Gesù della Storia, Storia di Gesù/Capitolo 4
Messaggi e miracoli
modificaQuesto Capitolo prosegue la panoramica del Capitolo precedente concentrandosi sul messaggio e sui miracoli di Gesù. Tali temi possono sembrare un abbinamento scomodo: mentre l'insegnamento di Gesù è generalmente considerato facilmente accessibile e di continua rilevanza, i miracoli sollevano problemi per la mente moderna. Per Gesù stesso, tuttavia, messaggio e miracoli erano interconnessi, come lo erano per i suoi oppositori.
Quando Giovanni Battista, incarcerato, mandò i suoi discepoli a chiedere a Gesù del suo ruolo e delle sue intenzioni, Gesù disse loro di riferire a Giovanni ciò che avevano sentito e ciò che avevano visto, e poi elaborò formulando la sua risposta con frasi tratte da Isaia (Isaia 35:4-6;61:1-3). Questo brano chiave (a cui torneremo) collega insieme il messaggio e i miracoli di Gesù:
Gesù poi dichiara in modo netto che sia le sue azioni che la sua proclamazione erano profondamente offensive per alcuni dei suoi contemporanei: "Il favore di Dio riposa su chiunque [o, nella fraseologia più familiare, "Beato colui che] non si scandalizza di me").
Durante la sua vita e per diversi secoli dopo, anche i critici di Gesù videro che il suo messaggio e i suoi miracoli andavano di pari passo. Si diceva che il suo messaggio avesse ingannato Israele e quindi non fosse stato trasmesso con l'autorità di Dio; i suoi miracoli ed esorcismi erano visti come il risultato della sua alleanza con Belzebù, il principe dei demoni, e non il risultato della sua relazione con Dio. Gesù fu soprannominato "un falso profeta e un mago". Questa tipica frecciata anti-Gesù fu tramandata da una generazione all'altra più o meno nello stesso modo in cui la polemica religiosa avviene ancora oggi nelle strade di Belfast e di Gerusalemme (Marco 3:22; Matteo 12:24; Luca 11:15; Giovanni 7:12,47; Giustino, Dial. 69.7; b. Sanh. 43a, 107b).
Gesù insisteva sul fatto che il suo messaggio del regno di Dio si concretizzava nei suoi miracoli ed esorcismi: "Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio" (Matteo 12:28; Luca 11:20). Messaggio e miracoli vanno di pari passo.
Gli evangelisti sinottici implicano chiaramente che il "regno di Dio" era il tema centrale del messaggio di Gesù (Marco 1:14-15; Matteo 4:23;9:35; Luca 4:43;8:1;9:11), quindi inizieremo la nostra discussione del suo insegnamento con questo argomento. Nella discussione delle parabole di Gesù che segue, considereremo se debbano essere tutte viste come "parabole del regno". Nelle sezioni finali del Capitolo ci occuperemo dei miracoli e degli esorcismi di Gesù.
Il Regno di Dio
modificaMarco apre il suo resoconto del ministero di Gesù con un riassunto drammatico: "Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: ‘Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona novella’" (Marco 1:14-15). Nel brano parallelo di Matteo (4:17) viene usato "il regno dei cieli". Matteo apporta la stessa modifica in numerosi altri brani, ma non intende fare alcuna distinzione di significato; in 19:23-4 le due frasi sono chiaramente sinonime. Matteo usa "regno di Dio" quattro volte (12:28;19:24;21:31,43), ma altrove torna alla terminologia ebraica più tradizionale "regno dei cieli" per parlare di Dio indirettamente, come potrebbe aver fatto Gesù stesso.
Sebbene alcuni studiosi affermino che nel suo riassunto iniziale l'evangelista Marco abbia sottolineato la vicinanza del regno a scapito della sua futura venuta, tutti concordano sul fatto che il regno di Dio fosse centrale nella proclamazione di Gesù. Cosa intendeva dire Gesù? Sorprendentemente, la frase precisa non si trova nell'Antico Testamento e non è così evidente negli scritti ebraici successivi come ci si sarebbe potuto aspettare. Tuttavia, la frase racchiude le dichiarazioni della regalità benefica di Dio e del suo governo sovrano e dinamico, che sono incorporate nell'Antico Testamento, specialmente in alcuni Salmi e in alcuni passaggi di Isaia. Discuteremo brevemente i brani rappresentativi.
Il Salmo 145:8-13 è uno dei tanti passaggi dei Salmi che forniscono lo sfondo al messaggio di Gesù riguardante il governo regale di Dio. Il Salmista parla della misericordia, dell'amore costante e della compassione di Dio (vv. 8-9). Quindi annuncia un triplice incarico per il popolo fedele del Signore: "Parleranno della gloria del tuo regno e racconteranno la tua potenza 12 per far conoscere ai figli degli uomini i tuoi prodigi e la gloria maestosa del tuo regno" (vv. 11-12). Il regno del Signore è un regno eterno (v. 13a); nel brano nel suo insieme è sia un'esperienza presente che una speranza futura. Il Signore è fedele in tutte le Sue parole e clemente in tutte le Sue azioni (v. 13b). Parole e azioni non sono solo giustapposte, sono quasi sinonimi, come lo sono per Gesù stesso.
