Storia della filosofia/Giordano Bruno

Storia della filosofia

Il pensiero di Giordano Bruno, eclettico, inquadrabile filosoficamente nella schiera del naturalismo rinascimentale, nasceva dall'originale commistione di diverse discipline teoretiche e tradizioni filosofiche - materialismo antico, averroismo, copernicanesimo, lullismo, scotismo, neoplatonismo, ermetismo, mnemotecnica ed assunti ebraico-cabalistici -, improntato su un'unica idea: l'infinito, inteso come un universo infinito e composto da infiniti mondi, realizzato da un Dio altrettanto infinito, da amare infinitamente. Per le sue teorie, giudicate eretiche dal tribunale dell'Inquisizione dello Stato Pontificio, Bruno fu condannato e bruciato sul rogo a Roma il 17 febbraio 1600.

Pensiero

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Il Dio di Giordano Bruno è da un lato trascendente, in quanto supera ineffabilmente la natura, ma nello stesso tempo è immanente, in quanto anima del mondo: in questo senso, Dio e Natura sono un'unica realtà da amare alla follia, in un'inscindibile unità panenteistica di pensiero e materia, in cui dall'infinità di Dio si evince l'infinità del cosmo, e quindi la pluralità dei mondi, l'unità della sostanza, l'etica degli "eroici furori". Questi ipostatizza un Dio-Natura sotto le spoglie dell'Infinito, essendo l'infinitezza la caratteristica fondamentale del divino. Egli fa dire nel dialogo De l'infinito, universo e mondi a Filoteo:

« Io dico Dio tutto Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno e infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità de l'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esse chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello »
(Giordano Bruno, De l'infinito, universo e mondi[1])

Per queste argomentazioni e per le sue convinzioni sulla Sacra Scrittura, sulla Trinità e sul Cristianesimo, Giordano Bruno, già scomunicato, fu incarcerato, giudicato eretico e quindi condannato al rogo dall'Inquisizione della Chiesa cattolica. Fu arso vivo a piazza Campo de' Fiori il 17 febbraio 1600, durante il pontificato di Clemente VIII.

Ma la sua filosofia sopravvisse alla sua morte, portò all'abbattimento delle barriere tolemaiche, rivelò un universo molteplice e non centralizzato e aprì la strada alla Rivoluzione scientifica: per il suo pensiero Bruno è quindi ritenuto un precursore di alcune idee della cosmologia moderna, come il multiverso[2][3]; per la sua morte, è considerato un martire del libero pensiero.[4][5]

De umbris idearum

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Il volume comprende due testi, il De umbris idearum propriamente detto, e l'Ars memoriae. Nelle intenzioni dell'autore, il volume, di argomento mnemotecnico, è distinto così in una parte di carattere teorico e in una di carattere pratico.

Per Bruno l'universo è un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest'ordine sono le idee, principi eterni e immutabili presenti totalmente e simultaneamente nella mente divina, ma queste idee vengono "ombrate" e si separano nell'atto di volerle intendere. Nel cosmo ogni singolo ente è dunque imitazione, immagine, "ombra" della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in sé stessa la struttura dell'universo, la mente umana, che ha in sé non le idee ma le ombre delle idee, può raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che connette ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto.

Tale mezzo si fonda sull'arte della memoria, il cui compito è di evitare la confusione generata dalla molteplicità delle immagini e di connettere le immagini delle cose con i concetti, rappresentando simbolicamente tutto il reale.

Ars memoriae

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Nel pensiero del filosofo, l'arte della memoria opera nel medesimo mondo delle ombre delle idee, presentandosi come emulatrice della natura. Se dalle idee prendono forma le cose del mondo in quanto le idee contengono le immagini di ogni cosa, e ai nostri sensi le cose si manifestano come ombre di quelle,[6] allora tramite l'immaginazione stessa sarà possibile ripercorrere il cammino inverso, risalire cioè dalle ombre alle idee, dall'uomo a Dio: l'arte della memoria non è più un ausilio della retorica, ma un mezzo per ri-creare il mondo. È dunque un processo visionario e non un metodo razionale quello che Bruno propone.
A similitudine di ogni altra arte, quella della memoria ha bisogno di sostrati (i subiecta), cioè "spazi" dell'immaginazione atti ad accogliere i simboli adatti (gli adiecta) tramite uno strumento opportuno. Con questi presupposti, l'autore costruisce un sistema che associa alle lettere dell'alfabeto immagini proprie della mitologia, in modo da rendere possibile la codifica di vocaboli e concetti secondo una particolare successione di immagini. Le lettere possono essere visualizzate su diagrammi circolari, o "ruote mnemoniche", che girando e innestandosi l'una dentro l'altra, forniscono strumenti via via più potenti.

