Guida maimonidea/Yemen, Islam e Rivelazione

Indice del libro

Nelle terre mussulmane, a trent'anni Maimonide era già considerato il Rabbino di tutto Israele. Ciò viene confermato dal leader degli ebrei yemeniti, Rabbi Jacob ben Netanel, che lo cercò chiedendo aiuto a seguito delle gravi circostanze in cui si trovavano gli ebrei yemeniti dell'epoca.[1] Nel 1150, in Yemen era avvenuto un risveglio islamico, condotto da Ali Ibn Mahdi. Suo figlio, Abd al-Nabi Ibn Ali Ibn Mahdi, era succeduto a suo padre quale capo del movimento ed aveva conquistato quasi tutto lo Yemen. Il movimento insisteva per una riforma religiosa nell'ambito dell'Islam, ma aveva anche messo a rischio la condizione degli ebrei quale minoranza tollerata e aveva creato gravi difficoltà per la comunità ebraica. La Lettera di Maimonide, scritta nel 1172 e citata come la Lettera allo Yemen (Iggeret Teiman), riflette le dure condizioni e la persecuzione religiosa alle quali gli ebrei yemeniti erano sottoposti, la risultante perplessità e scoraggiamento, e gli sforzi di Maimonide per lenire questa difficile realtà.[2]

Maimonide, al Rambam Medical Center di Haifa
« La perfezione spirituale dell'uomo consiste nel diventare un essere intelligente, che conosca soprattutto la sua capacità di imparare. »
(Maimonide)

La prima e più difficile fonte di smarrimento era collegata alla complicata contestazione della tradizione ebraica da parte dell'Islam. Tale sfida era senza precedenti, proprio a causa del grande livello di somiglianza tra le due fedi rispetto al monoteismo e al rifiuto dell'idolatria. La vicinanza sottendeva l'immagine storica e tradizionale che l'ebreo aveva di sé in separazione dall'ambiente che lo circondava, immagine che gli permetteva di conservare la propria identità anche nelle difficili condizioni di esilio e persecuzione. In questa rappresentazione storica e tradizionale, gli ebrei vedevano la religione della maggioranza dominante come idolatra, in contrasto non solo con l'Ebraismo ma con la divinità stessa. L'oppressa minoranza ebraica nel mezzo del mondo pagano si reputava dotata di spirito in un mondo di falsità ed errore: "gli ebrei salvaguardavano la vera fede in condizioni difficili e pericolose, e tutta l'umanità alla fine avrebbe riconosciuto la propria colpa nel perseguire vie errate e accettato l'Unico Dio glorioso."[1] Tale immagine generava un senso di elezione ed un'unicità in condizioni di sofferenza e spiegava le difficoltà dell'esilio come una prova del popolo scelto che si sarebbe concluso con salvezza e riconoscenza.

Questa percezione storica — la posizione degli ebrei, come nella Bibbia, contro le grandi religione idolatre dell'Egitto, dell'Assiria e di babilonia o, come nella letteratura rabbinica, contro il paganesimo greco e romano — iniziò a disfarsi nelle nuove circostanze in cui gli ebrei si trovavano a confrontare con l'Islam. Gli ebrei dello Yemen non potevano trattare l'Islam come un mondo di menzogne, basato su una lotta contro Dio stesso. Inoltre, gli ebrei delle terre islamiche come anche i loro capi spirituali avevano assorbito i successi poetici, scientifici e teologici della rimarchevole cultura mussulmana. Ne risultò un colpo mortale a quella che era stata una fonte di consolazione per tutte le loro sofferenze e distruzioni, cioè la visione della religione dominante quale religione di falsità ed la percezione da parte della minoranza perseguitata di essere un popolo scelto per una missione unica. La grande battaglia storica contro il paganesimo — battaglia che doveva essere combattuta fino al giorno in cui Dio sarebbe stato Uno ed il Suo nome Uno e in cui Israele si confrontava coraggiosamente con le nazioni del mondo — sembrò all'improvviso essere diventato futile e irrilevante. Inoltre l'Islam era particolarmente implacabile nel proprio rifiuto dell'idolatria, e sembrava aver rimpiazzato Israele come portatore storico di quello stendardo.[1]

