Missione a Israele/Verità evangeliche
Verità evangelica e ingenuità storica
modificaDove andiamo a cercare se desideriamo rispondere alla domanda, Chi fu Gesù di Nazareth?
La maggioranza degli storici iniziano dallo stesso punto del credente tradizionale, cioè dai documenti conservati nel Nuovo Testamento. I quattro Vangeli canonici – Matteo, Marco, Luca e Giovanni – integrati da riferimenti sparsi a Gesù nelle Lettere paoline, forniscono i materiali basilari per una qualsiasi costruzione si voglia fare della figura storica.
Tuttavia, sebbene i Vangeli diano informazioni preziose, come fonti storiche per Gesù il loro status è complicato. In primo luogo, rispetto al loro soggetto, sono fonti tardive. Nato forse negli ultimi anni del regno di Erode il Grande (che morì nel 4 p.e.v.; cfr. Matteo 2:1, Luca 1:5), Gesù morì quando Caiàfa era Sommo sacerdote, Pilato era il prefetto romano, e la Pesach cadeva di giovedì o venerdì (tutti dati suggeriti dalle narrative della Passione nei Vangeli) — vale a dire, c. 30 o 33 e.v. Ma i Vangeli sembra siano stati composti nel periodo tra la distruzione del Tempio o poco dopo (70 e.v.) e la fine del primo secolo (c. 90-100 e.v.) — in altre parole, circa quaranta/settanta anni dopo il tempo di Gesù. Viste le lacune cronologiche del periodo storico antico (secoli passano, per esempio tra la vita di Alessandro Magno [m. 323 p.e.v.] e i documenti che parlano di lui) quaranta/settanta anni non è poi così male. Tuttavia, quando consideriamo la varietà mutagena e l'intensità delle forze sociali, politiche e religiose che premevano sulle tradizioni cristiane in evoluzione in quel periodo tra la morte di Gesù e le prime narrazioni su di lui, possiamo meglio apprezzare quanto sia complessa la testimonianza dei Vangeli.
Per esempio, mentre le tradizioni che conservano alla fine si estendono indietro quella generazione o due che coprono tra il loro tempo e quello di Gesù, le storie degli evangelisti incorporano numerose importanti differenze tra il loro soggetto e se stesse. Gesù di Nazareth era una figura religiosa galilea la cui lingua vernacolare era l'aramaico (cugino linguistico stretto dell'ebraico) ed il cui insegnamento era esclusivamente orale (non abbiamo suoi scritti, né le prime fonti indicano che ne esistessero). Apparentemente limitava la sua attività ai villaggi della bassa Galilea e a Gerusalemme nel sud, forse con brevi escursioni attraverso il Giordano; andando a Gerusalemme, avrebbe attraversato la Samaria, che sta tra la Galilea e la Giudea. Questo è un altro modo per dire che il pubblico di Gesù, come egli stesso, era in gran parte composto da ebrei di lingua aramaica che vivevano in territorio ebraico. Ma la lingua degli evangelisti è il greco, in forma scritta, non orale. Nessuna sa dove siano stati composti i Vangeli, né le identità dei loro autori — le attribuzioni tradizionali ("Matteo", "Marco", "Luca" e "Giovanni") si sono evolute solo nel corso del secondo secolo: i testi originali circolarono anonimamente. Gran parte degli studiosi assegna i luoghi di origine a qualche locazione geografica nelle città di lingua greca dell'impero romano. Di conseguenza, la questione delle relazioni delle loro comunità coi Gentili, con la cultura gentile e con il governo imperiale si profila molto più vasta per gli evangelisti di quanto non lo fosse stata per Gesù stesso.