Cantus Circaeus

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L'opera, sempre in latino, è composta da due dialoghi. Protagonista del primo è la maga Circe che, risentita dal constatare che gli umani si comportino come animali, opera un incantesimo trasformando gli uomini in bestie, mettendo così in luce la loro autentica natura. Nel secondo dialogo Bruno, dando voce a uno dei due protagonisti, Borista, riprende l'arte della memoria mostrando come memorizzare il dialogo precedente: al testo si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior numero di spazi e i vari oggetti lì contenuti sono le immagini relative ai concetti espressi nello scritto. Il Cantus resta dunque un trattato di mnemotecnica nel quale però il filosofo già lascia intravedere tematiche morali che saranno ampiamente riprese in opere successive, soprattutto nello Spaccio de la bestia trionfante e ne De gli eroici furori.

Candelaio

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Ancora nel 1582 Bruno pubblica infine il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un italiano popolaresco che inserisce termini in latino, toscano e napoletano, corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele.

 
Esterno della chiesa di Santa Maria Assunta dei Pignatelli, in Largo Corpo di Napoli, presso il Seggio del Nilo, dove Bruno ambienta il suo Candelaio. Il nome deriva dalla statua del dio Nilo

La commedia è ambientata nella Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, in posti che il filosofo ben conosceva per avervi soggiornato durante il suo noviziato. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la signora Vittoria ricorrendo a pratiche magiche; l'avido alchimista Bartolomeo si ostina a voler trasformare i metalli in oro; il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile. In queste tre storie si inserisce quella del pittore Gioan Bernardo, voce dell'autore stesso[7] che con una corte di servi e malfattori si fa beffe di tutti e conquista Carubina.

In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua e vivace. La commedia è una feroce condanna della stupidità, dell'avarizia e della pedanteria.

Interessante nell'opera la descrizione che Bruno fa di sé stesso:

« L'autore, si voi lo conoscete, direste ch'ave una fisionomia smarrita: par che sii in contemplazione delle pene dell'inferno, par sii stato alla pressa come le barrette[8]: un che ride sol per far come fan gli altri: per il più lo vedrete fastidito e bizzarro, non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. »
(da Il candelaio, a cura di Augusto Guzzo, introduzione di Antonio Riccardi, Milano, Mondadori, 1994, p. 16)

La cena de le ceneri

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L'opera, dedicata all'ambasciatore francese Michel de Castelnau, presso il quale Bruno era ospite, è divisa in cinque dialoghi, i protagonisti sono quattro e fra questi Teofilo[9] può considerarsi il portavoce dell'autore. Bruno immagina che il nobile sir Fulke Greville[10], il giorno delle Ceneri, inviti a cena Teofilo, Bruno stesso[11], Giovanni Florio, precettore della figlia dell'ambasciatore, un cavaliere e due accademici luterani di Oxford: i dottori Torquato e Nundinio. Rispondendo alle domande degli altri protagonisti, Teofilo racconta gli eventi che hanno portato all'incontro e lo svolgersi della conversazione avvenuta durante la cena, esponendo così le teorie del nolano.[12]

 
Busto marmoreo di Niccolò Copernico, Jordan Park, Cracovia

Bruno elogia e difende la teoria dell'astronomo polacco Niccolò Copernico (1473 – 1543) contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come il teologo Andrea Osiander, che aveva scritto una prefazione denigratoria al De revolutionibus orbium coelestium, considera solo un'ipotesi ingegnosa quella dell'astronomo. Il mondo di Copernico, però, era ancora finito e delimitato dalla sfera delle stelle fisse. Nella Cena, Bruno non si limita a sostenere il moto della Terra di seguito alla confutazione della cosmologia tolemaica; egli presenta altresì un universo infinito: senza centro né confini. Afferma Teofilo (portavoce dell'autore) riguardo all'universo: «e sappiamo certo che essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve secondo la capacità sua corporale e modo suo essere infinitamente infinito. [...] non è possibile giamai di trovar raggione semiprobabile per la quale sia margine di questo universo corporale; e per conseguenza ancora li astri che nel suo spacio si contengono, siino di numero finito; et oltre essere naturalmente determinato cento e mezzo di quello».[13] L'universo, che procede da Dio quale Causa infinita, è infinito a sua volta e contiene mondi innumerabili.