Tra la comunità ebraica yemenita, il senso di affinità con l'Islam era specialmente profondo. Un pinnacolo dell'integrazione ebraico-mussulmana può essere riscontrato in Gan ha-Sekhalim, un libro di Netanel ben Fayyumi, capo della comunità yemenita e padre di Jacob, il postulante di Maimonide.[3] Nel Gan ha-Sekhalim Netanel tratta il Qur`an quale rivelazione divina a Maometto, e cerca di provare in base al testo coranico che il suo scopo non era quello di rimpiazzare la Torah: "Quindi si lasci osservare ad ogni popolo ciò che ha ricevuto, seguendo i propri profeti, sacerdoti e capi; e nessuno viene lasciato senza Torah, poiché tutto proviene dal Dio Unico al Quale tutti ritorneranno, e tutti preghino e Lo adorino." (Gan ha-Sekhalim, p. 114). Senza dubbio Netanel ben Fayyumi prese una posizione straordinaria nell'ambito della storia della tolleranza religiosa e dell'atteggiamento ebraico verso religioni concorrenti. Tuttavia è proprio questo tipo di posizione che rende più difficile alla comunità di mantenere la propria identità distinta in tempi di tensione.[3]

Questo problema lasciava la minoranza ebraica nelle terre mussulmane in una posizione alquanto differente da quella della diaspora ebraica nella cristianità. Tale diaspora era in grado di mantenere la tradizione basilare ereditata dai testi biblici e rabbinici, poiché gli ebrei aschenaziti consideravano il Cristianesimo come fede idolatra e l'impero cristiano come erede di Roma. Inoltre, gli ebrei sefarditi[4] ed aschenaziti[5] differivano grandemente nel grado di internalizzazione della cultura locale. I saggi ebrei in Ashkenaz non scrissero mai in latino, lingua di alta cultura nella loro parte di mondo e, in contrasto con i loro correligionari del mondo mussulmano, potevano facilmente conservare un senso di superiorità spirituale e culturale verso il loro ambiente in condizioni di disagio politico.[6]

I dubbi associati ad un'immagine indebolita di tempo e di luogo, e ad un sentimento che la sofferenza ebraica e la relativa distinzione avessero perso il loro significato appaiono nella Lettera allo Yemen, nel particolare contesto del dramma storico tradizionale: l'arrivo del Messia. Dalla risposta di Maimonide a Jacob ben Netanel, si può desumere che questi si chiedeva se l'Islam stesso non potesse realizzare la spedranza messianica ebraica. E se la realizzava, l'unica cosa che rimaneva da fare era aderire all'Islam. Tale opinione veniva sostenuta dalla propaganda prodotta da un ebreo che si era convertito all'Islam e che affermava che la Torah stessa presagiva l'arrivo di Maometto e l'ascesa dell'Islam quale realizzazione del destino storico biblico. Il trattamento da parte di Maimonide delle presunte prove del convertito, compresa una confutazione articolo per articolo, evidenzia che queste avevano prodotto un certo effetto tra i suoi lettori.[7]

Un altro fronte di battaglia si aprì a causa di presagi astrologici — considerati scienza genuina — secondo i quali le stelle mostravano che Israele non sarebbe stata redenta. Maimonide si adoperò a dimostrare che tali argomentazioni erano vacue, approfittando di attaccare l'astrologia in generale come ciarlataneria che non aveva nulla in comune con una visione intelligente del mondo.[7]

Un altro fattore che indeboliva la fede degli ebrei yemeniti nella redenzione era una previsione escatologica in un libro di R. Saadya Gaon,[8] secondo il quale la non ancora sopraggiunta redenzione doveva essersi realizzata molto tempo prima. Non doveva quindi essere ciò prova che ogni speranza era perduta? Maimonide rispose che un calcolo escatologico non era altro che la stima di un dotto, fatta per calmare una data comunità in crisi. Pur tuttavia, nel suo impegno ad alleviare la dolorosa perdita di fede e di speranza, egli fa riferimento nella Lettera ad una tradizione escatologica ricevuta dal padre — nonostante il suo commento nella Mishneh Torah che il calcolo della fine del mondo doveva essere rifiutato come un concetto che non contribuiva al timor di Dio e, anzi, lo sminuiva. Quella tradizione paterna calcola che la Fine inizierà ad accadere nel 1220 e che il ristabilimento del profetizzare — un segno anticipatorio dell'arrivo del Messia — sarebbe avvenuto in quell'anno. (In seguito, dopo la morte di Maimonide, suo figlio Abraham dovette affrontare la delusione degli ebrei yemeniti quando anche quel calcolo si rivelò sbagliato).[7]

