Gallerie di piazza Scala/III
Sezione III
Giovanni Migliara e il fascino pittoresco degli antichi monumenti. Molteni, Ronzoni, Piccio, Inganni protagonisti del Romanticismo lombardo (Sale 6 e 7)
Sono presenti 22 opere, prevalentemente realizzate da Giovanni Migliara.
La sezione inizia con il ritratto di Giovanni Migliara eseguito da Giuseppe Molteni
Giuseppe Molteni (1800–1867) Ritratto del pittore Giovanni Migliara seduto davanti al suo cavalletto
- Data 1829
- Tecnica/materiale matita e carboncino su carta su tela
- Dimensioni Altezza: 52.2 cm. Larghezza: 43.2 cm.
Si tratta di una replica autografa a carboncino del Ritratto di Giovanni Migliara seduto davanti al suo cavalletto (Parma, Galleria Nazionale), eseguito da Giuseppe Molteni nel 1829. In quello stesso anno la tela fu presentata alla Galleria Ducale di Parma e all’Esposizione di Belle Arti di Brera, immediatamente riprodotta in incisione da Antonio Lanzani, e infine nuovamente inviata a Parma, come dono dell’autore in occasione della sua nomina ad accademico d’onore.
Con ogni probabilità, Molteni realizzò questa seconda versione in seguito alla cessione del ritratto a olio. Infatti, per l’accuratezza dell’immagine, rifinita in ogni minimo dettaglio, e per gli inserti di biacca che creano ricercati effetti di luce, il disegno sembra rientrare nella produzione di opere d’apres a pastello o a carboncino, ricavate dai propri dipinti più celebri. Va comunque segnalato che, al momento dell’ingresso in Collezione il disegno si presentava lacunoso e gravemente deteriorato da ampie lacerazioni della carta; il restauro condotto nel 1992 dallo studio Giovanni Rossi gli ha restituito la completa leggibilità, rivelandone una carta già all’origine tesa su telaio, in fase di restauro controfondata, integrata a neutro e ritesa sul telaio originale. Il ritratto restituisce l’immagine professionale di Giovanni Migliara, all’epoca affermato pittore prospettico, mentre posa con l’abito e il cappello da pittore calcato sulla testa e mostra con orgoglio la tavolozza dei colori. La veduta notturna sul cavalletto fornisce una precisa connotazione della sua produzione che proprio alla fine degli anni Venti si distingue per i suggestivi effetti di luce notturna, tra i quali anche la Scena veneziana in Collezione. L’opera si inserisce in una piccola serie di ritratti di artisti contemporanei vicini all’autore, come Marco Gozzi e Vitale Sala, realizzati agli esordi della sua attività di ritrattista. Inoltre, Molteni e Migliara erano stati effigiati, insieme al poeta Tommaso Grossi e al pittore Pelagio Palagi, nel celebre Autoritratto di Francesco Hayez (Milano, Museo Poldi Pezzoli), suggestiva testimonianza della complice amicizia e affinità intellettuale che legavano tra loro i protagonisti della Milano romantica, ma soprattutto vera e propria affermazione sociale dello status d’artista
Giovanni Migliara (1785–1837) Capriccio veneziano
- English: Venice – Small Square with Church and Canal – View of a Small Square in Venice
- Data tra il 1812 e il 1815
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 29 cm. Larghezza: 39 cm.
- Numero d'inventario AH01508AFC
Descrizione
Il dipinto riporta sul telaio un’etichetta riferibile alla Mostra Commemorativa dedicata a Giovanni Migliara ordinata presso la Pinacoteca Civica di Alessandria nel 1937, quando fu presentato per la prima volta un consistente nucleo dei dipinti rappresentativi dell’artista, provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private italiane. Il catalogo dell’esposizione, tuttavia, non menziona quest’opera, bensì una replica di proprietà dell’Accademia Carrara di Bergamo intitolata Chiesa Veneta, che conserva tutt’oggi l’etichetta originale della mostra del 1937, completa del numero con il quale risultava esposta (n. 1, sez. IV). A un esame ravvicinato, i due dipinti appaiono pressoché identici nel formato e nel soggetto, ed entrambi risultano eseguiti a olio su carta riportato su tela. Questa particolare tecnica pittorica non solo facilita la riproduzione seriale dei soggetti, ma permette di raggiungere effetti di eccezionale brillantezza e levigatezza: una pittura smaltata a imitazione delle miniature di gusto neofiammingo diffuse a Milano nel primo decennio dell’Ottocento dai maestri francesi.
L’opera raffigura una veduta d’invenzione alla veneziana, ispirata alla tradizione settecentesca dei capricci, che combinano liberamente elementi di fantasia e architetture reali, spesso catturando in un’unica veduta d’insieme i principali monumenti italiani di ogni epoca. Migliara rinnova questo genere pittorico abbandonando l’ampia visione per piani paralleli di matrice settecentesca, mettendo a frutto gli studi scenografici condotti sotto la guida di Gaspare Galliari (1760-1818). Come in un fondale teatrale, gli edifici in primo piano in controluce aprono sulla chiesa in evidenza, lasciando intravedere i monumenti che sfumano in lontananza sul canale.
Qui il dato di partenza è costituito dall’acquaforte di Antonio Canal, detto il Canaletto, raffigurante la Veduta fantastica con San Giacometto di Rialto, già replicata da Migliara in un dipinto con lo stesso titolo (Venezia, Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro). Nell’opera in Collezione, tuttavia, l’artista recupera soltanto qualche dettaglio dalla celebre incisione canalettiana, come il portico, il tetto a capanna, il colonnato e il timpano che caratterizzano la facciata dell’edificio, sul quale si innestano anche elementi lombardi. Il motivo dei medaglioni scolpiti sull’alto zoccolo in marmo bianco ricorre con frequenza nelle opere della prima metà degli anni Dieci, liberamente reimpiegato sia per le vedute veneziane, sia per i primi scorci milanesi che figurano all’Esposizione di Belle Arti di Brera fin dal 1812, in occasione dell’esordio ufficiale del pittore.
Oltre alla già citata versione dell’Accademia Carrara, si conoscono altre due versioni del dipinto in Collezione: la Prospettiva con macchiette (già di proprietà del conte Guido Barbiano di Belgiojoso di Milano) che figurava alla mostra La pittura lombarda nel secolo XIX, allestita presso la Società delle Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano nel 1900, e una riproduzione parziale del soggetto, ricordata nella monografia sull’artista di Arturo Mensi, edita del 1937, come di proprietà dell’avvocato Carlo Rossi di Milano.
L’esecuzione di numerose copie autografe dell’opera e di parziali riproduzioni del soggetto conferma la duratura fortuna goduta dai temi di ispirazione veneziana presso i maggiori collezionisti milanesi, che fin dalla metà del Settecento vantavano nelle loro raccolte opere di Canaletto e Bernardo Bellotto. All’aprirsi del secolo successivo Giovanni Migliara si fa interprete dell’ampia divulgazione di questi soggetti attraverso copie e opere d’invenzione destinate ancora all’aristocrazia, ma soprattutto alla media borghesia, che gradiva la facile reperibilità sul mercato e i prezzi contenuti, sostenuti da una produzione seriale.
Giovanni Migliara (1785–1837) Capriccio veneziano
- English: Venice – Small Square with Church and Canal – View of a Small Square in Venice
- Data tra il 1812 e il 1815
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 29 cm. Larghezza: 39 cm.
