Storia della letteratura italiana/Giacomo Leopardi

Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana
  1. Dalle origini al XIV secolo
  2. Umanesimo e Rinascimento
  3. Controriforma e Barocco
  4. Arcadia e Illuminismo
  5. Età napoleonica e Romanticismo
  6. L'Italia post-unitaria
  7. Prima metà del Novecento
  8. Dal secondo dopoguerra a oggi
Bibliografia

Giacomo Leopardi è considerato dalla critica contemporanea il poeta che ha trovato gli accenti più intensi e allo stesso tempo più limpidi per esprimere il male di vivere. Formatosi in un ambiente reazionario e bigotto, il poeta di Recanati sviluppa poi una propria originale riflessione sulla letteratura e sulla condizione degli esseri umani. Dopo una prima fase caratterizzata dal pessimismo storico, costruito sull'antitesi tra antichi e moderni e tra natura e illusione, Leopardi approda al pessimismo cosmico, che vede nella natura la causa del male.

La vita

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Il più celebre ritratto di Leopardi, a opera di A. Ferrazzi, 1820 circa

Infanzia e adolescenza

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Il conte Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati (allora parte dello Stato pontificio), primogenito del conte Monaldo e di Adelaide Antici. La famiglia Leopardi, nonostante si possa annoverare tra le più cospicue della nobiltà terriera locale, versa in condizioni patrimoniali precarie. Per mantenere almeno il decoro esteriore che impone il loro rango, i Leopardi sono costretti a osservare una rigida economia. Il padre è un uomo colto, ma la sua è una cultura accademica e stantìa; professa inoltre idee filoclericali e ha orientamenti politici reazionari e ostili alle idee diffuse dalla rivoluzione francese e dalle campagne napoleoniche. La madre è una donna dalla morale austera e dal carattere autoritario e arcigno. Giacomo cresce dunque in un ambiente bigotto e conservatore, dove la vita familiare si svolge senza confidenze né affetto. Questo in un primo periodo influenza le sue idee e i suoi orientamenti.

Leopardi riceve la prima educazione a opera di precettori ecclesiastici. Tuttavia da essi non ha più nulla da imparare quando ha già intorno ai dieci anni d'età. Eccezionalmente portato per lo studio, continua la propria formazione in modo autonomo chiudendosi nella biblioteca paterna per "sette anni di studio matto e disperatissimo", che contribuiscono al deterioramento della sua salute già fragile. In breve tempo impara il latino, il greco e l'ebraico; realizza lavori filologici che stupiscono i dotti suoi contemporanei; compone opere erudite, quali la Storia dell'astronomia (1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815); traduce classici latini e greci come le Odi di Orazio, la Batracomiomachia pseudo-omerica, il primo libro dell'Odissea, il secondo dell'Eneide e, infine, scrive moltissimi componimenti poetici (odi, sonetti, canzonette, tragedie). Da questa produzione, sia pure sbalorditiva per un adolescente, emerge comunque una cultura superata, imbevuta di modelli arcadico-illuministici e di un'erudizione arida e accademica. Gli orientamenti politici leopardiani, poi, sono ancora ricalcati su quelli del padre, come dimostra l'orazione Agli Italiani per la liberazione del Piceno (1815).[1]

"Dall'erudizione al bello" e dal "bello" al "vero"

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Tra il 1815 e il 1816 la cultura di Leopardi subisce una conversione, come egli stesso la definisce, "dall'erudizione al bello". Abbandona gli aridi scrupoli filologici per passare alla lettura appassionata di poeti come Omero, Virgilio e Dante tra gli antichi, Rousseau, Alfieri (in particolare la Vita), Goethe (il Werther) e Foscolo (l'Ortis) tra i moderni. Tramite la lettura di Madame de Staël scopre la cultura romantica, nei confronti della quale nutre comunque forti riserve. Il giovane Leopardi trova inoltre la confidenza affettuosa che in famiglia mancava nell'amicizia con l'intellettuale di orientamento classicistico Pietro Giordani, documentata da un folto carteggio. Nell'estate del 1817 inizia poi a raccogliere gli appunti che costituiranno lo Zibaldone di pensieri.

