Geografia OpenBook/Geografia economica

Indice del libro

Introduzione

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La geografia economica studia le attività economiche nella loro effettiva presenza/assenza sul territorio (non in teoria come fossero nel vuoto), le ragioni della loro localizzazione (presenza/assenza), e gli effetti che producono alle diverse scale (locale, regionale, globale).

Per fare questo, la geografia economica studia le relazioni che intercorrono nello spazio geografico tra i soggetti economici (famiglie, imprese, Stati) e tra questi e l'ambiente naturale in cui operano.

Le relazioni geografiche tra soggetti economici, sono dette orizzontali, e consistono in scambi e flussi (movimenti di merci, servizi, persone, informazioni, tecnologie, capitali, ecc.) che avvengono fra/negli insediamenti attraverso reti di infrastrutture (trasporti, telecomunicazioni, ecc.)

Le relazioni geografiche che i soggetti economici hanno col contesto territoriale naturale (clima, risorse, posizione, ecc.) ed antropico (aspetti giuridici, culturali, storici ecc.) in cui operano sono dette invece verticali.

Globalizzazione economica e finanziaria

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Il fenomeno economico più caratteristico dei nostri tempi a scala mondiale è senza dubbio la globalizzazione economica e finanziaria.

 
World Economic Forum, 2008

La globalizzazione economica e finanziaria è propriamente oggetto di studio della geografia economica; probabilmente ne è l'oggetto di studio per eccellenza.

La globalizzazione è la capacità delle forze di mercato di oltrepassare i confini degli Stati, determinando la formazione di un mercato tendenzialmente mondiale, globale (da globo, appunto) composto da sistemi economici locali e regionali sempre più interdipendenti.

La globalizzazione economica e finanziaria contemporanea si è affermata con evidenza negli anni '90 ma è possibile individuarne la nascita all'inizio degli anni '80, in corrispondenza gli interventi di liberalizzazione e deregolamentazione dell'economia avviata in particolare dai governi anglosassoni del Regno Unito (Thatcher) e Stati Uniti (Reagan). Negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008 la globalizzazione economica e finanziaria ha rallentato la sua crescita.

È curioso osservare come nel 2016, ancora una volta contemporaneamente, entrambi i Governi del Regno unito (May, dopo la Brexit) e degli Stati Uniti (Trump, elezione presidenziale di novembre), dopo essere stati per decenni il motore della globalizzazione ed integrazione economica e finanziaria, ne stiano riconsiderando negativamente alcuni aspetti economici ma non quelli finanziari (per ora).

Le forze di mercato che costituiscono la globalizzazione sono espresse dai soggetti economici (famiglie, stato, imprese, banche), in particolare da grandi banche ed imprese, sotto forma di flussi internazionali di denaro, destinanti a:

  1. importazioni ed esportazioni (commercio internazionale);
  2. investimenti diretti esteri (produttivi e commerciali);
  3. investimenti di portafoglio esteri (finanziari).

Mentre il ruolo delle imprese private è quello di sviluppare questi flussi internazionali per migliorare i profitti, il ruolo dei Governi (degli Stati) è quello di regolamentarli, incentivandoli o disincentivandoli in base alle loro conseguenze.

Ruolo dello Stato

Il ruolo dello stato come soggetto economico è sia diretto che indiretto. Nel caso della globalizzazione economica e finanziaria è prevalentemente indiretto. Lo Stato emana delle leggi e dei regolamenti che permettono alle imprese di oltrepassare i confini con le loro azioni (import/export, ide, investimenti di portafoglio).

Queste leggi e regolamenti sono stati introdotti a partire dagli anni '80 negli USA e nel Regno Unito e successivamente adottati anche da molti altri Paesi, fra cui l'Italia. Tali leggi e regolamenti (liberalizzazioni e deregolamentazioni) hanno permesso alle grandi imprese di trasformarsi in multinazionali sfruttando in tal modo le opportunità offerte dalla globalizzazione ed hanno reso il sistema economico più adatto alle loro esigenze.

Ruolo delle imprese

Le imprese sono il principale soggetto attivo della globalizzazione economica e finanziaria, in particolare le grandi imprese multinazionali.

Una multinazionale è un'impresa che organizza le proprie attività economiche e finanziarie in Paesi diversi (p.es. la sede centrale direzione si trova nel Paese A mentre gli impianti di produzione si trovano nei Paesi B e C e le filiali di distribuzione in altri 5 Paesi) costituendo di fatto un'entità sovranazionale che quindi va al di là dei confini di uno Stato.
Spesso le grandi imprese produttive, commerciali, di servizi o bancarie, sono multinazionali.
Un'interessante lettura critica sulle multinazionali, con classifiche e grafici, è consultabile qui

Importazioni ed esportazioni

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Si tratta di acquisti e di vendite di materie prime, prodotti finiti e servizi, effettuati da imprese (in particolare grandi imprese) e fra imprese di Paesi diversi.

Le imprese in tal caso vendono all'estero (cioè esportano) i propri prodotti/servizi e/o comprano dall'estero (cioè importano) materie prime e servizi da trasformare in prodotti finiti o da rivendere.

 
Commercio internazionale: beni principali

Le categorie di beni e servizi oggetto di import ed export, sono: materie prime energetiche (p.es. petrolio), tessile ed abbigliamento (p.es. sneakers), mezzi di trasporto (p.es. autovetture), elettronica di consumo (p.es. smartphone), servizi di trasporto (p.es. aerolinee).

L'insieme di queste operazioni è detto commercio internazionale.

Fatto 100 il totale del commercio internazionale circa il 75% è costituito da merci e circa il 25% da servizi.

In termini di "contabilità nazionale" le operazioni di import (segno -) ed export (segno +) vanno a comporre il bilancio delle partite correnti, che a sua volta è costituite dal bilancio commerciale (solo imp/exp di merci) e dal bilancio dei servizi (solo imp/exp di servizi).

