Gallerie di piazza Scala/V
Sezione V
modificaL'immagine di Milano nella veduta e nella pittura prospettica. Il Duomo (Sale 10, 11, 12 e 13)
Sono presenti 25 opere importanti sia per la qualità sia per il valore documentario; testimoniano l’immagine di Milano e in particolare del suo monumento simbolo, il Duomo, tramite vedute, interni prospettici e scene di vita moderna ambientate nelle strade o nei nuovi spazi urbani.
- 54. Migliara_Giovanni,_Veduta_di_piazza_del_Duomo_in_Milano
- 55. Luigi Bisi, Veduta del complesso absidale del Duomo di Milano, 1830-1835
- 56. Carlo Canella, Il Duomo di Milano e la corsia dei Servi
In seguito al suo trasferimento a Milano nel 1842 e dietro consiglio del più celebre fratello Giuseppe, Carlo Canella si esercitò nell’esecuzione degli scorci cittadini più caratteristici e richiesti dal mercato. Il Duomo, ripreso da diversi punti di vista e in varie condizioni atmosferiche, divenne un soggetto ricorrente nella sua produzione, ripetutamente presentato alle rassegne espositive milanesi e veronesi tra il 1858 e il 1867. La versione in Collezione raffigura l’imbocco della Corsia dei Servi sulla Piazza del Duomo, origine dell’antico asse viario che da Milano conduceva a Bergamo. Attualmente dedicato a Vittorio Emanuele, il corso deriva il nome dall’antica chiesa gotica di S. Maria dei Servi, riedificata in forme neoclassiche all’inizio dell’Ottocento e quindi intitolata a san Carlo. La facciata del Duomo di Milano in primissimo piano è quasi del tutto esclusa dallo spazio visivo, mentre il fianco dell’edificio proietta un cono d’ombra sulla strada brulicante di folla. Nel cuore della città sono raffigurati tutti gli strati sociali - popolani, borghesi e aristocratici -, i banchi di vendita, le carrozze, con una intensa vena narrativa che si sofferma a descrivere i dettagli più minuti della vita quotidiana. L’aspetto umile e feriale della città, con il suo ritmo concitato, diviene protagonista della veduta che relega il Duomo nel ruolo di imponente quinta architettonica, ma ancora nume tutelare e simbolo cittadino. Il dipinto rappresenta una prova di maturità per l’interpretazione vivace e personale del soggetto che si affranca, finalmente, dagli usuali modelli di riferimento di Giuseppe Canella, abbandonando la visione dilatata da cannocchiale ottico, per adottare un punto di fuga fortemente decentrato e un deciso contrasto di luci. Il gusto cronachistico nella rappresentazione delle scene di vita contemporanea accomuna l’opera alla produzione matura di Angelo Inganni, caratterizzata dalla fusione tra pittura di genere e veduta prospettica, la cui fortuna persistette ben oltre la metà del secolo. Si conosce una variante, erroneamente attribuita a Giuseppe Canella, già di proprietà del marchese Zanoletti, che differisce dall’opera in Collezione soltanto nei personaggi in primo piano, a riprova di una produzione quasi seriale del soggetto destinata al grande pubblico.
- 57. Giovanni Migliara, Interno del Duomo di Milano, 1826
- 58. Pompeo Calvi, Interno del Duomo di Milano, 1835
il dipinto, che conserva la sua cornice originale, ritrae una delle vedute più caratteristiche e ricorrenti dell’interno del Duomo di Milano, codificata in forme fisse a partire dagli anni venti dell’Ottocento da Giovanni Migliara e, in seguito, presso la Scuola di Prospettiva di Brera, fino a configurarsi come banco di prova dei pittori prospettici. In quest’opera della maturità, Pompeo Calvi ripropone puntualmente il modello scenografico del suo maestro Giovanni Migliara, documentato in Collezione dalla versione dell’Interno del Duomo di Milano realizzato su commissione del conte Archinti nel 1826. Le evidenti similitudini nell’impostazione scenica, nella distribuzione delle luci e dei personaggi rimandano alla prassi, allora molto diffusa, di copiare le opere più celebri di Migliara, che diede luogo ad una vera e propria industria di riproduzioni richiestissime dal mercato. La tela in Collezione si distingue per la correttezza del disegno, ma adotta un’interpretazione del modello estremamente semplificata nella resa delle luci e nel cromatismo smaltato e innaturale. L’attività pittorica dell’artista fu definita dilettantesca dalla critica che gli riservò sempre una scarsa attenzione, nonostante le prestigiose commissioni e la presenza costante alle Esposizioni di Belle Arti di Brera fino al 1842. Un anno prima del suo ritiro Calvi presentò alla rassegna braidense una veduta prospettica dell’Interno del Duomo di Milano di grandi dimensioni, forse identificabile con l’opera in Collezione, datata 1835.