Isaia 52:7 annuncia anche il governo regale di Dio, ma nel contesto più specifico di una promessa agli esuli. "Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annuncia la pace, che è araldo di notizie liete, che annuncia la salvezza, che dice a Sion: ‘Il tuo Dio regna!’". I quattro compiti assegnati al messaggero sono strettamente correlati: sono intesi a interpretarsi a vicenda. Dio sta perdonando e redimendo misericordiosamente il suo popolo e lo farà uscire dall'esilio in un nuovo esodo mentre torna a una Gerusalemme purificata. Non c'è dubbio che questo e altri passaggi correlati abbiano fornito una sceneggiatura per Gesù. Alcuni scritti ebraici successivi contengono temi simili. Alcuni dei Salmi di Salomone esprimono la speranza che Dio inverta presto il disastro portato dalla cattura di Gerusalemme da parte del generale romano Pompeo nel 63 AEV. Diversi brani parlano di Dio come re ed esprimono la speranza che il suo governo regale sarà reso manifesto. Sal. Sol. 17 si apre e si chiude con una dichiarazione della regalità eterna del Signore (v. 1 e v. 46). La frase "regno di Dio" si trova nel v. 3.
La sezione centrale del Salmo 17 è ancora più significativa, sebbene il suo tema abbia pochi paralleli negli scritti ebraici di questo periodo. Qui il Signore Dio è esortato a suscitare un re, "il figlio di Davide, per governare sul tuo servo Israele nel tempo che tu, Dio, sai" (v. 21). Il re umano, davidico, sperato sarà il Signore Messia (v. 32) che purificherà Gerusalemme dai gentili che la calpestano fino alla distruzione (v. 22). Il ruolo regale del Messia come colui che metterà in fuga i romani è chiaramente subordinato al Signore Dio (v. 34).
Ancora una volta il governo regale di Dio è una speranza radicata, ma per il salmista a metà del primo secolo AEV non è ancora realizzato. Nel Sal. Salom. 17-18 ci sono riferimenti insolitamente espliciti ai mezzi che Dio userà per manifestare il suo governo regale: il Messia davidico eserciterà un ruolo politico e militare a favore del popolo di Dio in difficoltà. Sebbene fosse un'opzione per Gesù soddisfare questa particolare aspettativa, è chiaro che egli rifuggiva la violenza (Matteo 5:38-9; Luca 6:29-30; cfr. anche Luca 22:38) ed esortava i suoi seguaci ad amare i loro nemici (Matteo 5:44; Luca 6:27). Alcuni studiosi sostengono che Gesù vedeva se stesso come il Messia davidico, sebbene con un ruolo molto diverso da quello stabilito nel Sal. Salom. 17-18. Secondo questa visione, Gesù era riluttante a spiegare la natura della sua messianità, ma le sue azioni e le sue parole fornirono ai suoi seguaci numerosi spunti per giungere autonomamente a questa conclusione.
Questi tre brani (e altri simili) affermano il governo regale di Dio ed esprimono la speranza che presto agirà con potenza a favore del suo popolo assediato. Il regno di Dio è il suo governo sovrano e dinamico. Il più delle volte, c'è un senso chiaramente temporale: il regno è menzionato nel contesto della speranza per il futuro.
L'importanza di quest'ultimo punto diventa chiara non appena ci rivolgiamo all'insegnamento di Gesù sul regno di Dio. Gesù usa una fraseologia così varia nei suoi detti sul regno che non possono essere facilmente analizzati, sebbene rientrino in due gruppi principali. Molti detti si riferiscono al regno nel senso temporale appena menzionato. In alcuni di questi detti Gesù annuncia che il regno verrà in futuro; in altri, il regno è vicino o è già arrivato. Nell'altro gruppo principale ci sono diversi detti che hanno un riferimento spaziale piuttosto che temporale: il regno è un luogo (o reame) in cui entrare, da ereditare, da ricevere o in cui stare.
Il senso temporale o quello spaziale sono primari? C'è ormai un consenso sul fatto che nei passaggi rilevanti dell'Antico Testamento e negli scritti ebraici successivi, così come nei detti stessi di Gesù, il senso temporale non è solo più comune, ma primario. Il regno di Dio è il suo governo dinamico e regale, non una posizione geografica con confini. Se il senso primario è temporale, è possibile spiegare i detti "spaziali" come un'implicazione del governo regale di Dio. Il governo sovrano di Dio non si esercita nel vuoto, ma tra il suo popolo: quindi, "entrare", "ereditare" o essere "nel" regno significa essere tra le persone che sperimentano il governo regale di Dio. Tuttavia, se il senso spaziale è primario, non è facile spiegare perché così tanti detti abbiano un senso chiaramente temporale.
In Marco 10:23-25, ad esempio, la frase "entrare nel regno di Dio" ricorre tre volte. Gesù dice due volte: "Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!", e poi illustra il suo punto con il paragone grafico: " È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio". Il contesto riguarda il discepolato, quindi il regno in cui entrare non è un regno con confini, ma le persone tra cui Dio esercita il suo governo regale, sia ora che in futuro.
Gesù afferma che il governo regale di Dio viene sperimentato "qui e ora" nel suo messaggio e nei suoi miracoli, oppure il regno è una speranza futura? Tale questione è stata dibattuta intensamente sin dal 1892, quando Johannes Weiß minò la forte tradizione del diciannovesimo secolo insistendo sul fatto che per Gesù il regno non era né una causa morale né una società moralmente ordinata, ma una realtà che sarebbe stata avviata da Dio nel prossimo futuro. Weiß vide correttamente che il regno non è mai qualcosa di soggettivo, interiore o spirituale, come spesso accade nella pietà popolare, ma il governo regale e dinamico di Dio che verrà. Tuttavia, Weiss non è riuscito a rendere giustizia ai detti che esprimono la vicinanza o la presenza del regno, un gruppo di detti di cui parleremo tra poco.
Numerosi detti sul regno si riferiscono a una futura venuta. Ancora una volta, si possono notare solo pochi brani rappresentativi. La seconda petizione del Padre Nostro chiede: "Venga il tuo regno" (Matteo 6:10; Luca 11:2): la venuta del regno è una speranza futura. Nella versione di Matteo (ma non nella formulazione più breve e originale di Luca), c'è un'aggiunta esplicativa. "Venga il tuo regno" - e come corollario, "sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra". La dimensione etica è chiara, come lo è anche per Marco, che nota nel suo riassunto della proclamazione del regno da parte di Gesù che la risposta appropriata è il pentimento e la fede (Marco 1:15).