L'atmosfera chiusa di Recanati e del palazzo paterno gli riesce sempre meno sopportabile, al punto da indurlo a tentare la fuga da casa nell'estate del 1819, tentativo che viene scoperto e sventato. Lo stato d'animo che ne consegue, anche dovuto a una malattia agli occhi che non gli permette di leggere, lo getta in uno stato di "nera, orrenda e barbara malinconia". Gli appare allora chiara la nullità di tutte le cose, che sarà il nucleo del suo sistema marcatamente pessimistico. È questa crisi a segnare il passaggio definito da lui stesso dal "bello" al "vero", dalla poesia immaginativa alla filosofia e a una poesia intrisa di meditazione. Il 1819 è anche un anno di intensa sperimentazione: molti filoni sono tentati e altrettanti abbandonati, ma con l'Infinito si inaugura la stagione più originale della poesia leopardiana. Diventano più fitte anche le note dello Zibaldone, il suo diario filosofico e letterario. Negli anni successivi (1820-21) scrive altri idilli e canzoni, la prima delle quali è All'Italia (1818).[2]

Fuori da Recanati

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Nel 1822 Leopardi può finalmente uscire dal paese natìo (una "tomba de' vivi") e si reca a Roma, ospite dello zio Carlo Antici. Ben presto però rimane deluso dagli ambienti letterari romani, che gli paiono vuoti e meschini. L'anno dopo rientra a Recanati, dove si dà alla composizione delle Operette morali, espressione del suo pensiero pessimistico. L'aridità di questo periodo non gli consente di comporre versi, perciò si dedica alla prosa, all'investigazione dell'"acerbo vero".

Nel 1825 gli si presenta l'occasione di vivere del proprio lavoro intellettuale cessando di dipendere dalla famiglia: l'editore milanese Stella gli offre un assegno fisso per una serie di collaborazioni (un'edizione di Cicerone, un commento a Petrarca, un'antologia della poesia e una della prosa). Soggiorna così a Milano e a Bologna, per passare a Firenze nel 1827, dove conosce Gian Pietro Viesseux e il gruppo di intellettuali che fa capo alla rivista Antologia, periodico di cultura per certi aspetti erede del Conciliatore. L'inverno tra il 1827 e il 1828 è trascorso a Pisa: qui una relativa tregua dai suoi mali favorisce una ripresa della sua facoltà di sentire e di immaginare; nella primavera del 1828 compone A Silvia, il primo dei cosiddetti "grandi idilli".[2]

Ultimo soggiorno a Recanati; Firenze, Napoli

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Tomba di Leopardi a Napoli, Parco Virgiliano.

Costretto dalle precarie condizioni economiche e di salute, nell'autunno del 1828 Leopardi deve tornare a Recanati. Rimane nella casa della famiglia per "sedici mesi di notte orribile", confinato nel palazzo paterno, senza rapporti con il mondo esterno. Nell'aprile del 1830 accetta un assegno mensile per un anno da parte degli amici fiorentini. Può così lasciare Recanati, dove non tornerà mai più.

Comincia una nuova fase della sua esperienza intellettuale, condotta al di fuori del suo io e fatta di più intensi rapporti sociali. Partecipa al dibattito politico, sostenendo posizioni violentemente pessimistiche, opposte all'ottimismo e al progressismo dei liberali. Sperimenta anche la passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti; la delusione che ne scaturisce ispira un nuovo ciclo di canti, il "ciclo di Aspasia". Risale a questo periodo l'amicizia col giovane napoletano Antonio Ranieri, col quale si stabilisce a Napoli nel 1833. Qui Leopardi, con le sue posizioni atee e materialiste, entra in conflitto con l'ambiente culturale della città, dominato da tendenze idealistiche e spiritualistiche. Tale polemica prende corpo in massimo grado nell'ultimo grande canto, La ginestra. A Napoli Giacomo Leopardi si spegne il 14 giugno 1837.[3]

Il pensiero

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L'opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e riprese, lo sviluppo del quale può essere rintracciato nelle pagine dello Zibaldone.