Per Bruno sono principi vani sostenere l'esistenza del firmamento con le sue stelle fisse, la finitezza dell'universo e che in questo esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il Sole come prima vi si immaginava ferma la Terra. Formula esempi che appaiono ad alcuni autori come antesignani del principio di relatività galileiana.[14] Seguendo la Docta ignorantia del cardinale e umanista Nicola Cusano (1401 – 1464), Bruno sostiene l'infinità dell'universo in quanto effetto di una causa infinita. Bruno è ovviamente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della Terra – ma, risponde:

« Se gli dei si fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti »
(La cena de le ceneri: Teofilo: dialogo IV)

Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: ai primi spettano le questioni morali, ai secondi la ricerca della verità. Dunque Bruno traccia qui un confine abbastanza netto fra opere di filosofia naturale e Sacre scritture.

De la causa, principio et uno

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I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà naturale. Bruno lascia da parte l'aspetto teologico della conoscenza di Dio, del quale, come causa della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto aspirare a conoscere Dio solo per fede. Ciò che interessa a Bruno è invece la filosofia e la contemplazione della natura, la conoscenza della realtà naturale nella quale, come già aveva scritto nel De umbris, possiamo soltanto cogliere le «ombre», il divino «per modo di vestigio».

 
La costellazione di Orione

Riallacciandosi ad antiche tradizioni di pensiero, Bruno elabora una concezione animistica della materia, nella quale l'anima del mondo viene a identificarsi con la sua forma universale, e la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale. L'intelletto è il «principio formale costitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale, l'anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione.

La materia, d'altro canto, non è in sé stessa indifferenziata, un "nulla", come hanno sostenuto molti filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele.

La materia è allora il secondo principio della natura, della quale ogni cosa è formata. Essa è «potenza d'esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un principio senza l'altro. Ponendosi quindi in contrasto col dualismo aristotelico, Bruno conclude che principio formale e principio materiale benché distinti non possono essere ritenuti separati, perché «il tutto secondo la sostanza è uno».

Discendono da queste considerazioni due elementi fondamentali della filosofia bruniana: uno, tutta la materia è vita e la vita è nella materia, materia infinita; due, Dio non può essere al di fuori della materia semplicemente perché non esiste un "esterno" della materia: Dio è dentro la materia, dentro di noi.[15]

De l'infinito, universo e mondi

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Nel De l'infinito, universo e mondi Bruno riprende e arricchisce temi già affrontati nei dialoghi precedenti: la necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati»; l'infinità dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti; la mancanza di un centro in un universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza: la scomparsa dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori (i pedanti) che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a dipendere da quello che dicono gli altri e pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste anticaglie e con passo più sicuro procedono verso la verità.

Chiaramente un universo eterno, infinitamente esteso, composto di un numero infinito di sistemi solari simili al nostro e sprovvisto di centro sottrae alla Terra, e di conseguenza all'uomo, quel ruolo privilegiato che Terra e uomo hanno nelle religioni giudaico-cristiane all'interno del modello della creazione, creazione che agli occhi del filosofo non ha più senso, perché come già aveva concluso nei due dialoghi precedenti, l'universo è assimilabile a un organismo vivente, dove la vita è insita in una materia infinita che perennemente muta.

Il copernicanesimo, per Bruno, rappresenta la "vera" concezione dell'universo, meglio, l'effettiva descrizione dei moti celesti. Nel Dialogo primo del De l'infinito, universo e mondi, il nolano spiega che l'universo è infinito perché tale è la sua Causa che coincide con Dio. Filoteo, portavoce dell'autore, afferma: «Qual raggione vuole che vogliamo credere che l'agente che può fare un buono infinito lo fa finito? e se lo fa finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il possere et il fare tutto uno? Perché è inmutabile, non ha contingenzia nell'operazione, né nella efficacia, ma da determinata e certa efficacia depende determinato e certo effetto inmutabilmente: onde non può essere altro che quello che è; non può essere tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa: atteso che l'aver potenza distinta da l'atto conviene solamente a cose mutabili».[16]

Essendo Dio infinitamente potente, dunque, il suo atto esplicativo deve esserlo altrettanto. In Dio coincidono libertà e necessità, volontà e potenza (o capacità); di conseguenza, non è credibile che all'atto della creazione Egli abbia posto un limite a sé stesso.

