Il buddhismo cinese/La storia

Indice del libro

L'arrivo del buddhismo in Cina rappresenta, ancora oggi, uno dei processi di acculturazione delle idee e delle credenze religiose tra più straordinari della Storia dell'umanità.

Le antiche Vie della Seta terrestri e marittime corrispondono alle vie percorse dai missionari buddhisti dell'Asia centrale verso la Cina e dai pellegrini cinesi verso l'India.

Culture elaborate e dai profondi risvolti filosofici e spirituali, come quelle indiana, centroasiatica e cinese, riuscirono in Cina a fondersi e a costituire un insieme di scuole dottrinali e di culture materiali, parte delle quali sopravvive tutt'oggi nell'area di influenza cinese e in Giappone, e da dove, nello scorso Secolo, hanno raggiunto l'Occidente.

Il buddhismo è penetrato in Cina agli albori dell'era cristiana, sotto la Dinastia Han, giungendo lungo la Via della seta dalla Serindia, ovvero da quella zona geografica situata tra il Pamir e lo spartiacque dell'Oceano Pacifico.

Introduzione del buddhismo in Cina (I-IV secolo)

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L’introduzione del buddhismo in Cina risalirebbe alla metà del I secolo d.C.[1] durante la Dinastia Han orientale (25-220, capitale: Luòyáng), la quale aveva esteso il suo protettorato su una parte dell'Asia centrale. Non si hanno notizie certe su questo avvenimento ma solo leggende, la principale delle quali vorrebbe che l'imperatore Míng (明, conosciuto anche come Liú Zhuāng, 劉莊, regno:57-75 d.C.) sognò un uomo d'oro. Particolarmente colpito dall'accaduto, un suo consigliere suggerì che potesse essere un dio straniero di nome Buddha. Míng inviò alcuni ambasciatori verso Occidente, che tornarono insieme a due monaci indiani, Kāśyapa Mātaṇga (conosciuto anche col nome cinese di 攝摩騰 Shè Móténg) e Gobharaṇa (cinese: 竺法蘭 Zhú Fǎlán), condotti su di un cavallo bianco. I monaci portarono con loro testi delle scuole del buddhismo dei Nikāya, tra cui il Sutra in quarantadue capitoli (四十二章經, Sìshíèrzhāngjīng, T.D. 784.17.722-724), che tradussero nel 67 d.C. a Luòyáng dove fondarono il Monastero del Cavallo Bianco (白馬寺, Báimǎ Sì). Risulta comunque che anche il fratellastro dell'imperatore Míng, Liú Yīng (劉英, ?-71) principe di Chu, proteggesse alcune nascenti comunità buddhiste[2]. Abbiamo notizie più certe a partire dal II sec. grazie alle cronache monastiche cinesi[3]. Intorno al 150 d.C. giunse in Cina, come ostaggio, Ān Shìgāo (安世高), un principe persiano buddhista il quale avrebbe tradotto diversi sutra (le cronache parlano di 35 testi) delle scuole del buddhismo dei Nikāya. Nel 181 giunse il persiano Ān Xuán (安玄), un mercante il quale, divenuto discepolo di Ān Shìgāo, tradusse altri testi sempre delle scuole del buddhismo dei Nikāya e predicò attivamente la dottrina buddhista. Poi, sempre nel II secolo, è la volta di Lokakṣema (cinese: 支婁迦讖, Zhī Lóujiāchèn) un vero e proprio missionario Mahāyāna proveniente dall’impero Kushan che tradusse moltissimi testi ma di scuole del buddhismo Mahāyāna. L'opera di Lokakṣema fu seguita da un altro missionario kushan, Zhī Qiān (支謙), agli inizi del III secolo. Zhī Qiān, era un monaco poliglotta, discendente di una famiglia che si era stabilita un secolo prima a Luòyáng (divenuta capitale del Regno di Wèi, 曹魏, 220-265, uno dei Tre Regni in cui era suddivisa la Cina dopo il crollo della Dinastia Han orientale). Quindi da Hanoi (oggi capitale del Vietnam) e sempre nel III sec., giunse in Cina un giovanissimo sogdiano, Kāng Sēnghuì (康僧會). La famiglia di Kāng Sēnghuì visse prima in India per alcune generazioni trasferendosi quindi ad Hanoi dove svolsero l'attività di mercanti e da lì migrarono in Cina. Kāng Sēnghuì prese i voti da novizio (sramanera, cinese: 沙彌 shāmí ) a soli dieci anni, imparò il cinese e cominciò la sua opera di traduzione. Il più importante traduttore del III sec., anche lui un kushan, fu tuttavia Dharmarakṣa (cinese: 竺法護 Zhú fǎhù, ). La sua famiglia si era stabilità da tempo a Dūnhuáng (敦煌). Lì nacque Dharmarakṣa che entrò in un monastero buddhista a soli 8 anni. I buddhisti cinesi e gli stranieri buddhisti residenti in Cina sentirono tuttavia la necessità di acquisire direttamente nuovi testi religiosi, quindi Dharmarakṣa accompagnò il suo maestro, un monaco indiano conosciuto con il suo nome cinese, Zhú Gāozuò (竺高座), in un viaggio verso l'Occidente dove visitarono numerosi regni incontrando ben 36 idiomi diversi e raccogliendo sutra buddhisti. Tornato in Cina, Dharmarakṣa si occupò della loro traduzione. Ne tradusse ben 149 prima di morire, in età molto avanzata, nel 316 d.C.