Prima fase: la natura benigna, le "illusioni" e il pessimismo storico

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Al centro della riflessione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico: quello dell'infelicità dell'uomo. Le cause di questa infelicità sono delineate in alcune pagine di fondamentale importanza, che portano la data del luglio 1820. La felicità, in linea con le idee settecentesche e sensistiche, si identifica con il piacere sensibile e materiale. Tuttavia all'uomo non basta un piacere, poiché è alla perenne ricerca del piacere, cioè un piacere infinito per estensione e durata. Siccome nessuno dei piaceri particolari di cui può godere lo soddisfa pienamente, nasce nell'uomo un senso di insoddisfazione perpetua, un'incolmabile vacuità dell'anima. Proprio da questa tensione verso un piacere infinito, mai appagata, nasce per Leopardi l'infelicità dell'uomo, connessa con il sentimento della nullità di tutte le cose. È importante sottolineare, come fa Leopardi stesso, che ciò non va inteso in senso religioso o metafisico, come tensione verso il trascendente divino al di là delle cose contingenti, ma in senso assolutamente materiale. L'uomo dunque è infelice per la sua stessa costituzione. Ma la natura, in questa prima fase ancora concepita come madre benigna e attenta al bene delle sue creature, ha voluto offrire un rimedio all'uomo attraverso la facoltà immaginativa e le illusioni. Così gli uomini primitivi, i Greci e poi i Romani, che erano più vicini alla natura (come i fanciulli) e quindi capaci di illudersi e immaginare, erano felici perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà, prodotto della ragione, ha allontanato gli uomini da quella condizione privilegiata, ha scoperto loro il crudo "vero" e li ha resi infelici.

C'è poi da ricordare che la prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita sull'antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di illusioni, capaci di gesta magnanime ed eroiche e più forti fisicamente, avevano una vita più attiva e intensa, cosa che contribuiva a far dimenticare il nulla dell'esistenza. Proprio il progresso della civiltà ha spento le illusioni e con esse ogni magnanimo slancio verso azioni eroiche, generando viltà, meschinità, grettezza, calcolo egoistico e corruzione dei costumi. L'infelicità presente è dunque colpa dell'uomo stesso, che è uscito dal solco tracciato dalla natura benigna. Leopardi vede la società sua contemporanea (gravata dal clima della Restaurazione) dominata dall'inerzia, dal tedio e dalla corruzione; ciò vale soprattutto per l'Italia, decaduta dalla grandezza passata. Da qui, la tematica civile e patriottica delle prime canzoni. L'atteggiamento che ne deriva è titanico: il poeta, sentendosi l'unico e solo depositario superstite della virtù antica, si erge solitario contro il fato maligno che ha precipitato l'Italia nella decadenza, sferzando la sua "codarda età".[4]

Questo momento del pensiero leopardiano è stato indicato con la formula pessimismo storico, in quanto la condizione negativa presente è ritenuta l'effetto di un processo storico, di un allontanamento progressivo dalla pienezza e dalla vitalità dell'antichità. Anche la felicità degli antichi, va ricordato, era pur sempre una felicità relativa, frutto di una generosa illusione. La vera condizione dell'uomo è l'infelicità. Tale formula ha quindi solo valore orientativo, in quanto tale pessimismo si colloca comunque in un quadro cosmico.

Seconda fase: la natura malvagia e il pessimismo cosmico

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La concezione della natura come madre benigna si mostra però fallace agli occhi di Leopardi, che si rende conto di come la natura badi più alla conservazione della specie che al bene dei singoli individui. Per tale fine può anzi sacrificare il bene del singolo e indurre sofferenza. Il male non è più un semplice accidente, ma fa parte del piano della natura. Sempre la natura, poi, ha infuso nell'uomo la tensione verso un piacere irrealizzabile senza dargli i mezzi per raggiungerlo. In una formulazione intermedia, Leopardi cerca di sciogliere la contraddizione proponendo il dualismo natura benigna-fato maligno. Presto però giunge alla soluzione rovesciando la propria concezione della natura: ciò è particolarmente evidente nel Dialogo della Natura e di un Islandese, operetta morale del maggio 1824. La natura non è più una madre amorevole e provvidente, bensì un meccanismo cieco, crudele, incurante della sorte delle sue creature; la sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, dato che la morte è necessaria al proseguimento della vita. Il finalismo (quello della natura che opera per il bene delle proprie creature) cede il posto a un materialismo meccanicistico (tutta la realtà è materia regolata da leggi meccaniche). L'uomo è infelice non per colpa sua, ma unicamente per colpa della natura crudele. Ma se filosoficamente la natura è un meccanismo inconsapevole, una somma di leggi oggettive, miticamente e poeticamente diviene una sorta di divinità malvagia che opera deliberatamente per il male delle proprie creature. Alla natura vengono attribuite le caratteristiche che erano state del fato: la malvagità crudele e persecutoria. Così muta anche il senso dell'infelicità umana. Prima, secondo la concezione sensistica, essa era concepita come assenza di piacere psicologico ed esistenziale; ora l'infelicità dipende dai mali esterni, che colpiscono chiunque: malattie, calamità naturali, vecchiaia, morte.