- 59. Luigi Bisi, Interno del Duomo di Milano, 1840
Galleria del Belvedere di Vienna, fu alienato in seguito ai rovesci finanziari della monarchia asburgica, insieme ad un consistente nucleo di opere dell’Ottocento italiano, passate all’asta presso la Galleria Scopinich di Milano nel 1928. Fin dal 1837, alla scomparsa di Giovanni Migliara, il mondo artistico milanese riconobbe in Bisi l’unico erede del maestro alessandrino, ma la commissione imperiale del 1838 e la presentazione di questa tela all’Esposizione di Belle Arti di Brera del 1840 decretarono ufficialmente il successo dell’artista. La veduta prospettica dell’interno del Duomo di Milano fu riprodotta in incisione sull’Album dell’esposizione di quell’anno, accompagnata da un lungo testo che ne evidenziava le straordinarie qualità pittoriche: dalla resa descrittiva di ogni minimo dettaglio architettonico, alla capacità di tradurre le variazioni luminose che investivano l’ambiente attraverso le vetrate colorate, eseguite dalla bottega artistica dei Bertini.
Fin dal 1830 Bisi realizzò alcune copie ad acquerello delle opere di Migliara, ma si emancipò velocemente dalla tradizionale impostazione scenografica del soggetto per raggiungere una maggiore aderenza al vero, forse anche sulla suggestione dei repertori illustrati dei più celebri monumenti italiani e stranieri, di ampia circolazione nell’Ottocento. La commissione imperiale fu verosimilmente dettata dal desiderio di Ferdinando I di possedere un’immagine puntuale del monumento cittadino per eccellenza che l’artista interpretò in tutta la sua grandiosità e solennità. Ne deriva un’immagine di grande suggestione e spiritualità grazie al punto di vista ribassato che enfatizza l’altezza delle volte, e all’inquadratura che crea nello spettatore l’illusione di trovarsi a breve distanza dall’altare maggiore gremito da una piccola folla di fedeli. Il soggetto fu variamente replicato da Bisi nel corso di una produzione trentennale di vedute prospettiche dei principali monumenti italiani, nella cui esecuzione la sua cifra stilistica rimase perlopiù inalterata, come dimostrano, ad esempio, L’Interno del Duomo di Milano (Milano, Galleria d’Arte Moderna) e L’Interno di Orsanmichele del 1869 (Milano, Palazzo Isimbardi), soggetto d’elezione della produzione matura dell’artista.
- 60. Luigi Bisi, Predica nel Duomo di Milano, 1850
All’Esposizione di Belle Arti di Brera del 1850 apparve una tela di Luigi Bisi raffigurante La Predica nel Duomo di Milano, verosimilmente identificabile con il dipinto acquistato lo stesso anno dal Marchese Rocca Saporiti e segnalato dalle fonti antiche con il titolo generico di Pulpito.
Il dipinto sembrerebbe coincidere con l’opera in Collezione, proveniente dal mercato antiquario. Avvalorano l’ipotesi sia la corrispondenza del soggetto, sia la presenza di un timbro sul telaio che ne riconduce l’appartenenza alla collezione della nobile famiglia dalla quale proveniva Rinaldo Saporiti, allievo dell’artista e forse anche artefice dell’acquisto. Una recente ipotesi critica, invece, ha proposto l’identificazione della tela in Collezione con L’Interno del Duomo di Milano apparso all’Esposizione di Belle Arti di Brera nell’anno 1837, per la presenza un secondo timbro che riporta il numero “37”, ma senza escludere che lo stesso dipinto sia stato esposto nuovamente nel 1850. I caratteri stilistici del dipinto, tuttavia, sembrerebbero escludere questa ipotesi.