Nel 2018,
i Paesi con il maggiore surplus (esportano più merci di quante ne importano) sono: Cina (continentale), Germania, Russia, Arabia Saudita, Paesi Bassi e Corea del Sud.
i Paesi con il maggiore deficit (importano più merci di quante ne esportano) sono: Stati Uniti, India, Regno Unito, Francia, Hong Kong e Turchia.
(Dati da https://unctadstat.unctad.org/wds/ReportFolders/reportFolders.aspx - Trade trends > Merchandise: Trade balance > Individual economies)

Una efficace rappresentazione grafica della composizione del commercio internazionale per Paesi e per prodotti è disponibile qui (fonte: Mit).

 
Rotte del commercio internazionale

Alcuni flussi di import/export internazionali sono particolarmente significativi, come quelli riguardanti il petrolio, materia prima energetica di importanza primaria, che dai Paesi del Golfo Persico, dal Centro America, dal Golfo di Guinea vanno verso i principali Paesi economicamente sviluppati della Triade[1] e verso la Cina, divenuta da un decennio grande consumatore/importatore di livello mondiale.

 
Treno porta container

La maggior parte dei flussi di prodotti finiti comprati (importati) e venduti (esportati) oltre confine, che costituiscono il commercio internazionale, sono trasportati dai luoghi di produzione a quelli di vendita via mare, all'interno di appositi "container" (contenitori) metallici imbarcati su apposite navi e via terra su treni merci o su camion (singoli container).   I porti merci più importanti del mondo sono: Shanghai (Cina), Singapore, Guangzhou (Cina).
Dalla classifica si può notare che fra i primi 10 porti, 6 sono in Cina; il primo in Europa è Rotterdam seguito dal vicino Anversa (Belgio); i primi due degli Stati Uniti sono nel Golfo del Messico.

Investimenti produttivi e commerciali esteri

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Anche in questo caso si tratta di acquisti compiuti all'estero dalle imprese, generalmente grandi imprese multinazionali, sempre nell'ambito dell'economia reale (beni e servizi). Si tratta di acquisti all'estero di imprese produttive o commerciali già esistenti (dette fusioni ed acquisizioni) o da realizzare (detti a "prato verde"). Queste operazioni di investimento in attività produttive o commerciali, in qualsiasi settore economico (agricoltura, industria, servizi), sono chiamati IDE: Investimenti Diretti Esteri e servono ad aumentare la presenza internazionale delle grandi imprese al fine di divenire ancora più grandi.

 
Insediamenti industriali in Cina

Nella "contabilità nazionale" gli IDE (Investimenti Diretti Esteri) verso l'estero o dall'estero, vanno ad influire sul bilancio dei movimenti di capitali.

Si tratta di capitali investiti nell'economia reale di un Paese per la produzione o la commercializzazione all'estero di prodotti o servizi. Quando un investimento produttivo all'estero viene più o meno affiancato da un ridimensionamento o dalla chiusura di sedi produttive in una tradizionale area d'insediamento produttivo nazionale si parla di delocalizzazione.

I soggetti di questi investimenti all'estero sono le multinazionali. Queste grandi imprese, che in tal modo aumentano la loro presenza all'estero divenendo sempre più grandi, hanno la sede centrale nei principali Paesi economicamente sviluppati, e in misura minore ma decisamente crescente nei Paesi emergenti. In genere gli IDE provengono in gran parte da Paesi sviluppati ed in misura crescente da Paesi in via di sviluppo (Cina in particolare) e sono destinati in parte verso i Paesi sviluppati (di fondamentale importanza per le imprese multinazionali) ed in parte verso i Paesi in via di sviluppo (che offrono costi di produzione minori da cui riesportare la produzione verso i Paesi sviluppati e nuovi mercati di vendita).

Calcolando la media degli anni dal 2013 al 2018:
i maggiori flussi di investimenti diretti esteri provengono da: Stati Uniti, China (continentale + Hong Kong), Giappone, Paesi Bassi, Germania, Isole Vergini Britanniche, Canadà, Francia, Singapore
i maggiori flussi di investimenti diretti esteri vanno in: Stati Uniti, Cina (contin + HK), Regno Unito, Paesi Bassi, Singapore, Brasile, Isole Cayman, Isole Vergini Britanniche, Australia, Irlanda.
(dati da https://unctadstat.unctad.org/wds/ReportFolders/reportFolders.aspx - Foreign direct investment)

Si può notare che gli investimenti diretti esteri negli anni più recenti (2013-18) sono orientati verso i Paesi sviluppati nei Paesi con fiscalità agevolata (Paesi Bassi e Irlanda nella Ue, Isole Cayman ed Isole Vergni in RU), e verso i Paesi in via di sviluppo in Cina e Brasile che costituiscono il maggior polo di attrazione dei rispettivi continenti.

Gli aspetti che possono attrarre gli investimenti produttivi esteri all'interno di un Paese, o di una sua regione (come le Zone Economiche Speciali, aree specifiche realizzate per tale scopo), sono generalmente riferiti a costi inferiori ed ampia disponibilità di: lavoratori, materie prime, trasporti, telecomunicazioni; ed inoltre: tassazione ridotta, incentivi agli investimenti, minore protezione ambientale.

Investimenti di portafoglio esteri

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Trading floor of the New York Stock Exchange, New York City

Anche in questo caso si tratta di operazioni compiute all'estero dalle imprese, generalmente grandi imprese, in questo caso imprese bancarie. Si tratta di acquisti esteri di attività finanziarie: azioni, obbligazioni, valute, strumenti derivati e prestiti bancari. Si tratta quindi di acquisti di attività finanziarie e non di beni e servizi nell'economia reale come nel caso dell'import/export e degli investimenti diretti esteri.

Questi flussi di capitali, fino a 10 volte superiori ad import/export ed IDE messi insieme, si svolgono nell'ambito puramente finanziario, in parte su mercati regolamentati (Borse) in parte direttamente fra banche. Si tratta di movimenti di capitali che non riguardano direttamente l'economia reale ma che sono in grado di influenzarla profondamente, come si è visto durante la crisi finanziaria del 2008 e durante la crisi dell'euro del 2011, i cui effetti negativi sull'economia reale (reddito, occupazione, produzione) durano ancora oggi.

Nella "contabilità nazionale" gli investimenti di portafoglio esteri verso l'estero o dall'estero, vanno ad influire sul bilancio dei movimenti di capitali.

