la materia sarà pienamente riscattata dal giudizio duramente negativo del platonismo. Così anche l'eros è un fuoco mistico inteso platonicamente come amore puramente ascensivo. Analogamente la bellezza, che noi vediamo riflessa nei corpi, ci spinge a cercarne l'origine nel mondo di lassù. Ritorna in proposito la rivalutazione del pensiero inconsapevole, perché nel risalire verso l'intelligibile il pensiero cosciente e puramente logico non è sufficiente, ma è «come se un demone ci guidasse».

Il percorso di ascesi rimane comunque sempre guidato dalla ragione, che è il mezzo principale di cui il filosofo si serve nell'ascendere all'Uno. La razionalità dialettica è però soltanto uno strumento, che consiste nell'eliminazione e nell'oblio di tutti gli elementi particolari e contingenti della molteplicità. Scopo della dialettica è in un certo senso quello di eliminare o negare sé stessa, quando nell'estasi non si avrà né pensiero, né azione morale, né atto logico, essendo uno stato in cui la ragione si trova fuori di sé (ἐξ στάσις). L'estasi per Plotino non è un dono di Dio (come nel Cristianesimo) ma una possibilità naturale dell'anima, che però non scaturisce da una volontà deliberata: essa sorge da sé, spontaneamente, in un momento fuori della portata del tempo.

  1. Suda Π 1811.
  2. 2,0 2,1 Porfirio, Vita di Plotino, 2.
  3. Pietro Prini, Plotino e la fondazione dell'umanesimo interiore, Vita e Pensiero, 1992, pp. 29-30.
  4. Vita di Plotino, 3.
  5. «Il prestigio della sapienza esotica, che si sperava di trovare presso gli Egizi, i Babilonesi, e i Persiani, era andato crescendo senza sosta in età imperiale. [...] Gli scritti ermetici, il cui contenuto è pure composto da vari testi filosofici, si presentano come un prodotto egiziano» (A. Dihle, I Greci e il mondo antico, Giunti, Firenze 1997, pagg. 102-103). Lo stesso Plotino riferiva della sapienza raggiunta dai saggi d'Egitto, i quali «non si servivano dei segni delle lettere», «ma disegnavano figure», «e ne decoravano i templi per mostrare che il procedimento discorsivo non appartiene al mondo di lassù» (Enneadi, V, 8, 5-6, trad. di G. Faggin).
  6. Serapione di Alessandria, secondo quanto riferito da Porfirio, era «un anziano retore, che si era dedicato in seguito alla filosofia, senza riuscire però ad abbandonare le sue cattive abitudini di uomo d'affari e di usuraio» (Vita di Plotino, 7, 46-49): non è da confondere quindi con l'omonimo santo.
  7. Raffaele Castrichino, Plotino a Suio: nella campagna vescina soggiornò e morì il ..., 1980.
  8. «Se si può dare di ogni essere la sua definizione, è perché si dice di ciascuno che è uno, e che a ciò deve la sua esistenza» (Enn. V, 3, 15).
  9. «Noi siamo gli esegeti delle teorie di tanto tempo fa, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone. Prima di lui anche Parmenide affermava una simile dottrina quando riduceva all'unità l'essere e l'intelligenza, e negava che l'essere consistesse nelle realtà sensibili. Egli diceva che l'essere e il pensiero sono la stessa cosa» (Enneadi, V, 1, 8).
  10. «Nulla affermando sul suo conto, evitando l'errore di attribuirgli proprietà come se lo riguardassero», l'Uno «si riduce al solo "è" senza attestare caratteri che in Lui non ci sono» (V, 5, 13).
  11. IV, 5, 6. In altri punti tuttavia Plotino ammette una sorta di autocoscienza (V, 4, 2) o di volontà (ad esempio in V, 3, 11-13) per spiegare la processione dall'Uno.
  12. Plotino, Quinta enneade. Il pensiero come diverso dall'Uno, BUR Rizzoli, 2000 ISBN 88-17-17318-5.
  13. VI, 8, 13. Plotino in proposito parla dell'Uno anche come dinamys: «la potenza di tutte le cose» (III, 8, 10).
  14. «Tutti gli esseri ormai giunti a maturità generano; ma ciò che è sempre perfetto, sempre e in eterno genera; e genera, s'intende, qualcosa di inferiore al proprio essere. [...] Lo Spirito ha la visione di Lui ed ha bisogno di Lui, mentre egli non ha affatto bisogno dello Spirito» (Enneadi V, 36).
  15. Nell'Uno il tutto è maggiore della somma delle parti e quindi in tal senso "ridondante": «L'Uno infatti è perfetto perché nulla cerca, nulla possiede e di nulla ha bisogno, e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un'altra cosa» (Enneadi, V, 2, 1).
  16. L'Intelletto, «per restare sé stesso, bisogna che guardi a Quello di lassù» (V, 1, 6).
  17. «L'Anima, in virtù della sua unità, trasferisce ad altri esseri l'unità, che, del resto, lei stessa accoglie per averla ricevuta da un altro» (VI, 9, 1).
  18. IV 3, 31.
  19. "Anima del mondo" è l'espressione che Plotino riprende fedelmente dal Timeo di Platone.
  20. «Ogni essere che si trova nell'universo, a seconda della sua natura e costituzione, contribuisce alla formazione dell'universo col suo agire e con il suo patire, nella stessa maniera in cui ciascuna parte del singolo animale, in ragione della sua naturale costituzione, coopera con l'organismo nel suo intero, rendendo quel servizio che compete al suo ruolo e alla sua funzione» (IV, 4, 45).
  21. Enneadi I, 8, 6, citazione da Platone, Teeteto, 176 a.
  22. V, 3, 17.
  23. I, 6, 9.
  24. Parole riprese dal De bono di Numenio di Apamea, cit. da Eusebio, Praeparatio evangelica, XI, 22.
  25. Giuseppe Faggin, La presenza divina, Messina-Firenze, D'Anna editrice, 1971, p. 23; concetto ribadito da Giovanni Reale, Il pensiero antico, Milano, Vita e Pensiero, 2001, p. 454.
  26. «Davanti allo spettacolo di tutta la bellezza sensibile,… potrà mai esserci qualcuno così ottuso e così privo di trasporto che … non resti pieno di meraviglia, risalendo dalla qualità delle nostre realtà a quella dei loro princìpi? Certo che, se costui non ha capito il nostro mondo, neppure saprà contemplare l'altro» (II, 9, 16).