Bisogna tener presente che «Bruno opera una netta distinzione tra l'universo e i mondi. Parlare di un sistema del mondo non vuol dire, nella sua visione del cosmo, parlare di un sistema dell'universo. L'astronomia è legittima e possibile come scienza del mondo che cade nell'ambito della nostra percezione sensibile. Ma, al di là di esso, si estende un universo infinito che contiene quei "grandi animali" che chiamiamo astri, che racchiude una pluralità infinita di mondi. Quell'universo non ha dimensioni né misura, non ha forma né figura. Di esso, che è insieme uniforme e senza forma, che non è né armonico né ordinato, non può in alcun modo darsi un sistema».[17]

Spaccio de la bestia trionfante

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« Quando aviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria, a fine che un tale non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che sia fatto prencipe un forfante. »
(Spaccio de la bestia trionfante, Fortuna (Sofia)[18]: dialogo II, parte II)

Opera allegorica, lo Spaccio, costituito da tre dialoghi di argomento morale, si presta a essere interpretato su diversi livelli, tra i quali resta fondamentale quello dell'intento polemico di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del nolano rappresenta il punto più basso di un ciclo di decadenza iniziato col cristianesimo. Decadenza non soltanto religiosa, ma anche civile e filosofica: se Bruno aveva concluso nei precedenti dialoghi che la fede è necessaria per il governo dei «rozzi popoli» cercando di delimitare così i rispettivi campi d'azione di filosofia e religione, qui egli riapre quel confine.

Nella visione di Bruno, il legame fra l'uomo e il mondo, mondo naturale e mondo civile, è quello fra l'uomo e un Dio che non sta "nell'alto dei cieli", ma nel mondo, perché la «natura non è altro che dio nelle cose». Il filosofo, colui che cerca la Verità[19], deve pertanto necessariamente operare là dove sono situate le «ombre» del divino. L'uomo non può fare a meno di interagire con Dio, secondo il linguaggio di una comunicazione che nel mondo naturale vede l'uomo perseguire la Conoscenza, e nel mondo civile l'uomo seguire la Legge. Questo legame è proprio quello che nella storia è stato interrotto, e il mondo tutto è decaduto perché è decaduta la religione trascinando con sé e la legge e la filosofia, «di sorte che non siamo più dèi, non siamo più noi». Nello Spaccio, dunque, etica, ontologia e religione sono strettamente interconnessi. Religione, e questo va evidenziato, che Bruno intende come religione civile e naturale, e il modello cui egli si ispira è quello degli antichi Egizi e Romani, che «non adoravano Giove, come lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità come fusse in Giove».

Per ristabilire il legame col divino occorre però che «prima togliamo dalle nostre spalli la grieve somma d'errori che ne trattiene.» È lo "spaccio", cioè l'espulsione di ciò che ha deteriorato quel legame: le "bestie trionfanti".

Le bestie trionfanti sono immaginate nelle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre "spacciarle", cioè cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vizi che è tempo di sostituire con altre virtù: via dunque la Falsità, l'Ipocrisia, la Malizia, la «stolta fede», la Stupidità, la Fierezza, la Fiacchezza, la Viltà, l'Ozio, l'Avarizia, l'Invidia, l'Impostura, l'Adulazione e via elencando.

Occorre tornare alla semplicità, alla verità e all'operosità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza, la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.

Responsabile di questa crisi è il cristianesimo: già Paolo aveva operato il rovesciamento dei valori naturali e ora Lutero, «macchia del mondo», ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.

Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla Verità, necessaria guida per non errare. A questa segue la Prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la Sofia, la ricerca della verità; quindi segue la Legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo; infine il Giudizio, inteso come aspetto attuatorio della legge. Bruno fa quindi discendere la Legge dalla Sapienza, in una visione razionalista nel cui centro c'è l'uomo che opera cercando la Verità, in netto contrasto col cristianesimo di Paolo, che vede la legge subordinata alla liberazione dal peccato, e con la Riforma di Lutero, che vede nella "sola fede" il faro dell'uomo. Per Bruno la "gloria di Dio" si rovescia così in «vana gloria» e il patto fra Dio e gli uomini stabilito nel Nuovo Testamento si rivela «madre di tutte le forfanterie». La religione deve tornare a essere "religione civile": legame che favorisca la «communione de gli uomini», la «civile conversazione».