- Numero d'inventario AH01508AFC
Descrizione Il dipinto riporta sul telaio un’etichetta riferibile alla Mostra Commemorativa dedicata a Giovanni Migliara ordinata presso la Pinacoteca Civica di Alessandria nel 1937, quando fu presentato per la prima volta un consistente nucleo dei dipinti rappresentativi dell’artista, provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private italiane. Il catalogo dell’esposizione, tuttavia, non menziona quest’opera, bensì una replica di proprietà dell’Accademia Carrara di Bergamo intitolata Chiesa Veneta, che conserva tutt’oggi l’etichetta originale della mostra del 1937, completa del numero con il quale risultava esposta (n. 1, sez. IV). A un esame ravvicinato, i due dipinti appaiono pressoché identici nel formato e nel soggetto, ed entrambi risultano eseguiti a olio su carta riportato su tela. Questa particolare tecnica pittorica non solo facilita la riproduzione seriale dei soggetti, ma permette di raggiungere effetti di eccezionale brillantezza e levigatezza: una pittura smaltata a imitazione delle miniature di gusto neofiammingo diffuse a Milano nel primo decennio dell’Ottocento dai maestri francesi.
L’opera raffigura una veduta d’invenzione alla veneziana, ispirata alla tradizione settecentesca dei capricci, che combinano liberamente elementi di fantasia e architetture reali, spesso catturando in un’unica veduta d’insieme i principali monumenti italiani di ogni epoca. Migliara rinnova questo genere pittorico abbandonando l’ampia visione per piani paralleli di matrice settecentesca, mettendo a frutto gli studi scenografici condotti sotto la guida di Gaspare Galliari (1760-1818). Come in un fondale teatrale, gli edifici in primo piano in controluce aprono sulla chiesa in evidenza, lasciando intravedere i monumenti che sfumano in lontananza sul canale.
Qui il dato di partenza è costituito dall’acquaforte di Antonio Canal, detto il Canaletto, raffigurante la Veduta fantastica con San Giacometto di Rialto, già replicata da Migliara in un dipinto con lo stesso titolo (Venezia, Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro). Nell’opera in Collezione, tuttavia, l’artista recupera soltanto qualche dettaglio dalla celebre incisione canalettiana, come il portico, il tetto a capanna, il colonnato e il timpano che caratterizzano la facciata dell’edificio, sul quale si innestano anche elementi lombardi. Il motivo dei medaglioni scolpiti sull’alto zoccolo in marmo bianco ricorre con frequenza nelle opere della prima metà degli anni Dieci, liberamente reimpiegato sia per le vedute veneziane, sia per i primi scorci milanesi che figurano all’Esposizione di Belle Arti di Brera fin dal 1812, in occasione dell’esordio ufficiale del pittore.
Oltre alla già citata versione dell’Accademia Carrara, si conoscono altre due versioni del dipinto in Collezione: la Prospettiva con macchiette (già di proprietà del conte Guido Barbiano di Belgiojoso di Milano) che figurava alla mostra La pittura lombarda nel secolo XIX, allestita presso la Società delle Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano nel 1900, e una riproduzione parziale del soggetto, ricordata nella monografia sull’artista di Arturo Mensi, edita del 1937, come di proprietà dell’avvocato Carlo Rossi di Milano.
L’esecuzione di numerose copie autografe dell’opera e di parziali riproduzioni del soggetto conferma la duratura fortuna goduta dai temi di ispirazione veneziana presso i maggiori collezionisti milanesi, che fin dalla metà del Settecento vantavano nelle loro raccolte opere di Canaletto e Bernardo Bellotto. All’aprirsi del secolo successivo Giovanni Migliara si fa interprete dell’ampia divulgazione di questi soggetti attraverso copie e opere d’invenzione destinate ancora all’aristocrazia, ma soprattutto alla media borghesia, che gradiva la facile reperibilità sul mercato e i prezzi contenuti, sostenuti da una produzione seriale.
21. Giovanni Migliara (1785–1837) Veduta di Palazzo Ducale a Venezia
- Data 1815
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 34.7 cm. Larghezza: 45 cm.
Il dipinto che raffigura la Piazzetta con il Palazzo Ducale di Venezia e l’isola di San Giorgio Maggiore in lontananza, ricalca l’acquaforte di Antonio Canal, detto Canaletto, intitolata “La Piera del Bando”. Così era chiamato il tronco di colonna in porfido della Piazzetta da dove erano annunciate le leggi, trasportato dalla Siria nel 1256 in seguito ad una vittoria militare dei Veneziani contro i Genovesi. Allo spirito settecentesco dei suoi modelli, caratterizzati da una visione nitida fin nei minimi dettagli e da una prospettiva aperta, Migliara – che fu aiuto scenografo di Gaspare Galliari –, sovrappone un’impostazione scenica teatrale, introducendo a destra un frammento della Biblioteca Marciana. In questo modo gli scorci degli edifici in primo piano e in controluce sono impiegati come quinte per la scena che si svolge davanti a Palazzo Ducale nella piazza affollata di macchiette in costume settecentesco, con l’isolotto che sfuma indefinito in lontananza come sfondo. La straordinaria fortuna delle vedute veneziane di Migliara è attestata dalle numerose versioni realizzate fin dagli anni Dieci, dapprima con inserti di fantasia – come nella Veduta di una piazzetta a Venezia in Collezione –, adottando una particolare sensibilità atmosferica e una resa realistica nei personaggi nel corso del terzo e quarto decennio del secolo. Le opere di Canaletto erano note all’artista per il tramite delle sue acqueforti autografe e dell’album di incisioni di Antonio Visentini, edito nel 1735 ma ristampato più volte nel corso dell’Ottocento. Da questo repertorio Migliara ricava i propri modelli oltre che per l’opera in Collezione, anche per numerosi altri dipinti, tra i quali La chiesa della salute a Venezia (Bassano del Grappa, Museo Civico), o La piazza dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia del 1828, ricordata nella raccolta Peloso di Novi Ligure. Anche in seguito ai suoi soggiorni a veneziani, non datati ma riferibili agli anni tra il 1827 e il 1835, durante i quali raccoglie numerosi studi dal vero, Migliara rimarrà sempre fortemente legato al suo modello, forse anche per soddisfare le richieste della committenza. Il soggetto dell’opera in Collezione, infatti, fu riproposto all’Esposizione di Belle Arti di Brera del 1835, dove figurava La Piazzetta di Venezia col prospetto dell’isola di San Giorgio, allora di proprietà del conte Kollowrat, rivale politico del principe Metternich alla corte di Vienna, e, infine, nella grande e magistrale tela del 1837, incompiuta per la prematura scomparsa dell’artista, intitolata Piazza San Marco a Venezia dopo un temporale (Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia). Il dipinto che raffigura la Piazzetta con il Palazzo Ducale di Venezia e l’isola di San Giorgio Maggiore in lontananza, ricalca l’acquaforte di Antonio Canal, detto Canaletto, intitolata “La Piera del Bando”. Così era chiamato il tronco di colonna in porfido della Piazzetta da dove erano annunciate le leggi, trasportato dalla Siria nel 1256 in seguito ad una vittoria militare dei Veneziani contro i Genovesi. Allo spirito settecentesco dei suoi modelli, caratterizzati da una visione nitida fin nei minimi dettagli e da una prospettiva aperta, Migliara – che fu aiuto scenografo di Gaspare Galliari –, sovrappone un’impostazione scenica teatrale, introducendo a destra un frammento della Biblioteca Marciana. In questo modo gli scorci degli edifici in primo piano e in controluce sono impiegati come quinte per la scena che si svolge davanti a Palazzo Ducale nella piazza affollata di macchiette in costume settecentesco, con l’isolotto che sfuma indefinito in lontananza come sfondo. La straordinaria fortuna delle vedute veneziane di Migliara è attestata dalle numerose versioni realizzate fin dagli anni Dieci, dapprima con inserti di fantasia – come nella Veduta di una piazzetta a Venezia in Collezione –, adottando una particolare sensibilità atmosferica e una resa realistica nei personaggi nel corso del terzo e quarto decennio del secolo. Le opere di Canaletto erano note all’artista per il tramite delle sue acqueforti autografe e dell’album di incisioni di Antonio Visentini, edito nel 1735 ma ristampato più volte nel corso dell’Ottocento. Da questo repertorio Migliara ricava i propri modelli oltre che per l’opera in Collezione, anche per numerosi altri dipinti, tra i quali La chiesa della salute a Venezia (Bassano del Grappa, Museo Civico), o La piazza dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia del 1828, ricordata nella raccolta Peloso di Novi Ligure. Anche in seguito ai suoi soggiorni a veneziani, non datati ma riferibili agli anni tra il 1827 e il 1835, durante i quali raccoglie numerosi studi dal vero, Migliara rimarrà sempre fortemente legato al suo modello, forse anche per soddisfare le richieste della committenza. Il soggetto dell’opera in Collezione, infatti, fu riproposto all’Esposizione di Belle Arti di Brera del 1835, dove figurava La Piazzetta di Venezia col prospetto dell’isola di San Giorgio, allora di proprietà del conte Kollowrat, rivale politico del principe Metternich alla corte di Vienna, e, infine, nella grande e magistrale tela del 1837, incompiuta per la prematura scomparsa dell’artista, intitolata Piazza San Marco a Venezia dopo un temporale (Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia).
