Il buddhismo cinese/Premessa

Indice del libro

Con l'espressione buddhismo cinese si indica quella forma di buddhismo estremo-orientale che ha origini, a partire dal I secolo d.C., nell'intensa attività missionaria di monaci buddhisti provenienti dall'India e, soprattutto, dall'Asia Centrale in Cina, nonché dei contributi di monaci buddhisti cinesi che diffonderanno questa tradizione religiosa offrendone ulteriori e cruciali interpretazioni.

Buddha Śākyamuni, Dinastia Tang (618-907), Hebei.
Il tempio di Guoqing sui Monti Tiāntái appartenente all'omonima scuola. Costruito da Guàndǐng (灌頂, 561-632) nel 598, durante la Dinastia Sui, fu ricostruito nel XVIII secolo durante la Dinastia Qing.

Apporti rilevanti della tradizione religiosa buddhista raggiunsero la Cina anche per via meridionale, fino al formarsi una rete culturale estremamente importante nella storia dell'Asia e delle civiltà influenzate dalla cultura cinese, come il Giappone, la Corea e il Vietnam e alcuni regni sinizzati dell'Asia continentale.

Documenti storici influenzati da leggende posteriori ma sostanzialmente attendibili parlano di una prima introduzione del buddhismo in Cina nell'anno 64[1].

L'apice culturale del buddhismo cinese sarà sotto la dinastia Tang (618-907), mentre in epoche posteriori si assisterà ad una certa decadenza dovuta alla perdita del favore imperiale, all'interruzione dei contatti diretti con l'India (dove il buddhismo si estinse) e ad un rinato interesse per la filosofia e le religioni autoctone (confucianesimo, daoismo).

Le scuole buddhiste più importanti dell'epoca Tang sono la Tiāntái, la Huāyán e la Zhēnyán. Di poco posteriore ed in seguito molto influente, si deve ricordare la scuola Chán. Meno influente nella storia del buddhismo cinese, ma importante per i favori che riceverà dalla corte fino all'ultima dinastia, sarà il Lamaismo di origine tibetana.

Alcune di queste scuole sopravvivono in paesi di antica influenza cinese, in particolar modo in Giappone.

Note modifica

  1. « La prima precisa menzione del Buddha figura in un editto del 65, riguardante un principe imperiale, Ying di Chou, il quale manteneva presso la sua corte di Pengcheng (un importante centro commerciale della Cina orientale dove gli stranieri dovevano essere numerosi) una comunità di monaci (sicuramente stranieri) e di laii indicati con la loro denominazione tecnica indiana; e il testo precisa che il principe "sacrificava al Buddha" »
    (Paul Demieville, Il buddhismo cinese, in Henri-Charles Puech (a cura di) Storia del buddhismo. Bari, Laterza, 1984, pagg. 160-1)