In breve, mentre l'insegnamento di Gesù fu orale e il suo contesto ebraico, aramaico, rurale e palestinese, quello degli evangelisti è scritto, misto (cioè, sia ebraico che gentile), linguisticamente greco e probabilmente nella matrice della città diasporica. Gettati oltre il divario tra queste distinzioni, attraverso tempo, spazio, cultura ed etnia, stanno i filamenti umani della tradizione orale. In definitiva, molte storie e detti presentati nei Vangeli probabilmente risalgono, tramite queste varie frontiere, ai seguaci originali di Gesù. Tuttavia, la testimonianza oculare non è mai scientifica o obiettiva, prima di tutto perché il testimone è umano. In questo caso particolare, la loro convinzione che Gesù fosse risorto dai morti, o che egli fosse l'agente speciale di Dio che compiva nella storia la redenzione di Israele e del mondo, avrebbe inevitabilmente influenzato i resoconti che tali testimoni diedero poi: altri testimoni, non così convinti, avrebbero parlato differentemente, e forse lo fecero.[1]
Inoltre, queste storie furono dette e ridette – da quelli delle generazione originale durante le proprie vite; da successive e intermedie generazioni poi – prima di raggiungere la stabilità relativa della scrittura. Revisione e amplificazione inevitabilmente corre lungo questa catena di trasmissione, anche perché i suoi anelli sono umani. Poiché non esiste modo di confrontare tradizioni orali successive con quelle precedenti, il grado di cambiamento o distorsione introdotto nella tradizione mentre si evolve, come le persone stesse che la ricevette e trasmise, si perde, silenziato dalla morte.
Né il conseguimento finale della forma scritta stabilizzò completamente tali tradizioni da e su Gesù, come mostra un semplice confronto di questi quattro Vangeli. I Vangeli differiscono tra di loro. A volte la questione è innegabile ma apparentemente senza importanza: per esempio, in Marco 8:27 Gesù chiede ai suoi discepoli: "Chi dice la gente che io sia?"; ma in Matteo 16:13 egli chiede: "La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?" Ma esistono divergenze ben più grandi. Alla fine di questa scena, la Confessione a Cesarea di Filippo, Gesù rimprovera Pietro chiamandolo Satana in Marco e Matteo (8:33/16:23: "Vattene via da me, Satana!"); in Luca Gesù non dice niente (cfr. 9:22); il Vangelo di Giovanni manca di tale scena (sebbene cfr. 6:68-69). Mentre il Gesù di Marco sembra apertamente ostile alle osservanze ebraiche tradizionali,[2] il Gesù di Matteo, nel Sermone della Montagna, le sostiene attivamente ("Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento", 5:17). E via dicendo.
Per dare un senso a tali tradizioni contrastanti, gli studiosi devono escogitare strategie interpretative. Dobbiamo armonizzare in qualche modo tali conflitti? O riconosciamo il conflitto e poi privilegiamo una tradizione rispetto all'altra? E se così, in base a cosa?
Tali valutazioni e scelte, nonché una riflessione autocosciente delle ragioni che ci fanno scegliere, sono tutte parti del processo di ragionamento storico. Quindi, man mano che procediamo nell'analisi del materiale evangelico, il primo compito deve essere quello di rendersi consapevoli delle sue complicazioni e difficoltà nella testimonianza storica. Una volta che abbiamo constatato, il più chiaramente possibile, quali siano i problemi, allora possiamo iniziare ad avvantaggiarci delle virtù della tradizione — quei punti dai quali, per quanto obliquamente, ci è permesso una sguardo alla figura storica di Gesù. Discerniamo tali punti di vantaggio distinti nella testimonianza antica ogniqualvolta riusciamo a stabilire una corrispondenza di elementi nel materiale evangelico con altri dati storici derivati indipendentemente da fonti non-evangeliche — dalle lettere di Paolo, scritte circa quindi anni prima del primo Vangelo, o dal vasto corpus di materiali conservati nelle opere dello storico del primo secolo, Flavio Giuseppe, oppure da altre fonti ebraiche quasi contemporanee, come i Manoscritti del Mar Morto. Laddove queste linee di prove testimoniali convergono, laddove i dati sono molti, allora possiamo iniziare a costruire un contesto storico ebraico del primo secolo — l'ambiente nativo di Gesù.