Una tradizione Q (Matteo 8:11-12; Luca 13:28-29) dichiara che le persone verranno dall'oriente e dall'occidente e mangeranno nel regno con Abramo, Isacco e Giacobbe. Nel banchetto escatologico in cielo i gentili (o forse gli ebrei della diaspora) si uniranno ai patriarchi, ma nel giudizio finale coloro che rifiuteranno Gesù saranno respinti da Dio, e ci saranno pianto e stridore di denti. Qui Gesù sovverte le aspettative dei suoi ascoltatori. Attinge a motivi apocalittici grafici, sebbene in altri detti Gesù prenda le distanze dalle tradizioni apocalittiche popolari nei circoli che hanno delineato calendari e scenari dettagliati per il futuro (Marco 13:32-33; Luca 17:20).
Nelle beatitudini iniziali i poveri, gli afflitti e gli affamati sono dichiarati "felici" o "beati" (Matteo 5:3-6; Luca 6:20-21). Perché? Perché il governo regale di Dio inverte il loro stato presente. Non si nota spesso che nella prima beatitudine il regno è una realtà presente, mentre nelle due beatitudini successive la promessa è che Dio agirà per conto di coloro che sono nel bisogno. Un senso temporale presente e uno futuro sono giustapposti.
Diversi detti esprimono la presenza o la vicinanza del regno, sebbene in ogni caso il loro preciso senso temporale sia difficile da determinare. In Marco 1:15, ad esempio, il senso è "il regno di Dio è giunto" o "è vicino" o "è su di voi"? Una discussione prolungata ha portato alla conclusione ampiamente accettata che questo versetto annuncia la vicinanza del regno: è così vicino che una risposta è imperativa.
La presenza del regno è più chiara in Matteo 12:28/Luca 11:20, la dichiarazione di Gesù che i suoi esorcismi sono la conferma della presenza del governo regale di Dio. Quando a Gesù fu chiesto del tempo della venuta del regno, si rifiutò di fornire una tabella di marcia, ma affermò che il regno era "in mezzo a voi" o addirittura "in voi" (Luca 17:20-21). Se si adottasse quest'ultima interpretazione, essa sosterrebbe la nozione popolare che il regno è puramente soggettivo, interiore o spirituale, cioè che è "nei" cuori dei seguaci di Gesù. Ma non ci sono altri detti di Gesù che sostengano questa nozione, e le prove linguistiche su cui si basa questa interpretazione di entos humôn in Luca 17:21 sono ora generalmente respinte.
Diversi detti importanti dichiarano che le promesse di Dio si stanno adempiendo ora nelle parole e nelle azioni di Gesù, anche se la frase "regno di Dio" non viene usata. Una beatitudine non inclusa nel Sermone della Montagna suona come segue nella sua forma originale: "Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!" (Matteo 13:16-17/Luca 10:23-24). I contemporanei di Gesù sono in una posizione particolarmente privilegiata, perché hanno ascoltato le parole e visto le azioni che sono l'adempimento di antiche speranze. La somiglianza di questo passaggio con la risposta che Gesù dà a Giovanni Battista è ovvia (Matteo 11:4-6/Luca 7:22-23). Ancora una volta messaggio e miracoli sono inestricabilmente legati. E ancora una volta Gesù afferma che il suo ministero è l'adempimento delle promesse della Scrittura e delle speranze di un tempo.
Nei paragrafi precedenti è stato detto abbastanza per confermare che ci sono enfasi molto varie nei detti del regno di Dio. I detti del regno non dovrebbero essere compressi in un unico stampo. Sia i detti del futuro che quelli del presente (o della prossimità) hanno buone pretese di autenticità, sebbene la loro relazione precisa non sia chiara.
Parabole e aforismi
modificaMolte delle parabole di Gesù spiegano ed espongono l'insegnamento di Gesù sul regno di Dio. Ad esempio, Matteo include non meno di sei parabole concise nella sua raccolta di parabole nel capitolo 13. Si aprono tutte con la frase "il regno dei cieli è simile a/si può paragonare a..."; il regno è paragonato a un granello di senape, al lievito, a un tesoro nascosto, a un mercante in cerca di perle preziose, a una rete gettata in mare, a un padrone che tira fuori dal suo tesoro ciò che è nuovo e ciò che è vecchio (Matteo 13:31-33;44-47,52). Alcune di queste parabole si trovano negli altri vangeli e Marco ne ha un'altra simile che non si trova altrove: "Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra" (Marco 4:26-29).
Molte parabole gettano una luce importante sull'insegnamento di Gesù riguardo al regno, anche se non si riferiscono esplicitamente al regno di Dio. La parabola del seminatore, ad esempio, è senza dubbio una parabola del "regno" (Marco 4:1-20 e parr.). Tuttavia, non è saggio collegare tutte le parabole di Gesù a questo tema, perché la loro portata è molto più ampia. La parola greca parabolē suggerisce fortemente che tale sia il caso. Nella traduzione greca dell'Antico Testamento (la LXX), parabolē traduce spesso la parola ebraica mašal, che si riferisce a un enigma, un proverbio, una provocazione o persino un oracolo profetico.