Altri valori seguono i primi cinque: la Fortezza (la forza dell'animo), la Diligenza, la Filantropia, la Magnanimità, la Semplicità, l'Entusiasmo, lo Studio, l'Operosità, eccetera. E allora vedremo, conclude beffardo Bruno, «quanto siano atti a guadagnarsi un palmo di terra questi che sono cossí effusi[20] e prodighi a donar regni de' cieli».

È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, De gli eroici furori.

Cabala del cavallo pegaseo con l'aggiunta dell'Asino cillenico

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« Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi. »
(Cabala del Cavallo Pegaseo, Saulino: dialogo I)

La Cabala del cavallo pegaseo viene pubblicata nel 1585 insieme a l'Asino cillenico in unico testo. Il titolo allude a Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca nato dal sangue di Medusa decapitata da Perseo. Al termine delle sue imprese, Pegaso volò nel cielo trasformandosi in costellazione, una delle 48 elencate da Tolomeo nel suo Almagesto: la costellazione di Pegaso. "Cabala" si riferisce a una tradizione mistica originatasi in seno all'ebraismo.

 
Calcografia del 1596 raffigurante le stelle della costellazione di Pegaso che delineano la figura del cavallo mitologico Pegaso

L'opera, percorsa da una chiara vena comica, può essere letta come un divertissement, opera d'intrattenimento senza pretese; oppure interpretata in chiave allegorica, opera satirica, atto di accusa. Il cavallo nel cielo sarebbe allora un asino idealizzato, figura celeste che rimanda all'asinità umana: all'ignoranza, quella dei cabalisti, ma anche quella dei religiosi in generale. I continui riferimenti ai testi sacri si rivelano ambigui, perché da un lato suggeriscono interpretazioni, dall'altro confondono il lettore. Uno dei filoni interpretativi, legato al lavoro critico svolto da Vincenzo Spampanato, ha individuato nel cristianesimo delle origini e in Paolo di Tarso il bersaglio polemico di Bruno.[21]

De gli eroici furori

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Nei dieci dialoghi che compongono l'opera De gli eroici furori, pubblicati nel 1585 sempre a Londra, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza; quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze rivelano una passione di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione, cioè alla ricerca della verità, è invece espressione di un «furore eroico», con il quale l'anima, «rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali [...] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».

 
Diana e Atteone, Delacroix

Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con «aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani» ma, al contrario, con il «venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che Bruno assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene egli stesso preda, come Atteone che nel mito ripreso da Bruno, avendo visto la bellezza di Diana, si trasforma in cervo ed è fatto preda dei cani, i «pensieri de cose divine», che lo divorano «facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, [...] di sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri».

La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e quello più alto della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» assimiliandoci alla perenne e tormentata «vicissitudine» in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo. Il filosofo ci dice che per conoscere veramente l'oggetto della nostra ricerca (Diana ignuda) non dobbiamo essere virtuosi (virtù come medietà tra gli estremi) ma dobbiamo essere pazzi, furiosi, solo così potremmo arrivare a capire l'oggetto del nostro studio (Atteone trasformato in cervo); la ricerca e l'essere furiosi, non sono una virtù ma un vizio. Il dialogo è inoltre un prosimetro, come La vita nuova di Dante, un insieme di prosa e di poesia (distici, sonetti e una canzone finale).

De magia

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"Mago" è un termine che si presta a equivoche interpretazioni, ma che per l'autore, come egli stesso chiarisce sin dall'ìncipit dell'opera, significa innanzitutto sapiente: sapienti come per esempio erano i magi dello zoroastrismo o simili depositari della conoscenza presso altre culture del passato. La magia di cui Bruno si occupa non è pertanto quella associata alla superstizione o alla stregoneria, bensì quella che vuole incrementare il sapere e agire conseguentemente.