I rapporti tra buddhismo e Daoismo

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Per comprendere il successo della diffusione di una dottrina straniera come il buddhismo in un impero, come quello cinese, spesso chiuso nelle proprie millenarie tradizioni, occorre indagare accuratamente le relazioni tra le comunità straniere buddhiste, e i primi monaci buddhisti cinesi, con gli studiosi confuciani e, soprattutto, daoisti. Inizialmente i daoisti ritennero il Buddha venerato dalle comunità buddhiste niente altro che lo stesso Lǎozǐ (老子), il leggendario fondatore del Daoismo il quale, secondo una antica leggenda daoista, sarebbe partito per l'Occidente allo scopo di diffondere le proprie dottrine presso i barbari. Alcune dottrine buddhiste erano, peraltro, sovrapponibili a quelle daoiste e ciò permise di varare il metodo Géyì (格義, "Fare coincidere il senso") per cui molti termini cinesi presi in prestito dal Daoismo (e anche dal Confucianesimo) furono utilizzati dai primi traduttori di sutra buddhisti: così inizialmente nirvāṇa veniva reso come 無爲 (wúwéi, non azione) e non più correttamente come 湼槃 ( nièpán). Il crollo della Dinastia Han fu un grave smacco per la cultura tradizionale cinese, in quanto questa dinastia aveva accuratamente seguito le indicazioni religiose e normative e ciononostante era impietosamente crollata sotto le ribellioni e grazie al tradimento dei generali dell'esercito imperiale. La riflessione che ne seguì, in ambito daoista, fu propria della scuola Xuánxué (玄學, Scuola della Sapienza oscura) la quale ritenne che la Dinastia Han avesse preso troppo alla lettera le idee professate nei classici del Daoismo anziché coglierne intuitivamente la portata. La distinzione fra conoscenza immediata e conoscenza graduale (quest'ultima, secondo queste dottrine, non priva di rischi di fallimento nella comprensione) fu poi alla base di numerose distinzioni tra le scuole buddhiste cinesi sempre tese a dichiararsi nell'ambito, vincente, dell'immediato. Inoltre i dotti daoisti ritennero che grazie alla comprensione immediata si potesse penetrare il principio della realtà che costituiva la matrice di tutte le cose. Identificarono questo principio con il "non essere" (cin. 無 ) che corrispondeva alla reale natura di tutti i fenomeni intesi come "essere" (cin. 有 Yǒu). Così Guō Xiàng (郭象, ?-312) nel XX capitolo del suo commentario allo Zhuāngzǐ (莊子): «Nell'esistenza che cosa è prima delle cose? Noi diciamo che Yin e Yang sono prima delle cose, che c'è allora prima di Yīn (陰) e Yáng (陽)? Noi possiamo dire che zìrán (自然) [lo stato armonioso della natura delle cose] è prima delle cose, ma zìrán è semplicemente la naturalità armoniosa delle cose. Ma il Dao è vuoto (inteso come "non essere", cin. ). Ma se è vuoto come può essere prima delle cose? Noi non sappiamo che cosa è prima delle cose, tuttavia le cose sono continuamente prodotte. Questo dimostra che le cose sono spontaneamente ciò che sono; non c'è un Creatore delle cose». Tale testo daoista non può non richiamare, in alcuni passi, gli stessi Prajñāpāramitā Sūtra della letteratura buddhista Mahāyāna messi per iscritto alcuni secoli prima in India. Ma tali concezioni potevano essere, dal lato pratico, eccessivamente relativiste e non spiegavano i diversi destini dell'umanità. Accorsero le dottrine buddhiste di karma (cinese 業 ) e di rinascita (sanscrito punarbhava, cin. 更生 gēngshēng) a spiegare ciò che il Daoismo ancora non aveva affrontato: la dimensione morale della realtà. Fu quindi la cultura buddhista ad offrire la possibilità di un cambiamento epocale in Cina. Essa permetteva da un lato la spiegazione di eventi, anche individuali, disastrosi e, con la diffusione dei monasteri, consentiva a chiunque di approcciare questi temi in modo personale e spirituale.

Lo sviluppo nella Cina meridionale (IV-VI secolo)

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Nel corso del IV secolo, a seguito della invasione della Cina settentrionale da parte dei popoli delle steppe (Xiōngnú, 匈奴; Jié, 羯; Xiānbēi, 鮮卑; Qiāng, 羌; e Dǐ, 氐) la corte cinese abbandonò Luòyáng (洛陽) spostandosi verso Sud, fondando la nuova capitale a Jiànkāng (建康, oggi Nánjīng) e la nuova Dinastia Jin orientale (317-420). Nella Cina meridionale il buddhismo prosperò soprattutto tra le classi aristocratiche e vi furono importanti monaci cinesi, come Shi Daobao e Zhu Daoqian, fratello e cugino di Wáng Dǎo (王導, 276-339) importantissimo esponente della Corte imperiale), che operarono per inserire la dottrina buddhista nella cultura tradizionale cinese. Tra questi monaci cinesi, va menzionata l'opera di Huìyuan (慧遠, 334-416), fondatore del monastero di Dōnglín (東林, Monastero del Bosco Orientale, situato ai piedi del monte Monte Lú, ispiratore, alcuni secoli dopo, del Báiliánjiào, 白蓮教, setta del Loto Bianco), e del suo maestro, Dào'ān (道安, 312-385), fondatore del monastero di Xiāngyáng (襄陽) nonché, a sua volta, discepolo del maestro di dhyana e taumaturgo, di origini kushan, Fótúchéng (佛圖澄, ?-348, già consigliere dell'imperatore Shí Lè,[4]). Huìyuan fu autore, nel 404, dello Shāmén bùjìng wángzhě (沙門不敬王者, Il monaco non deve rendere omaggio al sovrano), un'opera rivolta all'usurpatore della Dinastia Jin orientale, Huán Xuán (桓玄, regno: 403-404) e tesa a dimostrare i motivi per cui i monaci buddhisti non potevano essere 'controllati' dalle autorità laiche. Nel corso di quegli anni venne completata la progressiva raccolta di sutra buddhisti provenienti dall'Asia centro-orientale e quindi si cercò di raggiungere l'India, il paese che diede i natali al Buddha Shakyamuni, per poter completare la raccolta con nuovi testi. Per tale ragione nel 399 partì, sempre da Jiànkāng, il monaco cinese Fǎxiǎn (法顯, 340-418) per una missione durata 14 anni in India e Sri Lanka alla ricerca dei Vinaya indiani e di nuovi sutra. Dall'India giunse anche, nel 408 su invito di Fǎxiǎn, Buddhabhadra (359-429) che iniziò le traduzioni delle opere Mahāyāna; mentre dalla Cambogia giunse, nel 548, Paramârtha (499-569) che avviò le traduzioni della scuola Cittamātra ponendo così le premesse per la nascita della scuola Shèlùn (攝論宗), fondata poco dopo da Tánqiān (曇遷, 542-607). Nel VI secolo grazie alla Dinastia Liang (502-557), e in particolare modo dell'imperatore Wǔ (武, conosciuto anche come Xiāo Yǎn, 蕭衍, regno: 502-49), il buddhismo ebbe un attivo sostegno da parte della Corte imperiale. L'imperatore Wǔ giunse, nel 511, a vietare il consumo di carne e di vino a Corte e l'impiego di animali per la preparazione di medicamenti o per i sacrifici. Fece costruire moltissimi templi ma non riusci a farsi nominare dai monaci Bodhisattva imperiale, una specie di papa buddhista cinese, questo per l'opposizione del saṃgha (僧伽, sēngqié) buddhista. Anche agli imperatori della Dinastia Chen (557-589) furono favorevoli al buddhismo, in particolar modo Xuān (宣, conosciuto anche come Chén Xù, 陳頊, regno: 568-82) e Hòu Zhǔ (後主, conosciuto anche come Chén Shúbǎo, 陳叔寶, ultimo imperatore della dinastia Chen, regno: 582-89), anche grazie ai quali venne fondata da Zhìyǐ ((智顗, 538-597) la scuola Tiāntái (天台宗). Ma proprio in questo periodo di successo si avviano le opere polemiche contro la "dottrina occidentale" da parte dei letterati confuciani e daoisti che, nei secoli a seguire, alimenteranno le persecuzioni religiose contro i devoti del Dharma. In particolare modo Gù Huān (顧歡, V secolo) affermò, nello Yíxiàlún (夷夏論, Studio sui barbari e sui cinesi), che il buddhismo mirava a distruggere il male in quanto, essendo nato in India, la natura degli indiani era malvagia, a differenza del Daoismo che coltivava il bene in quanto i cinesi erano naturalmente buoni. Hé Chéngtiān (何承天, 370-447) arrivò a sostenere che le regole monastiche buddhiste erano state elaborate per frenare gli istinti malvagi degli Indiani. Nel Sānpòlún (三破論, Studio sulle tre distruzioni, opera del daoista Zhāng Rong, 張, V secolo) si arrivò a sostenere che Lǎozǐ giunto in India come Buddha aveva ordinato al popolo di scegliere il celibato così da estinguerlo vista la sua malvagità. Ma l'attacco più pericoloso per le comunità buddhiste fu promosso da Xún Jǐ (荀濟, ?-547) con la sua opera Lun fojiao biao (Memoriale sul buddhismo) dove sostenne che il buddhismo ero fiorito in Cina durante il periodo delle divisioni dinastiche e che stava pervertendo le relazioni politiche e familiari. Le comunità monastiche risultavano composte da "parassiti" che non svolgevano alcuna attività lavorativa, inoltre il loro celibato provocava una diminuzione nella procreazione di manodopera futura. Secondo Xún Jǐ questo celibato non impediva ai monaci di fornicare con le monache provocando aborti che poi nascondevano sotto le fondamenta dei templi.