22. Giovanni Migliara (1785–1837) Veduta dei dintorni di Lecco
- Data tra il 1815 e il 1820
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 44.3 cm. Larghezza: 59.5 cm.
Il dipinto, riferibile alla seconda metà degli anni Dieci, ritrae una veduta campestre, in un luogo non identificato, impiegando un taglio compositivo in seguito replicato più volte nel repertorio di Migliara. L’ampia scena, con il primo piano parzialmente in ombra, in modo da enfatizzare l’effetto di profondità prospettica, è costruita combinando un paesaggio reale con elementi di fantasia con un gusto descrittivo di derivazione fiamminga. La narrazione si svolge da un dettaglio all’altro, attraverso la moltiplicazione dei piani prospettici: dalle antiche mura con la fontana dove si abbevera il cane, alla colonna, al mulino, alle lavandaie, fino alla fila dei cavalli che dal fiume si snoda attraverso la strada fin sopra al ponte in lontananza. Il tema campestre fu affrontato ripetutamente da Migliara, spesso con una connotazione pittoresca, da scena di genere, in dipinti con feste popolari, processioni, fiere di cavalli destinati a godere del consenso del pubblico e di una notevole fortuna iconografica.
23. Giovanni Migliara (1785–1837) Il ritorno dei Padri Cappuccini nel convento dopo la cerca con la provisione invernale
- Data tra il 1825 e il 1830
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 46.8 cm. Larghezza: 38.8 cm.
L’arrivo del carro con l’iscrizione «Provagione per l’inverno» che trasporta alcune popolane, insieme con le provviste, diventa il pretesto per l’artista per rappresentare una divertente scenetta all’ingresso di un convento. Un frate si precipita dalla scalinata della chiesa, un altro in primo piano fa cenno di tenere il segreto ad un confratello, mentre al centro, accanto al carro, altri due esultano fino al punto di perdere un sandalo. Sotto l’arco di ingresso un frate panciuto si sofferma a guardare con attenzione la scena mentre il suo vicino suona la campanella. In tutta fretta viene spalancato il portone di accesso al cortile, sul quale si affaccia una figuretta dal loggiato superiore che allarga le braccia in segno di soddisfazione alla vista dell’arrivo degli approvvigionamenti invernali di cibo e di fanciulle. All’ingresso del luogo si trova l’ammonimento «MEMENTO MORI» (“Ricordati che devi morire”) motto dell’ordine mendicante e claustrale dei trappisti: questo severo richiamo a condurre una vita di ascesi e di distacco dalle cose terrene ed effimere si traduce, in questo caso, in un aperto invito a godere del presente. La scena divertente e beffarda si inscrive nell’ampia produzione dell’artista connotata da accenti anticlericali, talvolta tradotti in una critica pungente, più spesso, come in questo caso, interpretati in chiave di pittura di genere con bonaria e indulgente ironia. Qui la chiesa e il convento sono racchiusi in un’atmosfera serena e avvolgente, che Giovanni Migliara realizza modulando il contrasto tra l’ampia zona in ombra con la vegetazione in primo piano e il paesaggio montuoso contro il cielo terso e limpido. La veduta, certamente ripresa dal vero, e in seguito integrata con elementi di fantasia, secondo una prassi abitualmente adottata dall’artista, potrebbe rappresentare un luogo della campagna lombarda, spesso catturata da Migliara nei suoi taccuini di viaggio. Si conosce una copia di dimensioni minori del dipinto in Collezione eseguito da Teodolinda Sabajno Migliara, figlia e allieva dell’artista, attualmente conservato presso i Civici Musei di Alessandria. La riproduzione proviene da un importante nucleo di opere eseguite da Giovanni e Teodolinda Migliara, donato nel 1854 al Municipio di Alessandria dal notaio Antonio Maria Viecha, amico e mecenate del pittore. Nell’elenco allegato alla lettera di donazione è segnalato anche il titolo antico del quadro, Il ritorno dei Padri cappuccini nel Convento dopo la cerca con la provisione invernale. Questa seconda versione differisce dall’originale sia per la modesta qualità pittorica, sia per la scelta della pittrice di sostituire le popolane nel carro con le provviste di cibo, stemperando così il carattere dissacratorio e licenzioso della versione originale. Teodolinda Migliara aveva riscosso un discreto successo e importanti commissioni grazie alle sue assidue presenze alle Esposizioni di Belle Arti di Brera nel corso degli anni trenta dell’Ottocento, con un repertorio di vedute prospettiche strettamente dipendenti dai modi e dai soggetti paterni, come dimostra anche l’Interno della basilica di San Lorenzo a Milano, in Collezione. La consuetudine di realizzare copie dei dipinti più celebri dell’artista, infine, era favorita dallo stesso Migliara come esercizio per gli alunni che frequentavano la sua scuola privata e che spesso esordivano alle esposizioni ufficiali proprio con queste repliche.
24. Giovanni Migliara (1785–1837) Paesaggio con cavalli
- English: Landscape with Horses – View with Horses
La sosta di un gruppo di soldati presso l’officina di un maniscalco è tradotta da Giovanni Migliara in una divertente scena di genere: al comando imperioso del dragone della guardia reale in alta uniforme due popolani conducono con forza un cavallo bianco per la ferratura, mentre il suo padrone, l’ufficiale in primo piano, è impegnato a corteggiare la locandiera, a tal punto da non accorgersi dei due bambini proprio lì accanto che, per gioco, stanno sfilando la sua preziosa spada dal fodero. Alle spalle della coppia un soldato semplice è in attesa, mentre un altro ha già ripreso il cammino e si allontana solitario attraversando il porticato rustico verso la campagna. Nell’oscurità del primo piano tra le galline, tratteggiate a rapidi e coloratissimi colpi di pennello, sono disposti vasi, strumenti agricoli e persino un’affissione sulla colonna dove compare la firma abbreviata dell’artista. Lo studio per le figure dei soldati riferibile agli anni 1815-1816, conservato presso i Civici Musei di Alessandria, la ricca e corposa stesura pittorica e l’ambientazione rustica della scena collocano l’opera alla seconda metà degli anni Dieci. Il dipinto è in stretta corrispondenza con la prima scena denominata “a imitazione dei Fiamminghi” presentata dall’artista all’Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1818, nella quale la critica riconosceva l’adesione alla tradizione della pittura di genere fiamminga e olandese del Seicento e del Settecento. L’artista affrontò il soggetto fino alla maturità realizzando un cospicuo repertorio di opere, tra le quali lo Sbarco di una processione in riva al lago del 1826 (Alessandria, Musei Civici), Una fiera di cavalli in un luogo campestre del 1831 (Milano, collezione privata) e la Lavanderia di un monastero di monache del 1835 (Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia). Migliara raccoglie appunti e schizzi relativi al mondo agricolo contemporaneo – cascine, rustici, animali – che confluiscono nelle numerose scene di vita popolare, molto apprezzate dal pubblico contemporaneo per i preziosi effetti di luce, per i gustosi episodi e la resa miniaturistica di ogni dettaglio. Allo studio dal vero l’artista accosta anche la consumata pratica accademica della copia e, in particolare, si serve del modello in gesso di una testa equina conservata nel suo studio per la resa anatomica dei cavalli che ricorrono sempre nella stessa posa anche in altre opere, come ad esempio ne La veduta dei dintorni di Lecco in Collezione. Le dimensioni minime e la superficie smaltata di questa tavoletta, inoltre, inducono al confronto con la parallela produzione dell’artista di verres fixés, miniature su seta applicate su vetro che riscossero il favore dei raffinati collezionisti della prima metà dell’Ottocento. Questi piccoli e lucidi quadretti apparivano come oggetti preziosi e curiosi, ideali per essere messi in mostra in studioli e cabinets, ma anche per essere montati su coperchi di scatole e tabacchiere.