In tale tempo di crescente disperazione, coi credenti che mettevano in dubbio la possibilità di redenzione, non c'è da meravigliarsi che sorgesse qualcuno a dichiararsi d'essere il Messia, annunciando l'arrivo della Fine. Sebbene il suo nome rimanesse sconosciuto, quest'uomo attrasse molti seguaci, che lo videro come meravigliosa figura messianica. Le false speranze che sollevò sicuramente avrebbero intensificato la disperazione quando il loro naufragio fosse diventato evidente e avrebbe condotto ad atti di apostasia e comunque generato dissidi col governo mussulmano, che non considerava favorevolmente i movimenti messianici ebraici. Maimonide percepì giustamente che il tormento della disperazione aveva portato persino R. Jacob ben Netanel ad appuntare le proprie speranze sul falso messia, e dedicò quindi gran parte del suo talento retorico a rivelare la falsità del suo messianismo e rifiutando quell'individuo come mentalmente instabile.[1]

Tuttavia queste problematiche e i vari modi di risolverle da parte di Maimonide, non furono il tema centrale della sua Lettera. Al suo centro stava l'impegno di Maimonide di fornire agli ebrei che vivevano sotto il dominio mussulmano un quadro storico credibile che conservasse il senso storico del tempo che rischiava ora di collassare. Maimonide ben capiva che il disagio evidente nella Lettera era abbastanza grave da minare tale consapevolezza storica. Compromettere la trama del tempo in condizione di tormento poteva scuotere gli strati più basilari dell'identità ebraica. La grandezza della Lettera allo Yemen risiede non nelle sue brillanti spiegazioni halakhiche o profondi argomenti filosofici.La sua potenza si rivela nell'abilità di Maimonide di esporre nuovamente la storia ebraica, in una struttura storica che permettesse agli ebrei, nonostante il duro cambiamento di circostanze, di sopportare le sofferenze e riconoscere il loro destino, vedendo se stessi e le proprie vite come un proseguimento della catena storica tradizionale. Maimonide ancorò questa struttura nell'esegesi biblica, tentando con essa di mostrare che l'esperienza ebraica sottoposta all'Islam monoteistico e vittorioso non frantuma il quadro tradizionale del tempo: al contrario, è previsto dalla Sacra Scrittura.[1]

La struttura storica creata da Maimonide pone il tormento degli ebrei yemeniti all'apice di una serie di lotte e prove che il popolo ebraico ha dovuto sostenere sin dall'inizio della propria storia. Per farlo, egli fornisce una veduta panoramica degli scontri storici tra Israele e le nazioni, comprendendoli in tre fasi.

Le tre fasi

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Ebrei yemeniti che celebrano Pesach

Nella prima fase, le nazioni usarono la forza d'armi nel loro sforzo di costringere gli ebrei ad abbandonare la propria fede: "Sin dal tempo della rivelazione ogni despota o dominatore ribelle, che fosse violento o ignobile, ha avuto come primo scopo e proposito ultimo di distruggere la nostra Legge e inficiare la nostra religione usando la spada, la violenza o la forza bruta. Tali furono Amalek, Sisera, Sennacherib, Nabuccodonosor, Tito, Adriano, e altri come loro." (Lettera allo Yemen, p. 97)

Nella seconda fase della loro lotta contro Israele, le nazioni del mondo hanno utilizzato non solo la forza fisica ma anche argomenti e contraddizioni intese a minare la fede ebraica: "La seconda classe comprende le nazioni più intelligenti ed istruite, come i Siriani, i Persiani ed i Greci. Anche loro cercano di demolire la nostra Legge e abrogarla tramite argomentazioni che inventano e controversie che istituiscono." (ibid., p. 98)