I più grandi flussi di investimenti di portafoglio esteri provengono da: Germania, Hong Kong (Cina), Paesi Bassi, Singapore, Giappone, Italia, Corea del Sud (e cioè, generalmente, dai grandi esportatori).

I più grandi flussi di investimenti di portafoglio esteri vanno in: Regno Unito, Lussemburgo, Stati Uniti, Irlanda, Australia, Messico. (dati da http://data.worldbank.org/indicator/ 2014/'15)

Il saldo del bilancio delle partite correnti (imp/exp di beni e servizi) e del bilancio dei movimenti di capitale (investimenti produttivi e di portafoglio) determina la posizione complessiva della bilancia dei pagamenti.

La maggior parte degli acquisti di attività finanziarie ha una durata breve, molto spesso inferiore ad un anno e spesso limitata a poche settimane o addirittura poche ore; in tal caso ad un acquisto segue presto la vendita con l'obiettivo di ottenere un modesto ma rapido profitto. Enormi flussi di denaro si riversano giornalmente sui mercati finanziari internazionali, spesso con un orizzonte temporale di pochi minuti, comprando e vendendo più volte in una medesima giornata. È possibile seguirne l'andamento con i relativi grafici di borsa, in tempo reale sui siti web specializzati come questo.

Parlare di investimenti in questi casi sembra fuori luogo, si tratta più propriamente di attività di compravendita a breve termine (speculazione finanziaria).

Si tratta di flussi di capitali enormi che sembrano avere conseguenze positive sul valore delle attività finanziarie di un Paese (aumento del valore delle azioni quotate sui mercati finanziari e diminuzione dei tassi di interesse sui titoli di Stato) quando arrivano e fintanto che durano, per qualche mese o qualche anno. Quando le opportunità di guadagno, che avevano attirato questi flussi finanziari, si esauriscono (a volte proprio a causa dell'aumento dei prezzi delle attività finanziarie oggetto di ripetuti acquisti dall'estero) la direzione dei flussi dei capitali esteri si inverte, talvolta molto rapidamente. Ciò può avere, attraverso le difficoltà del sistema bancario locale (che si ritrova improvvisamente a corto di denaro/liquidità, per ragioni indipendenti dalla propria volontà), conseguenze disastrose sull'economia reale dei Paesi che inizialmente avevano accolto benevolmente questi flussi di capitale, generando vere e proprie tempeste finanziarie (crisi finanziarie). Queste ultime, a causa dell'elevata interdipendenza finanziaria globale, possono arrivare a contagiare anche interi continenti (p.es. crisi asiatica del 1998, crisi dell'Euro del 2011) con conseguenze negative che possono durare molti anni.

I maggiori mercati azionari globali sono: Nyse di New York, Lse di Londra, Tse di Tokyo.
Un grafico con la capitalizzazione (totale del valore dei titoli quotati) dei principali mercati azionari è disponibile qui (2016).

Il maggior mercato valutario del mondo è quello di Londra. L'Italia ha uno dei mercati obbligazionari più importanti del mondo, dove sono quotati i Titoli di Stato (obbligazioni del debito pubblico italiano). Uno dei più importanti mercati dei derivati è il Cbot di Chicago.

Paradisi fiscali

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Non è possibile farsi un'idea completa della globalizzazione senza considerare i cosiddetti paradisi fiscali: si tratta di Stati o spesso giurisdizioni (regioni o provincie con regole fiscali speciali rispetto allo Stato a cui appartengono) che offrono un trattamento fiscale di favore alle imprese estere che decidono di stabilirvi una propria filiale. Spesso le filiali aperte in questi territori sono puramente rappresentative, con pochissimi addetti e uffici di dimensioni piuttosto ridotte. Il trattamento di favore riservato a tali imprese, filiali di gruppi esteri, si concretizza nel pagare da 10 a 100 volte meno tasse rispetto ad altri Paesi.

Le grandi imprese multinazionali, nella globalizzazione, effettuano molto spesso scambi di denaro per effettuare import/export, investimenti diretti esteri ed investimenti di portafoglio esteri attraverso imprese appartenenti al medesimo gruppo cioè fra filiali e fra filiali e sede centrale (scambi intra-gruppo).

Se si prende ad esempio il percorso che il petrolio compie dall'estrazione alla vendita della benzina alla pompa se ne può evidenziare sia l'aspetto del trasporto sia quello del flusso di denaro.
Il petrolio può essere estratto da una filiale di una grande compagnia petrolifera mondiale in un Paese produttore che lo vende ad un'impresa del medesimo gruppo per trasportarlo via mare su apposite petroliere per poi rivenderlo ad un'impresa del medesimo gruppo che lo raffina (trasformazione in benzina) in un impianto chimico di un altro Paese per poi venderlo ad un'altra società del gruppo che lo commercializza al dettaglio.
Se, ad esempio, il costo di estrazione è 10 ed il prezzo di vendita finale è 100, l'impresa di estrazione può far pagare il petrolio all'impresa di trasporti navale 20; questa può far pagare il petrolio 80 all'impresa che procede alla raffinazione e quest'ultima 90 alla filiale che lo rivende al dettaglio (tutte imprese appartenenti al medesimo gruppo).
Così facendo gran parte del guadagno realizzato dalla multinazionale può essere realizzato dalla filiale che si occupa del trasporto (compra a 20 e rivende a 80) che avendo magari la sede in un paradiso fiscale può pagare pochissime tasse rispetto a quelle del Paese in cui avviene l'estrazione, la raffinazione o la vendita che in questo modo possono dichiarare profitti molto bassi.

Un altro esempio può essere costituito dalla vendita a rate di un prodotto industriale. La filiale che si occupa della vendita offre uno sconto sul prezzo se i consumatori acquistano il prodotto a rate servendosi di una società finanziaria che appartiene al medesimo gruppo. In tal modo la filiale che vende realizza bassi profitti a causa degli sconti praticati e tutto il profitto viene realizzato dalla società finanziaria che magari può avere la sede in un Paese a fiscalità ridotta o in un vero e proprio paradiso fiscale.

Si tratta di esempi semplificati, ma il principio è quello di attribuire contabilmente i profitti all'impresa del gruppo multinazionale che ha sede in un paradiso fiscale, o in un Paese a tassazione agevolata, attraverso la compravendita di beni e servizi fra imprese del medesimo gruppo, ed il meno possibile nelle imprese situate in Paesi a tassazione normale o elevata. Questo processo può essere considerato un particolare tipo di delocalizzazione fiscale.