25. Giovanni Migliara (1785–1837) Carlo V si ritira nel convento di San Giusto nell’Estremadura
- Data tra il 1825 e il 1830
- Tecnica/materiale olio su tela su masonite
- Dimensioni Altezza: 57 cm. Larghezza: 46.2 cm.
L’opera ritrae il ritiro di Carlo V nel convento di San Yuste nell’Estremadura nel 1556, in seguito alla sua abdicazione al trono imperiale. La riflessione morale sulla perdita del potere e sulla caducità delle cose terrene, cui sembrerebbe alludere anche la sepoltura in primissimo piano, lascia però spazio ad un’interpretazione più semplice della vicenda, declinata come episodio di genere sui numerosi esempi offerti dalla coeva pittura francese: da François Marius Granet a Henry Fradelle, fino a Pierre Revoil che ancora nel 1838 presenta al Salon parigino lo stesso tema della tela in Collezione. Come dato di partenza per la figura e il costume del sovrano Migliara impiega un antico ritratto di Carlo V, forse ispirandosi ad un’incisione, ma moltiplica i dettagli dell’abbigliamento, attenendosi a una pratica consolidata nella realizzazione dei figurini teatrali. Risale alla messa in scena teatrale, invece, la sapiente distribuzione della luce, che filtra dalla finestra aperta in alto, su cui si agita mossa dal vento una tenda rossa - unico e magistrale tocco di colore, a contrasto con la sobria cromia della tela - conferendo il massimo risalto all’incontro tra il sovrano e il priore, che avviene proprio accanto alla statua di San Giusto, patrono del luogo. Restano nell’oscurità il paggio dell’imperatore che si affaccia verso l’esterno, forse a cercare il seguito, e il frate in primo piano che si ritira in un ambiente sotterraneo; semplici comparse che però permettono il gioco di moltiplicazione degli ambienti e delle prospettive che contraddistinguono la vastissima produzione dell’artista. Il soggetto fu affrontato da Migliara in diverse versioni a partire dalla tela di grandi dimensioni di commissione del marchese Antonio Visconti presentata all’Esposizione di Belle Arti dell’Accademia di Brera nel 1828 con il titolo di L’Imperatore Carlo V che dopo aver abdicato il supremo potere in favore di suo figlio Filippo II, si ritira all’età di 57 anni nel convento di San Giusto nell’Estremadura presso i monaci dell’ordine di San Gerolamo, fino alle successive repliche in miniatura, documentate dalle fotografie attualmente conservate nella fototeca di Alessandria, provenienti dal Fondo Sartorio. Le vicende private dell’imperatore avevano ispirato anche il dipinto con Carlo V che dona il suo cane ad Andrea Doria presentato all’Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1829 e la miniatura che ritrae Carlo V tra i monaci al convento milanese di San Celso.
Giovanni Migliara (1785–1837) La Vallière visitata nel chiostro da Luigi XIV
- Data tra il 1821 e il 1825
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 29 cm. Larghezza: 21 cm.
n cospicuo nucleo di disegni preparatori per l’opera in esame, conservato presso i Musei Civici di Alessandria, permette una sicura identificazione del soggetto come Luigi XIV che visita la duchessa La Valliére nel convento di Chaillot. La Valliére, cognata e concubina di Luigi XIV, per sfuggire alle maldicenze della corte si rifugiò nel monastero parigino di Chaillot dove fu tratta dall’emissario del sovrano, il primo ministro Colbert, e ricondotta alla reggia. Questo episodio precede la decisione definitiva della duchessa di ritirarsi nel monastero carmelitano di Rue St. Jacques nel 1676, dove concluse la sua vita, dopo aver perso il favore del re. La vicenda permetteva una rievocazione romanzesca del fatto storico sul modello della pittura francese di gusto troubadour, intermedia tra pittura di storia di ispirazione medievale o rinascimentale e l’episodio di genere. Fleury Richard, il principale esponente dalla pittura troubadour, aveva affrontato il soggetto ne La Vallière carmelitè (Mosca, Museo Puskin), che figurava al Salon parigino nel 1806. Questa corrispondenza tematica non rappresenta un episodio isolato, dal momento che Migliara stabilisce ripetutamente coincidenze precise con le opere di Richard, allora diffusissime nell’ambiente artistico lionese, dalle quali ricava molti temi e persino modelli destinati a diventare caratteristici della sua produzione. Nel dipinto in Collezione, la sicura esperienza teatrale di Migliara contribuisce alla ricostruzione della scena, negli studi preparatori ambientata in uno degli spazi fra esedre e perimetro murario di San Lorenzo a Milano, poi sostituito con un interno più austero ma congeniale al racconto, caratterizzato da motivi architettonici lombardi, dall’inserzione dello scalone e dell’arco di ingresso sul fondo. Proprio grazie a questa variazione l’apparizione improvvisa del sovrano diventa un vero e proprio colpo di scena: emerge dal fondo il profilo in controluce di Luigi XIV, che in questa versione romanzesca dell’episodio si reca personalmente al convento, costringendo La Vallière a cercare rifugio tra le suore. Il soggetto aveva ispirato i travestimenti di molte feste in costume milanesi, ma ottenne una notevole diffusione, anche a livello popolare, con le rappresentazioni teatrali di un dramma ripetutamente replicate tra il 1820 e il 1827. Ed è forse proprio il mondo teatrale, cui Migliara continuò ad interessarsi anche in seguito al suo allontanamento dall’attività giovanile di scenografo, a fornire molte suggestioni per il tema, affrontato nelle miniature e in tre diverse versioni nei dipinti presentati all’esposizione di Belle Arti dell’Accademia di Brera tra il 1821 e il 1833. A L’Interno di chiostro con Luigi XIV ai piedi della Vallière del 1821, seguiva il Ritiro della duchessa Vallière del 1824, fino a La Vallière visitata da Luigi XIV del 1833. L’episodio rappresentato nell’opera in Collezione sembrerebbe coincidere con il soggetto di quest’ultimo dipinto, attualmente disperso, eseguito su commissione del signor Montenegro, console generale di Spagna a Genova, ma i caratteri stilistici rivelano strette affinità con le opere della prima metà degli anni Venti e, in particolare con Il Ritiro della duchessa Vallière (Berlino, National Galerie) del 1825.
27. Giovanni Migliara (1785–1837) Interno di un chiostro del Monastero Maggiore a Milano
- English: Convent – Milan, Interior of the Ospedale Maggiore – Interior of a Convent
- Data tra il 1820 e il 1825
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 48.8 cm. Larghezza: 61.5 cm.