Lo sviluppo nella Cina settentrionale (IV-VI secolo)

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Nello stesso periodo, a Cháng'ān, nella zona della Cina settentrionale, occupata dall'etnia Qiang (羌) all'origine della Dinastia Qin posteriore (384-417), operava Kumārajīva (344-413) con la sua scuola di traduttori e maestri di Dharma formata da monaci come: Dàoshēng (道生, 355–434), Dàoróng (道融, 372-445), Sēngruì (僧叡, 371-438), Sēngzhào (僧肇, 374-414) e Huìguān (慧觀, IV-V sec.); che tanta importanza ebbe per lo sviluppo del buddhismo cinese e segnatamente per la scuola Sānlùn (三論宗, Sānlùn zōng), il cui tradizionale fondatore è indicato proprio in Sēngzhào. Nel 445, sempre nella Cina settentrionale, l'imperatore Tài Wǔ (太武, conosciuto anche come Tuòbá, 拓拔, regno: 423-51) della Dinastia Wei settentrionale (386-534, capitale: Luòyáng) avviò la prima persecuzione contro il buddhismo. La persecuzione di Tài Wǔ ebbe come pretesto la scoperta di un deposito di armi nei sotterranei di un monastero di Cháng'ān, avvenuta dopo la soppressione di una rivolta scoppiata nella stessa città. Il seguito delle indagini denunciarono la presenza di grandi quantità di alcolici e di appartamenti che fungevano da postriboli per le orge dei monaci con donne dell'aristocrazia. A seguito di questo evento, che non si sa quanto autentico o quanto macchinosamente inventato, e su spinta dei suoi due consiglieri antibuddhisti, il daoista Kòu Qiānzhī (寇謙之, 365-448) e il confuciano Cuī Hào (崔浩, ?-450), Tài Wǔ ordinò che tutti monasteri buddhisti fossero dati alle fiamme e i monaci, senza alcuna distinzione di sesso o di età, giustiziati. L'esecuzione del provvedimento fu impedita per le resistenze all'interno della stessa Corte e con l'ascesa al trono di Wén Chéng (文成, conosciuto anche come Tuò Bá Jùn, 拓拔濬, regno: 452-65), fu abrogato e tornò l'appoggio dell'imperatore alle comunità buddhiste. Immagine:Central Asian Buddhist Monks.jpeg|thumb|left|170px|Un missionario buddhista dell’Asia Centrale dagli occhi azzurri in compagnia di un confratello cinese. Bacino del Tarim, Xinjiang, Cina, IX-X secolo. Wén Chéng per riparare ai massacri provocati dal suo predecessore, fece scolpire le Grotte di Yúngāng (雲崗石窟). A differenza della Cina meridionale, dove il buddhismo godeva di un'ampia autonomia dal potere imperiale, nella Cina settentrionale sempre più le case regnanti operarono delle ordinanze di controllo sul saṃgha, costituendo appositi uffici di registrazione che segnalarono la presenza, nel 477, di 100 templi e duemila monaci nella capitale mentre nel resto dell'impero si contavano 77.258 monaci. Fatto salvo la persecuzione scatenata nel 445 da Tài Wǔ la Dinastia Wei settentrionale sostenne con determinazione la diffusione del buddhismo, come testimoniato dalle scultura in pietra delle Grotte di Yúngāng e delle Grotte di Lóngmén (龍門石窟). Alla fine di questa dinastia (534) i templi buddhisti raggiunsero le trentamila unità e i monaci registrati, quasi i 2 milioni. Anche le dinastie successive alla Dinastia Wei settentrionale[5] furono generalmente favorevoli al buddhismo, favore bruscamente interrotto dall'ascesa al trono dell'imperatore confuciano Wǔ (武, conosciuto anche come Yǔwén Yōng, 宇文邕, regno: 561-78) della Dinastia Zhou settentrionale (577-581, capitale: Cháng'ān). Dopo alcune leggi che limitavano la libertà dei monaci, e a seguito delle proteste di questi, l'imperatore Wǔ decise, nel 574, di distruggere tutti gli edifici buddhisti (editto allargato anche ai templi daoisti) e di costringere i monaci al ritorno alla vita laicale. La morte, nel 578, di questo imperatore fece sospendere l'applicazione dell'editto fino all'arrivo della nuova Dinastia Sui, nel 581, che avrebbe riunificato la Cina dopo due secoli e mezzo di divisioni e rilanciato, con vigore e determinazione, la diffusione del buddhismo. Va notato che le guerre dinastiche e le persecuzioni locali costringevano le comunità monastiche ad una continua mobilità in un impero frammentato in molti stati. Ciò se da una parte era una grave forma di disagio e di insicurezza, dall'altra permise al buddhismo di diffondersi per tutta la Cina moltiplicando i monasteri, i templi e i centri di traduzione dei sutra. Inoltre questo periodo di grave insicurezza e di guerre costanti, portò numerosi giovani, spesso orfani, a interrogarsi sul senso della vita e sui suoi fragili fondamenti, quesiti tipici di un percorso spirituale buddhista. La combinazione di questi due elementi, unitamente al fatto che inizialmente fu confuso con la dottrina tradizionale daoista, spiega il rapido successo del buddhismo in tutta la Cina.