Soltanto a partire dalla fine degli anni trenta il pulpito del Duomo apparve tra i soggetti ricorrenti del repertorio dell’artista, caratterizzato dalla produzione pressoché seriale di interni monumentali. Inoltre, il fatto che l’opera riproponga quasi un dettaglio dell’Interno del Duomo di Milano, eseguito su commissione dall’imperatore Ferdinando I, sembrerebbe respingere una datazione precedente al 1840, quando la celebre tela fu presentata all’Esposizione di Belle Arti di Brera, prima di essere inviata a Vienna.
In questa tela Luigi Bisi si confronta con i migliori risultati della coeva pittura di genere prospettico, rappresentati dalle opere di Angelo Inganni, adottando un taglio ravvicinato dell’inquadratura e accentuando la presenza scenica dei numerosi personaggi colti in vari atteggiamenti. La ricostruzione filologica dell’ambiente che ripropone le vetrate colorate, il gioco prospettico, i riverberi della luce delle volte e i dettagli architettonici del pulpito, si coniuga alla vivacità narrativa della pittura di genere.
- 61. Angelo Inganni, Interno del Duomo di Milano, 1844
- 62. Filippo Carcano, Interno del Duomo di Milano, 1874
- 63. Arturo Ferrari, Interno del Duomo di Milano, 1888
Eseguito nel 1888, ritrae una veduta dell’interno del Duomo di Milano e attesta l’interesse ricorrente di Ferrari per questo soggetto, all’epoca un tema scolastico di maniera, già affrontato secondo in un suo precoce saggio pittorico. L’opera in Collezione documenta l’avvenuto passaggio del genere prospettico da semplice esercizio geometrico e descrittivo, proprio dell’insegnamento accademico, a suggestiva sperimentazione di giochi di luce e colore in una serrata ricerca condotta dal vero. Alla tradizione della veduta appartengono ancora sia la visione nitida e precisa, costruita attraverso una solida griglia prospettica (ben visibile nel motivo geometrico dei marmi della pavimentazione), sia la piccola nota di genere nella scena di corteggiamento tra il soldato e la giovane donna in primo piano. A qualificare il percorso artistico di Ferrari nel corso degli anni Ottanta, tuttavia, è soprattutto la ricerca condotta sulle innovative soluzioni di Filippo Carcano, indiscusso caposcuola del naturalismo lombardo, e di Mosè Bianchi. Sulla scorta di questi modelli Ferrari si afferma rapidamente come pittore prospettico, vincitore nel 1884 del Premio Fumagalli con la Cappella nella Chiesa di Sant’Antonio, presentata all’Esposizione di Belle Arti di Brera e successivamente replicata nella versione oggi alla Galleria d’Arte Moderna di Milano. Proprio alle diverse versioni che ritraggono la cattedrale cittadina presentate da Carcano all’Esposizione di Belle Arti di Brera e alla Promotrice di Torino tra il 1872 e il 1879 - tra le quali L’Interno del Duomo di Milano del 1874 (Milano, collezione Banca Intesa) - si ispira, a distanza di molti anni, la veduta prospettica in Collezione che raggiunge un’impressione di ariosità e un ampio respiro spaziale anche grazie all’adozione di una luce diffusa con un evidente intento naturalistico.
- 64. Luigi Premazzi, Veduta dell'Ospedale Maggiore di Milano, 1842
Il dipinto documenta l’aspetto della facciata dell’Ospedale Maggiore di Milano nel 1842. L’edificio, fatto erigere da Francesco Sforza dal 1456 su progetto dell’architetto fiorentino Antonio Averlino, detto Filarete, fu ampliato nel corso dei secoli ad opera dei maggiori architetti e decoratori lombardi fino a raggiungere, all’inizio dell’Ottocento, un’estensione e una capienza paragonabili a quelle dei maggiori ospedali europei. Il taglio prospettico della facciata, con via del Perdono e la chiesa di S. Nazaro Maggiore sullo sfondo, appartiene ad un modello consolidato nella rappresentazione del luogo, ritratto sia da Giovanni Migliara, del quale Luigi Premazzi fu allievo e copista, sia dai suoi diversi imitatori. All’interno della vastissima produzione di vedute urbane milanesi, l’opera si distingue per la nitida visione di ogni dettaglio all’interno di una griglia prospettica rigorosa, della quale si intravedono alcune tracce a matita al di sotto della stesura pittorica sottile, per la resa atmosferica e luministica, e per l’impiego di poche figure isolate, così da conferire il massimo risalto all’architettura. Nel cono d’ombra in primo piano l’artista colloca un gruppo di personaggi in abiti borghesi, ritratti con fedeltà documentaria ai costumi dell’epoca. Tra questi un uomo che con un ampio gesto della mano indica ad una coppia la facciata dell’Ospedale Maggiore, svelando la finalità di questa veduta prospettica, forse destinata a un colto pubblico di turisti, o probabilmente alla riproduzione seriale per l’industria tipografica, con la quale Premazzi collaborò fin dai suoi esordi negli anni Trenta.