Questo ampio uso si riflette nei vangeli. In Luca 4:23 solo tre parole sono considerate una parabolē: "Medico, cura te stesso". Questo è ovviamente un proverbio, come lo è la parabolē in Luca 6:39: "Può un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno entrambi in una fossa?" In Marco 4:17 parabolē si riferisce all'enigma del versetto precedente; in Luca 14:7 a un consiglio domestico sul comportamento corretto durante una festa. Quindi le "parabole" sono strettamente correlate agli aforismi, brevi massime concise caratteristiche degli insegnanti di "saggezza". Torneremo tra poco all'insegnamento aforistico di Gesù.
Sebbene le parabole non fossero sconosciute nel mondo greco-romano, di solito non facevano parte del bagaglio di conoscenze degli insegnanti religiosi o dei filosofi, e la maggior parte di esse erano favole o allegorie. Le favole di Esopo erano ben note, ma sono molto diverse dalle parabole di Gesù. Ci sono una manciata di parabole nell'Antico Testamento, ma solo la parabola di Nathan riguardo al povero e al suo agnello (2 Samuele 12:1-10) è solitamente accettata come un parallelo stretto con le parabole di Gesù. I successivi insegnanti ebrei usarono le parabole raramente, e non così frequentemente come fece Gesù. Nella maggior parte dei casi le loro parabole furono usate per illustrare o esporre la Scrittura. Mentre le parabole di Gesù contengono alcune immagini scritturali, molto poche sono esegetiche. Sarebbe avventato affermare che le parabole di Gesù siano uniche, ma nel suo ampio uso di esse Gesù non stava seguendo le convenzioni del tempo.
Allora perché Gesù insegnava in parabole? Dalla fine del secondo secolo alla fine del diciannovesimo secolo, spesso veniva data una risposta semplice a questa domanda. Le parabole hanno significati "celestiali" più profondi sotto la loro apparenza esteriore di storie "terrene" quotidiane. Si presumeva che ogni elemento nelle parabole avesse un significato teologico: Gesù usava le parabole per trasmettere i principi fondamentali della dottrina cristiana.
Nella sua opera in due volumi, mai tradotta dal tedesco, Adolf Jülicher (1888) ruppe radicalmente con questa tradizione. Insistette sul fatto che le parabole originali di Gesù non erano allegorie, poiché ogni parabola conteneva solo un punto chiave, e quel singolo punto si rivelò essere una massima piuttosto blanda. La maggior parte degli studiosi ora accetta che Jülicher e i suoi seguaci siano andati troppo oltre. Le parabole sono poliedriche; sono molto più sottili e molto più ricche teologicamente di quanto Jülicher supponesse.
In particolare, non c'è motivo di supporre che Gesù abbia evitato ogni traccia di allegoria nella forma originale delle sue parabole. Quando i suoi ascoltatori in Galilea ascoltarono la parabola dei vignaioli malvagi (Marco 12:1-12), avrebbero istintivamente associato la vigna a Israele, come in Isaia 5. Marco interpreta questa parabola principalmente come un attacco ai leader religiosi, come chiarisce la conclusione nel v. 12. È anche quasi certamente un'accusa a Israele per non aver prodotto il frutto atteso da Dio.
Finora abbiamo notato che alcune delle "parabole" sono enigmi o proverbi, e che alcune sono paragoni che si riferiscono a una scena quotidiana. Questi ultimi sono solitamente chiamati similitudini: sono sotto forma di similitudini che danno istruzioni o illustrano un aspetto del regno. Una similitudine offre un paragone indiretto, "Pietro combatteva come una tigre", "il regno dei cieli è come il lievito" (Matteo 13:33).
Ancora più caratteristiche e sorprendenti sono le parabole narrative di Gesù. Come una metafora ("Pietro è una tigre") offrono un confronto diretto. Le parabole narrative sono metafore estese che narrano qualcosa che è accaduto solo una volta. Per esempio: "Un uomo aveva due figli..." (Luca 15:11); "C’era un uomo ricco che aveva un amministratore..." (Luca 16:1).
Le parabole narrative sono come la poesia, o come un buon fumetto. Comunicano in modi inaspettati e spesso a un livello più profondo delle affermazioni. C'è spesso un elemento di sorpresa che costringe a ripensare a Dio, alla Sua volontà e alle Sue vie con l'umanità.
Una volta che comprendiamo che le parabole narrative sono metafore estese, diventa chiaro che sono molto più di un insolito modo di istruzione usato da un insegnante eccezionalmente dotato. Le parabole non riguardano semplicemente il regno di Dio, possiedono una vitalità e un potere in sé e per sé: trasmettono qualcosa della realtà del regno di Dio.
In Marco 4:10-12 c'è un commento particolarmente sconcertante sullo scopo delle parabole. Gesù dice ai suoi seguaci che è stato dato loro il segreto o il mistero del regno, ma per gli "esterni" tutto avviene in parabole:
Per coloro che respingono la chiamata e la sfida di Gesù, le parabole li confermano nel loro rifiuto, perché non comprendono affatto il punto. Ma Marco chiarisce più avanti nello stesso capitolo che le parabole non avevano lo scopo di fornire intuizioni per gli addetti ai lavori e di confermare la cecità per gli esterni: "poiché non c'è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce" (Marco 4:22). Lo scopo ultimo delle parabole non è nascondere, ma rivelare: "Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto? O piuttosto per metterla sul lucerniere?" (Marco 4:21; cfr. anche 4:33).
Ci sono circa quaranta parabole nei vangeli sinottici. Tuttavia, sono totalmente assenti dal Vangelo di Giovanni, dove la parola parabolē non è usata affatto. La parola sinonima paroimia è usata in due passaggi: 10:6 e 16:25,29. È possibile che due parabole siano state fuse insieme in Giovanni 10:1-5. Molti brani in questo vangelo sono "parabolici" in senso lato, e ancora di più sono simbolici. Ma non c'è traccia di parabole narrative. In Giovanni 16:21, tuttavia, c'è un aforisma o massima che viene citato alcuni versetti dopo come paroimia: "La donna, quando partorisce, prova dolore perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'angoscia, per la gioia che sia venuta al mondo una creatura umana". Qui una verità generale esprime un punto potente nel suo contesto attuale, ma potrebbe anche avere senso in un contesto molto diverso.