È il contrasto tra questo contesto ed alcune delle affermazioni fatte dai successivi Vangeli che ci permette di giudicare la loro affidabilità. Se i Vangeli asseriscono o descrivono qualcosa che non può adattarsi plausibilmente a ciò che sappiamo del periodo e del contesto culturale di Gesù, abbiamo tutte le ragioni per esitare dall'accettare l'asserzione o la descrizione come autentica storicamente. Ovviamente, sia in termini del costruire questo contesto del primo secolo sia in termini dell'ammassare dati su Gesù, non sapremo mai tanto quanto vorremmo sapere. Ma possiamo comunque sapere un bel po'.
Innanzitutto, però, quali sono i problemi nel considerare vangelo i Vangeli?
I Vangeli Sinottici
modificaLe tradizioni evangeliche conflittuali vengono, ampiamente parlando, in due tipi: conflitti tra i primi tre Vangeli (la cosiddetta tradizione sinottica); e conflitti tra la tradizione sinottica e Giovanni. Consideriamo ciascuno di questi, brevemente, a turno.
Gli studiosi si riferiscono a Matteo, Marco e Luca collettivamente come Vangeli Sinottici. Ciò perché possono essere "visti insieme" (gr. συνοπτικός, synoptikós = syn, "insieme", e opsis, "visione"): vale a dire, nonostante le divergenze, tutti e tre sono chiaramente variazioni di un tema condiviso. Per esempio, Matteo e Luca iniziano entrambi con la nascita di Gesù (sebbene le rispettive storie della natività differiscano strenuamente tra di loro); entrambi finiscono con le apparizioni post-Risurrezione, Matteo su una montagna su a nord, in Galilea, e Luca nei dintorni di Gerusalemme (Matteo 28:16-20; Luca 24:33-43, cfr. Atti 1:3-8). Il Vangelo di Marco, molto più corto, inizia col battesimo di Gesù fatto da Giovanni il Battista e finisce con la prima domenica dopo la Crocifissione con la tomba vuota (Marco 1:9,16:8 fine originale di questo Vangelo). Nonostante tutte le differenze nei particolari, nelle enfasi, nello stile e nelle caratterizzazioni sia di Gesù che dei discepoli, comunque, questi tre Vangeli prendono tutti forma intorno ad una cronologia narrativa comune. Una volta che la storia della missione pubblica di Gesù si dipana, tutti e tre presentano la stessa sequenza basilare degli eventi; e per tutti e tre, la missione di Gesù si svolge lungo una traiettoria a senso unico, dal nord, nella/intorno alla Galilea, al sud, nella narrazione e culmine teologico di Gerusalemme.
In tutti e tre i Sinottici, Gesù viene da Giovanni il Battista ed è battezzato: lo Spirito di Dio o lo Spirito Santo vien giù dal Cielo su di lui mentre una voce dall'alto dichiara Gesù "il mio figlio prediletto" (Marco 1:9-11 e paralleli). Dopo un ritiro di quaranta giorni nel deserto durante i quali viene tentato da Satana, Gesù inizia la sua missione. Chiama i suoi discepoli ed inizia a viaggiare per i villeggi della Galilea, scacciando demoni, guarendo gli infermi (a volte, sollevando controversie, di Sabbath), discutendo coi discepoli, dibattendo con altri ebrei (soprattutto, con Scribi e Farisei) sul significato della Legge ebraica, e rimettendo i peccati. Insegna inoltre, spesso in parabole, specialmente riguardo al regno di Dio e al Figlio dell'Uomo. Una volta che Pietro lo identifica come il Messia – "Tu sei il Cristo" (Marco 8:29 e parall.) – Gesù predice la sua prossima morte e risurrezione, e subito dopo, a Pietro, Giacomo e Giovanni, si rivela gloriosamente su una montagna, conversando con Mosè ed Elia, mentre una voce da una nube di nuovo proclama: "Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!" (la Trasfigurazione, Marco 9:7 e paralleli).