- 65. Carlo Canella, Veduta della chiesa di Santa Maria della Pace in Milano, 1852-1855
L’artista impagina la veduta prospettica della chiesa quattrocentesca di S. Maria della Pace a Milano impiegando un punto di vista decentrato e un chiaroscuro dai decisi contrasti di ombra e luce, caratteristici della sua produzione pittorica matura. Il popolo minuto impegnato in varie attività si raccoglie nello spiazzo antistante la chiesa, descritta in tutti i dettagli dell’architettura con precisione documentaria. Un uomo a cavallo si addentra nella strada che corre lungo il fianco dell’edificio, mentre sul fondo due figurette in controluce procedono verso lo spazio luminoso, appena accennato in lontananza, con un abile artificio per conferire profondità prospettica alla scena. Il dipinto è accostabile alla veduta della Chiesa di S. Fermo a Verona del 1838 (Milano, Galleria d’Arte Moderna), con il quale condivide il caldo cromatismo e l’impaginazione prospettica, ripetutamente adottati dall’artista nella rappresentazione di diversi edifici religiosi. L’opera rivela un’approfondita conoscenza del repertorio di Giovanni Migliara, ma aggiornato sulle opere del celebre fratello dell’artista, Giuseppe Canella. Da quest’ultimo derivano la resa naturalistica e atmosferica del cielo e dei passaggi chiaroscurali. Domiciliato in Milano fin dal 1842, Carlo Canella fissò la propria abitazione non lontano dal luogo rappresentato, al n. 81 di Largo di Porta Tosa, come riferisce il cartellino sul retro dell’opera e come documentano dal 1850 i cataloghi delle Esposizioni di Belle Arti di Brera. Partecipò con continuità alle rassegne espositive milanesi presentando un ricco repertorio di vedute di città italiane, ritratti e interni, nel quale la cattedrale cittadina occupò un posto di rilievo, come documenta il Duomo di Milano e la Corsia dei Servi in Collezione.
- 66. Angelo Trezzini, La passeggiata del giovedì (Il Fopponino), 1869
Il dipinto, intitolato La passeggiata del giovedì, fu accolto con uno scarso interesse di critica all’Esposizione di Belle Arti di Brera del 1869, dove fu presentato da Angelo Trezzini insieme con una tela rappresentante una figura femminile in riva al mare. La scena è ambientata all’ingresso del complesso del Fopponino (dal milanese «foppa», fossa) di Porta Vercellina, costituito dall’antico cimitero suburbano istituito in occasione della pestilenza del 1630, dalla chiesa e dall’oratorio. La fila vivace e disordinata dei bambini all’uscita della scuola parrocchiale, dove le classi meno abbienti ricevevano i rudimenti dell’istruzione occupa il centro della composizione. Con gusto aneddotico, caratteristico della pittura di genere, Trezzini mette in scena diversi episodi: dal curato, verosimilmente anche maestro di scuola, che sullo sfondo si sbraccia a richiamare l’attenzione dei piccoli; al gruppetto all’uscita, in primo piano, con il bambino che cerca un quaderno; fino al ragazzino, defilato sulla destra, che dispensa l’elemosina ad un’anziana. Il dipinto si inserisce nel folto gruppo di opere di Trezzini dedicate al tema dell’infanzia, ma si distingue all’interno del repertorio tradizionale dell’artista, costituito perlopiù da temi patriottici risolti sul modello di Domenico Induno, per l’attenzione riposta alla rappresentazione realistica del luogo e soprattutto per l’impiego della luce che investe la scena con un evidente intento naturalistico.