Ci sono infatti molti più aforismi che parabole nei vangeli, più di cento nella maggior parte delle definizioni di aforisma. Gli aforismi sono detti concisi e accattivanti che sono completi in sé, vale a dire che non richiedono un contesto narrativo specifico. Esprimono vividamente verità che sono generali all'esperienza dell'umanità. "L'albero si riconosce dal suo frutto" (Matteo 12:33). "L'operaio è degno della sua mercede" (Matteo 10:10).
Diversi aforismi sono sotto forma di ammonimenti. Per esempio, "Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore" (Matteo 5:25-26/Luca 12:58-59; cfr. anche Matteo 6:19-21/Luca 12:33,34; Matteo 7:13-14/Luca 13:23-24).
Ci sono raccolte di detti aforistici nei Proverbi, nell'Ecclesiaste e nel Siracide, come anche in altri scritti ebraici. Gli aforismi dei vangeli appartengono a questa tradizione "sapienziale". Mentre alcuni sono (o potrebbero essere) correlati alla proclamazione del regno da parte di Gesù, la maggior parte non lo è. Quindi questo importante filone dell'insegnamento di Gesù ci ricorda che era un insegnante di saggezza che aveva molto in comune con gli insegnanti ebrei del suo tempo.
Se la proclamazione del regno da parte di Gesù (e diverse altre caratteristiche del suo ministero) suggeriscono fortemente che egli si considerasse un profeta escatologico, i suoi aforismi e molte delle sue parabole suggeriscono che fosse un insegnante sapienziale. Un ritratto è più autentico dell'altro? Nella sua risposta alla richiesta da parte di alcuni scribi e farisei di un segno, Gesù fece un'importante affermazione implicita su se stesso: "qualcosa di più grande di [il profeta] Giona è qui" e anche "qualcosa di più grande di [l'insegnante di saggezza] Salomone è qui" (Matteo 12:38/11:16,29-32). Quindi Gesù stesso sembra non aver avuto difficoltà a giustapporre "profeta" e "insegnante di saggezza".
Diversi studiosi nordamericani, la maggior parte dei quali sono membri del Jesus Seminar guidato da R. W. Funk, hanno recentemente sostenuto che Gesù dovrebbe essere visto principalmente come un insegnante di saggezza; alcuni (in particolare Crossan 1991) fanno un ulteriore passo avanti e affermano che Gesù era un cinico ebreo. Il cinismo nacque tra gruppi vagamente organizzati di filosofi erranti nel IV secolo AEV; ci fu una rinascita all'incirca all'epoca di Gesù.
Gli studiosi che sostengono questo approccio generale notano che alcune delle parabole e degli aforismi di Gesù non sono escatologici, vale a dire non sono affatto correlati alla proclamazione del regno di Dio che verrà. Difficilmente si può obiettare a questo primo passo nell'argomentazione, sebbene l'affermazione che solo questi detti siano autentici per Gesù sia arbitraria.
I passi successivi sono piuttosto implausibili. Il tentativo di isolare un primo e quindi primario strato non escatologico delle tradizioni condivise da Matteo e Luca (Q) è in gran parte un caso di trovare ciò che si sta cercando. L'appello al Vangelo di Tommaso come supporto per un ritratto di "saggezza" di Gesù è ancora meno plausibile. Nella sua forma attuale, Tommaso è una raccolta gnostica del IV secolo in copto di 114 detti di Gesù, alcuni dei quali sono correlati a detti nei vangeli sinottici. Tommaso fu probabilmente scritto in greco a metà del II secolo. Alcune delle sue tradizioni possono essere indipendenti dai vangeli sinottici, ma è anche chiaro che molti detti dipendono da essi (cfr. più sotto). In breve, la ricostruzione di una prima versione greca non gnostica di Tommaso è azzardata, per usare un eufemismo.
Ci sono alcune somiglianze tra Gesù e i cinici del suo tempo: entrambi si spostavano da un luogo all'altro trasmettendo insegnamenti di "saggezza", alcuni dei quali erano socialmente sovversivi. Tuttavia, è importante notare che i cinici del primo secolo erano molto diversi nei loro insegnamenti e comportamenti, quindi i parallelismi con Gesù diventano meno opportuni. Ci sono infatti almeno tante differenze quante somiglianze. Mentre è possibile che ci fossero alcuni cinici in Galilea, non ci sono prove che Gesù abbia avuto contatti diretti con loro (cfr. pp. 11–13 nel Capitolo 1 supra). I cinici non erano noti per guarigioni ed esorcismi; come vedremo tra un momento, i miracoli erano una parte centrale del ministero di Gesù.
Coloro che descrivono Gesù principalmente o unicamente come un maestro di saggezza o un cinico ebreo hanno costruito ipotesi dubbie su ipotesi dubbie. Perché? Non si può fare a meno di osservare che ancora una volta la storia si ripete: come è spesso accaduto nella ricerca storica su Gesù, il ritratto ricostruito di Gesù ha una strana somiglianza con il ricercatore.
Miracoli ed esorcismi
modificaNelle sezioni precedenti di questo Capitolo abbiamo visto che Gesù era sia un profeta che chiedeva una risposta per il futuro governo regale di Dio, sia un insegnante di saggezza. Era anche un guaritore e un esorcista? Ci sono diciassette resoconti di guarigioni nei vangeli, tra cui tre di rivitalizzazione; ci sono sei resoconti di esorcismi. Altre otto tradizioni sono solitamente definite "miracoli in natura". Questi numeri non includono i passaggi paralleli o i numerosi riferimenti ai miracoli nei brani riassuntivi. Le statistiche scarne confermano l'importanza dei miracoli nei vangeli. Quindi non possiamo evitare di chiederci se Gesù abbia compiuto miracoli e, in caso affermativo, perché.