Quali sono i "paradisi fiscali"? Non esiste una definizione precisa ed internazionalmente condivisa anche se le principali caratteristiche sono l'imposizione fiscale quasi inesistente per le imprese estere e l'assenza di trasparenza (opacità) ossia la volontà di non scambiare informazioni in materia fiscale con altri Stati. Molti Governi statali ed istituzioni internazionali hanno compilato "liste nere" di Stati e giurisdizioni definite a vario titolo "paradisi fiscali".

Proponiamo fra gli altri la classificazione realizzata da un centro studi (TJN) che si occupa specificamente del tema. Nella loro lista di Paesi con un basso grado di trasparenza fiscale compaiono anche grandi Paesi sviluppati che hanno al loro interno giurisdizioni fiscalmente vantaggiose e/o opache (non trasparenti) o regolamentazioni che si prestano ad un uso spegiudicato.

Se da un lato i paradisi fiscali o i Paesi con accordi di tassazione agevolata offrono un'opportunità di guadagno per un'impresa multinazionale che vi localizza una sua filiale o addirittura la sua sede centrale, dall'altro provocano una perdita di gettito per gli Stati che hanno un regime fiscale tradizionale dato che vengono a mancare le imposte sui profitti delle grandi imprese che delocalizzano la sede centrale o buona parte dei loro profitti attraverso le operazioni intra-gruppo con le filiali estere, contribuendo così alla crisi dei bilanci statali.

Domande per il ripasso

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Che cos’è la globalizzazione economica e finanziaria?
Quando e dove nasce e si sviluppa la globalizzazione?
Oggi la globalizzazione è in crescita o in diminuzione, in base a quali aspetti si può verificare?
Qual è il ruolo dei soggetti economici nella globalizzazione (Stato e grandi imprese)?
In che modo lo Stato interviene nella globalizzazione?
Cosa sono le liberalizzazioni e deregolamentazioni?
Cosa sono le imprese multinazionali?
In che modo le grandi imprese intervengono nella globalizzazione?
Cosa sono l'import e l'export?
Quali categorie di beni servizi sono più scambiate nel commercio internazionale?
Quali sono i primi Paesi per surplus/deficit commerciale?
Qual è il soggetto che effettua gli IDE?
Cosa sono gli IDE?
Cosa sono le delocalizzazioni?
Quali sono i fattori che attraggono gli IDE e le delocalizzazioni?
Quali sono i primi Paesi per provenenza/destinazione degli Ide?
Cosa sono le Zes?
Cosa sono gli IPE?
Qual è il soggetto che effettua gli IPE?
Quali sono i primi Paesi per provenenza/destinazione degli IPE?
Quale caratteristica hanno in comune, generalmente, i primi Paesi di provenienza degli IPE?
Quale categoria di flussi internazionali è la maggiore, fra Import/Export, IDE, IPE?
Perché tendono a verificarsi le "tempesta finanziaria"?
Attraverso quale canale avviene il contagio da una crisi finanziaria ad una crisi economica?
Quali sono le principali "piazze finanziarie"?
Che cosa è un "paradiso fiscale"?
Quali sono alcuni "paradisi fiscali"?
Come vengono utilizzati i "paradisi fiscali" dalle grandi imprese?
Perché i "paradisi fiscali" sono dannosi per gli altri Stati?

Sviluppo economico

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Lo sviluppo economico è un processo di cambiamento quantitativo e qualitativo sia dell'economia di una regione (area) o di un intero Paese sia del modo di vivere e lavorare della popolazione. Tipicamente si intende per sviluppo economico il passaggio da un'economia basata prevalentemente sulle attività del settore primario (vedi classificazione attività economiche ad un'economia incentrata sulle attività del settore secondario e terziario.

Vediamo ora quali sono gli indici quantitativi e gli aspetti qualitativi dello sviluppo economico.
L'indice principale utilizzato dagli economisti per misurare il livello di sviluppo economico raggiunto da un Paese è il PIL procapite (vedi).
Per i Paesi (Stati) europei è possibile osservare il livello del PIL procapite, quindi dello sviluppo economico, con un dettaglio geografico maggiore rispetto al dato nazionale (dell'intero Paese). Eurostat (l'istituto di statistica della UE) rende disponibili i dati riferiti al livello equivalente alle nostre regioni (nuts2) ed alle nostre province (nuts3). È possibile visualizzare le carte tematiche basate su questi dati (PIL procapite nuts2-regioni) seguendo questo collegamento. Per il commento alla carta tematica ed ai livelli di sviluppo economico in Europa seguire questo collegamento.

Livello di sviluppo economico

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Gdp/PIL (Ppp) pro capite 2014

I dati del PIL procapite (dollari USA) per quasi tutti i Paesi del mondo sono visibili su wikipedia seguendo questo collegamento.
La figura a destra illustra un planisfero tematico con il livello del PIL procapite (Ppp, 2014): con i toni più scuri si notano i Paesi con il livello di reddito medio della popolazione (quindi di sviluppo) più elevato; con i toni più chiari, invece, i Paesi con il livello più basso. Si può notare come i primi siano presenti nell'America del Nord (USA e Canadà), in Europa (in particolare nel centro-nord), nella Penisola Araba (Arabia Saudita, Kuwait, Oman, EAU, Qatar), in Oceania (Australia e Nuova Zelanda) ed in Estremo Oriente (Giappone, Corea del Sud e Taiwan). Fra le aree meno sviluppate troviamo l'Africa intertropicale, esclusi quindi i Paesi mediterranei e del sud, ed alcune regioni dell'Asia meridionale centrale (Afghanistan, Bangladesh, Pakistan) e dell'Indocina (Birmania/Myanmar, Vietnam).
Va sempre considerato che all'interno di ciascun Paese il livello dello sviluppo economico, misurato con il PIL procapite, non è affatto uniforme. Come visto prima nel dettaglio in Europa (nuts2) all'interno di ciascun Paese esistono aree economicamente più sviluppate (forti) ed aree meno sviluppate (deboli), spesso con differenze (divari territoriali) molto ampi.

