Guida maimonidea/Imitatio Dei

Indice del libro

Maimonide fu un rinomato nagid (נגיד‎ - guida)[2] e possedette pieni poteri. Ciò nonostante non si preoccupò di istituire riforme sinagogali, che sarebbero state facili per lui in quella posizione. Le sinagoghe degli ebrei palestinesi sopravvissero insieme a quelle babilonesi oltre al secolo successivo. L'azione di Maimonide fu coronata solo dalla leggenda: "Maimonide costruì una casa di preghiera, che completò in una sola notte con l'aiuto di Dio. Fu un edificio stupendo. In esso i babilonesi pregarono secondo le proprie tradizioni."[3]

Pagina miniata facsimile dello Sefer Mishpatim (Libro del Diritto Civile) dal Libro XIII della Mishneh Torah - Nord Italia, XV secolo[1]

In un brano scritto durante quegli anni, Maimonide distingue tra due tipi di uomini devoti. Alcuni si dedicano esclusivamente al proprio destino, evitando gli affari mondani e le rispettive distrazioni; svolgono i propri doveri serenamente e sono pertanto amati da Dio e dagli uomini. Gli altri sono coinvolti negli affari del mondo, sono implicati in conflitti, collidono con la sregolaztezza, enon possono evitare l'ira, le lamentele e i discorsi inopportuni. I grandi saggi, percependo tutto questo, scelsero di ritirarsi e dedicarsi puramente allo studio.[4]

L'alta posizione politica che aveva raggiunto come nagid ed il prestigio ottenuto grazie alla sua personalità gli permise di agire a nome dei suoi correligionari nelle terre dell'impero arabo. In tal modo liberò gli ebrei yemeniti "da dure condizioni e tasse pesanti ordinate contro di loro", e gli ebrei poterono così riprendersi "dagli oneri imposti loro dai governanti".[5] "In tutta la sua vita, Maimonide fu d'aiuto a molti, in tutta la diaspora ebraica; con le sue lettere e note di consolazione, consolidò nella fede molte comunità di Israele. La sua saggezza fu accompagnata da grande compassione e generosità; la sua casa rimase aperta a tutti." (Ibid.)

Come capo supremo degli ebrei, Maimonide ebbe un'alta posizione politica; fu considerato il principale medico della sua epoca, il più importante talmudista del millennio, un filosofo epocale, un matematico eccezionale, scienziato e giurista di fama; fu ammirato dalle masse, onorato da principi, celebrato dagli studiosi; corrispose epistolarmente con rettori rinomati e giudici insignificanti; gran parte del suo tempo fu preso da problemi di gente comune, da malattie e capricci di governanti, dalle sofferenze spirituali e fisiche dell'harem reale; osservò le forme più sofisticate di cerimoniale a corte come anche semplici gentilezze e cordialità con le persone comuni; In tutto ciò egli affermò la sua personalità riservata e determinata. Sebbene ammalato e sofferente, il Grande Maestro non si fermò: gli impulsi che l'avevano spinto a svolgere ricerche erudite per tutta la vita, ora lo spinsero verso i pazienti da curare. Nella sua etcica, lottò contro la negazione della vita, l'ascetismo, e insegnò il giusto mezzo, l'equilibrio; tuttavia, la sua abnegazione andò ben oltre l'equilibrio. Fu uomo di volontà potente, di risolutezza e libertà.[6] Dedicò gli ultimi quindici anni di vita solo alla medicina con più energia di quanta non ne avesse impiegata nei dieci anni in cui scriise la codificazione. La passione per il lavoro accademico, che lo dominò sin dalla giovinezza, fu rimpiazzato da un motivo differente. Dopo il capitolo finale della Guida dei perplessi, non scrisse altro che reponsa ed una lettera. Il suo progetto di scrivere un libro sulla Haggadah, dimostrando la filosofia che scaturisce dall'Ebraismo e pertanto legittimando la propria filosofia; il suo desiderio di tradurre le sue opere arabe in ebraico; la necessità di completare il commentario talmudico che aveva iniziato già una volta; il suo lavoro sul Talmud gerosolimitano; il suo desiderio di compilare un promesso libro di fonti su cui sarebbe dipeso il futuro del Codex — tutte queste cose furono abbandonate per dedicarsi esclusivamente a curare i malati. All'apice della vita, si volse dalla metafisica alla medicina, dalla contemplazione alla pratica.[3]