I miracoli non erano accettati senza riserve nell'antichità. Gli scrittori greco-romani erano spesso riluttanti ad attribuire eventi "miracolosi" agli dei e offrivano spiegazioni alternative. Alcuni scrittori erano apertamente scettici sui miracoli (ad esempio Epicuro, Lucrezio, Luciano). Quindi è un errore liquidare i miracoli di Gesù come il risultato dell'ingenuità e della creduloneria delle persone nel mondo antico.
Durante la sua vita, seguaci e nemici accettarono allo stesso modo che Gesù avesse poteri di guarigione insoliti. La domanda non era: "Gesù ha compiuto miracoli?", perché questo era dato per scontato. In discussione invece era con quale autorità e con quale potere Gesù avesse compiuto azioni insolite. I miracoli erano il risultato della presenza del governo regale di Dio (Matteo 12:28/Luca 11:20) o il risultato della collusione di Gesù con Belzebù, il principe dei demoni (Marco 3:22), o il risultato del suo uso di poteri magici (cfr. Giustino, Dial. 69.6–7; b. Sanh. 43a, 107b)?
I commenti di Celso, il filosofo e il primo critico pagano del cristianesimo, sono rivelatori. Intorno all'anno 180 scrisse quanto segue (come riportato da Origene, Contra Celsum 1.6): "I cristiani ottengono il potere che sembrano possedere pronunciando i nomi di certi demoni e incantesimi... Fu per magia che lui [Gesù] fu in grado di fare i miracoli che sembra aver fatto".
Celso non dubitava che sia Gesù che i suoi seguaci compissero miracoli, ma li attribuiva a poteri magici. Quindi, Gesù era un mago? Questa domanda è stata dibattuta in modo inconcludente da diversi studiosi: non sorprende che le definizioni siano di fondamentale importanza. Se la magia è definita come l'uso di tecniche standard, siano esse di parole (principalmente incantesimi) o di azioni (ad esempio, il tocco o l'uso dello sputo), allora ci sono alcuni tratti magici nelle tradizioni dei miracoli nei vangeli.
Il racconto di Marco sulla donna con un'emorragia è l'esempio più chiaro (Marco 5:24-34). La donna si avvicinò a Gesù e toccò il suo mantello, convinta che sarebbe guarita se solo avesse potuto toccare i suoi vestiti. Gesù è consapevole che "una potenza è uscita da lui", ma non sa chi lo ha toccato. Quando la donna gli racconta cosa è successo, Gesù le dice: "Figlia, la tua fede ti ha guarita". Nella sua redazione di questo incidente, Matteo evita attentamente qualsiasi suggerimento che la donna sia guarita semplicemente toccando il mantello di Gesù (Matteo 9:20-26).
Tuttavia, ci sono più differenze che somiglianze tra le tradizioni dei miracoli e i resoconti delle pratiche magiche. Nei vangeli non ci sono lunghi incantesimi, nessun elenco di nomi esoterici e nessun riferimento all'uso di amuleti. Né c'è alcun suggerimento che un supplicante possa costringere Gesù a compiere un miracolo contro la sua volontà. Nell'antichità la magia era spesso usata per fini puramente egoistici (ad esempio per vincere una corsa di cavalli o un amante) e normalmente non si formavano legami duraturi tra il mago e i "clienti".
Sebbene sia vero che in alcune definizioni miracolo e magia siano strettamente correlati, vale la pena notare che nell'antichità (come oggi) la magia aveva generalmente connotazioni fortemente negative. Quindi la magia non è un termine "neutrale" che può essere utilizzato senza ulteriori indugi in riferimento a Gesù.
I poteri di Gesù di guarire ed esorcizzare non erano unici. Egli diede ai suoi discepoli l'autorità di guarire ed esorcizzare (Marco 6:7,13; Matteo 10:1; cfr. Matteo 7:22). Gesù stesso fa riferimento ad altri esorcisti che erano in grado di scacciare i demoni (Matteo 12:27/Luca 11:19; cfr. Atti 19:11-17). Ci sono resoconti di operatori di miracoli ebrei vissuti più o meno all'epoca di Gesù, anche se non sono comuni; piuttosto sorprendentemente, non includono guarigioni di sordi, muti e zoppi.
Pochi dubitano che Gesù possedesse doni insoliti come guaritore, anche se naturalmente vengono fornite spiegazioni diverse. Alcuni suggeriscono che molte delle malattie e disabilità avessero radici psicosomatiche. Sebbene tale possa essere stato il caso, non abbiamo modo di indagare ulteriormente sulla questione.
I cosiddetti sette miracoli della natura sollevano problemi più acuti delle guarigioni e degli esorcismi: la maledizione del fico (Marco 11:12-14,20-21/Matteo 21:18-20); la pesca miracolosa (Luca 5:1-11; cfr. Giovanni 21:1-14); il camminare sulle acque (Marco 6:45-52/Matteo 14:22-33; Giovanni 6:16-21); la tempesta sedata (Marco 4:35-41/Matteo 8:23-7; Luca 8:22-5); la trasformazione dell'acqua in vino (Giovanni 2:1-11); i due resoconti della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Marco 6:32-44 e Marco 8:1-10). In termini di struttura, queste tradizioni sono piuttosto disparate e la maggior parte di esse differisce per molti altri aspetti dalle tradizioni dei miracoli. Quattro di esse possono essere collegate tra loro vagamente come miracoli "dono" (così Theissen 1983), perché tutte registrano la fornitura di cibo (o vino), ma questa osservazione non ci porta molto più avanti.