Ripartizione settoriale degli occupati

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Ripartizione settoriale degli addetti (in basso) e per contributo al PIL (in alto), 2006

Un altro aspetto quantitativamente molto importante, che testimonia le condizioni qualitative di vita della popolazione, è dato dalla composizione settoriale degli occupati (addetti) nei tre settori economici. Per rinfrescare la memoria sulla classificazione delle attività economiche vedere qui.
La suddivisione tipica dell'occupazione (degli addetti) nei tre settori nei Paesi economicamente più sviluppati è all'incira: Primario 5%, Secondario 25%, Terziario 70%.
La suddivisione tipica dell'occupazione (degli addetti) nei tre settori nei Paesi economicamente meno sviluppati è all'incira: Primario 50%, Secondario 15%, Terziario 35%.
La figura a destra illustra un planisfero tematico con la composizione settoriale dell'economia (Gdp composition) e degli occupati (Labour force). È possibile notare come la quota percentuale maggiore dell'occupazione nei Paesi ad elevato PIL procapite sia nel terziario mentre la quota percentuale maggiore dell'occupazione nei Paesi a basso PIL procapite (Africa centrale ed Asia meridionale) sia nel primario.

Condizioni pre-industriali

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Si pùo notare come nei Paesi meno sviluppati (con basso PIL procapit) la maggior parte della popolazione è occupata in attività economiche del settore primario (e ancora più in attività informali nel medesimo settore come nel caso della produzione per autoconsumo che non generano scambi monetari e che per questo non rientrano nella definizione di PIL); tali attività si avvicinano molto a quelle che hanno accompagnato tradizionalmente l'umanità da circa 10.000 anni (quando, circa nel 8.000, AC vengono fatte risalire prime forme di agricoltura ed allevamento). Si parla in questo caso di contesti sociali ed economici tradizionali, con condizioni di vita prevalentemente rurali (nelle campagne, in piccoli insediamenti) cioè pre-industriali.

Oggi, in condizioni preindustriali, la maggior parte della popolazione vive nelle campagne praticando l'agricoltura o altre attività nel settore primario. Esistono anche alcune grandi città con funzioni amministrative, o commerciali-produttive ma riguardano una minoranza della popolazione. Le funzioni produttive (attività del settore secondario) consistono più nell'artigianato che nell'industria e sono decentrate e diffuse. Le attività terziarie consistono nel piccolo commercio, spesso informale, nelle attività di trasporto spesso individuali o su piccola scala e in qualche forma essenziale di pubblica amministrazione.

Industrializzazione

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L'avvento dell'industrializzazione, cioè la produzione su vasta scala (grandi quantità) e concentrata nelle fabbriche, trasforma la struttura economica del Paese e le condizioni di vita della popolazione. L'industrializzazione, col suo aumento di addetti al secondario (industria ed edilizia) determina la crescita urbana, cioè l'aumento del numero e della grandezza delle città specialmente di quelle in cui si localizzano le attività industriali, provocando una forte migrazione interna dalle campagne (dove le condizioni di vita sono spesso al limite della sussistenza) alle città che presentano attività economiche in crescita trainate dal successo dell'industria. È questo il periodo in cui si determinano le maggiori trasformazioni sociali, economiche e culturali della popolazione; così è stato per i Paesi sviluppati europei all'epoca della prima rivoluzione industriale (quella del "ferro e del carbone" nell'Inghilterra alla fine del 1700 ed inizio 1800) e così è stato per i Paesi che sono stati investiti dall'industrializzazione negli ultimi decenni per trasferimento di teconologia (come la Cina dal 1990 in poi) a causa degli investimenti esteri. È questa la fase dello sviluppo industriale dell'economia, testimoniata dall'aumento degli addetti al settore secondario, che trasforma una società "tradizionale" (pre-indstriale) in una società "moderna". Attraverso questa fase sono passati i principali Paesi sviluppati (America settentrionale, Europa, Giappone). Nei Paesi in cui l'industrializzazione è stata più intensa la ripartizione settoriale degli addetti nei tre settori è stata all'incira: Primario 15%, Secondario 35%, Terziario 50%.

In questa situazione la maggior parte della popolazione (50% terziario + 35% secondario = 85% circa) non vive più nelle campagne in condizioni di vita rurali praticando l'agricoltura e l'allevamento ma vive negli insediamenti che si sono creati a ridosso dei centri industriali, amministrativi, commerciali, e cioè le città, in condizioni di vita urbane. È questa l'epoca della nascita e della crescita della città moderna, la città industriale.

Il successo dell'industrializzazione, cioè della produzione di manufatti in ambito industriale avvalendosi di macchinari e forza motrice derivante dall'utilizzo dei combustibili fossili invece che artigianale avvalendosi di utensili e forza motrice umana, animale o naturale (p.es. mulini a vento) è dovuto alle economie di scala.

Economie e Diseconomie di Scala

L'economie di scala consistono nella diminuzione dei costi unitari dei prodotti (costi di produzione) all'aumentare del volume della produzione (quantitativo prodotto) e delle vendite. Di conseguenza, diminuendo i costi unitari, i prodotti possono essere venduti ad un prezzo più basso della concorrenza determinando il successo del produttore.

La ragione sta nell'elevatissimo numero di pezzi prodotti su cui ripartire gli enormi costi fissi degli impianti industriali.
L'economie di scala (diminuzione dei costi unitari all'aumentare del numero di pezzi venduti) esistono sia nell'ambito produttivo, sia della distribuzione commerciale, sia dei trasporti. Nell'ambito della distribuzione commerciale spiegano il successo della grande distribuzione (supermercati) a danno dei piccoli negozi. Nei trasporti spiegano il successo delle trasporto marittimo su enormi navi portacontainer rispetto alle piccole imbarcazioni.
L'economie di scala sono una delle ragioni alla base del "gigantismo" aziendale e della tendenza verso l'assetto monopolistico od oligopolistico del mercato (sul lato dell'offerta, cioè delle imprese produttrici). Al variare di alcune condizioni economiche, come i costi delle materie prime (in particolare dell'energia), del mercato (saturazione della domanda) o della tecnologia (della produzione o della distribuzione) o sociali (aumento dei salari) l'economie di scala possono trasformarsi nel loro opposto e divenire diseconomie di scala favorendo una diverso equilibrio produttivo, localizzativo e della dimensione aziendale (almeno delle unità produttive). È proprio ciò che accadde nelle zone più industrializzate dei Paesi sviluppati negli anni successivi al 1974-80 quando l'aumento continuo del costo del lavoro, l'improvviso aumento dei costi delle materie prime (svalutazione del dollaro nel 1971) ed il marcato rallentamento della domanda (saturazione dei mercati interni) determinarono ondate di licenziamenti ed il trasferimento delle produzioni tradizionali in Paesi che offrivano costi inferiori (PIL procapite minore)