Questa fu l'ultima trasformazione di Maimonide : da contemplazione a pratica, da conoscenza ad imitazione di Dio. Dio non fu solo l'oggetto di conoscenza — Egli fu il Modello da seguire. Le Sue opere, le creature del mondo che Egli guida con la Provvidenza, sostituirono concetti astratti che costituiscono un atto spirituale attraverso una conoscenza intellettuale di Dio. L'osservazione e l'assorbimento di eventi concreti rimpiazzarono la visione astratta. Ora il pensatore non si diede più animo di negare le caratteristiche di Dio; si adoperò invece di "divenire simile a Dio nelle proprie azioni".[7] Impetuoso nemico di tutti gli antropomorfismi, che cercano di rendere Dio simile all'uomo, Maimonide capì che la conclusione ultima della saggezza era di diventare simile a Dio, proprio come il moto cosmico delle sfere e di tutti gli eventi del mondo avvengono per diventare simili a Dio. La tendenza antica verso la gnosis, verso la contemplazione come fine dell'uomo — spesso mediante una fuga dal mondo e la negazione della vita — coincise in Maimonide con una tendenza verso l`ethos, verso l'azione, come meta e primato, la tendenza sviluppata più consistentemente dall'Ebraismo biblico-talmudico. Il proposito degli ultimi quattordici anni della sua vita fu di conquistare l'antinomia che ne era scaturita. Durante la sua giovinezza, l'ideale di vita era stato la perfezione umana. Ciò fu sostituito ora dall'imitazione di Dio. L'Io privato, che era determinato non da se stessi ma da Dio, scomparve dal suo comportamento.[6]

Maimonide lavorò duramente per raggiungere la consapevolezza che Dio, in tutta la sublimità della Sua essenza, ha conoscenza immediata delle cose individuali, e non soltanto delle specie.[8] L'imitazione di Dio ora significava il servizio del singolo prossimo. Maimonide rinunciò al postulato del ritiro, alla massima che "uno debba unirsi ad altre persone solo in un'emergenza."[9] Ora poteva "parlare ad altra gente e allo stesso tempo pensare incessantemente a Dio e stare perennemente davanti a Dio nel proprio cuore anche se fisicamente stava con le persone, proprio come è scritto nel Cantico dei Cantici: «Dormo, ma il mio cuore è sveglio»."[10]

L'amore del pensiero fu il tema fondamentale della sua vita. Maimonide si relazionava al pensare come qualcosa di personificato. Per lui, ogni atto del pensare era la ricezione di una rivelazione: l'emanazione ininterrotta del divino entra nel pensiero, ma entra anche in ogni evento del mondo, ovunque la materia abbia ottenuto forma. Anche questa idea fu una passo sul percorso di Maimonide verso il concreto.[11]