In un caso c'è una spiegazione plausibile. La maledizione del fico è l'unico miracolo "distruttivo" nei vangeli (Marco 11:13-14;20-21). Poiché una parabola di un fico sterile è riportata in Luca 13:6-9, la storia del miracolo potrebbe essere "cresciuta" da una parabola raccontata da Gesù. Ma è impossibile sapere esattamente cosa potrebbe esserci dietro gli altri cosiddetti miracoli della natura. Una decisione sulla loro storicità sarà determinata in gran parte dai propri presupposti filosofici e dalla propria valutazione complessiva dell'origine e dello sviluppo delle tradizioni evangeliche.
Dato che Gesù possedeva doni insoliti come guaritore, perché compì i miracoli particolari registrati nei vangeli? Come abbiamo notato, era molto facile "screditare" i taumaturghi nella Palestina del primo secolo. Allora perché Gesù corse il rischio di essere ridicolizzato e rifiutato? La fede dell'individuo è menzionata in molti casi, ma non in tutti. Sebbene gli evangelisti facciano occasionalmente riferimento alla compassione di Gesù, non suggeriscono che questo fosse il motivo principale di tutti i suoi miracoli. Gli evangelisti registrano che alcuni dei miracoli attrassero folle (ad esempio Marco 1:28), e questo potrebbe essere stato uno dei motivi per cui le autorità si mossero contro Gesù. Ma è improbabile che l'attrazione di folle sia stata la ragione principale per cui Gesù compì miracoli.
Prestando molta attenzione agli individui e alle circostanze coinvolte, possiamo ottenere importanti intuizioni sull'intenzione di Gesù. Gesù guarì persone con molti tipi di disabilità. I lebbrosi guariti da Gesù potrebbero aver avuto qualche tipo di malattia della pelle, cioè non quella che oggi conosciamo come la malattia di Hansen; ma agli occhi di molti, toccare un lebbroso era una violazione delle regole rituali (Marco 1:40-45; Luca 17:11-19; Levitico 13:45-46; Flavio Giuseppe, Ag. Ap. 1.279–86). Come ha sottolineato Kee (1986:78–79), Gesù guarì persone che alcuni dei suoi contemporanei consideravano ‘off-limits’ secondo gli standard della pietà ebraica, a causa della loro razza (Marco 7:24-30), del loro luogo di residenza (Marco 5:1-20, in una tomba in territorio pagano) o della loro impurità rituale (5:25-34 [1], una donna con flusso mestruale). Sebbene non sia possibile una discussione completa qui, molte delle guarigioni e degli esorcismi di Gesù erano un'indicazione della sua piena accettazione di coloro che erano socialmente e religiosamente emarginati.
L'attività di guarigione di Gesù suscitò sospetti e ostilità (cfr. Marco 3:22-27). Anche Giovanni Battista era perplesso, perché apparentemente egli non aveva poteri di guarigione. Come abbiamo notato sopra, nella sua risposta alla domanda di Giovanni (Matteo 11:4-6/Luca 7:22-23) Gesù affermò che la sua attività di guarigione svolta tra coloro che erano ai margini della società era in adempimento delle promesse per l'era a venire a cui si fa riferimento in Isaia 29:18-19;35,5-6;61:1. In breve, Gesù vide le guarigioni come segni dell'irruzione del governo regale di Dio. Affermò esplicitamente che i suoi esorcismi erano segni del regno: "Ma se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio" (Matteo 12:28/Luca 11:20).
Come le parabole, i miracoli erano "segni" ma non prova del regno di Dio; gli "esterni" potevano "vedere" e "udire" ma non percepire e "comprendere" (Marco 4:10;8:18). I miracoli, come molte delle parabole, erano intesi da Gesù per trasmettere a coloro che avevano occhi per vedere e orecchie per udire la realtà del governo regale di Dio.
Il cenacolo
modificaDiverse tradizioni riportano che Gesù estese la comunione a tavola ai pubblicani e ai peccatori (Marco 2:13-17; Matteo 11:19/Luca 7:34; Luca 7:36-50; Luca 15:1-2). Esse forniscono un'ulteriore prova del forte interesse di Gesù per coloro che erano ai margini della società del suo tempo. Come nelle sue guarigioni ed esorcismi, Gesù mette in atto la sua proclamazione del governo regale di Dio.
Condividere un pasto con un amico oggigiorno non è altro che un modo comodo di consumare cibo. Nel mondo greco-romano ed ebraico del primo secolo, tuttavia, mangiare cibo con un'altra persona era molto più significativo socialmente: indicava che la persona invitata veniva accettata in una relazione in cui i legami erano stretti come nelle relazioni familiari. Normalmente si invitavano ai pasti solo persone che si consideravano alla pari socialmente e religiosamente.
Alcune delle convenzioni del primo secolo associate alla compagnia a tavola sono tratteggiate vividamente in Luca 14:7-14. Questo brano si conclude con un sorprendente capovolgimento delle consuete aspettative di reciprocità nell'ospitalità:
I seguaci di Gesù sono esortati a fare esattamente ciò che fece lui stesso: estendere la compagnia a tavola a coloro che la maggior parte delle persone avrebbe evitato.
"Perché Gesù mangia con i pubblicani e i peccatori?" (Marco 2:16). Questa critica viene rivolta a Gesù dagli scribi dei farisei quando vedono chi Gesù ha invitato a condividere i pasti con lui. Nella sua risposta Gesù insiste sul fatto che non è venuto per invitare alla comunione a tavola coloro che si considerano rispettosi della legge ("giusti"), ma "peccatori" (Marco 2:17). In una tradizione indipendente, Luca registra una simile critica indignata (Luca 15:1-2) e vi collega la risposta di Gesù sotto forma delle parabole della pecora smarrita, della moneta perduta e del figliol prodigo (Luca 15:3-32).