Terziarizzazione

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Più o meno simultaneamente a partire dal 1980, nei Paesi più sviluppati e quindi all'epoca più industrializzati (Penisola Araba a parte, dato che non si è trattato di sviluppo economico industriale plurisettoriale ma monosettoriale incentrato sulle risorse naturali energetiche fossili) gli addetti al settore secondario hanno smesso di aumentare ed, anzi, hanno iniziato a diminuire sia a causa dell'automazione sia con la liberalizzazione degli investimenti produttivi esteri (Ide). Molte produzioni industriali tradizionali (di base come metallurgia e mineraria, di prodotti finiti come tessile e meccanica), operate della grandi imprese sono state trasferite (delocalizzate) in regioni in cui costi di insediamento e del lavoro sono più bassi e da cui successivamente vengono ri-esportati i prodotti finiti. Questa fase è detta post-industriale. Nelle principali città industriali si sono verificate numerose chiusure di stabilimenti industriali che una volta erano il cuore occupazionale del territorio; questo ha determinato la riqualificazione e a volte l'abbandono delle aree ex-industriali e la riconversione occupazionale e a volte una massiccia disoccupazione degli ex-operai con conseguente impoverimento delle popolazioni locali. È questa la fase di deindustrializzazione e di crescita del settore terziario, chiamata anche terziarizzazione dell'economia.
I Paesi che si sono spinti per primi e di più verso la terziarizzazione, come detto per ciò che riguarda la globalizzazione economica, sono gli Stati Uniti ed il Regno Unito. In questi paesi la ripartizione settoriale degli occupati è ancor più marcatamente deindustrializzata rispetto alla media dei Paesi sviluppati: Primario 2%, Secondario 18%, Terziario 80%.

Nei Paesi sviluppati, questo periodo storico post-industriale, in ambito sociale e culturale, è noto anche come post-moderno, in contrapposizione al periodo precedente industriale moderno, successivo al tradizionale agricolo.
In questa fase economica (terziarizzazione, detta anche post-industriale) il sub settore che esercita il ruolo principale, di forza e di leadership, è la finanza. Come detto a proposito della globalizzazione, la maggior parte (circa il 90%) dei flussi internazionali di denaro derivano da compravendita di attività finanziarie effettuate da grandi gruppi bancari o assicurativi. Il settore del credito è fondamentale per la sopravvivenza del sistema economico e l'espansione del credito negli ultimi decenni, orientato sempre più verso le attività finanziarie (azioni, obbligazioni, valute, derivati) invece che reali (industriali, agricole, servizi pubblici, ecc), è stato massiccio. I grandi gruppi bancari ed assicurativi sono al centro di questo sistema, in tal caso la terziarizzazione assume la forma della finanziarizzazione dell'economia.

Dalla crisi finanziaria del 2008 ad oggi

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Anche l'ultima fase dello sviluppo economico, così come l'abbiamo conosciuta ed interpretata finora, sembra essere giunta ad un punto critico, forse di svolta. La crisi finanziaria del 2008 originatasi negli USA si è diffusa in tutto il mondo attraverso il contagio finanziario dei flussi interbancari e dell'andamento congiunto dei mercati finanziari internazionali, ha provocato la più forte recessione economica dal 1929.
La crisi finanziaria del 2008 ha messo in luce quale fosse il soggetto sui cui gravano i rischi di un tale sistema (al di la delle teorie finanziarie che si sono rivelate inconsistenti e degli economisti che non sono stati in grado di prevederli) che ha dovuto finora sopportarne i costi. I Governi degli Stati sono dovuti intervenire in salvataggio delle banche (considerate troppo grandi per fallire senza travolgere l'intero sistema economico) con i soldi dei cittadini/contribuenti; questi ultimi sono stati poi ricompensati imponendo loro dei sacrifici ("austerità") allo scopo di "risanare" i conti pubblici squilibrati dalle improvvise ed ingenti spese dovute al salvataggio delle banche ed alla recessione (minori entrate).

Questa tendenza è stata ancora più marcata in Europa dove i Paesi dell'area Euro sono stati investiti da una seconda crisi finanziaria nel 2011. La crisi, intensa come quella del 2008, ha avuto origine all'interno dell'area Euro, proprio la valuta che avrebbe dovuto proteggere gli aderenti dalla fragilità delle loro ex-valute.

Analizzando i dati sulla crescita economica nei vari Paesi del mondo con i dati forniti da World Bannk (apr2018, download file xls) dal 2001, anno di adesione all'euro, o dal 2008, anno della grande crisi finanziaria, ad oggi (al 2016 con i dati disponibili) e concentrando l'attenzione sui Paesi con una popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti, (circa 85 Paesi totali) si nota purtroppo che l'Italia dal 2001 al 2016 evidenzia il terzo risultato peggiore al mondo (-6,7% di crescita economica), preceduta solo da Zimbawe (-27%, collasso economico da iperinflazione) e Yemen (-40%, guerra); anche Haiti (-2%) vittima di un terremoto disastroso, di due forti uragani e di una rivolta popolare ha fatto meglio dell'Italia. In generale, dal 2001 al 2016 solo 7 Paesi presentano il segno - mentre quasi tutti i paesi dell'area Euro sono in fondo alla classifica mondiale per crescita economica con percentuali generalmente modeste.
Se si concentra l'attenzione sulla crescita economica mondiale dalla crisi finanziaria del 2008 al 2016, l'Italia (-8%) evidenzia il quarto risultato peggiore al mondo, solo lo Yemen (-45% guerra), la Grecia (-24% collasso finanziario) e l'Ucraina (-12% guerra) fanno peggio e solo 8 Paesi (considerando quelli con una popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti) evidenziano il segno -. Può sembrare paradossale che l'Iraq e l'Afghanistan, dal 2008 al 2016 riportino il 30% circa di crescita economica, poco più della media lineare complessiva pari a circa il 20% (Paesi > 10 milioni di abitanti). È evidente che per Grecia ed Italia il periodo trascorso sia con l'adesione all'euro sia con i postumi dalla crisi economica del 2008 sia stato economicamente catastrofico.
Il Paese con la maggiore crescita dal 2001, e dal 2008, al 2016 è la Cina con un aumento del 260% e del 80% rispettivamente. Gli Stati Uniti evidenziano il 16% ed il 6% nello stesso periodo, la Germania il 18% ed 8%, il Giappone il 12% e 5%.