L'assunto fondamentale da cui il filosofo parte è l'onnipresenza di un'entità unica, che egli chiama indifferentemente "spirito divino, cosmico" o "anima del mondo" o anche "senso interiore", identificabile come quel principio universale che dà vita, movimento e vicissitudine a ogni cosa o aggregato nell'universo. Il mago deve tenere presente che come da Dio, attraverso gradi intermedi, tale spirito si comunica a ogni cosa "animandola", così è altrettanto possibile tendere a Dio dall'essere animato: questa ascensione dal particolare a Dio, dal multiforme all'Uno è una possibile definizione della "magia".[22]

Lo spirito divino, che per la sua unicità e infinità connette ogni cosa a ogni altra, consente parimenti l'azione di un corpo su un altro. Bruno chiama «vincula» i singoli nessi fra le cose: "vincolo", "legatura".[23] La magia altro non è che lo studio di questi legami, di questa infinita trama "multidimensionale" che esiste nell'universo. Nel corso dell'opera Bruno distingue e spiega differenti tipi di legami – legami che possono essere utilizzati positivamente o negativamente, distinguendo così il mago dallo stregone. Esempi di legami sono la fede; i riti; i caratteri; i sigilli; le legature che vengono dai sensi, come la vista o l'udito; quelle che vengono dalla fantasia, eccetera.


De minimo

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« Chi potrà ritenere che gli strumenti diano misurazioni esatte dal momento che il fluire delle cose non mantiene un identico ritmo ed un termine non si mantiene mai alla stessa distanza dall'altro? »
(da De minimo, in Opere latine, a cura di Carlo Monti, UTET)

Nei cinque libri del De minimo si distinguono tre tipi di minimo: il minimo fisico, l'atomo, che è alla base della scienza della fisica; il minimo geometrico, il punto, che è alla base della geometria, e il minimo metafisico, o monade, che è alla base della metafisica. Essere minimo significa essere indivisibile – e dunque Aristotele erra sostenendo la divisibilità all'infinito della materia – perché, se così fosse, non raggiungendo mai la minima quantità di una sostanza, il principio e fondamento di ogni sostanza, non spiegheremmo più la costituzione, mediante aggregazioni di infiniti atomi, di mondi infiniti, in un processo di formazione altrettanto infinito.[24] I composti, infatti, «non rimangono identici neppure per un attimo; ciascuno di essi, per lo scambio vicendevole degli innumerevoli atomi, si muta continuamente e ovunque in tutte le parti».

La materia, come il filosofo aveva già espresso nei dialoghi italiani, è in perenne mutazione, e ciò che dà vita a questo divenire è uno «spirito ordinatore», l'anima del mondo, una nell'universo infinito. Dunque nel divenire eracliteo dell'universo è situato l'essere parmenideo, uno ed eterno: materia e anima sono inscindibili, l'anima non agisce dall'esterno, poiché non c'è un esterno della materia. Ne viene che nell'atomo, la parte più piccola della materia, anch'esso animato dal medesimo spirito, il minimo e il massimo coincidono: è la coesistenza dei contrari: minimo-massimo; atomo-Dio; finito-infinito.[25]

Contrariamente agli atomisti, quali ad esempio Democrito e Leucippo, Bruno non ammette l'esistenza del vuoto: il cosiddetto vuoto non è che un vocabolo col quale si designa il mezzo che circonda i corpi naturali. Gli atomi hanno un "termine" in questo mezzo, nel senso che essi né si toccano né sono separati.[25] Bruno inoltre distingue fra minimi assoluti e minimi relativi, e così il minimo di un cerchio è un cerchio; il minimo di un quadrato è un quadrato, eccetera.[25]

I matematici dunque errano nella loro astrazione, considerando la divisibilità all'infinito degli enti geometrici. Quella che Bruno espone è, usando con terminologia moderna, una discretizzazione non solo della materia, ma anche della geometria, una geometria discreta.[26] Ciò è necessario onde rispettare l'aderenza alla realtà fisica della descrizione geometrica, indagine in ultima analisi non separabile da quella metafisica.[25]

Il processo e la condanna

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(IT)
« Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla. »

(LA)
« Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam. »
(Giordano Bruno rivolto ai giudici dell'Inquisizione[27])

 
Il processo di Giordano Bruno, bassorilievo del basamento della statua in Campo de' Fiori dello scultore Ettore Ferrari

La sera del 23 maggio del 1592, Giordano Bruno fu arrestato e tratto nelle carceri dell'Inquisizione di Venezia, in san Domenico a Castello. Naturalmente Bruno sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse dell'Inquisizione veneziana: nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando secondo «il lume naturale», può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli «errori» commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa.

L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio. Nuovi testi, per quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa Inquisizione, confermano le accuse e ne aggiungono di nuove.