Per i nostri scopi attuali, la tradizione Q in cui Gesù stesso cita una frecciatina rivolta a lui, è ancora più importante: "Ecco, un mangione e un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori!" (Matteo 11:18-19/Luca 7:34). Gesù accetta la legittimità di questa accusa, quindi le sue azioni sono piuttosto deliberate. L'accusa è il finale di una lunga serie di detti di Gesù (Matteo 11:2-19/Luca 7:18-35;16:16) in cui uno dei temi centrali è l'avvento del governo regale di Dio. Quando la frecciatina viene letta nel contesto, diventa chiaro che gli oppositori di Gesù non riuscirono a vedere che la sua compagnia a tavola con i pubblicani e i peccatori era un'implicazione dell'avvento del regno.
Chi erano i pubblicani e i peccatori? I pubblicani in Galilea erano disprezzati non perché fossero in combutta con i romani (anche se questo sarebbe stato il caso in Giudea), ma perché nel loro abuso di un sistema di riscossione di pedaggi e imposte di vecchia data erano palesemente disonesti. In senso stretto erano esattori di pedaggi o esattori delle tasse; non riscuotevano imposte dirette. Come ha sottolineato E. P. Sanders (1985), i "peccatori" non erano semplicemente apatici riguardo all'osservanza religiosa, erano coloro che ignoravano intenzionalmente i comandamenti di Dio. Quindi Gesù insisteva nell'accettare apertamente in intima compagnia a tavola coloro che erano noti per la loro disonestà o il loro rifiuto arrogante della legge.
Conclusione
modificaDiversi fili attraversano questo Capitolo. Alcuni lettori potrebbero pensare che insistere sul fatto che messaggio e miracoli vanno di pari passo significhi insistere sull'ovvio. Ma non è così, perché nel primo secolo non andavano necessariamente di pari passo. Gesù potrebbe essere emerso dalla cerchia dei seguaci di Giovanni (cfr. Giovanni 1:35-42). Per molti aspetti Gesù e Giovanni erano simili: erano entrambi percepiti come profeti; entrambi proclamavano il futuro governo regale di Dio; entrambi attraevano grandi folle. Ma né i vangeli né Flavio Giuseppe attribuiscono a Giovanni poteri di operatore di miracoli (Flavio Giuseppe, Ant. 18:116-19; cfr. Giovanni 10:41). Né Giovanni era noto per il suo uso di parabole e aforismi.
Le tradizioni evangeliche ritraggono Gesù in diverse forme. Era un profeta che proclamava l'avvento del regno regale di Dio e ne metteva in atto le implicazioni; come "insegnante sapienziale" usava parabole e aforismi in misura maggiore rispetto alla maggior parte degli altri insegnanti di sapienza; aveva doni taumaturgici; era un interprete della legge. Quanto più vigorosamente vengono vagliate e soppesate le tradizioni evangeliche, e quanto più rigorosamente viene esplorato il mondo ebraico e greco-romano del primo secolo, tanto più diventa chiaro che Gesù di Nazareth non rientra in nessuna formula. È un errore cercare (come hanno fatto molti studiosi) di ritrarre Gesù principalmente come un profeta, o come un insegnante sapienziale, o come un taumaturgo.
Il brano con cui abbiamo iniziato questo capitolo sottolinea questi punti. Nella sua risposta agli emissari di Giovanni Battista (Matteo 11:2-6/Luca 7:18-23) Gesù indica di essere un operatore di miracoli e un proclamatore della buona novella di Dio per i poveri, e implica che il suo messaggio e i suoi miracoli devono essere visti come l'adempimento delle promesse di Dio. Il suo commento finale, "Beato colui che non si scandalizza di me", è un detto di beatitudine o di saggezza, quindi questo brano ritrae anche Gesù come un insegnante di saggezza.
Questi versetti contengono anche una risposta implicita alla preoccupazione principale di Giovanni: "Chi sei? Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?" A Giovanni non viene data una risposta scontata. Qui, come altrove, Gesù focalizza l'attenzione su Dio e non su se stesso; tuttavia, Gesù fornisce un indizio sulla sua stessa autocomprensione. Un frammento di Qumran recentemente pubblicato (4Q521) collega anche messaggio e miracoli per mezzo di frasi simili di Isaia. Come la risposta di Gesù a Giovanni, si riferisce a Isaia 61:1: "perché egli guarirà i feriti, darà la vita ai morti e annuncerà una buona novella ai poveri" (4Q521 1.ii.12). Sebbene questo frammento sia difficile da interpretare, probabilmente si riferisce alle azioni escatologiche che Dio compirà tramite il suo unto, il Messia (riga 1). Se così fosse, allora al tempo di Gesù almeno alcuni ebrei capivano Isaia 61:1 in senso messianico, come probabilmente fece Gesù stesso.
Chi sono i "poveri" a cui Gesù annuncia la buona novella di Dio? Sono persone che sperimentano oppressione e impotenza, compresi coloro che vivono in estrema povertà. Sono i ciechi, gli zoppi, i lebbrosi e i sordi che Gesù guarisce come segno della venuta del governo regale di Dio. Sono i pubblicani e i peccatori a cui Gesù estende la comunione a tavola nonostante una vigorosa opposizione. Il messaggio, i miracoli e le azioni di Gesù sono tutti incentrati sugli emarginati socialmente e religiosamente, perché il governo regale di Dio appartiene a loro (Matteo 5:3/Luca 6:20).
Per approfondire, vedi Serie cristologica, Serie misticismo ebraico e Serie delle interpretazioni. |