Il buddhismo durante le dinastie Sui e Tang (581-907)

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Durante la Dinastia Sui (581-618, capitale: Cháng'ān), che riunificò la Cina dopo 360 anni di divisione, gli imperatori Wén (文, conosciuto anche come Yáng Jiān, 揚堅, regno: 581-604) e Yáng (煬, conosciuto anche come Yáng Guǎng, 楊廣, regno: 604-17), ambedue di fede buddhista, furono particolarmente favorevoli alla scuola buddhista Tiāntái, fondata sui monti Tiāntái (天台山), nel 575, da Zhìyǐ (智顗, 538-597). In particolar modo Wén si proclamò cakravartin (輪王, pinyin lúnwáng), il re universale che governa per mezzo della ruota, simbolo della religione buddhista. Nel 585 si proclamò bodhisattva (菩薩, púsà) e nel 594 emise un editto imperiale in cui affermò di essere un discepolo del Buddha dichiarando il proprio dolore per i danni apportati dalle persecuzioni antibuddhiste della dinastia degli Zhou settentrionale che lo aveva preceduto. Secondo alcune cronache della dinastia Tang, sotto Wén furono eretti 3792 templi, ordinati 230 000 monaci e furono copiati 132 000 volumi del Canone cinese. L'ascesa al Trono del drago[6] nel 618 della Dinastia Tang (618-907, capitale: Cháng'ān) spinse ulteriormente l'aspetto sincretico della politica religiosa imperiale nei confronti delle “Tre dottrine” (三教 sānjiào) religiose presenti in Cina (Confucianesimo, Daoismo e buddhismo) tendenza già presente nella buddhista Dinastia Sui. Ma il favore della dinastia Tang fu inizialmente nei confronti del Confucianesimo, così Gāozǔ (高祖, conosciuto anche come Lǐ Yuān, 李淵, regno: 618-26), nel 626, limitò la libertà religiosa dei monasteri buddhisti e daoisti. Tale scelta religiosa non fu seguita dal suo erede, Tàizōng (太宗, conosciuto anche come Lǐ Shìmín, 李世民, regno: 626-49), che seppur ritirò le leggi sfavorevoli al sangha perseguì una politica a favore della chiesa daoista, in quanto la sua famiglia vantava una discendenza diretta da Lǎozǐ. Così anche Gāozōng (高宗, conosciuto anche come Lǐzhì, 李治, regno: 649-83), continuò la politica pro-daoista del suo predecessore, cercando di limitare la diffusione del buddhismo. Immagine:A Tang Dynasty Empress Wu Zetian.JPG|150px|left|thumb|Wǔ Zétiān, l'imperatrice della Dinastia Tang, grande protettrice delle comunità buddhiste cinesi L'ascesa la trono dell'imperatrice Wǔ Zétiān (武則天, conosciuta anche come Wǔ Zhào, 武曌, regno: 690-705), nel 690, modificò radicalmente la politica imperiale nei confronti delle scuole buddhiste. L'imperatrice, consapevole di non poter avere l'appoggio, in quanto donna, degli ambienti confuciani, sposò con fede e determinazione la dottrina buddhista, diffondendo per tutto l'impero un sutra, il Dàyúnjīng (大雲經, sanscrito Mahāmegha-sūtra, Sutra della Grande nuvola, T.D. 387, tradotto nel 314 da Dharmaksema), che profetizzava l'avvenimento di una divinità femminile che si sarebbe incarnata in un monarca universale buddhista (輪王, pinyin lúnwáng). L'imperatrice Wǔ Zétiān eresse, ovunque, templi buddhisti della “Grande nuvola” (negli anni '50 ne fu rinvenuto uno persino nei pressi di Akbeshim in Kirghizistan). Contemporaneamente proibì la macellazione e stabilì la precedenza del buddhismo sul Daoismo e il Confucianesimo nelle cerimonie ufficiali. Nel 693 assunse il titolo di Jīnlún shèngshén huángdì (金輪聖神皇帝, Sacra sovrana della Ruota d'Oro), manifestando l'intenzione di fondare un impero universale buddhista, centro religioso e politico per tutti i popoli buddhisti. Nel 694, tuttavia, dopo aver fatto condannare a morte il suo consigliere, il monaco Xuē Huáiyì (薛懷義, ?-694, indicato in alcune cronache come il suo amante), abbandonò il titolo di Lúnwáng e ritirò l'editto sulle macellazioni. Nel 712 con l'ascesa al trono di Xuánzōng (玄宗, conosciuto anche come Lǐ Lóngjī, 李隆基, regno: 712-56), che riprese con vigore la politica pro-daoista di alcuni dei suoi predecessori, vennero proibiti la costruzione di nuovi monasteri buddhisti, la vendita di immagini sacre e ai monaci fu impedito di predicare e pregare in pubblico. Indicativa fu anche la decisione, presa sempre da Xuanzong nel 736, di mettere sotto controllo la chiesa buddhista affidando il compito di controllo allo Hónglúsì (鴻臚寺), l'ufficio sul cerimoniale che si occupava dell'ospitalità degli ambasciatori stranieri.