Descrizione Sul telaio dell’opera è ancora parzialmente visibile un’etichetta riferibile alla Mostra Commemorativa dedicata a Giovanni Migliara, allestita presso la Pinacoteca Civica di Alessandria nel 1937, tuttavia il dipinto non è menzionato nel catalogo dell’esposizione. Nell’atto di acquisto, nel 1985, il quadro è indicato dal venditore come facente parte della medesima raccolta privata dalla quale proveniva l’importante nucleo di quindici opere di Migliara entrato in Collezione quell’anno. Tra queste anche il Prospetto della facciata del Duomo in Milano, già identificata (1999) come versione di proprietà Rizzoli, ma che, invece, figurava all’esposizione alessandrina, sebbene allo stato attuale non conservi alcuna etichetta riferibile alla mostra.
In considerazione del fatto che quest’ultimo quadro presenta le stesse dimensioni di quello in esame, si potrebbe supporre che in occasione degli interventi di restauro e foderatura precedenti all’ingresso in Collezione possa essere avvenuto per errore lo scambio dei due telai, con un conseguente trasferimento delle etichette.
Una possibile traccia per ricostruire la vicenda critica e i passaggi di proprietà dell’opera si trova nella monografia dell’artista redatta nel 1937, dove è ricordato un dipinto eseguito ad olio su tela riportata su carta, intitolato Monastero Maggiore con suore e donna con bambino, di dimensioni e tecnica corrispondenti all’opera in Collezione. L’antica iscrizione “Monastero” sulla cornice, sembrerebbe avvalorare quest’ipotesi, mentre il titolo Milano, Interno dell’Ospedale Maggiore che contrassegnava l’opera al momento della sua cessione, nel 1985, lascia supporre che nel corso degli anni sia stato svisato anche il soggetto del dipinto. La veduta del chiostro incorniciata dal vano della porta sembrerebbe, infatti, rimandare al Monastero benedettino milanese riformato da san Carlo Borromeo nel 1569, e soppresso nel 1798, raffigurato ripetutamente da Migliara in numerosi altri dipinti, tra i quali il Chiostro del Monastero Maggiore a Milano (Alessandria, Civici Musei) e l’Interno di un chiostro con monache (chiostro di San Maurizio al Monastero Maggiore di Milano) (Milano, Pinacoteca Ambrosiana).
Due suore soccorrono con cibo e acqua una giovane donna e il suo bambino sofferente nel vestibolo di un convento. Il ritratto di san Carlo Borromeo ben in vista alla parete e, soprattutto, il costume popolare antico della donna, con il velo sul capo e il grembiule colorato, permettono di ipotizzare l’ambientazione della scena in un monastero milanese, sul finire del XVI secolo. Vicende ed episodi tratti dalla vita conventuale medievale e rinascimentale avevano ripetutamente ispirato pittori e letterati romantici, in un intreccio di suggestioni e rimandi: dalla Ildegonda di Tommaso Grossi, illustrata proprio da Giovanni Migliara per l’edizione del 1825, fino alla celeberrima vicenda di Suor Geltrude ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, romanzo dal quale il pittore ricaverà anche una serie di disegni, tra i quali Don Abbondio che sale sulla mula (già proprietà Carlo e Felice Bongioanni, Casteggio).
Agli occhi del pubblico di Migliara, lo spirito caritatevole della chiesa antica, raffigurato nel dipinto, doveva apparire in contrasto con la vita gaudente e godereccia del clero contemporaneo. Un costume, quest’ultimo, che il pittore aveva ripetutamente censurato con uno sguardo disincantato e ironico in molte sue tele, tra le quali anche Date et dabitur vobis (“date e vi sarà dato”) (ubicazione ignota), nella quale un frate panciuto si fa interprete dell’ammonimento evangelico alla carità distribuendo colpi di mestolo tra i poveri in fila in attesa della zuppa. Lo stesso tono divertito, reso più pungente per l’adozione di citazioni religiose, accostate a immagini in contrasto con il loro messaggio morale, ricorre anche nei dipinti in Collezione Frati in cucina e Il Ritorno dalla Questua. Gli accenti di critica anticlericale, talvolta con un’enfasi sarcastica forse non del tutto priva di valenze politiche, erano diffusi negli ambienti artistici della Restaurazione, e costituivano un elemento distintivo della pittura di Migliara.
28
modifica28. Giovanni Migliara (1785–1837) Frati in cucina
- Data 1827
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 59 cm. Larghezza: 44.3 cm.
L’opera fu eseguita nel 1827 su commissione del signor Enrico Carozzi e presentata all’Esposizione di Belle Arti di Brera dello stesso anno. La tela ottenne un buon successo di pubblico, puntualmente registrato dalla stampa del tempo che ne pubblicò la traduzione in incisione. All’interno di un ampio ambiente, coperto da volte a crociera, alcuni frati sono intenti nelle varie attività della cucina. Sulla sinistra avvolto nell’oscurità, accanto ad una scala, un monaco prepara del pollame, mentre sul fondo un confratello sta cucinando e un altro seduto di fronte alla fiamma sorseggia un brodo, contesogli da un gatto. Ovunque sono disposte vivande – alcune sparse al suolo, altre appese, altre già disposte nei vasi –, pentole e strumenti di cucina riprodotti con una intensa vena descrittiva. In alto l’iscrizione dipinta a caratteri capitali «MANDUCATE QUAE APPONUNTUR VOBIS» (Mangiate quello che vi viene offerto) rimanda all’insegnamento evangelico a non curarsi dei bisogni del corpo, confidando nella provvidenza divina (Lc 10,8). Migliara si serve dell’evidente contrasto tra l’ammonimento religioso e l’immagine della ricca cucina per muovere una critica pungente al clero contemporaneo e, allo stesso tempo, divertire il pubblico con un motto di spirito. L’opera, caratterizzata da un gusto neofiammingo nello studio degli effetti di controluce e nella resa della natura morta, si distingue all’interno del repertorio migliaresco di scene conventuali per l’ironia sottile che la percorre, con l’evidente allusione alla vita godereccia dei frati. Si conosce una replica autografa dell’opera, di formato ridottissimo, presso i Civici Musei di Alessandria e uno smalto su vetro di formato circolare, intitolato Interno di una cucina di frati (Milano, Galleria d’Arte Moderna). La stessa vena pungente e divertita si ritrova nel dipinto in Collezione Veduta alle porte di un convento, mentre La spezieria dei frati (Villa Carlotta, Tremezzo), eseguita nel 1823 per Giovanni Battista Sommariva, si distingue all’interno della produzione dell’artista, per gli altissimi esiti raggiunti e la straordinaria vivacità narrativa.
29. Giovanni Migliara (1785–1837) Interno di convento
- Data 1832
- Tecnica/materiale olio su tavola
- Dimensioni Altezza: 58 cm. Larghezza: 43.5 cm.
Il dipinto è entrato in Collezione proveniente dal mercato antiquario nel 1986. Le iscrizioni in tedesco e l’etichetta con la dicitura “Marchegg” sul retro della cornice lasciano spazio all’ipotesi che l’opera provenga dal Castello di Marchegg nell’Austria meridionale, una delle residenze della nobile famiglia bulgara Palffy Erdod, che contava tra i suoi membri anche Alois von Palffy d’Erdord, governatore delle province venete alla metà dell’Ottocento. Del resto fin dagli anni Trenta Giovanni Migliara aveva riscosso il favore di una committenza internazionale di alto rango che contava, tra gli altri, anche S. M. Carlo Felice di Savoia, il console di Spagna e i ministri plenipotenziari austriaci Metternich e Kollowrat. E proprio a questi anni, che vedono l’artista all’apice del suo successo, potrebbe risalire l’opera in Collezione, dal momento che presso i Civici Musei di Alessandria esiste uno studio a matita per la figura della suora che dispone i fiori sulla sinistra della scena riferibile al 1832.