- 67. Carlo Canella, La Nuova Galleria in Milano col passeggio notturno, 1870
- 68. Angelo Inganni, Veduta di Piazza della Scala con neve cadente vista dalla Galleria, 1874
- 69. Arturo Ferrari, La chiesa di Santo Stefano in Borgogna, 1896
Nel 1893 Arturo Ferrari partecipa all’Esposizione Straordinaria Nazionale e Internazionale di acquarelli presso la Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente a Milano, dove riporta una medaglia d’argento per l’opera intitolata S. Stefano in Borgogna. Nella stessa occasione è premiato anche l’acquerello del pittore ticinese Luigi Rossi, Dolore e Curiosità, studio per il grande dipinto La Scuola del Dolore, in Collezione. Forse proprio il successo riportato alla mostra favorì, nel 1896, la traduzione ad olio del soggetto in Collezione che propone la veduta prospettica della chiesa medievale di Santo Stefano, ricostruita in forme barocche al tempo di San Carlo Borromeo. Muovendo dallo studio dal vero del luogo, fermato in un delicato acquerello attualmente al Museo di Milano, il pittore ricostruisce l’aspetto dell’edificio prima che fosse sconsacrato e trasformato in un deposito di legname, attorno alla metà degli anni Sessanta. Non si tratta, quindi, di una veduta contemporanea ma di una ricostruzione storica del luogo, all’epoca durante la quale era ancora frequentato dai fedeli, come si evince dalla presenza della figura femminile in nero con il breviario tra le mani che sembra essere appena uscita dal portone aperto, e dall’altra, velata in procinto di varcarne la soglia, e che collocano l’episodio ad almeno trent’anni prima dell’esecuzione dell’opera. Sembrerebbe riconducibile al 1866 anche l’inserzione nel dipinto della bandiera tricolore, esposta al balcone del palazzo in primo piano, verosimilmente sull’onda dell’entusiasmo popolare per la vittoria dell’esercito d’Italia nella Terza guerra d’Indipendenza. L’esecuzione dell’opera, datata 1896, si inserisce quindi nel clima politico dell’epoca, impegnato nella commemorazione dei trent’anni di quella data fondamentale nel compimento del processo di unificazione nazionale. Oltre ai richiami patriottici, l’opera risponde alle richieste del pubblico borghese di una pittura facile e piacevole. Il pittore realizza così uno scorcio caratteristico della città di Milano, destinato a scomparire in seguito alle riqualificazioni urbanistiche realizzate nel corso degli anni Trenta del Novecento, adottando un taglio fotografico ma attenendosi alla vivace tecnica descrittiva che gli aveva garantito un indiscusso successo di pubblico. Questa capacità di restituire con rigore filologico e ricchezza di particolari luoghi e fatti del passato, spesso affiancati da scene di genere interpretate con vivo realismo, costituiva il tratto distintivo della pittura di Ferrari, artefice anche di ricostruzioni di gusto neosettecentesco, come Cortile quattrocentesco a Castiglione Olona, in Collezione; oltre che delle più caratteristiche vedute della “vecchia Milano” che scompariva lasciando il posto alla metropoli moderna, come nel suo riconosciuto capolavoro, Nella vecchia via, in Collezione.
- 70. Arturo Ferrari, Piazza Vetra a Milano, 1890-1900
- 71. Luigi Rossi, Una via di Milano, 1881
Alla sua apparizione all’Esposizione Nazionale di Milano del 1881, l’opera riscosse immediatamente il favore della critica progressista che ne riconobbe l’esplicita connotazione sociale. L’artista, che negli anni della formazione esplora la pittura di genere, in questo dipinto descrive uno spaccato di vita moderna. Un’affollatissima via del quartiere popolare di Porta Ticinese, si anima di bambini chiassosi, anziane governanti, carrozze e passanti, mentre in primo piano un elegante signore, in cerca di svago, si accosta ad una giovane donna del popolo. Una ragazzina miseramente vestita osserva la scena stupita e - secondo i più attenti commentatori dell’epoca - con gli occhi spalancati d’invidia. L’artista impiega una condotta pittorica abbreviata e un caldo cromatismo sul quale risaltano stridenti le tonalità del verde e del giallo, mentre la distribuzione ritmica dei rossi scandisce il digradare dei piani prospettici nel movimento frenetico della vita cittadina. Ne deriva un’immagine dal tono solo apparentemente garbato e piacevole, smentito dall’episodio in primo piano che coinvolge lo spettatore, anche per l’inquadratura ravvicinata e le notevoli dimensioni della tela.