Infine, dopo aver passato gran parte del suo tempo a nord, Gesù si volge a sud, a Gerusalemme, per la Pasqua (Pesach). Tramite l'espediente delle predizioni della Passione, su Gerusalemme gravita l'ombra della croce su tutto il primo movimento della storia di Gesù: sappiamo che, una volta a Gerusalemme, Gesù morirà. Dopo la scorta trionfante verso la città composta da altri pellegrini pasquali, Gesù interrompe e sconvolge la vendita di piccioni nella corte del Tempio e così si fa nemici mortali dei sacerdoti. Continuando ad insegnare lì nei giorni prime della festività, Gesù predice la prossima distruzione del Tempio ("Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta", Marco 13:2 e par.) e descrive eventi che precederanno la Fine dell'Età ed il glorioso ritorno del Figlio dell'Uomo — figura, che ormai il lettore conosce, di Gesù stesso. Poco dopo uno dei suoi discepoli, Giuda Iscariota, decide di tradire Gesù ai Sommi sacerdoti: ciò deve esser fatto in segreto, perché Gesù è molto popolare con le folle di Gerusalemme (Marco 11:8 e par.; cfr. Luca 22:6). Durante il seder di Pesach giovedì notte, Gesù presenta il pane quale suo corpo ed il vino, suo sangue, e di nuovo preannuncia la sua morte prossima: il regno di Dio, implica, è vicino (Marco 14:17-25 e par.).
Dopo il loro seder, mentre stanno camminando nel buio della notte, Gesù viene identificato da Giuda e arrestato da una folla armata mandata dai sacerdoti. Varie autorità – i sacerdoti nei loro concili; Pilato, il prefetto romano; forse Erode (cioè, Erode Antipa, sovrano ebreo della Galilea e figlio di Erode il Grande; solo Luca lo riporta, 23:6-12) – lo interrogano. All'insistenza delle autorità ebraiche, che hanno la folla dalla loro parte, Pilato ordine di crocifiggere Gesù quel venerdì mattina; nel pomeriggio è già morto. Pilato quindi permette che il corpo venga sepolto prima che arrivi il Sabbath quella sera. Quando alcune delle donne che seguivano Gesù giungono alla tomba di primo mattino domenica, trovano la tomba vuota (16:1-8 e par.). E qui Marco si ferma. Matteo e Luca invece elaborano varie apparizioni post-Risurrezione.
Esaminati sinotticamente, i primi tre Vangeli canonici rappresentano una confluenza di tradizione cristiana: si mettono insieme a presentare un quadro ragionevolmente unificato della vita di Gesù. Tuttavia, esaminati criticamente e analiticamente, emergono le loro differenze, e man mano che aumenta la nostra consapevolezza delle loro divergenze, così succede anche per la necessità d'avere una qualche sorta di criteri che ci guidino nella lettura. Come dobbiamo scegliere tra i resoconti evangelici del passato, che appaiono così drasticamente contrastanti, a volte addirittura mutualmente esclusivi?