Una datazione supportata dai caratteri stilistici di questa magistrale veduta prospettica per la quale Migliara adotta un rigorosissimo impianto compositivo sorretto da raffinati effetti di luce che scandiscono ritmicamente lo spazio filtrando attraverso i vetri colorati della finestra e il vaso di cristallo con il pesciolino. Anche in questo caso l’artista realizza un’architettura ‘d’invenzione’ combinando con estrema libertà spunti diversi, perlopiù tratti dallo studio dal vero della Certosa di Pavia. L’atrio con la bella vetrata colorata è replicato con alcune varianti anche nell’Interno di monastero di proprietà dell’Accademia di Brera a Milano, mentre la stessa fuga prospettica delle campate del chiostro si ritrova in un piccolo olio dei Civici Musei di Alessandria, ricavato dallo studio dal vero del portico della Certosa di Pavia.
Moltiplicando i dettagli dell’ambiente, sull’esempio della coeva pittura di genere, l’artista restituisce la dimensione quotidiana della vita del monastero, con le suore intente alle varie attività. Una dispone i fiori che le vengono porti da un servitore, l’altra in primo piano è assorta nella preghiera, un’altra ancora, forse una giovane novizia, si sofferma esitante con un annaffiatoio in mano in prossimità della soglia che immette nel chiostro, accanto al vaso dove nuota un pesciolino rosso.
30. Teodolinda Sabaino Migliara Interno della basilica di San Lorenzo a Milano.
- Data 1845
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 59.3 cm. Larghezza: 45 cm.
Giovanni Migliara (1785–1837) Interno di una chiesa
- Data 1832
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 51.5 cm. Larghezza: 76.5 cm.
Il dipinto, proveniente dal mercato antiquario, si inserisce nella copiosa produzione di Migliara dedicata alle architetture monumentali. La scena, ambientata all’interno di una chiesa dove si mescolano richiami all’architettura gotica e romanica, si articola attraverso la moltiplicazione dei piani prospettici che invitano lo spettatore ad introdursi nel luogo, reso particolarmente suggestivo dalla sapiente alternanza di luci e ombre. L’occhio si sposta dagli episodi principali nell’atrio – il gentiluomo che si accosta all’acquasantiera e la famiglia facoltosa che elargisce l’elemosina ad una mendicante – per seguire i due personaggi di spalle sullo sfondo. La donna che scende la scalinata immersa nella luce del giorno e il religioso che si dirige verso un piccolo ambiente oscuro, illuminato solo da una finestrella in lontananza, sembrerebbero alludere alla contrapposizione tra vita attiva e contemplativa. Il racconto procede attraverso i dettagli che ricostruiscono con esattezza l’architettura, le decorazioni, i monumenti, ma anche i costumi, i personaggi e gli animali. Nel 1833 all’Esposizione di Belle Arti fu presentato l’Interno di chiesa dei bassi tempi, insieme ad un ricco reportage di vedute piemontesi e savoiarde, tra cui l’Interno del monastero di Altacomba, attualmente in Collezione. In quell’importante occasione espositiva Migliara fece sfoggio di tutte le varianti del suo repertorio: dalle scene conventuali di gusto trobadour – caratterizzate dal revival medievale nelle ambientazioni, con soggetti storici o letterari interpretati in chiave romanzesca –, a vedute prospettiche e scorci caratteristici delle maggiori città italiane per una committenza di alto rango. Sul telaio si trova un’etichetta cartacea riferibile alla Mostra dell’Ottocento nel centenario della Soc. Amatori e Cultori di Belle Arti, allestita a Roma nel 1930. Il catalogo della mostra, tuttavia, ci informa della presenza all’esposizione di un dipinto di proprietà Antonini intitolato Portico, incongruente con il soggetto dell’opera in Collezione.
32. Giovanni Migliara (1785–1837) Interno del Duomo di Pisa
- Data 1835
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 44.5 cm. Larghezza: 59.2 cm.
Il dipinto, erroneamente identificato con una veduta di una chiesa di Lombardia, ritrae invece una veduta dell’Interno del Duomo di Pisa, eseguita su commissione e presentata all’Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1835. Il soggiorno toscano dell’autunno del 1825 aveva fornito all’artista un ricco repertorio di luoghi e monumenti riutilizzato in tempi successivi, anche a distanza di molti anni, come documentano le opere presentate alle esposizioni braidensi tra il 1828 e il 1835, dove figurano la Loggia dei Lanzi e il Camposanto pisano. A queste date nuovi soggetti si affiancavano alle vedute lombarde e milanesi che avevano contraddistinto la produzione dell’artista garantendogli un indiscusso successo di pubblico e critica. Numerosi studi preparatori per l’opera in esame e una redazione ad olio del soggetto di dimensioni ridotte conservata a Alessandria (Musei Civici) documentano l’interesse di Migliara per il Duomo di Pisa e ci restituiscono il suo rigoroso metodo di studio dal vero, adottato durante i numerosi viaggi in Italia. Per questa veduta prospettica, in particolare, l’artista si serve della pianta dell’edificio, di alcuni disegni d’insieme e di particolari architettonici e decorativi, attualmente conservati nella raccolta dei Civici Musei di Alessandria, tra i quali quello della antica acquasantiera attorno alla quale si raccoglie un piccolo gruppo di visitatori. La scena galante diventa il fulcro del dipinto, messo in evidenza dal fascio di luce che attraversa la scena diagonalmente, proveniente dalla porta d’ingresso appena socchiusa. Migliara la compone con diversi personaggi: una fanciulla, e un’elegante figura femminile ritratta di spalle, accompagnata da un giovane che, tolto il cappello, porta la mano all’acquasantiera. Il dato reale registrato nei taccuini è un fondamentale aiuto mnemonico per ricostruire l’ambiente, ma l’artista se ne serve assemblando punti di vista diversi e congruenti tra loro realizzando, infine, un quadro ‘d’invenzione’ che pure mantiene ben riconoscibile il luogo rappresentato. Il risultato è una veduta prospettica che accorpa diversi ambienti, amplificata come in una visione grandangolare, dove si moltiplicano le prospettive e le scene attraverso le quali si svolge il racconto. Per realizzare composizioni complesse come l’opera in Collezione, l’artista si serve anche di dipinti di piccole dimensioni come studi preparatori, che in seguito immette sul mercato, dove ricostruisce dettagliatamente la griglia spaziale e gli effetti di luce, ma senza inserire alcun personaggio. Lo dimostra un piccolo olio dei Civici Musei di Alessandria che riproduce esattamente la porzione destra del dipinto in Collezione, corrispondente alla navata laterale dell’edificio, e che verosimilmente è stato integrato nella redazione finale con la veduta del transetto - da dove prende avvio la solenne processione, completamente avvolta nell’ombra - e con l’aggiunta, al centro, di figure in abiti contemporanei.
Giovanni Migliara (1785–1837) Interno di una chiesa
- English: Interior of a Church
- Data tra il 1815 e il 1825
- Tecnica/materiale olio su tavola
- Dimensioni Altezza: 13.4 cm. Larghezza: 17.3 cm.
Descrizione
Entrata in Collezione nel 1985, l’opera ritrae l’interno di una chiesa medievale durante una funzione religiosa. Nello spazio ridottissimo di questa miniatura a olio su legno Migliara offre una prova esemplare della sua produzione, dimostrando di saper fondere una rigorosissima veduta prospettica alla gustosa narrazione di eventi contemporanei. Questi quadretti ‘da guardare tutti da vicino’ garantirono all’artista fin dagli esordi, il favore della critica e di un pubblico colto che li collezionava come piccoli oggetti preziosi, destinati ad arredare studioli e cabinets.