- 72. Arturo Ferrari, Nella vecchia via (Il vicolo di San Bernardino alle ossa a Milano), 1912
- 73.Pierre Henry Theodor Tetar van Elven, Il Duomo di Milano visto dalla corsia dei Servi, 1901
- 74. Federico Moja, Interno della cappella del Rosario nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia
- 75. Vincenzo Abbati, Veduta del monumento sepolcrale a Paolo Savelli nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, 1857
- 75. Vincenzo Abbati, Veduta del monumento sepolcrale a Paolo Savelli nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, 1857
L’opera, datata 1857 ed eseguita probabilmente per l’esposizione annuale della Regia Accademia di Belle Arti di Venezia o per l’analoga manifestazione del Regio Istituto di Belle Arti di Napoli, raffigura il transetto destro della chiesa veneziana di S. Maria Gloriosa dei Frari. Il pittore riporta sulla tela con attenzione calligrafica tutti gli elementi architettonici e scultorei e, tra questi, il monumento equestre al condottiero Paolo Savelli collocato a sinistra del portale della sagrestia. La veduta prospettica d’interni, qui animata da gruppi di figure in preghiera, rappresenta un genere privilegiato nella produzione dell’artista fin dai suoi esordi all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Le opere di Abbati sono presto notate da Francesco I di Borbone e nel 1833 egli diviene pittore di corte della figlia Carolina, meglio conosciuta come duchessa di Berry, al seguito della quale, nel 1844, lascia la città partenopea per trasferirsi a Venezia. Qui partecipa per la prima volta all’esposizione dell’Accademia di Belle Arti presentando il dipinto Interno della cappella Minutolo del Duomo di Napoli (1844, Treviso, Museo Civico Luigi Bailo) dove troviamo una composizione e un taglio prospettico simili a quelli del dipinto in Collezione. Negli anni seguenti Abbati alterna alle vedute dei monumenti partenopei gli interni dei luoghi di culto veneziani e la medesima chiesa raffigurata in questa Veduta è scelta come soggetto per il dipinto Interno della chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari in Venezia esposto a Napoli nel 1862, alcuni anni dopo il suo rientro da Venezia.
- 76. Luigi Premazzi, Veduta della parte laterale del Duomo di Como, 1842
77. Fausto Antonioli Veduta della piazza Contarena di Udine
- Deutsch: Blick auf die Piazza Contarena (heute: Piazza Libertà) in Udine
- English: Square in Udine – View of a Square in Udine – View of Piazza Contarena in Udine
- Data 1856
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 57.5 cm. Larghezza: 46 cm.
Descrizione
Il dipinto, racchiuso nella sua cornice originale dorata con inserti in velluto, è stato acquisito nel 1991, insieme con la Collezione dell’Istituto Bancario Italiano (IBI).
L’anno precedente all’esecuzione dell’opera, datata 1856, Fausto Antonioli, paesaggista e ritrattista attivo a Udine fin dal 1850, aveva ottenuto il giudizio positivo della critica locale presentando all’esposizione friulana di Arti Belle e Meccaniche uno scorcio della piazza Contarena (ubicazione sconosciuta), eseguito su commissione di Francesco Verzegnassi, commerciante udinese di seta, sodale di Ippolito Nievo e sostenitore della preparazione clandestina alla lotta contro l'Austria.