Se poi la natura è causa dell'infelicità stessa, tutti gli uomini di ogni tempo e luogo sono necessariamente infelici, anche gli antichi. Al pessimismo storico della prima fase subentra così un pessimismo cosmico: l'infelicità è svincolata da ogni condizione storica e relativa dell'uomo, ma è essa stessa una condizione assoluta, un dato di natura immutabile ed eterno. Tale concezione informerà tutta l'opera leopardiana posteriore al 1824. Ciononostante, il poeta rimarrà convinto che gli antichi fossero comunque relativamente meno infelici dei moderni, perché la vita attiva a cui erano costretti li portava a dimenticare meglio i loro mali. Bisogna infatti sottolineare che la distinzione tra le due fasi è così schematizzata solo a fini scolastici.

Da tutto ciò deriva, all'inizio, l'abbandono della poesia civile e dell'attitudine titanica, perché se l'infelicità è connaturata a ogni uomo di ogni epoca cessa ogni utilità della lotta e resta solo la lucida e disperata contemplazione della realtà. È in questa fase che subentra in Leopardi un atteggiamento distaccato e ironico, contemplativo e rassegnato. Il suo ideale non è più l'audace e magnanimo eroe antico, bensì il saggio antico, in particolare quello stoico, capace di atarassia. Questo atteggiamento caratterizza le Operette morali. La rassegnazione dinanzi alla realtà non si confà tuttavia all'indole di Leopardi, che tornerà successivamente all'atteggiamento titanico contro la natura.[5]

La poetica

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Frontespizio del settimo volume dello Zibaldone.

Il "vago e indefinito"

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La "teoria del piacere" del luglio 1820 costituisce da una parte il nucleo centrale della filosofia pessimistica di Leopardi, dall'altra è il punto di partenza della sua poetica. Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l'uomo può comunque figurarsi piaceri infiniti attraverso l'immaginazione. La realtà immaginata costituisce la compensazione, l'alternativa a una realtà di infelicità e noia. Ciò che stimola l'immaginazione a costruirsi una realtà parallela, in cui l'uomo può illusoriamente appagare il suo bisogno d'infinito, è tutto ciò che è "vago e indefinito", lontano, ignoto. Nelle pagine dello Zibaldone c'è una rassegna minuziosa in chiave sensistica di tutti gli aspetti della realtà sensibile che, per il loro carattere indefinito, possiedono questa suggestività. Si costruisce così una teoria della visione: è piacevole, per le idee vaghe e indefinite che suscita, la vista impedita da un ostacolo, una siepe, un albero, una torre, una finestra (si ravvisa qui il germe dell'ispirazione che porterà all'Infinito), "perché allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale". Contemporaneamente prende forma anche una teoria del suono, in cui Leopardi elenca tutta una serie di suoni suggestivi perché vaghi: un canto che va poco a poco allontanandosi, un canto che giunge all'esterno dall'interno di una stanza, il muggito degli armenti echeggiante per le valli, lo stormire del vento tra le fronde ecc.[6]

Il bello poetico

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A questo punto avviene la svolta fondamentale: l'aggancio della teoria filosofica dell'indefinito alla teoria poetica. Al termine della disamina sui suoni suggestivi, Leopardi annota: "E tutte queste immagini in poesia sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe"; otto giorni più tardi, il 24 ottobre 1821: "Quello che ho detto altrove sugli effetti della luce, del suono, e d'altre tali sensazioni circa l'idea dell'infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica, dalla poesia. Il bello delle quali arti, in grandissima parte [...] consiste nella scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare". Il bello poetico consiste dunque nel "vago e indefinito", e si manifesta fondamentalmente in immagini del tipo di quelle esaminate nella teoria della visione e del suono. Anche certe parole sono "vaghe e indefinite" per le idee stesse che suscitano: ad esempio "lontano", "antico", "notte", "ultimo", "eterno". E queste immagini ci affascinano perché solitamente evocano sensazioni che ci hanno impressionati nella fanciullezza. La "rimembranza" è parte fondamentale del sentimento poetico. Poetica dell'indefinito e poetica della "rimembranza" diventano tutt'uno: la poesia è un'operazione di recupero, recupero delle immagini della fanciullezza attraverso la memoria.[7]