Domande per il ripasso

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Che cos’è lo sviluppo economico?
Quali sono i suoi indici quantitativi?
Quali sono i suoi aspetti qualitativi?
Qual è la ripartizione settoriale degli addetti in un Paese ad elevato PIL procapite?
Qual è la ripartizione settoriale degli addetti in un Paese a basso PIL procapite?
Cosa si intende per industrializzazione?
In che periodo storico si è avuta l'industrializzazione in Europa, in America settentrionale?
Cosa si intende per terziarizzazione?
In quali Paesi (alto o basso PIL procapite) si è verificata la terziarizzazione?
Da quando si è manifestata la terziarizzazione?
Cosa si intende per finanziarizzazione?
Come si posizione l'Italia nella classifica internazionale della crecita economica dall'adesione all'Euro o dalla crisi finanziaria del 2008 ad oggi?
Come si posizionano i Paesi dell'area Euro nella classifica internazionale della crecita economica, dalla sua creazione (2001) ad oggi?
Cosa sono l'economie di scala?

Divario mondiale nord/sud (%popolazione/%reddito)

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Un altro caratteristico fenomeno globale dei nostri tempi consiste nel divario mondiale nord-sud.

 
Paesi del 2014 per Gdp (Ppp) pro capite

Per divario mondiale nord-sud si intende l'ineguaglianza, lo squilibrio, nella distribuzione del reddito (PIL) mondiale fra le popolazioni che vivono nei diversi Paesi del mondo. In particolare si nota come una minoranza della popolazione mondiale, che vive prevalentemente nei paesi dell'emisfero nord, percepisca la maggioranza del reddito mondiale (PIL mondiale). Ci sono molti studi che testimoniano questa condizione di squilibrio ma non è facile trovare dei dati aggregati di facile consultazione.

Come è possibile notare dai dati più recenti (vedi Calcolo del divario) si nota, almeno con i dati ponderati rispetto al costo reale della vita e cioè a parità di potere d'acqisto (purchasing power parity) e non ai tassi di cambio reali, l'ascesa e l'inserimento di molti paesi dell'America latina, dell'Asia del vicino e dell'estremo oriente.

Il divario quindi, pur restando evidente, ha modificato il confine geografico nord (alto reddito) / sud (basso reddito) rispetto a prima della crisi del 2008.

Calcolo del divario mondiale nord/sud

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Per divario mondiale nord/sud si intende la diseguale distribuzione del reddito fra le popolazioni dei diversi Stati del mondo: la minoranza della popolazione mondiale, che vive nei paesi ad elevato PIL procapite (Paesi economicamente sviluppati) situati generalmente nell'area settentrionale del planisfero, percepisce la maggioranza dei redditi mondiali mentre la maggioranza della popolazione mondiale, quella che vive nei Paesi con minore PIL procapite (Paesi in via di sviluppo) situati generalmente nell'area meridionale del planisfero, percepisce la minoranza dei redditi mondiali.
In termini di popolazione e ricchezza il divario nord/sud è anche maggiore di quello fra popolazione e reddito.

È possibile calcolare il divario mondiale nord/sud in termini di popolazione e reddito? Si è possibile. Di cosa abbiamo bisogno?
Abbiamo bisogno, come dati di partenza, dei valori riferiti alla popolazione, al PIL procapite e al PIL totale del maggior numero possibile di Stati del mondo.

A questo scopo utilizziamo il database del World Economic Outlook del FMI ( http://www.imf.org/external/ns/cs.aspx?id=28 ) che riporta i principali indicatori macro per quasi tutti i Paesi del mondo, dal 1980 ad oggi, con "previsioni" a cinque anni. Da qui è possibile estrarre i dati che ci occorrono, scaricarli sul pc e poi elaborarli in un foglio elettronico come LibreOffice Calc (software libero e gratuito open source).

La selezione dei dati viene fatta in 5 passi:

  1. All countries;
  2. tutti i Paesi selezionati;
  3. indicatori Gdp totale, pro capite (Ppp o current prices), population;
  4. WEO Country Code, start/end p.es. 2011, decimali con la virgola, apposito set order;
  5. preview dei risultati.

Se qualcosa non va è possibile tornare indietro (back) e riprovare.

Volendo, l'elaborazione col foglio di calcolo può essere svolta come esercitazione nelle ore di Informatica nell'apposito laboratorio.

Rinominando l'estensione del file scaricato in ".txt", lo importiamo nel foglio di calcolo tenendo presente che la delimitazione dei campi è data dal "tab". Una volta caricato il file nel foglio di lavoro, possiamo eliminare le colonne con le descrizioni per tenere solo i dati che ci occorrono: PIL procapite (Gdp per capita), PIL totale (Gdp), popolazione.

A questo punto possiamo ordinare i dati in base al PIL procapite (decrescente), avendo in tal modo per primi in alto i Paesi ad elevato reddito (Qatar, Lussemburgo, Singapore, ecc.) e per ultimi in basso i paesi a minor reddito (Burundi, Zimbabwe, Zaire, ecc.).

Dobbiamo ora calcolare per ciascun Paese la quota % della propria popolazione rispetto a quella mondiale, e la quota % del proprio PIL totale rispetto a quello mondiale. Per fare questo dobbiamo innanzi tutto calcolare la popolazione mondiale, facendo la somma delle popolazioni dei vari Paesi, e il PIL totale mondiale, facendo la somma del PIL totale dei vari Paesi.