La grande persecuzione anti-buddhista dell'845

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Immagine:Tang Wuzong.jpg|150px|thumb|Wǔzōng, l'imperatore della Dinastia Tang che scatenò la terribile persecuzione anti-buddhista dell'845 Nell'819, sotto il regno di Xiànzōng (憲宗, conosciuto anche come Lǐ Chún, 李淳, regno: 805-20), il famoso letterato confuciano Hán Yù (韓愈, 768-824) spedì alla corte un memoriale che ricordava, nei contenuti, quello di Xún Jǐ del VI secolo. Anche se indirizzato contro tutte le religioni straniere (fu subito utilizzato per perseguitare la Chiesa manichea, religione professata dalle tribù turche degli Uiguri prima della loro conversione all'Islam) rappresentò la base ideologica per le persecuzioni scatenate, nove anni dopo, contro tutte le comunità buddhiste. Nell'844, infatti, l'imperatore Wǔzōng (武宗, conosciuto anche come Lǐ yán, 李炎, regno: 840-846), dopo aver censito le comunità monastiche e i loro beni, emise un editto senza precedenti per cui nelle due capitali (Cháng'ān e Luòyáng) potevano essere presenti solo quattro templi ciascuna ed uno per ogni prefettura, ma solo nelle più importanti. Statue e campane buddhiste vennero fuse per farne monete o attrezzi agricoli mentre quelle di materiale più prezioso furono requisite dal Governo imperiale. Alla fine della persecuzione diverse decine di migliaia di templi vennero distrutti e circa 250 000 monaci ridotti allo stato laicale. Ma il colpo finale arriverà l'anno successivo, l'845, quando l'imperatore ordinò la riduzione allo stato laicale di tutti i monaci buddhisti proseguendo fino alla distruzione completa di tutti i monasteri e di tutti i templi, fatto salvo una decina di questi edifici utilizzati per le tradizionali cerimonie di Corte. Alla fine dell'anno, quattromilaseicento monasteri risulteranno rasi al suolo così come quarantamila templi. Circa mezzo milione di persone, tra monaci, monache e servi della gleba al servizio delle terre dei monasteri, furono cacciati dai luoghi di culto andando spesso ad ingrossare le bande di briganti-rivoluzionari che infestavano le campagne. L'efficacia amministrativa della Dinastia Tang riuscì dove fallirono le precedenti persecuzioni anti-buddhiste. Solo i monasteri della scuola Chán che, avendo stabilito nel loro codice monastico il lavoro obbligatorio mentre nel contempo rifiutavano di attribuire alcuna autorità alle scritture e alla devozione nei confronti dei simboli esteriori del Dharma buddhista (immagini sacre, statue, etc.) e utilizzando spesso un linguaggio e un metodo di insegnamento molto simile a quello daoista, furono spesso scambiati per centri daoisti e quindi risparmiati. Di fatto, dalla persecuzione scatenata dall'imperatore Wǔzōng, il buddhismo cinese non si riprese più. Alcune scuole risorgeranno e produrranno ancora maestri importanti ma in tono certamente minore rispetto ai fasti del passato. La scuola Chán, passata quasi del tutto indenne dalla persecuzione avviata da Wǔzōng, non ebbe più occasioni di confronti dottrinali con i grandi maestri delle altre scuole e finì, progressivamente, nell'adagiarsi inglobando le pratiche popolari del niànfó (念佛), tipiche del buddhismo della Terra Pura. Questo processo storico, avviatosi con la persecuzione dell'845, genererà un buddhismo sincretico privo di spessore dottrinale che finirà, salvo alcuni rari casi, per essere progressivamente marginalizzato dalla cultura cinese risorgendo spesso solo nelle campagne come cultura popolare e millenaristica origine delle sette segrete nate per rovesciare le dinastie straniere come la Dinastia Yuan o la Dinastia Qin, oppure come antesignane delle lotte di classe contro i ceti benestanti. Furono dei pellegrini giapponesi come Saichō (最澄, 767-822), Kūkai (空海, 774-835), Eisai (明菴, 1141-1215) e Dōgen (道元, 1200-1253) a trasferire in Giappone testi, insegnamenti e lignaggi che andavano inesorabilmente scomparendo, o confondendosi, sul suolo cinese.

Il buddhismo nella Cina dei Song (960-1279)

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Image:Jade Emperor.jpg|thumb|left|L'Imperatore di Giada (玉皇), culto daoista diffuso dalla Dinastia Song che lo preferì al buddhismo. L'implosione della Dinastia Tang, avvenuto nel 907 con la morte per avvelenamento del suo ultimo imperatore, il diciassettenne Āi Dì (哀帝, conosciuto anche come Lǐ Zhù, 李祝, regno:904-907), causò alla Cina cinquanta anni di divisioni e di anarchia. La Cina meridionale si suddivise in diversi regni, governati per lo più dai generali della stessa Dinastia Tang, mentre nella Cina settentrionale si succedettero diverse dinastie barbare. Questa grave situazione subì un drastico cambiamento quando un generale di una di queste dinastie, Zhào Kuāngyìn (趙匡胤, 927-976) della Dinastia Zhou posteriore (951-960, capitale: Biàn), conquistò nel 960 con un colpo di stato il potere imperiale, fondando la Dinastia Song[7] e avviando la riunificazione di tutta la Cina. Tale riunificazione fu tuttavia fermata al Nord dalla presenza del potente stato sino-barbaro dei Liáo (遼)[8], conquistati nel 1125 da un altro popolo delle steppe, i Jīn (金), e, ad Occidente, dal regno di origine tibetana Tangut (cinese: 党项, Dǎngxiàng)[9]. Anche se durante la Dinastia Song furono ritirate le norme persecutorie contro il buddhismo e questa dinastia fu generalmente, anche se moderatamente, favorevole al saṃgha, i suoi imperatori si mostrarono particolarmente devoti alla Chiesa daoista. Nel 1008 Lǎozǐ fu, insieme a Confucio, proclamato guida spirituale dell'intera umanità. Nel 1012 fu diffuso il culto daoista dell'Imperatore di Giada (玉皇 Yùhuáng) come suprema divinità. I Buddha e i Bodhisattva furono invece considerati, dalla Corte imperiale, come divinità inferiori rispetto al pantheon daoista. Allo stesso modo i monaci buddhisti dovettero sottomettersi alla consacrazione daoista, mentre gli imperatori elargivano denaro e terre ai soli monasteri della religione fondata da Lǎozǐ. Persino la seconda diffusione del Canone buddhista in xilografia, che ha origine proprio durante questa dinastia, la si deve al solo intervento di un privato. Nel 1068, con il varo della norma per la vendita dei certificati di monaco buddhista, si consentì a chiunque di entrare nel saṃgha magari al solo scopo di pagare meno tributi e senza che fosse richiesta alcuna preparazione. Ciò portò al decadimento dei monasteri buddhisti, visti come luogo di evasione delle tasse, e al loro discredito presso le classi colte. La fede buddhista resistette invece nelle campagne dove, grazie alla setta del Loto Bianco (白蓮教, Báiliánjiào ) fondata nel 1133 dal monaco tiāntái Máo Zǐyuán (茅子元, 1086-1166), si diffuse accompagnandosi a speranze millenaristiche legate alle figure del Buddha Amitābha (阿彌陀, Āmítuó) e del Buddha del futuro, Maitreya (彌勒, Mílè), divenendo presto origine anche di numerose sette segrete dedite alla cospirazione politica.