Antichi e moderni, poesia d'immaginazione e poesia sentimentale

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Leopardi osserva che gli antichi, proprio perché più vicini alla natura, erano immaginosi come bambini ed erano quindi dei maestri della poesia vaga e indefinita. Il fatto che nella loro poesia ricorrano, con spontaneità, immagini vaghe e indefinite, è visto da Leopardi come una prova di questo carattere "fanciullesco". In questo senso, passi cari al poeta sono la similitudine con cui Omero descrive un notturno lunare e un episodio dell'Eneide, in cui il canto di Circe giunge ai Troiani da lontano, nel buio, sul mare. Nei moderni, invece, è perito questo "fanciullesco antico". Leopardi, attraverso Madame de Staël, riprende la distinzione schilleriana tra poesia d'immaginazione e poesia sentimentale. I moderni, ormai lontani dalla natura per colpa della ragione, sono disincantati e infelici, incapaci di produrre poesia d'immaginazione. A essi resta la poesia sentimentale, nutrita di idee filosofiche, che nasce dalla consapevolezza del vero e della miseria umana.

Tutti gli elementi, visivi e sonori, che comunicano il senso del "vago e indefinito" confluiscono regolarmente nelle liriche leopardiane fino al 1830, anno nel quale subentra una nuova poetica. Pur appartenendo all'epoca della poesia sentimentale ed essendone conscio, dunque, Leopardi non esclude il carattere immaginoso dai suoi versi, così come (almeno fino al 1830) non rinuncerà alle illusioni, ma, pur conoscendone la vanità, continuerà a vagheggiarle e a nutrirne la sua poesia.[7]

Leopardi e il Romanticismo

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Classicismo romantico

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A partire dal 1816, la nuova poetica romantica si scontrava con la tradizione classicistica della cultura italiana. Nella polemica tra classicisti e romantici Leopardi prende posizione, in virtù della propria formazione, contro i romantici. Lo fa in due scritti: una Lettera ai compilatori della "Biblioteca italiana" in risposta al famoso articolo di Madame de Staël e un Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, che però non vengono pubblicati.

Le sue posizioni sono però molto originali rispetto a quelle classicistiche. Dato che la sua poesia è espressione di una spontaneità originaria propria degli uomini primitivi e dei fanciulli, consente con i romantici italiani nella loro critica contro il classicismo accademico, il principio d'imitazione, l'abuso di riferimenti alla mitologia classica e in generale la pedanteria delle regole imposte dai generi letterari. Tuttavia la colpa dei romantici è per Leopardi un'artificiosità retorica di uguale intensità rispetto a quella classicista, ma tendente alla direzione opposta, cioè nella ricerca forzata dello strano, dell'orrido, del macabro. Inoltre rimprovera loro anche il maggior rilievo della logica rispetto alla fantasia, l'aderenza al "vero" che annichilisce ogni immaginazione. Per lui, come si è detto, sono gli antichi a costituire gli artefici della poesia immaginosa per eccellenza.

Leopardi dunque ripropone i classici come modelli, ma in senso assolutamente opposto al classicismo accademico; si può anzi dire che lo faccia con spirito schiettamente romantico. Nell'esaltazione di ciò che è spontaneo e non studiato, contaminato dalla ragione, egli appare più romantico degli stessi romantici italiani e più vicino allo spirito che allora animava la cultura europea. Si può perciò parlare di un classicismo romantico, per quel che riguarda il suo gusto letterario e la sua poetica. L'espressione non è un ossimoro: già l'esperienza foscoliana insegna come il vagheggiamento classico possa essere impregnato di spirito romantico.[8]

La lirica, il Romanticismo italiano e quello europeo

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Tra le varie forme poetiche, Leopardi predilige la lirica, intesa come espressione immediata dell'io, della soggettività, dei sentimenti, come canto (da cui il titolo della raccolta dei suoi versi, i Canti, inedito nella tradizione poetica italiana). Ciò costituisce un punto di contrasto con la scuola romantica lombarda, tendente a una letteratura oggettiva e realistica, moralizzante e intesa all'utilità sociale, e che quindi preferiva le forme narrative e drammatiche (si vedano le odi e i cori manzoniani a riguardo). Leopardi appare dunque più vicino allo spirito d'oltralpe. Ha convinzioni filosofiche illuministiche, sensistiche e materialistiche, laddove il Romanticismo europeo ha come presupposto una Weltanschauung idealistica e spiritualistica. Viceversa, sono tratti romantici della personalità leopardiana la tensione verso l'infinito, l'esaltazione della soggettività, il titanismo, l'importanza tributata ai sentimenti, il conflitto illusione-realtà, l'amore per il "vago e indefinito", il culto del primitivo e della fanciullezza come momenti privilegiati della vita umana, il senso del dolore cosmico (chiamato dai romantici tedeschi Weltschmerz, letteralmente "dolore del mondo").[8]

Le opere fondamentali e più studiate di Leopardi sono la raccolta dei suoi componimenti poetici, i Canti e la raccolta di prose satiriche intitolata Operette morali.