Per esempio, mentre le storie della natività di Gesù non predominano nel materiale canonico – due dei quattro Vangeli, Marco e Giovanni, sono completamente silenti sull'argomento – Matteo e Luca danno ciascuno narrazioni della nascita altamente sviluppate sebbene divergenti. Secondo Luca, Maria e Giuseppe vivono a Nazareth, nella Galilea. Viaggiano a sud verso Betlemme, la città designata scritturalmente quale luogo di nascita del Messia, in tempo per la nascita di Gesù. lo strano tempismo del loro viaggio viene spiegato da un censimento romano: " In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra (Luca 2:1. Sappiamo da altre fonti antiche che questo censimento avvenne nell'anno 6 e.v. — ma solo in Giudea, non in Galilea). Dopo la nascita, ritornano a casa a Nazareth. In Matteo, tuttavia, Maria e Giuseppe già vivono a Betlemme e quindi sono in situ per la nascita messianica. A causa dell'antagonismo omicida di Erode, la famiglia poi fugge in Egitto, ritornando solo quando Erode è morto (ricordiamoci che Erode era già morto nel 4 p.e.v.). Solo allora si spostano a nord stabilendosi a Nazareth (Matteo 1:18-2:23). Naturalmente, nessuna delle due storie potrebbe essere vera. Ma se scegliamo di dar credibilità ad una, l'altra fallisce: non possono essere entrambe vere.
Tradizioni orali e varie linee di trasmissione, parlate o scritte, coprono il tempo tra la scrittura dei Vangeli e la vita del loro soggetto, Gesù di Nazareth. I differenti evangelisti le formarono nelle rispettive loro narrative. Ma la molteplicità delle loro fonti implica un ulteriore datum sulla loro natura, cioè, che ciascun Vangelo in sé e di per sé, è in realtà un assemblaggio, una collezione di storie o detti originalmente distinti, che ciascuno scrittore poteva utilizzare come voleva. Pertanto, ad esempio, il Gesù di Matteo, durante il Sermone della Montagna, insegna che "non puoi servire Dio e mammona" quando discorre sui pericoli di lealtà contrastanti e la nullità di preoccuparsi del futuro. Il suo messaggio essenziale è: Non ti preoccupare del domani; poni la tua fede in Dio (Matteo 5:1-7:29). Il Gesù di Luca non dice nulla di questo durante il suo (molto più corto) Sermone della pianura (Luca 6:17-49). Ma questo insegnamento appare altrove, molto più tardi nella storia di Luca, durante una lunga e confusa parabola sull'amministratore disonesto (16); lì aggiunge un insulto ai Farisei ("I Farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui", 16:14).
Diciamo di esser convinti che, dietro al greco, questo versetto conserva un vero insegnamento di Gesù. Cosa intendeva significare? Il contesto aiuta a determinare il contenuto, fornendo un'ambientazione di significato entro cui porre la nostra interpretazione. "Ti amo" significa una cosa quando Giulietta lo dice a Romeo, un'altra quando Iago lo dice a Otello. Così succede anche per i differenti contesti qui. Se, come presuppongono gli studiosi, una lista senza contesto di alcuni detti e storie riguardo a Gesù circolavano, come tradizione orale o come un documento (ora perduto), allora entrambi gli evangelisti crearono nuovi contesti che a loro volta influenzarono un nuovo contenuto interpretativo del detto. Pertanto, se pensiamo che Gesù di Nazareth disse veramente: "Non potete servire a Dio e a mammona", ci necessita conoscere la sua situazione quando lo disse, per capire ulteriormente cosa avesse voluto significare. Stava proclamando una verità umana generica? O si stava spostando su una polemica specifica contro un altro gruppo ebraico? L'evidenza com'è, non può aiutare a risolvere la questione. La stessa frase, posizionata differentemente, produce due significati diversi.