Il pittore ricostruisce con precisione l’ambiente, soffermandosi sui numerosissimi dettagli che connotano il luogo - l’affresco con l’Adorazione dei Magi nel sottarco, la pala cinquecentesca sull’altare, gli elementi dell’ornato architettonico, le lampade, i quadri, l’acquasantiera - fino a inserire sulla porta all’estrema destra della scena l’iscrizione “SS. GERV”, allusiva alla titolazione della chiesa, forse dedicata ai santi Gervasio e Protasio, ma non riconoscibile dal momento che non si conservano schizzi collegabili a quest’opera nei taccuini dell’artista. Del resto Migliara amava introdurre nei suoi dipinti qualche indizio che permettesse al pubblico di identificare il luogo o la scena rappresentati, senza rinunciare all’inserzione di particolari fantastici. Una prassi di lavoro che la critica contemporanea registrò positivamente apprezzando la puntualità dei dettagli non meno della capacità evocativa delle sue opere, che si inscrivono a pieno titolo nel recupero critico e artistico del Medioevo proprio della cultura romantica.
Contribuisce a restituire la suggestione dell’ambiente la raffinata resa luministica del dipinto, tutta giocata sull’intenso contrasto tra le ampie zone in ombra e quelle colpite dal raggio di sole che filtra dal finestrone superiore dell’abside, mettendo così in risalto mistico il sacerdote che sta officiando circondato da un gruppo di devoti. Un altro gruppo di fedeli è raccolto in preghiera davanti all’altare - sovrastato dalla bella pala cinquecentesca e, in parte, nascosto dal tramezzo ligneo dalle vivaci tende rosse - mentre un’elegante coppia di visitatori con un bambino e un cane, incuranti del rito che si sta compiendo, spezzano l’atmosfera intima e sacrale del luogo.
La raffinatissima tecnica miniaturistica, l’elegante luminismo dalle tonalità ambrate e il soggetto che contraddistinguono l’opera sono largamente ricavati dalla tradizione artistica fiamminga, mediata però attraverso le prove di maggior successo dei pittori francesi François Marius Granet, Henry Fradelle, Pierre Revoil, per rispondere alle esigenze del pubblico contemporaneo.
Nel percorso dell’artista gli interni monumentali popolati di scene di vita contemporanea costituiscono uno dei motivi ricorrenti: dalle prove miniaturistiche dalla pennellata veloce e pastosa, come questa in esame, assimilabile stilisticamente alla Veduta con cavalli in Collezione; a versioni di grandi dimensioni dove sono riprodotti i maggiori monumenti italiani con scrupolo documentario, come nelle diverse redazioni dell’Interno del Duomo di Milano, di San Marco a Venezia, della Parte interna del Duomo di Pisa, del Santuario di Subiaco, dell’Interno del monastero di Altacomba; senza mai rinunciare ad architetture ‘d’invenzione’, ricavate da spunti diversi, o anonime come l’Interno di una chiesa del 1832, in Collezione, o l’Interno di chiesa dei bassi tempi presentata all’Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1833.
Una vastissima produzione che spinse Giuseppe Mazzini, acuto commentatore dell’arte contemporanea, a riconoscere in Migliara l’artista che aveva elevato la pittura prospettica alla dignità della pittura di storia, ma soprattutto colui che aveva realizzato con le sue opere un vero e proprio repertorio di grandi monumenti del passato nella loro dimensione viva e attuale, in grado di evocare per immagini l’identità della nazione e di risvegliare, attraverso la loro contemplazione, lo spirito patriottico degli italiani.
Giovanni Migliara (1785–1837) Interno del monastero di Altacomba
- Français : Intérieur de l'église abbatiale de l'abbaye d'Hautecombe
- Data 1833
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 56 cm. Larghezza: 72 cm.
Il dipinto, entrato in Collezione dal mercato antiquario, figurava all’Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1833, insieme con il suo pendant raffigurante la veduta esterna della Badia di Altacomba (Racconigi, Castello), e una tela di dimensioni ridotte con la Cappella di Bellei. Questo nucleo di tre opere eseguito su commissione di Maria Cristina di Savoia, attesta il rapporto privilegiato dell’artista con la casa reale, avviato l’anno precedente con l’investitura a cavaliere e culminato con la nomina a “pittore di genere” del sovrano nel 1833. Migliara si recò a Hautecombe nel 1832, in occasione del viaggio nel Regno di Sardegna, suo territorio d’origine, come dimostra un disegno del luogo tratto dal vero datato 18 agosto 1832, attualmente conservato presso i Civici Musei di Alessandria. Da questo dettagliato studio l’artista ricava la Veduta esterna dell’abbazia di Altacomba conservata a Racconigi che coincide con l’opera in Collezione per le dimensioni, per la raffinata stesura pittorica e per gli stessi personaggi che ritornano nelle due tele quasi a suggerire l’idea che i visitatori, ritratti all’esterno, siano passati a visitare l’interno dell’edificio. Migliara si fa interprete del valore simbolico e rappresentativo del luogo attraverso la resa puntuale di ogni dettaglio del transetto della antica chiesa abbaziale, sacrario della dinastia sabauda dove sono raccolte le sepolture dei membri della famiglia reale. L’artista dispone da un lato le cappelle in successione all’interno di una salda impostazione prospettica: dalla Cappella detta dei Principi, in primo piano, sormontata dalla grande tela con la Adorazione dei Magi eseguita dai fratelli Vacca; all’Altare Maggiore; a quelle dedicate a Sant’Alfonso di Liguori e a San Michele. Il monumento di Pietro, conte di Savoia, addossato alla parete di fondo chiude la prospettiva, mentre un religioso percorre una piccola scala quasi invitando lo spettatore a seguirlo, fin oltre il punto di fuga. Come in un puntuale reportage Migliara registra il nuovo assetto del luogo in seguito all’imponente restauro finalizzato al recupero delle origini medievali dell’edificio condotto nel 1824, per volontà di Carlo Felice di Savoia e della consorte Maria Cristina. Un’operazione culturale di portata europea che imprimeva una forte accelerazione alla diffusione del gusto neogotico e, soprattutto, si rivelava densa di implicazioni ideologiche, cui non era estranea la volontà di celebrare l’antichità della dinastia e di testimoniarne la continuità nel panorama politico italiano, agitato dai primi moti rivoluzionari e dalle prime aspirazioni unitarie. L’abbazia di Altacomba divenne in seguito un soggetto particolarmente apprezzato dagli artisti romantici, tra i quali Massimo d’Azeglio e Luigi Bisi, sia per il carattere pittoresco e romantico del complesso architettonico, sia per la sua suggestiva ambientazione sulle rive del lago; ma soprattutto conobbe una grande fortuna incisoria ancora a molti anni di distanza dal suo restauro con l’album litografico di Francesco Gonin intitolato Souvenirs pitoresques de Hautecombe e con la Storia e descrizione della Regia Badia di Altacomba, opera monumentale composta da 55 tavole, del 1844.
Giuseppe Molteni (1800–1867) La confessione
- Data 1838
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 173.5 cm. Larghezza: 141 cm.
Descrizione
Il dipinto, passato ripetutamente sul mercato antiquario nella seconda metà degli anni Ottanta, è entrato in Collezione nel 1998, racchiuso nella cornice originale neobarocca, proveniente da una raccolta privata. Le vicende collezionistiche dell’opera ebbero avvio nel 1838 con l’acquisto da parte dell’imperatore Ferdinando I, che la destinò alla Galleria del Belvedere di Vienna. In seguito ai rovesci finanziari della monarchia asburgica, ne fu decisa l’alienazione insieme ad altri quadri italiani della collezione, che passarono all’asta presso la Galleria Scopinich di Milano nel 1928.