Il mistero del pensare fu l'esperienza più penetrante della sua vita.[12] Dio è sublime; qualsiasi definizione del Suo essere è impossibile; la conoscenza della Sua persona sta al di là dei limiti della ragione. Dio è remoto; l'attrazione, l'impulso, il bisogno di Dio spinse Maimonide verso l'"intelletto attivo". Il pensiero veniva personificato; egli era permeato dal mito dell'"intelletto attivo": "Il pensiero che scaturisce da Dio sopra di noi è l'anello tra Lui e noi, e dipende da te solidificare questo anello e renderlo più intimo o allentarlo gradualmente fino a dissolverlo del tutto." (Moreh Nevukhim III, 51). Né doveva pensare a cose sante per poter essere vicino al santo; il pensare stesso è santità. "Se un uomo sta a casa da solo, non resta in piedi e si muove ed agisce come se fosse davanti ad un re potente. Ma non parlerà né esprimerà una gran quantità di parole a piacimento di fronte al re come quando si trova con parenti e membri di famiglia. E quindi l'uomo che desidera diventare uomo di Dio deve svegliarsi e capire che il re potente, che sempre lo protegge ed è connesso a lui, è più potente di tutti i re in carne ed ossa, anche di David e Salomone. Questo re che protegge, che è collegato a noi, è l'«intelletto attivo», il vincolo tra Dio e noi. E proprio come noi conosciamo Dio grazie alla luce che da Lui ci irradia, così Egli ci scruta interiormente con questa stessa luce e per amore di questa luce." (MOreh Nevukhim III, 52). Ciò nondimeno, il suo senso dei limiti della ragione non cessò di interessarlo. La preminenza della profezia sulla filosofia divenne più distinta che mai: "Sappi che esiste un livello superiore a tutta la filosofia: è la profezia. È un mondo differente. Lì non c'è posto per argomentare ed investigare; nessuna prova può raggiungere la profezia; qualsiasi tentativo di esaminarla in modo erudito è condannato a fallire. Sarebbe come cercare di raccogliere tutte le acque della terra in una piccola tazza,"[13] scrisse nei suoi ultimi anni. "Ma io dico che c'è un limite alla conoscenza umana, e fintanto che l'anima è nel corpo, non può afferrare il sovrannaturale."[14] Non importa quanto ardentemente la mente tenti di conoscere Dio, troverà sempre una barriera; la materia è un potente muro divisorio (Moreh Nevukhim III, 9). Maimonide fu uno di coloro "che sono rattristati se le esigenze della materia li portano all'impurità e alla disgrazia; si vergognano e si disprezzano per esserne afflitti, e tentano di diminuire la disgrazia e controllarsi. Si comportano come un uomo contro cui il re è irato e al quale, per esporlo al disprezzo, ordina di spazzare l'immondizia; e l'uomo cerca di nascondersi in tale tempo di disgrazia e tocca solo poche cose per non sporcarsi le mani ed i vestiti o esser visto da altri" (Ibid. III, 8).

L'immortalità, per Maimonide, è la vita eterna dello spirito nel processo di conoscenza. L'anima che sopravvive dopo la morte non è l'anima che viene ad esistere con l'uomo; l'anima originale è solo una capacità, una pura facoltà; in contrasto, l'anima che abbandona l'uomo dopo la morte è reale e con ragione acquisita. La misura di immortalità dipende dunque dall'ammonto di conoscenza acquisita.(Ibid. I, 70).[6]

Non fu duro per Maimonide separarsi dal tempo, dalle agitazioni della vita. Il tempo per lui non era eterno, era creaturale, una "qualità accidentale" del movimento, dell'accadere. Il moto stesso è soltanto una "qualità accidentale della sostanza; il tempo è quindi una "qualità accidentale" di una "qualità accidentale" (Ibid. II, 13).

« Quando l'uomo perfetto è avanti negli anni, la sua felicità per ciò che conosce aumenta ed il desiderio del conosciuto aumenta finché l'anima nel provare questo piacere si separa dal corpo. La conoscenza diventa più forte al momento della morte, e rimane sempre col suo oggetto, poiché allora l'ostacolo che a volte separa il conosciuto dal conoscibile viene portato via, e l'uomo rimane con questo piacere sublime. Mosè, Aronne e Miriam morirono in quel modo quando Dio li baciò. Poiché la conoscenza di Dio è come un bacio. »
(Moreh Nevukhim III, 51)