Infine, questioni di fatto sono in perenne discussione. Ciò accade specialmente nelle narrazioni della Passione, che molti studiosi sostengono siano state i primi e, poiché così importanti, più stabili blocchi di tradizione. Matteo e Marco fanno apparire Gesù davanti a due sessioni di un concilio, convenuto la notte dopo il seder, e composto dal Sommo sacerdote, i sacerdoti principali, gli scribi e gli anziani (Marco 14:53,15:1 = Matteo 26:57,27:1). In entrambe, inoltre, il Sommo sacerdote e Gesù hanno un alterco al vertice dell'udienza: "Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?" "Io lo sono!" (Marco 14:61-62; cfr. Matteo 26:63-64); e in entrambi, il Sommo sacerdote dichiara che le parole di Gesù sono blasfemia (Marco 14:64 = Matteo 26:65). Luca tuttavia non riporta nessun processo notturno. Una solo conferenza viene tenuta al mattino, senza nessun dialogo tra Gesù e Sommo sacerdote, nessuna accusa di blasfemia viene pronunciata (Luca 22:54-70). E in Giovanni manca addirittura tutta la scena del processo ebraico. Lì, l'azione si svolge durante una sera diversa – sempre un giovedì, ma rispetto alla festività, nella notte prima della notte del seder – e il Sommo sacerdote Caifa e suo suocero, Anna, senza nessun concilio, brevemente e separatamente interrogano Gesù prima di passarlo, senza commenti, a Pilato (Giovanni 18:12-32).
Non abbiamo modo, solo guardando questi testi, di decidere quale sia il più affidabile o finanche il più plausibile. Per giudicare e confrontare gli evangelisti, dobbiamo esaminare altri tipi di testimonianze storiche – storie del periodo, come quelle di Flavio Giuseppe; tradizioni della legge ebraica e romana; registrazioni, ove si possano trovare, della pratiche giudiziarie di Roma nelle sue province – e usarle per ricostruire un contesto storico degli inizi del I secolo. Solo una volta che questo contesto storico generale è il più chiaro possibile, allora abbiamo uno standard di giudizio e un criterio di interpretazione con cui scandagliare il materiale evangelico.
Questo processo di costruirsi un contesto, una "descrizione a grandi linee" dell'ambiente immediato presa criticamente da quante più fonti possibili, è, di nuovo, fondamentale per il processo di ragionamento storico in generale, e per ricostruire il Gesù storico in particolare. Se qualcosa che viene presentata dagli evangelisti non si adatta ad una ricostruzione responsabile del periodo proprio di Gesù, allora c'è ragione di dubitare della sua affidabilità storica. Se la storia di un evangelista è più coerente con una ricostruzione degli interessi ebraici palestinesi del I secolo meglio di un'altra, allora abbiamo ragione di preferirla invece di un'altra nella nostra ricerca del Gesù storico, egli stesso un ebreo palestinese del I secolo. Questo procedimento di ricostruzione e di valutazione critica, inoltre, ci allerta sugli anacronismi, sia nelle presentazioni degli evangelisti sia nella nostra interpretazione degli stessi. Anacronismo, il posizionamento di persone o eventi fuori dal loro proprio contesto storico, è il primo e ultimo nemico dello storico, e desidero insistere sull'argomento in seguitoho data la sua cruciale importanza. Qui voglio sottolineare che i Vangeli di per se stessi non possono risolvere la questione riguardo alla loro propria autenticità storica.
Finora ho enfatizzato il conflitto in tale confronto dei Vangeli Sinottici. Ma cosa dire della loro confluenza? Cosa spiega le aree sostanziali di accordo tra di loro?
Sin dagli inizi della critica evangelica scientifica nel periodo moderno, gli studiosi hanno speculato che le somiglianze tra i Sinottici, specialmente la loro cronologia comune, riecheggiano una qualche relazione di dipendenza letteraria tra loro. È stata proposta e difesa virtualmente ogni possibile combinazione: che Luca usò Matteo, o viceversa; che Marco usò entrambi, ma li condensò; che il Vangelo di Matteo, originariamente in aramaico, fu tradotto in greco solo più tardi, e quindi fu il primo.