Il buddhismo sotto la dominazione mongola degli Yuan (1279-1368)

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Drogön Chögyal Phagpa, V patriarca della scuola Sakya del buddhismo tibetano, consigliere di Kublai Khan, responsabile degli affari religiosi dell'Impero mongolo e primo vice-re del Tibet

La dinastia mongola degli Yuan fu decisamente tollerante con tutte le religioni professate lungo il suo vasto impero. Ciononostante, dopo un periodo di attenzioni favorevoli al buddhismo Chán, iniziato nel 1247 con la nomina del monaco chán Haiyuan ad amministratore degli "affari buddhisti" e dopo la conquista del Tibet, la dinastia mongola si fece sempre più portavoce della cultura religiosa del buddhismo tibetano. A partire dal 1260, l'imperatore Kublai Khan (cinese 忽必烈, Hūbìliè, regno: 1260-1294) fu fortemente influenzato da un Lama tibetano, il V patriarca della scuola Sakya Drogön Chögyal Phagpa (1235-1280, cinese 發合思巴, Fāhésībā), a cui affidò tutti gli affari religiosi dell'impero. Da quel momento furono i lama (tibetano bla ma, cinese 喇嘛 lǎmá) tibetani ad esercitare il controllo sul saṃgha buddhista cinese, nonché sui religiosi delle altre fedi presenti nell'impero mongolo. Questo controllo, esercitato in modo violento e terroristico[10] provocò delle forti diffidenze da parte del clero buddhista e del popolo cinese nei confronti delle credenze e delle usanze lamaiste che non penetrarono mai nel tessuto culturale buddhista cinese, interpretate, inoltre, come frutto della imposizione di una casta “occupante” e “barbara”. Questa diffidenza, se non aperta ostilità, consenti ai monasteri delle scuole buddhiste cinesi di fungere da luogo di autentica tradizione agli occhi del popolo.

Il buddhismo durante la Dinastia nazionale dei Ming (1368-1644)

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Immagine:Status of Kuan Yin.jpg|thumb|left|180px|Porcellana raffigurante il Bodhisattva Guānyīn, Dinastia Ming.

Gli ultimi anni della dominazione mongola furono caratterizzati da una crisi economica lungo tutto l'impero e da numerose ribellioni nelle campagne ispirate dalla setta segreta buddhista del Loto bianco e organizzate dall'esercito clandestino dei Turbanti Rossi (紅巾 Hóngjīn). Da quest anarchia crescente emerse la figura di Zhū Yuánzhāng (朱元璋, 1328-98, successivamente incoronato imperatore con il niánhào di Hóngwǔ, 洪武, regno: 1368-98), figlio di contadini morti durante la carestia del 1344. Rifugiatosi diciassettenne nel tempio buddhista di Huángjué (黄觉) e divenuto monaco, Zhū Yuánzhāng vi rimase fino al 1352 quando aderì alla setta del Loto bianco entrando nell'esercito ribelle dei Turbanti Rossi. Gli eventi portarono l'ex monaco Zhū Yuánzhāng a divenire capo della rivolta anti-mongola e infine, il 23 gennaio 1368, primo imperatore della Dinastia Ming. Sotto questa dinastia il buddhismo cinese ebbe una certa ripresa anche se i sovrani predilessero le dottrine confuciane, emarginando e controllando sia il buddhismo che il Daoismo. In questo periodo emersero, tuttavia, delle figure di un certo rilievo come il monaco Yúnqī Zhū Hóng (雲棲祩宏, 1535-1615), che promosse numerose associazioni laiche buddhiste e polemizzò duramente contro i gesuiti e le dottrine cristiane. Altri monaci di rilievo di questo periodo furono Hanshan Déqìng (憨山德凊, 1546-1623), Zibo Zhēnkě (紫柏真可, 1543-1604) e Ŏuyì Zhìxù (蕅益智旭, 1599–1655).

Il buddhismo durante la Dinastia manciù dei Qing (1644-1912)

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Il buddhismo durante la Repubblica di Cina (1912-1949)

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Il buddhismo nella Cina di oggi

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Monache che recitano dei sutra in un tempio nella provincia di Anhui in Cina.
 
Festa religiosa al tempio di Guǎnghuà (广化寺), Pechino.

La condizione odierna del buddhismo cinese all'interno della Repubblica popolare cinese risente dei drammatici eventi accaduti in Cina nella seconda metà del secolo scorso.

A partire dal 1949 e fino a tutto il 1976, il buddhismo in Cina ha sofferto tragiche persecuzioni e distruzioni dovute all'ideologia anti-religiosa comunista del Governo che in quegli anni era al potere. Da un periodo di pressante controllo si è passati, nel corso della tragica esperienza della Rivoluzione culturale, ad imprigionamenti di massa, assassinii e distruzioni su larga scala di monasteri, templi e opere d'arte religiosa.

Con la morte di Máo Zédōng (毛澤東, 1893-1976) e con la caduta della Banda dei quattro, eventi datati all'autunno 1976, il clima nei confronti delle comunità buddhiste cinesi si è fatto finalmente più favorevole.

Da quel momento il Partito comunista cinese è stato più attento e rispettoso delle esigenze di queste comunità religiose e cerca, tutt'oggi, di riparare alle persecuzioni e alle distruzioni dei drammatici decenni della Rivoluzione culturale.