Giordano Bruno fu forse torturato alla fine di marzo 1597, secondo la decisione della Congregazione presa il 24 marzo, stando all'ipotesi avanzata da Luigi Firpo e Michele Ciliberto[28], una circostanza negata invece dallo storico Andrea Del Col.[29] Giordano Bruno non rinnegò i fondamenti della sua filosofia: ribadì l'infinità dell'universo, la molteplicità dei mondi, il moto della Terra e la non generazione delle sostanze - «queste non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell'altro»[30]. A questo proposito spiega che «il modo e la causa del moto della terra e della immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura». All'obiezione dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto che la «Terra stat in aeternum» e il Sole nasce e tramonta, risponde che vediamo il Sole «nascere e tramontare perché la Terra se gira circa il proprio centro»; alla contestazione che la sua posizione contrasta con «l'autorità dei Santi Padri», risponde che quelli «sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».[31]

Il filosofo sostiene che la Terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno natura angelica, che l'anima non è forma del corpo, e come unica concessione, è disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana.

 
Roma, Piazza di Campo de' Fiori

Il 12 gennaio 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell'immortalità dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e del movimento della Terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il Bellarmino. Una successiva applicazione della tortura, proposta dai consultori della Congregazione il 9 settembre 1599, fu invece respinta da papa Clemente VIII[32]. Nell'interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice ancora pronto all'abiura, ma il 16 cambia idea e infine, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo Spaccio della bestia trionfante direttamente contro il papa, il 21 dicembre rifiuta recisamente ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire.

L'8 febbraio 1600, al cospetto dei cardinali inquisitori e dei consultori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Millini, è costretto ad ascoltare in ginocchio la sentenza che lo scaccia dal foro ecclesiastico e lo consegna al braccio secolare. Giordano Bruno, terminata la lettura della sentenza, secondo la testimonianza di Caspar Schoppe,[33] si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla»). Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova – serrata da una mordacchia perché non potesse parlare – viene condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.