Una stretta corrispondenza stilistica, oltre che tematica, lega il dipinto in Collezione a quest’opera, descritta dalla pubblicistica dell’epoca come una veduta di piccole dimensioni, contraddistinta da un solido impianto prospettico e dall’impiego di un deciso contrasto chiaroscurale. Il quadro, infatti, restituisce una visione nitida e dettagliata della principale piazza cittadina, popolata da macchiette in abiti contemporanei. Il luogo ha cambiato denominazione più volte nei secoli: nel medioevo era nota come la piazza del Vino, in seguito del Comune e, poi, con l’arrivo dei Veneziani nel XVI secolo assunse il nome di uno dei luogotenenti dell’esercito divenendo piazza Contarena. Dopo l’Unificazione, nel 1866, la piazza fu intitolata a Vittorio Emanuele II; mantenne questo nome fino alla Liberazione, quando assunse l’attuale denominazione di piazza della Libertà. In questa veduta Antonioli adotta un punto di vista che privilegia la quattrocentesca Loggia del Lionello, in primissimo piano a destra, la Loggia di San Giovanni, la Torre dell’orologio e la colonna con la Statua della Giustizia; mentre a sinistra, in disparte, è ritratta la Statua della Pace, opera dello scultore Giovan Battista Comolli, donata dall’imperatore Francesco I alla città di Udine a ricordo della Pace di Campoformido. La restituzione puntuale dell’architettura del luogo si arricchisce di numerosi indizi della vita cittadina e del clima politico dell’epoca: sull’edificio di destra un’affissione – in italiano e in tedesco - indica la presenza dell’Imperial Regio Comando Militare di Piazza austriaco mentre, sul lato opposto, una locandina teatrale annuncia la rappresentazione al teatro Minerva de “L’Ultimo Giorno di Suli”, opera lirica ispirata alla guerra greco-turca, già messa in scena in altre città italiane e rappresentata a Torino nel 1863.
Il racconto della resistenza di Suli, ultima città greca a capitolare contro l’invasione turca, nascondeva un richiamo ai valori patriottici e trovava a Udine, in particolare, una stretta corrispondenza con l’insurrezione antiasburgica della primavera del 1848, quando la città guidata da un governo provvisorio aveva respinto l’esercito austriaco. La piazza diviene così un luogo simbolo della città durante il Risorgimento, non a caso nuovamente ritratta da Antonioli in un altro dipinto dell’autunno del 1866 che, forse, rappresenta la prima veduta di Udine italiana, dopo l’ingresso delle truppe garibaldine, il 26 luglio 1866, allorché la città venne a far parte dello Stato italiano, a conclusione della terza guerra d’indipendenza (Veduta della Piazza Contarena di Udine, Udine, Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte).
La precisione lenticolare nella descrizione delle architetture e il taglio dell’inquadratura adottati nelle diverse redazioni del tema sembrerebbero riconducibili all’impiego di modelli fotografici, forse noti all’artista per il tramite del conte Augusto Gabriele Agricola, tra i primi sperimentatori della tecnica fotografica in Friuli. Il legame di amicizia tra questi due protagonisti della vita culturale cittadina è attestato anche dal ritratto fotografico del pittore e dal Ritratto del Conte Agricola (Udine, Civici Musei), eseguito ad olio da Antonioli nel 1857, in seguito alla scomparsa dell’amico.
- 78. Luigi Querena, Processione all'interno del Colosseo, 1870
l’opera è datata 1870 ed appartiene alla tarda produzione dell’artista. Il soggetto romano, sebbene non frequente, è presente almeno in un’altra opera, Foro romano (1868, Venezia, Palazzo Papafava Tasca) che, come le altre vedute raffiguranti Venezia, Genova e Napoli, testimonia il gusto per gli ampi scorci panoramici derivato dalla lezione di Ippolito Caffi che proprio a Roma soggiornò a lungo, dal 1832 al 1848. In Processione all’interno del Colosseo Querena riprende il tema romantico delle rovine antiche ma lo interpreta in chiave più moderna ambientandovi un brano di vita popolare, soluzione iconografica adottata in molte altre opere dove i luoghi tradizionali della pittura di paesaggio fanno da sfondo a episodi storici oppure a scene tratte dalla vita contemporanea, come nella celebre serie di vedute veneziane dedicate agli eventi bellici del 1848-1849 (Venezia, Museo Correr) ai quali il pittore stesso partecipò. La consuetudine di svolgere riti religiosi nell’Anfiteatro Flavio, più comunemente noto come Colosseo, risale alla metà del XVIII secolo quando papa Benedetto XIV lo consacrò alla Passione di Cristo e vi fece costruire le stazioni della via crucis; nel secolo successivo il monumento fu interessato da diversi interventi di restauro con i quali si liberò l’arena portando alla luce negli anni Settanta le strutture sotterranee. Il dipinto raffigura lo stadio precedente a questi ultimi lavori essendo l’arena ancora coperta e ingombra di resti antichi. La composizione, incentrata sulla monumentalità del Colosseo, è scandita dal contrasto creato tra l’ombra in primo piano, dove si svolge la processione, e la luminosità del cielo nella parte superiore della tela, dove l’arte di Querena mostra i propri debiti con la pittura veneziana settecentesca.