Così, a pochi anni dalla morte di Máo Zédōng, dal 16 al 23 dicembre del 1980 l'Associazione buddhista cinese (中国佛教协会, Zhōngguó Fójiào Xiéhuì, fondata nel 1953, raccoglie tutte le realtà buddhiste del Paese) poté convocare regolarmente, e dopo decenni di assenza, la sua Quarta Assemblea con 254 delegati da tutto il Paese, eleggendo Zhào Pùchū (赵朴初, 1907-2000) come presidente.

Dal 1981 la stessa Associazione ha ripreso a diffondere la sua pubblicazione ufficiale, Fǎyīn (法音, Voce del Dharma), e ha potuto riaprire l'Istituto di studi buddhisti di Pechino.

Il 20 aprile 1983 finalmente il Governo ha varato la "Risoluzione per le ordinazioni monacali" che ha consentito di effettuare le ordinazioni monastiche in modo regolare e non più segreto. La Quinta Assemblea dell'Associazione si è svolta nella primavera del 1987, in quella occasione si è deciso di fondare l'Istituto di Cultura buddhista cinese con una propria biblioteca. Alla Sesta Assemblea, svoltasi nell'ottobre 1993, hanno partecipato direttamente importanti responsabili politici del Governo cinese e del Partito comunista. La Settima Assemblea, come la Sesta, è stata indirizzata soprattutto a condurre l'Associazione in un ambito "coerente" con le "politiche di unità nazionale" promulgate dal Governo. Mentre nel 2003 si è svolto regolarmente il cinquantenario dell'Associazione dei buddhisti cinesi.

Se consideriamo che agli inizi degli anni ottanta erano sopravvissuti solo circa 25 000 tra monaci e monache, la cui quasi totalità aveva trascorso decenni nei campi di rieducazione e di lavoro forzato del Partito comunista cinese, si può considerare come estremamente positiva l'evoluzione da quegli anni bui fatti di torture e imprigionamenti per il saṃgha cinese. Le distruzioni dei monasteri e dei templi furono infatti drammatiche, pochi i testi originali sopravvissuti, migliaia le esecuzioni.

Oggi sono principalmente quattro i monasteri che hanno ripreso regolarmente la formazione dei monaci e la loro ordinazione e si trovano a: Qīxiáshān (栖霞山) nei pressi di Nanchino, Nántōng (南通), Chéngdū (成都), Monte Pǔtuó (普陀山) nei pressi di Níngbō. Il buddhismo professato da questi monaci è quasi dappertutto sincretico e amalgama dottrine originariamente diverse, derivate soprattutto dalle scuole Chán, Zhēnyán e Jìngtǔ, unite a principi razionalistici di stampo marxista, tesi a realizzare, in questo mondo e attraverso il socialismo, la Terra pura, unendo la pratica meditativa con il lavoro agricolo.[11]

Nei monasteri vengono accuratamente conservati e studiati tutti i testi tradizionali e i loro commentari delle differenti scuole, considerati necessari alla formazione monastica. Le statistiche indicano in circa 200 000 i monaci esistenti oggi in Cina, di cui circa la metà (40 000 monaci e 60 000 monache) appartiene al c.d. "buddhismo Han" ovvero al buddhismo di non derivazione lamaista ma autenticamente cinese. I templi oggi funzionanti sono circa diecimila. Tutti questi dati risultano, peraltro, in costante aumento. Come sempre più diffusi sono i pellegrinaggi dei cittadini cinesi sui quattro monti sacri del buddhismo cinese: Monte Wǔtái (五台山) nello Shanxi, Monte Jǐuhuá (九華山) nello Anhui, Monte Éméi (峨嵋山) nel Sichuan, Monte Pǔtuó (普陀山) nello Zhejiang.

Ogni anno circa 500 nuovi studenti-monaci, in genere sono giovani diplomati, entrano a far parte delle istituzioni formative buddhiste[12]. I corsi di queste istituzioni, della durata di due-quattro anni, riguardano la meditazione, lo studio delle scritture buddhiste, la filosofia e una lingua straniera. Alcuni studenti-monaci, terminato il corso, continuano a studiare presso le facoltà universitarie di filosofia. Il corso prevede anche un livello di formazione politica, ma non risulta particolarmente "oneroso". Nel 1995 si è provveduto alla ristampa integrale, in lingua cinese, del Canone buddhista cinese e del Canone tibetano. I contatti tra il saṃgha cinese e i saṃgha degli altri paesi sono costanti. In particolar modo con il saṃgha thailandese e birmano del buddhismo Theravāda. Nel giugno del 1993 il patriarca thailandese Nyanasamvara Suvaddhana (1913-) ha compiuto una visita in Cina dove è stato accolto da migliaia di monaci cinesi e dove ha compiuto, insieme a loro, dei riti religiosi. Nell'agosto del 1995 una folta delegazione buddhista cinese, invitata dalla comunità buddhista francese, ha visitato i luoghi del Dharma di sette paesi europei.

Molto attiva è anche l'Associazione buddhista sino-giapponese, tesa a far conoscere le tradizioni religiose dei due paesi fortemente collegate sul piano storico.

L'Associazione buddhista cinese è, infine, molto attiva sul piano caritatevole e sociale, finanziando la Croce rossa e varie attività nei confronti dei cittadini più bisognosi. I cittadini cinesi stanno riscoprendo in questi anni il valore religioso delle dottrine buddhiste. Anche se non conoscono in modo approfondito tali dottrine si impegnano sempre di più nella osservanza dei precetti religiosi e delle pratiche devozionali. In occasione delle festività religiose i templi si riempiono ormai di migliaia di fedeli i quali, oltre ad accendere gli incensi, ascoltano i sermoni dei monaci e consumano insieme dei pasti vegetariani in un'atmosfera di festività.

Il buddhismo a Taiwan e a Hong Kong

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Il tempio di Tzu Chi (Taiwan), sede della ONG buddhista guidata dalla monaca Cheng Yen.

Il buddhismo a Taiwan ha subìto uno sviluppo senza precedenti a partire dal 1949 quando migliaia tra monaci e monache cinesi si riversarono nell'isola per sfuggire alle persecuzioni delle truppe di Máo Zédōng.