« Egli volse il viso pieno di disprezzo quando ormai morente, gli venne posta innanzi l'immagine di Cristo crocefisso. Così morì bruciato miseramente, credo per annunciare negli altri mondi che si è immaginato in che modo i Romani sono soliti trattare gli empi e i blasfemi. Ecco qui, caro Rittershausen, il modo in cui procediamo contro gli uomini, o meglio contro i mostri di tal specie.[34] »
  1. Giordano Bruno, De l'infinito, universo e mondi, nei Dialoghi Italiani, Firenze, Sansoni 1985, pp. 382-385.
  2. Stefano Ulliana, Alcune recenti interpretazioni del pensiero di Giordano Bruno, Narcissus.me, 2012, pag. 212
  3. Ognuno di noi ha un sosia ma in un altro universo, su lastampa.it. URL consultato il 22 dicembre 2018 (archiviato dall'url originale il 4 febbraio 2018).
  4. Così per esempio il filosofo e deputato italiano Bertrando Spaventa, in La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, lezione V, a cura di G. Gentile; G. Laterza e figli, Bari 1908. Spaventa fu convinto assertore del ruolo fondamentale della filosofia italiana nel panorama della filosofia moderna, e in particolare di Bruno e Campanella.
  5. Si legga anche la dedica riportata sotto il busto marmoreo Archiviato il 6 luglio 2015 in Internet Archive. a Pietrasanta, opera dello scultore Antonio Bozzano, 1909, che così termina: «evocare l'apostolato e il martirio. I liberi pensatori della Versilia».
  6. Bruno 2008, introduzione, p. 145.
  7. Come suggeriscono anche le medesime iniziali: G.B.
  8. Le strisce di feltro che si pressano per usarle nella fattura dei cappelli.
  9. Dal greco: "amico di dio".
  10. Folco Grivello, nel testo.
  11. Nel testo Bruno si riferisce a sé stesso come "il Nolano".
  12. Si ritiene che la cena sia effettivamente avvenuta.
  13. Giordano Bruno, La cena de le Ceneri, in Giordano Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura di Michele Ciliberto, Mondadori, Milano, 2009, p. 77
  14. (EN) Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo, The contribution of Giordano Bruno to the principle of relativity (PDF), in Journal of Astronomical History and Heritage, vol. 18, n. 3, 2015, pp. 241-248. URL consultato l'11 gennaio 2016 (archiviato dall'url originale il 26 gennaio 2016).
  15. Il fatto che Dio sia nella materia non implica che Egli possa essere conosciuto, in altre parole per Giordano Bruno Dio è immanente da un punto di vista ontologico, mentre è trascendente sul piano gnoseologico. Nell'interrogatorio del 2 giugno 1592 egli dirà:
    « In questo universo metto una providenzia universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e si move e sta nella sua perfezione; e la intendo in due maniere, l'una nel modo con cui è presente l'anima nel corpo, tutta in tutto e tutta in qual si voglia parte, e questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l'altra nel modo ineffabile col quale Iddio per essenzia, presenzia e potenzia è in tutto e sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile »
    (Dal terzo costituto, 2 giugno 1592; Le deposizioni 2000, pp. 26-27)
  16. Giordano Bruno, De l'infinito, universo e mondi, in Giordano Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura di Michele Ciliberto, Mondadori, Milano, 2009, pp. 335-336.
  17. Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 167.
  18. Sofia è uno dei personaggi del dialogo: la Sapienza, o Conoscenza. Per sua bocca a parlare qui è la Fortuna, "fortuna" nel senso di sorte. "Sforfantare" si può intendere come "smascherare", "rendere evidente la disonestà". Non bisogna incolpare la sorte se alcuni diventano furfanti, ma la nostra incapacità di smascherarli e cacciarli via. I temi dell'ignorante che viene punito per la sua incapacità civile, e del saggio premiato per il suo ardire compaiono già ben delineati nel Candelaio.
  19. Il termine "filosofia" ha il significato etimologico di "amore per la sapienza", e va inteso in senso lato.
  20. Generosi.
  21. Gianmario Ricchezza (a cura di), Giordano Bruno, La cabala e l'asino, Milano, excelsior, 2010.
  22. In questo senso la magia di Bruno è uno strumento analogo all'arte della memoria, così come egli aveva teorizzato nel De umbris idearum. La trama dei vincoli di cui l'autore parla in questo testo e anche nel successivo De vinculis in genere, altro non è che l'"ordine mirabile" già descritto in quell'opera.
  23. O, nella traduzione di Luciano Parinetto, "ligatura": Giordano Bruno, La magia e le ligature, traduzione di Luciano Parinetto, testo latino a fronte, Mimesis, Milano, 2000.
  24. Ciliberto 1996, p. 121.
  25. 25,0 25,1 25,2 25,3 Introduzione a Opere latine, par. 1.
  26. A tale proposito: Ksenija Atanasijević, The metaphysical and geometric doctrine of Bruno, (1933), 1972.
  27. Citato in Caspar Schoppe, Epistola a Konrad Rittershausen, in Vincenzo Spampanato, Vita di Giordano Bruno. È la frase che Bruno pronunciò, costretto in ginocchio, dopo aver ascoltata la sentenza di condanna l'8 febbraio del 1600.
  28. «Al cadere del marzo 1597 o poco più tardi Bruno subì pertanto il suo diciassettesimo interrogatorio [...] forse inasprito dall'usuale mezz'ora di applicazione del supplizio della corda», (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, 1998, pp. 78-79). «Il 24 marzo 1597 la Congregazione stabilisce che l'imputato venga interrogato stricte, probabilmente con l'applicazione della tortura», (Ciliberto 1996, pp. 137-138).
  29. «Bruno non fu mai torturato e la diversa convinzione o dubbi al riguardo dipendono da una scarsa conoscenza dello stile del Sant'Ufficio romano: il termine usato per Bruno, "stricte", indicava un interrogatorio stringente, con contestazioni specifiche, mentre la tortura veniva formalizzata in termini diversi, con il voto previo dei consultori, durante una seduta della Congregazione». A. Del Col, L'inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, 2006, pp. 546-547.
  30. L. Firpo 1993, p. 301.
  31. L. Firpo 1993, pp. 302-303.
  32. Clemente VIII «decrevit et ordinavit quod praefigatur sibi terminus ad resipiscendum pro his quas confessus est», in L. Firpo 1993, p. 329
  33. Caspar Schoppe, Lettera a Conrad Rittershausen del 17/2/1600 L. Firpo 1993, pp. 348-355 tr. it. in Simonetta Bassi (a cura di), Immagini di Giordano Bruno 1600-1725, Napoli, Procaccini,1996. Lo Schoppe, un luterano convertito al cattolicesimo, fu presente sia al momento della lettura della sentenza, sia a quello dell'esecuzione del Bruno.
  34. Caspar Schopp, Lettera a Conrad Rittershausen del 17/2/1600