Anni dopo, quando la salma fu portata in Palestina, si narra che i pirati attaccarono la carovana. Volevano gettare la bara in mare, ma furono incapaci ad alzarla sebbene ci provassero più di trenta uomini insieme. Vedendo ciò, dissero: "Questo fu un uomo devoto." Chiamarono gli ebrei e diedero loro una scorta.[15]

Secondo i suoi desideri, Maimonide fu sepolto a Tiberiade, in un luogo dove Rabbi Judah ha-Nasi aveva spesso dimorato. Una mano sconosciuta appose la seguente iscrizione:

Qui giace un uomo eppur non uomo;
Se tu fosti uomo, allora creature celesti ti crearono.

In seguito tale scritta fu cancellata e sostituita da un'altra:

Qui giace Moses Maimuni, l'eretico bandito.

Il popolo eresse poi un monumento al grande Maestro con le parole:

Da Mosé a Mosè, non ci fu nessuno come Mosè. [16]

Il 30 novembre 1204, due settimane prima che Maimonide morisse, Samuel Ibn Tibbon terminò la sua traduzione in ebraico della Guida dei perplessi. Si imbarcò immediatamente e viaggiò alla volta di Fustat per incontrare il Maestro. Ma fu troppo tardi.[3]

Note modifica

  1. Pagina miniata facsimile dello Sefer Mishpatim (Libro del Diritto Civile) dal Libro XIII della Mishneh Torah - Nord Italia, XV secolo: nel registro inferiore tre uomini stanno in piedi davanti ad un gruppo di quattro giudici seduti. Il registro superiore mostra una scena di giostra che non riguarda il testo. Collezione privata, Folio 298v. (Ex. Nr. 69) — da Wikimedia Commons, Google Project: Mishneh Torah
  2. Nagid, (ebraico: נגיד‎), è un termine ebraico che significa "principe" o "guida/capo". Tale titolo veniva spesso attribuito a leader religiosi nella comunità sefardite del Medioevo, generalmente in Egitto. Cfr. Jewish Encyclopedia: s.v. "Egypt - Nagid".
  3. 3,0 3,1 3,2 Cit. in Abraham Joshua Heschel, Maimonides, Farrar, Strauss & Giroux, 1983, pp. 241-247.
  4. Maamar ha-Jichud, p. 39 e XIV, ediz. Steinschneider - in Heschel, op. cit., p. 262.
  5. Kobez II, 9a, ediz. Lichtenberg - in Heschel, op. cit., p. 262.
  6. 6,0 6,1 6,2 Theodore Howard Kreisel, Maimonides` Political Thought: Studies in Ethics, Law and the Human Ideal, State University of New York Press, 1999, cap. 3, pp. 125-158 & passim.
  7. Moreh Nevukhim III, 54, anche in Heschel, op. cit., p. 262.
  8. Moreh Nevukhim II, 20, anche in Heschel, op. cit., p. 262.
  9. Moreh Nevukhim III, 51, anche in Heschel, op. cit., p. 262.
  10. Moreh Nevukhim III, 51, anche in Heschel, op. cit., p. 262.
  11. Herbert A. Davidson, Moses Maimonides the Man and His Works, Oxford University Press, 2005, pp.538-556.
  12. Nei successivi paragrafi si segue a grandi linee il contenuto di Moreh Nevukhim nei rispettivi tre libri, che vengono citati individualmente dopo certe affermazioni specifiche di Maimonide nel testo.
  13. Kobez II, 23c, ediz. Lichtenberg - in Heschel, op. cit., p. 262.
  14. Kobez II, 23b, ediz. Lichtenberg - in Heschel, op. cit., p. 262.
  15. Citata da Shlomo Zalman Havlin, "The Life of Maimonides", Da`at 15, 1985, pp. 67-79 (in ebr.); e A. J. Heschel, op. cit., p. 246.
  16. Cioè, dal Mosè biblico a Mosè Maimonide, non ci fu mai più nessuno alla pari di questi due eccelsi Mosè.