La terza e più pericolosa fase include gli sforzi delle nazioni a minare la religione di Israele imitandola: "Dopo questi, sorse una nuova classe... [che] decise di assegnarsi doti profetiche e fondare una nuova Legge, contraria alla nostra religione divina, e di affermare che anch'essa proveniva da Dio, come vera. Quindi si generano dubbi e si crea confusione, poiché una si oppone all'altra ed entrambe si presuppongono emanate da un unico dio, e ciò porta alla distruzione di entrambe le religioni" (ibid., p. 98). Questa è la sorta di battaglia condotta contro l'Ebraismo dal Cristianesimo e dall'Islam. Maometto affermò di aver ricevuto una nuova rivelazione divina, e Gesù di Nazareth si considerò un emissario di Dio, conseguendo gli obiettivi della Torah tramite un'interpretazione che risulta negazione della Torah e dei suoi comandamenti.[1]

La continuità di questo quadro storico — che dà significato alle terribili sofferenze degli ebrei — può essere dimostrata, secondo Maimonide, facendo riferimento al Libro di Daniele. Daniele predisse l'ascesa del Cristianesimo quando parlò di un impulso sovversivo che sarebbe apparso nel cuore dell'Ebraismo, presentandosi come una sua reinterpretazione: "In quel tempo molti si alzeranno contro il re del mezzogiorno e uomini violenti del tuo popolo insorgeranno per adempiere la visione, ma cadranno [Daniele 11:14]" (Lettera allo Yemen, p. 98). L'ascesa dell'Islam fu vista in maniera simile: "Ciò fu preannunciato dal profeta Daniele ispirato divinamente, secondo il quale, in un dato tempo futuro, sarebbe successo. In un tempo successivo sarebbe apparsa una persona con una religione simile a quella vera, con un libro e comunicazioni orali, che avrebbe arrogantemente preteso che Dio gli aveva concesso una rivelazione, e che avrebbe parlato con Lui, e altre affermazioni stravaganti" (ibid., p. 100).

Delle quattro bestie viste da Daniele nella sua visione, simboliche degli antichi imperi che si successero l'un l'altro, la quarta e ultima rappresenta l'Islam. Questa creatura, con un corno lungo e potente, trionfa sui nemici ed i suoi occhi somigliano a quelli umani. La somiglianza tra la quarta bestia e l'essere umano rappresenta la somiglianza tra la religione dell'Islam e la vera religione. E proprio come Daniele predisse la sua ascesa, ne predisse anche la sua distruzione:

« Ed ecco, il corno ha due occhi simili agli occhi di un essere umano, ed una bocca che pronuncia grandi cose. Ciò ovviamente allude alla persona che fonderà una nuova religione simile alla religione divina e affermerà una rivelazione ed il profetizzare. Produrrà molti discorsi e cercherà di alterare questa Torah e abolirla... Ma Dio informò [Daniele] che Egli avrebbe distrutto tale persona, nonostante la sua grandezza e la sua lunga durata, insieme ad i rimanenti aderenti dei suoi predecessori. Poiché i tre partiti che hanno combattuto contro di noi alla fine periranno: il primo che cercò di sopraffarci con la spada, il secondo che asserì di avere argomenti contro di noi, ed il terzo che affermò di avere una religione simile alla nostra. »
(Lettera allo Yemen, pp. 100-101)

Qunid, nel profilo storico presentato da Maimonide, l'ascesa dell'Islam non è una violazione, ma piuttosto il pinnacolo. La somiglianza tra Ebraismo ed Islam non offusca la condizione dell'Ebraismo, al contrario, la somiglianza è una fase decisiva nella battaglia delle nazioni contro l'Ebraismo. Tale fase, che incorpora anche le precedenti fasi di persecuzione fisica e disputa intellettuale, rappresenta la prova più difficile di tutte. Il suo proposito è anche di separare il grano dalla pula nell'ambito della nazione ebraica, lasciando solo coloro che sono degni di farne parte.[1]

Maimonide vedeva l'Islam come religione monoteista in tutti i rispetti. Nella sua lettera ad Ovadyah il proselita — che evidentemente era stato un mussulmano prima di convertirsi all'Ebraismo — egli scrive che "Questi ismaeliti non sono per niente idolatri. È stato loro asportato dalla bocca e dal cuore, e considerano Dio come unità, un'unità senza eccezioni" (Iggerot, p. 238). Coerente con questa prospettiva, Maimonide giudica, nella Mishneh Torah, che le proibizioni che riguardano le varie relazioni tra ebrei i gentili non si applicano alle relazioni tra ebrei e mussulmani. Il vino prodotto dai mussulmani, per esempio, non può essere bevuto per non provocare relazioni troppo intime, ma non è proibito trarne vantaggio — per esempio, vendendolo — poiché i mussulmani non versano il vino in onore di idoli.[9]