Oggi sono circa diecimila i monaci buddhisti presenti a Taiwan con quattromila tra templi e monasteri. Un quarto dei 22 milioni di cinesi di Taiwan si dichiara apertamente buddhista. I lignaggi e gli insegnamenti del buddhismo di Taiwan sono gli stessi di quelli ereditati dalla Cina nazionalista e consistono prevalentemente in lignaggi del buddhismo Chán, ma la caratteristica del buddhismo taiawanese moderno è che ha deciso di eliminare i confini tra le diverse scuole, unendo lignaggi e insegnamenti.

Il buddhismo taiwanese è noto a livello internazionale per le sue attività missionarie e caritatevoli. Tra queste ultime emerge la figura della monaca Cheng Yen (證嚴法師, 1937-), detta "Madre Teresa di Taiwan" per la sua intensa attività di aiuto nei confronti dei malati e dei poveri. Nelle attività missionarie va invece ricordato il monaco Hsing-yun (星雲大師, 1927-), fondatore del centro per le attività culturali e missionarie Fokwangshan a Kaohsiung (高雄) e promotore di circa settanta missioni in tutto il mondo tra cui il tempio di Tempio di Hsi-lai (西來寺) a Los Angeles. I buddhisti di Taiwan hanno fondato, il 9 novembre 2001 a Yung Ho (永和, Taipei), il "Museo mondiale delle religioni".

Anche il territorio di Hong Kong, governato dal Regno Unito fino al 1997, fu luogo di rifugio per centinaia di monaci buddhisti fuggiti dalla Cina comunista. Soprattutto sull'Isola di Lantau (爛頭) dove ancora oggi esistono circa sessanta templi.

Il saṃgha monastico di Hong Kong conta oggi circa tremila persone, che con i fedeli laici attivi, superano le ventimila unità, tutte aderenti alla Federazione buddhista di Hong Kong (fondata nel 1945) che ha festeggiato il suo cinquantenario il 9 maggio 1995. Tra i templi e i monasteri più importanti nell'area di Hong Kong vanno citati: il monastero di Bǎolián (寶蓮寺) sull'isola di Lantau, il tempio dei Diecimila Buddha (萬佛寺) a Shatin (沙田) e il tempio della Foresta orientale (Dōnglínsì, 东林寺) di Lowai. Il 29 dicembre 1993 è stata inaugurata una enorme statua del Buddha (alta oltre i 26 metri) denominata 天壇大佛 (Tiān Tán Dà Fó) nel monastero di Bǎolián con una grande partecipazione popolare.

  1. « Una delle prime menzioni del buddhismo da parte delle fonti cinesi si trova in un testo storico, peraltro oscuro e mutilo, in cui si parla di un letterato che nell'anno 2 a.C. avrebbe ricevuto l'insegnamento delle Scritture buddhiste da un principe o da un ambasciatore Yuezhi, cioè degli Indo-sciti, che allora governavano ai confini indoiranici »
    (in: Paul Demieville. Il buddhismo cinese, in Henri-Charles Puech (a cura di) Storia del buddhismo. Bari, Laterza, 1984, pagg. 160-1)
  2. « La prima precisa menzione del Buddha figura in un editto del 65, riguardante un principe imperiale, Ying di Chou, il quale manteneva presso la sua corte di Pengcheng (un importante centro commerciale della Cina orientale dove gli stranieri dovevano essere numerosi) una comunità di monaci (sicuramente stranieri) e di laii indicati con la loro denominazione tecnica indiana; e il testo precisa che il principe "sacrificava al Buddha" »
    (In: Paul Demieville. Il buddhismo cinese, in Henri-Charles Puech (a cura di) Storia del buddhismo. Bari, Laterza, 1984, pagg. 160-1)
  3. Il Gāosēng zhuàn (高僧傳, Biografie di monaci eminenti, giapp. Kōsō den, T.D. 2059), composto in 14 fascicoli da Huìjiǎo (慧皎, 497-554) nel 519 mentre risiedeva nel monastero di Jiaxiang. Contiene la biografia di 257 tra monaci e monache vissuti in Cina tra il 67 e il 519 ed è conservato nello Shǐchuánbù.
  4. 石勒 regno 319-333, della Dinastia Zhao posteriore, 後趙, 319-351
  5. Dinastia Wei orientale (534-550, capitale: Luòyáng); Dinastia Wei occidentale (535-557, capitale: Cháng'ān); Dinastia Qi settentrionale (550-557, capitale: Yè).
  6. Appellativo comune dato al trono imperiale cinese.
  7. Questa dinastia è suddivisa in due periodi: la Dinastia Song settentrionale (960-1127, capitale: Biàn, 汴); la Dinastia Song meridionale (1127-1279, capitale: Lín'ān, 臨安).
  8. Questa dinastia, denominata Dinastia Liao, rappresenta l'unione di otto tribù del popolo Qìdān (契丹) guidate da un khan che dominò parte della Cina settentrionale dal 907 al 1125 avendo come capitale, dal 936, Yandu l'attuale Pechino. Nel 1125 questo regno fu conquistato dalla Dinastia Jin formata dai khan di una tribù tungusa fino a quel momento tributaria dei Liáo. I Jin, che stabilirono nel 1127 la propria capitale a Biàn strappata al dominio della Dinastia Song, furono conquistati dai mongoli nel XIII secolo.
  9. Questo regno viene indicato come Dinastia Xia occidentale (1032-1227, capitale: Níngxià) e venne conquistato dai mongoli nel XIII secolo.
  10. «Il Lamaismo divenne di fatto la religione di Stato, a danno del Sangha cinese che per molti decenni fu soggetto a un regime lamaista terroristico.» Erik Zurcher in: Il buddhismo in Cina, buddhismo. Giovanni Filoramo (a cura di). Bari, Laterza, 2007, pag.227. Cfr. anche Mario Sabattini e Paolo Santangelo. Storia della Cina. Bari, Laterza, 2000, pag. 470.
  11. «Molti monaci considerano però questi impegni come un prezzo da pagare per accontentare i burocrati del partito, mentre di fatto nei monasteri sono insegnate le dottrine e le pratiche tradizionali, in modo abbastanza sincretico.» In: Sergio Ticozzi. La tradizione buddhista in Cina Religioni Cinesi, Quarto Quaderno. 2,2002,71.
  12. È da tener presente, tuttavia, che per entrare nelle istituzioni monastiche occorre sia la segnalazione del Centro buddhista locale, sia l'approvazione degli Uffici di governo locali per gli affari religiosi.