Ora è possibile calcolare per ciascun paese la quota % della propria popolazione rispetto a quella mondiale, e la quota % del proprio PIL totale rispetto a quello mondiale. Gli Stati Uniti, ad esempio, col 5% circa della popolazione mondiale produce/percepisce il 20% circa del PIL totale mondiale.

L'ultimo passo è calcolare la somma progressiva (in un'altra colonna), dall'alto verso il basso, per ciascuna delle due quote %. In basso, l'ultimo valore di queste due nuove colonne sarà pari a 100 (%). Ricordiamo che sul valore del PIL procapite non si opera nessun calcolo, serve unicamente per ordinare i Paesi come visto sopra.

A questo punto, se tutto è andato bene, scorrendo i dati ci accorgeremo ad esempio che il 15% circa della popolazione mondiale produce/percepisce quasi il 50% del PIL totale mondiale. Il PIL procapite (Ppp) di questi Paesi va da 100.000 $ a circa 30.000 $. Scorrendo ancora i dati possiamo notare come il 30% della popolazione mondiale produce/percepisce il 70% circa del PIL totale mondiale. In questo caso il PIL procapite (Ppp) di questi Paesi va da 100.000 $ a circa 10.000 $.

Se ripetiamo le operazioni sui dati di vari periodi (p.es. 1980/1990/2000) potremo evidenziare anche l'andamento del divario nord/sud in termini di popolazione e reddito, negli ultimi decenni per verificarne l'aumento o la diminuzione.

Simulazione/Drammatizzazione: divario nord/sud

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Ovviamente i dati, pur molto evidenti per chi riesce a leggerli, non restituiscono la realtà dello squilibrio mondiale e del tenore di vita nei Paesi a basso reddito.

Un modo per "sperimentare", per "sentire", questa situazione e quindi per capire meglio la realtà, in particolare il punto di vista delle popolazioni, la maggioranza, nate dalla parte "sbagliata" rispetto alla minoranza mondiale di privilegiati.

Si inizia introducendo e sintetizzando i dati del divario mondiale nella distribuzione del reddito, che magari è stato calcolato in precedenza (vedi) e che magari è stato rappresentato e realizzato sotto forma di carta tematica (vedi).

Si spiega come la corrente distribuzione nelle classi di banchi e studenti sia di perfetta uguaglianza ed uniformità: a ciascuno studente un banco (ed una sedia!). Se invece studenti (popolazione) e banchi (PIL totale) venissero ripartiti secondo le proporzioni evidenziate dal divario mondiale di popolazione (30%) e reddito (70%) le cose in classe cambierebbero di molto.

Se la nostra classe fosse formata da 27 studenti, il 30% sarebbe pari ad 8. Questa minoranza di privilegiati avrebbe a disposizione il 70% dei banchi (e delle sedie), cioè 19.

A questo punto si invitano gli studenti (ad esempio sorteggiando gli 8 privilegiati...) a sistemarsi proprio in questo modo, con 19 banchi a disposizione suggerendogli magari anche di esagerare nella comodità (posizionando ad esempio cartelle ed altro sulle sedie vuote). A questo punto gli altri 19 studenti (su 27) possono suddividersi i restanti banchi e sedie, alcuni ovviamente resteranno in piedi e questo rispecchia esattamente la situazione.

In questa condizione si può chiedere, ad esempio, agli studenti di prendere appunti, ascoltare una breve lezione o di esprimere le loro sensazioni. Dopo una ventina di minuti, lo stupore e la curiosità iniziali inizieranno a lasciare il campo a qualcos'altro... ovviamente non si potrà passare da un gruppo all'altro (migrazioni) fino al termine della simulazione.

Valute forti e deboli

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Chi ha viaggiato all'estero, spesso si è reso conto che il livello dei prezzi può essere maggiore o minore di quello a cui si è abituati in Italia. Che, ad esempio, una colazione al bar, un pranzo al ristorante o un biglietto del cinema costano complessivamente di più o di meno rispetto a quelli della città in cui si vive. Spesso, a dire il vero, questa osservazione può essere fatta anche in regioni diverse all'interno dello stesso Stato: per esempio, in Italia, i prezzi a Milano sono generalmente più alti che a Campobasso, Napoli o Palermo.

In generale nei Paesi o nelle regioni che hanno un PIL procapite elevato i prezzi per i medesimi beni e servizi tendono ad essere maggiori rispetto ai Paesi con un PIL procapite più basso.

Un altro approccio, invece, quello della parità del potere d'acquisto (PPP), suggerisce che un'uguale quantità di beni e servizi dovrebbe tendere ad un prezzo reale identico in ogni Paese del mondo. Quando questo non avviene le valute locali risultano sopra- o sotto-valutate. Si tratta in realtà di una teoria che non tiene conto di molti aspetti.

Per verificare entrambe le teorie è stato messo a punto un indice, calcolato e pubblicato dal settimanale inglese "The Economist", chiamato The Big Mac index. L'indice compara il livello dei prezzi reali nei principali Paesi del mondo e li esprime sia direttamente, in base alla teoria della parità del potere d'acquisto (PPP), sia depurato dalle differenze del PIL procapite. L'indice, nelle due versioni, permette di verificare quanto una valuta è più forte o più debole rispetto ad un'altra confrontando il livello dei prezzi fra due Paesi. L'indice grezzo "Raw" esprime direttamente il livello dei prezzi, mentre l'indice corretto per PIL procapite esprime quanto è sopra o sottovalutato se fosse in equilibrio col proprio PIL procapite.

Forze di concentrazione/agglomerazione e di decentramento/diffusione territoriale delle attività produttive
Luoghi del potere economico: aree industriali, centri R&S, centri finanziari
Gerarchie territoriali e livelli di sviluppo/reddito economico
Studio di una caso di delocalizzazione produttiva
I livelli e le differenze di sviluppo economico

  1. La Triade è formata dai Paesi economicamente più sviluppati del Nord-America (Stati Uniti e Canadà) dell'Europa occidentale (Germania, Francia, Regno Unito e Italia) e dell'Estremo Oriente (Giappone, Corea Sud)