In contrasto con l'Islam, il Cristianesimo è invece una religione idolatra, e le proibizioni attinenti alle relazioni tra ebrei ed idolatri vengono applicate al Cristianesimo.[10] Secondo Maimonide, la dottrina cristiana della Trinità diminuisce il concetto dell'unità divina, come anche la credenza che Gesù sia l'incarnazione di Dio in corpo umano. Tuttavia, nonostante questo errore della fede cristiana rispetto al monoteismo, il Cristianesimo, secondo Maimonide, possiede un vantaggio rispetto all'Islam, in quanto riconosce l'autorità delle Scritture. Mentre i mussulmani reputano falsa la Bibbia ebraica, i cristiani, sebbene credano che il Nuovo Testamento ne sia un complemento, la considerano una rivelazione iniziale di Dio. Coerente con tale approccio, Maimonide giudica che la Torah possa essere insegnata ad un cristiano, poiché la considera sacra, ma non può essere insegnata ad un mussulmano, che ne potrebbe fare cattivo uso.[11] E quindi, le somiglianze tra Ebraismo e Islam e tra Ebraismo e Cristianesimo sono materia complessa: l'Islam assomiglia all'Ebraismo nel suo monoteismo senza compromessi, e il Cristianesimo assomiglia all'Ebraismo nella sua accettazione della Bibbia ebraica. La prima somiglianza crea un uovo rischio per l'Ebraismo, più pericoloso di quelli che vennero prima. Allo stesso tempo, la somiglianza rappresenta un avanzamento storico significativo, poiché prepara la strada all'era messianica quando tutte le nazioni del mondo accetteranno sia il monoteismo e sia l'autorità della Torah di Mosè.[1]

La Rivelazione

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Che l'Ebraismo e l'Islam condividano una forte fede monoteista sposta il conflitto tra loro verso la questione della rivelazione. L'affermazione di una seconda rivelazione crea una nuova sorta di perplessità, dato che trasforma tutte le affermazioni di rivelazione in un qualcosa di relativo. Di conseguenza Maimonide, nella Lettera allo Yemen, basa l'unicità della religione ebraica sulla sua persistente qualità di rivelazione nella Torah, rigettando quindi la pretesa dell'Islam di aver ricevuto una successiva rivelazione concorrente. La credibilità dell'Ebraismo deriva dalla grande differenza tra la sua convinzione che la rivelazione fondazionale fu data a Mosè, e la convinzione mussulmana che la rivelazione fondazionale fu data a Maometto. La consegna della Torah avvenne in un'occasione pubblica, davanti a tutto Israele; tutti erano presenti a vedere le visioni e udirne i suoni. La credibilità di Mosè non si basa su miracoli che potesse aver fatto, poiché di miracoli son piene tutte le tradizioni e tutte le religioni. Si incentra piuttosto sulla partecipazione dell'intera nazione al momento della consegna della Torah: "Questo evento è analogo alla situazione di due testimoni che hanno osservato un certo atto simultaneamente. Ciascuno di loro ha visto ciò che ha visto l'altro, e ciascuno di loro è sicuro della verità dell'affermazione dell'altro come anche della sua propria, e non richiede prova o dimostrazione... Similamente, noi di fede ebraica siamo convinti della verità della profezia di Mosè, non semplicemente a causa delle sue meraviglie, ma perché noi, come lui, abbiamo assistito alla teofania sul Monte Sinai" (Lettera allo Yemen, pp. 112-113). Non è la fede monoteista che deve essere controbattuta all'Islam; è la forza della rivelazione sul Sinai. La consegna della Torah deve quindi essere posta al centro dell'interpretazione della storia da parte dell'Ebraismo:

« Ora, cari miei compagni di Diaspora, vi conviene incoraggiarvi a vicenda, gli anziani che guidino i giovani, ed i capi che dirigano le masse. Ottenete il consenso della vostra comunità alla Verità che è immutabile e immodificabile, e a seguire i postulati della vera fede che mai scadranno. Dio è uno nel senso unico del termine. E Mosè, Suo profeta e portavoce, è il più grande e più perfetto di tutti i profeti. A lui venne garantita la conoscenza di Dio, che mai è stata garantita a nessun altro profeta prima di lui, né lo sarà in futuro. L'intera Torah dall'inizio alla fine fu dettata da Dio a Mosè, del quale si dice: Bocca a bocca parlo con lui [Numeri 12:8]. Non sarà mai abrogata o sorpassata, né integrata o ridotta. Mai sarà soppiantata da un'altra legge divina che contenga doveri positivi o negativi. Tenete in mente la rivelazione del Monte Sinai secondo il precetto divino di perpetuarne la memoria e di non dimenticare quella occasione. Egli ci ha esortato ad insegnarla ai nostri figli cosicché crescano conoscendola...
È imperativo, miei cari compagni ebrei, che facciate di questo grande spettacolo della rivelazione un appello all'immaginazione dei vostri figli. Proclamate nei vostri raduni pubblici la sua nobiltà e gravità. Poiché è il fulcro della nostra religione e la prova che dimostra la sua veracità. Valutate questo fenomeno nella sua vera importanza, come Dio ha indicato tale importanza nel versetto: Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da un'estremità dei cieli all'altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu? [Deuteronomio 4:32-33] »
(Lettera allo Yemen, pp. 103-104)

La Lettera allo Yemen non è un responsum halakhico né una risoluzione ad un enigma filosofico. Il suo scopo era di stimolare la consapevolezza del pubblico contemporaneo e rinforzare la continuità della narrazione storica in un'epoca quando, credeva Maimonide, correva il rischio di spezzarsi al confronto con nuove realtà. La Lettera quindi possiede la qualità di un epos su larga scala, scritto di fresco da Maimonide ed ancorato alla Scrittura. Lo stendardo storico spiegato nella Lettera assegna una nuova interpretazione alla sofferenza, ed il senso di unicità che rende più facile tollerare la sofferenza viene preservato mettendolo in luce diversa. L'immagine di una comunità del suo tempo è la fede nella quale i suoi membri si sviluppano. È solo naturale quindi che essi non imparino tale fede quanto invece ne vengano assimilati in una consapevolezza — attraverso storie alle quali sono esposti sin dalla fanciullezza, attraverso preghiere, e attraverso il ciclo del calendario. Il tessuto del tempo è così fondamentale che quando le cose vanno bene, non c'è da discuterne. Ma una dislocazione storica profonda può far sembrare la struttura non più evidente e problematica, forzando i membri della comunità a riesaminare la propria identità.[7]

Maimonide era ben consapevole che i destinatari della sua Lettera non erano solo studiosi o gente istruita ma perplessa. La crisi contemporanea che la lettera doveva considerare comprendeva gli strati più bassi della comunità — giovani uomini e donne ed il semplice ebreo che sopportava il peso della sofferenza che i propri avi erano riusciti a tollerare grazie al loro senso di unicità e speranza. E così, alla fine della lettera, Maimonide enfaticamente (e insolitamente) esorta Jacob ben Netanel a pubblicizzare la lettera il più possibile:

« Ti prego di mandare una copia di questa missiva ad ogni comunità nelle città e villaggi, affinché rafforzi la gente nella propria fede e la rinsaldi. Leggila ad i raduni pubblici e in privato, e diverrai così un benefattore popolare. Prendi le dovute precauzioni onde i suoi contenuti non vengano divulgati da persona malvagia e ci accada una disgrazia. (Che Dio ce ne liberi). Quando iniziai a scrivere questa lettera, avevo delle preoccupazioni in merito, ma vennero scacciate dalla mia convinzione che il benessere pubblico avesse precedenza sulla sicurezza personale. »
(Lettera allo Yemen, pp. 131)

Nel 1172, quando la Lettera allo Yemen fu scritta — evidentemente durante il primo periodo di Maimonide come ra`is al-yahud in Egitto — Maimonide era già un personaggio rinomato. Le sue parole quindi risuonarono non solo nel mondo ebraico, ma anche nell'ambito dei circoli politici mussulmani. Poiché la preoccupazione centrale della Lettera era quella di rafforzare il carattere distintivo dell'Ebraismo di fronte alla sfida storica posta dall'Islam, la sua natura pubblica assunse un'impronta politica, e Maimonide corse un notevole rischio nello scriverla. Pubblicare questa altisonante lettera poteva costargli caro prezzo, e sebbene Maimonide fosse preoccupato per questo, egli nondimeno era pronto a pagarlo al fine di poter rafforzare la comunità ebraica.[7]