Lettere e scritti autobiografici

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Il corpus delle opere di Leopardi comprende varie lettere. Diversamente dalle raccolte epistolari di altri autori, che scrivevano le missive già pensando a una futura pubblicazione, quelle di Leopardi sono documenti intimi che però rivelano un alto livello letterario. Tra le più importanti ci sono le lettere scritte ai familiari, ad altri intellettuali e all'amico Pietro Giordani.

Leopardi aveva inoltre progettato un romanzo biografico, che avrebbe seguito l'evoluzione dei moti interiori dell'autore. Per questo aveva raccolto vari appunti, annotando ricordi, immagini e suggestioni dall'infanzia e dall'adolescenza.

I Canti

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Manoscritto del canto A Silvia

I componimenti poetici di Leopardi sono riuniti nella raccolta dei Canti. La prima edizione è pubblicata presso l'editore Piatti di Firenze nel 1831, e comprende dieci canzoni (già uscite nel 1824), i Versi (pubblicati in precedenza nel 1826) e alcuni scritti giovanili, uniti ad altri testi scritti tra il 1828 e il 1830. La seconda edizione è pubblicata nel 1835 a Napoli da Starita; vengono aggiunte: le poesie del "ciclo di Aspasia", due canzoni (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna nel monumento sepolcrale della medesima), la Palinodia e alcuni frammenti. L'ultima edizione appare postuma nel 1845 a Firenze per i tipi di Le Monnier. È curata da Ranieri, che segue l'impianto previsto da Leopardi, aggiungendo Il tramonto della luna e la Ginestra.[9]

Quando, nel 1819, Leopardi si allontana dalla cultura della sua prima educazione e approfondisce il suo pessimismo, avverte anche la necessità di una nuova letteratura. Questa tensione è ben visibile negli idilli, componimenti in endecasillabi sciolti nei quali confluiscono elementi autobiografici, sensazioni e sentimenti dell'autore. È importante sottolineare che per Leopardi il termine "idillio" non indica un genere letterario esatto, ma piuttosto una forma poetica indefinita, capace di dare voce al "piacere dell'immaginazione" da lui teorizzato in questa fase della sua vita. Nel 1819 scrive il frammento Odi, Melisso, L'infinito e Alla luna, a cui seguono La sera del dì di festa (1820), Il sogno e La vita solitaria (entrambi de 1821).[10]

Negli stessi anni in cui, attraverso gli idilli, scopre nuove possibilità per esprimere il suo io, Leopardi non rinuncia a forme poetiche più vicine al classicismo. Le canzoni composte in questo periodo, tuttavia, si aprono a riflessioni filosofiche: il poeta anche qui si interroga sul senso delle illusioni che caratterizzano la vita umana, seguendo la strada che porterà alla scoperta dell'«arido vero». Tra le canzoni più importanti di questo periodo ci sono quella Ad Angelo Mai (1820), il Bruto minore (1821) e l'Ultimo canto di Saffo (1822). Queste ultime due sono dedicate al tema del suicidio.[11]

Nel 1822 la forza vitale della poesia leopardiana conosce una battuta d'arresto. In questo periodo approfondisce il pessimismo materialistico e inizia a scrivere le Operette morale. Una nuova attenzione agli affetti e ai sentimenti nasce nella seconda metà degli anni venti. Leopardi non recupera il valore delle "illusioni", ma segue le emozioni e i sentimenti, che riconosce come elementi ineliminabili della natura umana. Durante il suo ultimo soggiorno a Recanati (1828-1830), il poeta compone quelli che sono ricordati come i grandi idilli. Tra questi, i componimenti più celebri sono la canzone A Silvia (scritta nell'aprile 1828), Le ricordanze (agosto-settembre 1828), La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio (entrambe del settembre 1829), Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia (ottobre 1829 - settembre 1830), Il passero solitario (di datazione incerta).[12]