Presentato all’Esposizione di Belle Arti di Brera del 1838, il dipinto ottenne uno straordinario successo di pubblico e critica - ulteriormente amplificato dall’acquisizione imperiale - in ragione del soggetto, direttamente ispirato alla vita contemporanea, proposto nelle grandi dimensioni fino ad allora riservate alla pittura di storia. Il modello iconografico e compositivo dell’opera è forse rintracciabile nella Confessione del pittore bolognese Giuseppe Maria Crespi (1665-1747) del 1712 (Dresda, Staatliche Kunstsammlungen), che ritrae il sacramento nella sua dimensione quotidiana e familiare.
La donna inginocchiata al confessionale, di una bellezza insieme soave e maliziosa, fu identificata da una parte della critica contemporanea come una giovane madre che si sarebbe abbandonata alle lusinghe di un cugino. Descritta con accuratezza fin nei minimi dettagli dell’arredo e delle vesti, la scena di attualità, si proponeva di rappresentare il bello morale della vita comune, sulla suggestione delle idee del critico di orientamento cattolico Pietro Estense Selvatico. Giuseppe Molteni, già ricercato ritrattista alla moda nel corso degli anni Trenta, divenne l’artefice di una pittura di genere, richiestissima dal mercato, in grado di spaziare da soggetti di costume a temi popolari, variamente declinati dal tono narrativo e popolaresco fino ad accenti drammatici di denuncia sociale.
Giovanni Carnovali (1804–1873) Ritratto di Pietro Ronzoni
- Data 1825
- Tecnica/materiale olio su tavola
- Dimensioni Altezza: 37 cm. Larghezza: 30 cm.
Pietro Ronzoni, paesaggista di successo attivissimo a Verona per una colta committenza internazionale dal 1815 al 1824, ebbe modo di conoscere il Piccio al suo rientro definitivo a Bergamo, per il tramite dell’allora direttore dell’Accademia Carrara, Giuseppe Diotti. Eseguito nel 1825, il ritratto presenta Ronzoni di tre quarti, in parte nascosto dall’ombra scura proiettata dalla visiera del cappello da pittore calcato sulla testa, l’acconciatura ricciuta e i basettoni che scendono lungo le guance secondo la moda allora in voga, mentre volge lo sguardo verso lo spettatore. La luce che investe la figura genera un intenso contrasto chiaroscurale, contribuendo a conferire all’immagine un vivace naturalismo e una straordinaria freschezza. Il paesaggio montuoso che sfuma in lontananza sembrerebbe alludere alla specializzazione di Ronzoni nella veduta. Il rapporto di confidenza con l’effigiato permise all’artista di impiegare un’inedita libertà pittorica, rinunciando alla severa impostazione della ritrattistica neoclassica adottata, invece, per effigiare i colti collezionisti bergamaschi gravitanti attorno all’Accademia Carrara. La salda amicizia tra i due artisti, appartenenti a generazioni differenti, è testimoniata anche da un dipinto del 1847 (Bergamo, collezione privata), nel quale il Piccio raffigura Ronzoni, ormai anziano, in abito da pittore e con la tavolozza e i pennelli in mano, e da una versione più tarda del 1858 (Bergamo, Banca Popolare di Bergamo-Credito Varesino).
Pietro Ronzoni Filanda nel bergamasco
- Data tra il 1825 e il 1830
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 72.5 cm. Larghezza: 94.3 cm.
Il dipinto è pervenuto in Collezione dal mercato antiquario nel 1985 come opera di Giovanni Migliara, e in seguito riferito ad un anonimo pittore bergamasco. Una recente ipotesi critica propone l’attribuzione dell’opera a Pietro Ronzoni, paesaggista e vedutista di successo attivo tra Bergamo e Verona. L’interno della filanda Mylius a Boffalora (Villa Vigoni, Loveno di Menaggio) di Giovanni Migliara condivide con l’opera in Collezione il tema e l’impostazione prospettica, ma la rigidità e le fisionomie dei personaggi rimandano alle figurette che popolano le giovanili vedute urbane di Bergamo, eseguite da Ronzoni. Nella filanda affacciata sul cortile si svolge l’attività di trattura, che prevede l’estrazione del filo di seta e il suo avvolgimento su aspi. L’artista restituisce un’immagine realistica e dettagliata dello stabilimento: le aiutanti portano cesti pieni di bachi e riempiono d’acqua le bacinelle delle operaie, a loro volta impegnate ad estrarre ed avvolgere il filo, mentre una sorvegliante verifica il buon andamento del lavoro. Per facilitare la separazione dei filamenti, i bozzoli erano collocati in recipienti pieni d’acqua, riscaldata da un’unica caldaia a vapore, come quella raffigurata in primo piano, introdotta negli stabilimenti tecnologicamente più avanzati dal primo quarto del secolo. Il soggetto ricorre nei cataloghi delle esposizioni di Belle Arti di Brera a partire dagli anni Trenta: fu ripetutamente affrontato da diversi artisti, tra cui Pompeo Calvi, Giovanni Migliara, Gaetano Gariboldi, Ambrogio Fermini, ma conobbe un’ampia diffusione attraverso le riproduzioni a stampa della seconda metà del secolo e, in seguito, mediante la riproduzione fotografica. La fortuna iconografica del tema si spiega con il desiderio di esibire i successi imprenditoriali dell’alta borghesia e dell’aristocrazia, in un settore produttivo che andava evolvendosi rapidamente e che alla metà del secolo costituiva la più diffusa e capillare forma di lavoro manifatturiero in Lombardia. Prendeva avvio al contempo un interesse del pubblico per gli aspetti tecnici della produzione che troverà piena affermazione con le esposizioni universali, nei padiglioni dedicati alle industrie e agli stabilimenti produttivi.
38. Pittore lombardo, Ritratto dell'industriale tessile Luigi Peroni, 1855-1860
Angelo Inganni Contadino che accende la candela con un tizzone ardente
- Data 1850
- Tecnica/materiale Olio su tela
- Dimensioni Altezza: 102.5 cm. Larghezza: 75 cm.
Il dipinto è identificabile con la tela presentata all’Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1851. L’opera appartiene ad un gruppo omogeneo di scene di genere, di ispirazione neofiamminga, eseguite da Angelo Inganni nel sesto decennio del secolo, una produzione intensificatasi in seguito al trasferimento dell’artista a Brescia. La figura del contadino che soffia sul tizzone ardente, mentre cerca di accendere una candela, emerge dall’oscurità con un virtuosistico “effetto di lume” che genera un forte contrasto chiaroscurale. Il volto dell’uomo si illumina del rossore della luce e del calore del fuoco che rivelano tutti i dettagli dell’abbigliamento, come la piuma di pavone sul cappello o il fazzoletto che spunta dalla tasca. Del tutto privo degli intenti moraleggianti che contraddistinsero la pittura di genere dell’epoca, il dipinto propone un soggetto piacevole, di facile comprensione, finalizzato a destare meraviglia e stupore nello spettatore facendo sfoggio delle doti tecniche dell’artista. La buona accoglienza del tema da parte del pubblico concorse alla formulazione di un ricco repertorio di fumatori, contadini, bevitori raffigurati in ambienti bui e rischiarati da un’unica fonte di luce - candele, lampade o camini - che divenne caratteristico della maturità di Angelo Inganni insieme ai temi di vita contadina e ai soggetti animali, come, ad esempio, Uccelli di palude in Collezione. L’impiego del grande formato e la datazione precoce, lasciano supporre che l’opera in esame costituisca il prototipo di una fortunata serie di dipinti destinati al grande pubblico eseguiti su tela e su cartone in piccole dimensioni, o replicati in miniatura in smalto, tra i quali il Contadino che accende una candela con un tizzone dei Civici Musei di Brescia.