  1. 1,0 1,1 1,2 1,3 1,4 1,5 1,6 1,7 Mordechai Akiva Friedman, Maimonides, the Messiah in Yemen and Forced Conversion, Ben Zevi Institute Press, 2002 (in ebraico) passim.
  2. La Lettera allo Yemen nel presente testo è stata consultata nella traduzione inglese Epistle to Yemen, in Abraham Halkin & David Hartman, Epistles of Maimonides: Crisis and Leadership, Jewish Publication Society, 1985, pp. 93-149. Cfr. anche Iggerot ha-Rambam [Lettere di Maimonide, ebraico e arabo], 2 voll., cur. e trad. Yizchack Shailat, Ma`aliyot Press, 1987, ss.vv.
  3. 3,0 3,1 Netanel ben Fayyumi, Gan ha-Sekhalim, cur. Yosef Kafiḥ, ha-Aguda le-Hatzalat Ginzei Teiman, 1954.
  4. Erano detti sefarditi (dall'ebraico: ספרד - Sefarad, "Spagna") gli ebrei abitanti la penisola iberica. Nel Tanakh, l'insieme dei libri che compongono la bibbia ebraica, nel libro di Ovadia, (Haftarah di Vayishlach) e solo qui in tutto il Tanakh, troviamo il termine Sepharad per indicare una non meglio identificata città vicino-orientale. Tale luogo è tuttora dibattuto, ma "Sefaràd" fu identificata da ebrei successivi come la penisola iberica e ancora significa "Spagna" o "spagnolo" in ebraico moderno e proviene appunto da Sefarad. Cfr. Abdia 1:20: Gli esuli di questo esercito degli Israeliti occuperanno Canaan fino a Sarèfta e gli esuli di Gerusalemme, che sono in Sefaràd, occuperanno le città del Negheb. Si riferisce quindi ai discendenti di coloni ebrei originari del Vicino Oriente, che vivevano nella penisola iberica fino al momento dell'Inquisizione spagnola; si può anche riferire a coloro che usano lo stile sefardita nella loro liturgia, o si definiscono sefarditi per le tradizioni e usanze che mantengono, provenienti dal periodo iberico: in base a ciò, il termine ebreo sefardita indica la persona che segue la Halakhah sefardita.
  5. Gli ebrei aschenaziti (o ashkenaziti), detti anche Ashkenazim (ebraico: sing. אַשְׁכֲּנָזִי, pl. אַשְׁכֲּנָזִים; pronuncia [aʃkənaˈzi], pl. [aʃkənaˈzim]; anche יְהוּדֵי אַשְׁכֲּנָז Yehudei Ashkenaz, "gli ebrei di Ashkenaz"), sono i discendenti delle comunità ebraiche medievali della valle del Reno. Ashkenaz era infatti il nome, in ebraico medievale, della regione franco-tedesca del Reno e Aschenazita significa appunto abitante delle rive del Reno. Cfr. A. Foa, Ebrei d'Europa dalla peste nera all'emancipazione, Roma-Bari 2004. Nel IX secolo la migrazione di numerosi ebrei dall'Italia Meridionale dà origine a una parte consistente delle numerose comunità Renane; cfr. B. Ligorio, Sapere e denaro da Shabbatai Donnolo a Federico II, Taranto 2010.
  6. Anna Foa, Ebrei d'Europa dalla peste nera all'emancipazione, Laterza, 2004, passim. ISBN 978-8842072140
  7. 7,0 7,1 7,2 7,3 7,4 Abraham Joshua Heschel, Maimonides, Farrar, Strauss & Giroux, 1982, pp. 106-120.
  8. Quando apposta, l'abbreviazione "R." sta per "Rabbi/Rabbino".
  9. Mishneh Torah, Legge dei Cibi Proibiti, 11, 7.
  10. Mishneh Torah, Legge dell'Idolatria, 9, 4.
  11. Responsa 149.