 
Fanny Targioni Tozzetti ha ispirato a Leopardi le liriche del ciclo di Aspasia

Abbandonata Recanati e trasferitosi a Firenze, Leopardi giunge a una nuova coscienza di sé. In particolare approfondisce il tema dell'amore, che non è da intendere come una relazione reale ma piuttosto come il desiderio del poeta si sentire le emozioni determinate dagli incontri con donne reali. La frequentazione con Fanny Targioni Tozzetti è legata alla composizione delle liriche del ciclo di Aspasia, in cui percorre diverse fasi dell'esperienza amorosa. Leopardi prende le distanze dalla poetica del "vago" e cerca piuttosto una parola che aderisca al suo io attuale.[13]

Agli ultimi anni e al periodo napoletano risale la canzone La ginestra, o il fiore del deserto, scritta a Torre del Greco nella primavera del 1836. Qui Leopardi polemizza contro le tendenze spiritualistiche e progressiste, contrapponendovi immagini della violenza della natura (in particolare si sofferma sull'eruzione del Vesuvio e la distruzione delle città di Pompei ed Ercolano nel 79 d.C.). L'ultima canzone scritta dal poeta è Il tramonto della luna, la cui ultima strofa (secondo una tradizione messa in dubbio dagli studiosi) sarebbe stata dettata da Leopardi a Ranieri poche ore prima di morire. I toni sono diversi da quelli della Ginestra, con un paesaggio notturno che rievoca echi della poesia idilliaca dei primi anni.[14]

Le Operette morali

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L'aspirazione a scrivere dialoghetti satirici sul modello di Luciano risale al 1820 circa, ma è con l'indebolimento della sua vitalità poetica negli anni venti che Leopardi inizia a dedicarsi alla prosa e lavora alle Operette morali. Solo nel 1824 ne realizzerà venti, a cui negli anni successivi se ne aggiungeranno altre. Una prima edizione viene pubblicata a Milano presso Stella nel 1827. Segue una seconda edizione nel 1834, che esce a Firenze. Presso Starita di Napoli esce una terza edizione nel 1835, che però sarà bloccata dalla censura. Infine, nel 1845 viene pubblicata l'edizione postuma a cura di Ranieri, sulla base del piano previsto dallo stesso Leopardi.[9]

Leopardi dà vita a una prosa estremamente moderna e originale, distante dai modi linguistici diffusi nell'Italia dell'epoca. È infatti una prosa nitida, lucida, tagliente, la cui "misura classica" proviene dall'equilibrio tra caratteri regionali diversi. È distante dalle proposte avanzate durante la disputa sulla lingua, così come dal fiorentinismo usato da Manzoni nei Promessi sposi. È stato definito un linguaggio "lunare" (Ferroni),[15] che tocca le vette del lirismo ma allo stesso tempo è capace di spingersi verso la più impassibile speculazione filosofica.

Il modello per le Operette, oltre al già citato Luciano, sono i dialoghi di Platone: Leopardi propone, nei suoi brevi componimenti, immagini dell'infelicità dell'uomo, attraverso le quali approfondisce la negatività che caratterizza la condizione umana. Esprime il suo pensiero, estremamente originale, attraverso eleganti forme letterarie, confrontando le voci di personaggi diversi e proponendo racconti e invenzioni mitiche. Alcune operette si presentano come narrazioni e riflessioni teoriche, altre sono dialoghi.[16]

Oltre all'infelicità dell'uomo viene trattato il tema dell'ostilità della natura, e Leopardi polemizza con le ideologie che pongono ostacoli al raggiungimento della felicità, e irride le dottrine secondo cui l'uomo sarebbe al centro dell'universo. Lo scrittore guarda con distacco e ironia agli uomini, impegnati a inseguire i loro piccoli obiettivi, convinti di avere sottomesso la natura al proprio dominio. Non si accorgono, gli uomini, della marginalità a cui sono invece relegati e della loro reale infelicità.[17]

  1. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 121.
  2. 2,0 2,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 122.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 122-123.
  4. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 123.
  5. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 124.
  6. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 124-125.
  7. 7,0 7,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 125.
  8. 8,0 8,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 126.
  9. 9,0 9,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Manzoni e Leopardi, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 131.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 671.
  11. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 672-673.
  12. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 681-683.
  13. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 684-685.
  14. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 690-691.
  15. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 675.
  16. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 675-676.
  17. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 676.

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