La maggioranza degli studiosi oggi accetta la (non incontestata) opinione che Marco scrisse per primo, che Matteo e Luca usarono Marco indipendentemente e che, oltra a Marco, questi successivi evangelisti ebbero accesso anche ad un'altra fonte greca su Gesù che conteneva ulteriori suoi detti ed alcune storie su di lui. Gli studiosi chiamano quest'ultima la "Fonte Q", dal tedesco Quelle, che significa "fonte": Gesù che insegna su Dio e mammona è un esempio di tale materiale. Questa cosiddetta ipotesi delle due fonti si rivolge a due domande. La prima è: come si spiegano le consonanze tra questi tre Vangeli? Risposta: sia Matteo che Luca usarono Marco. La seconda domanda, allora, riguarda la consonanza tra questi due Vangeli successivi: se sono indipendenti l'uno dall'altro, perché Matteo e Luca replicano verbalmente così tanto materiale che non si trova in Marco? Risposta: condivisero anche un'altra fonte, la Fonte Q ora perduta. Q era proprio un documento? Oppure era una collezione di detti e storie che circolavano oralmente? Non possiamo saperlo. La sua esistenza più sicura è una di definizione: Q è quel materiale comune a Matteo e Luca che non appare in Marco.
Il loro utilizzo di Marco e Q non solo spiega i modelli di somiglianza tra due Vangeli sinottici successivi; aumenta la nostra consapevolezza di come operarono questi evangelisti. Matteo e Luca non erano solo autori ma anche redattori, editori creativi di tradizioni più antiche che cambiavano anche mentre le conservavano. Inoltre, per presentare i loro ritratti di Gesù, elaborarono anche un testo molto più antico e prestigioso di quello marciano. Questi sinottisti successivi redassero anche una tradizione biblica nella forma della Septuaginta (LXX), traduzione greca delle Scritture ebraiche fatta da e per ebrei di lingua greca durante il terzo e secondo secolo p.e.v.
Tutti i cristiani antichi si rivolsero alla Bibbia per poter interpretare e difendere la loro comprensione della redenzione che Dio aveva compiuto tramite Cristo. Citazioni e riferimenti alla Bibbia pervadono i primi strati della tradizione — infatti, la sua dipendenza religiosa sulla Bibbia è l'indice dell'ebraicità intrinseca al primo movimento. Pertanto, quando Paolo riferisce la sua congregazione corinzia alla morte e resurrezione di Cristo, dice semplicemente (e, purtroppo, senza citare quale passaggio avesse in mente) "Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture (1 Corinzi 15:3). Cristo, nella Lettera agli Ebrei – sommo sacerdote, ministro del tabernacolo celeste, sacrificio perfetto di sangue (Ebrei 5:5,9:11-14) – è un assemblaggio di varie immagini levitiche prese dalla Torah. E senza le parole di Isaia, Daniele ed Ezechiele, il Libro della Rivelazione sarebbe inimmaginabilmente differente. Simultaneamente roccia fondamentale ed elemento costitutivo, la versione greca delle Scritture ebraiche in modi essenziali formò la prima proclamazione cristiana.
Ma l'uso della Bibbia da parte degli evangelisti andò ben oltre tali applicazioni teologiche. Nella Septuaginta, gli scrittori evangelici ritennero di avere una terza fonte storica d'informazione sulla vita e specialmente sulla morte di Gesù. Lo vediamo chiaramente in Matteo, che spesso antepone o conclude una qualche azione o storia con le parole "Ciò fu fatto affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta" (che tale profezia esistesse o meno nelle Scritture ebraiche). Tale uso creativo della Septuaginta chiaramente modella entrambe le narrazioni sinottiche della natività. La tradizione che la madre di Gesù fosse una vergine al tempo della nascita, per esempio, si rifà ad una profezia disponibile solo nella versione greca di Isaia 7:14: nell'ebraico originale, la parola che è alla base del parthenos di LXX, "vergine", è ‘aalmah, "giovinetta".[3] E questo uso biografico della Scritture antiche parimenti forma la presentazione da parte dei quattro evangelisti della scena della Crocifissione, dove l'azione continua della narrazioni evangeliche in effetti si frammenta in una moltitudine di riferimenti a vari versetti presi da Profeti, Proverbi e Salmi. Alla luce di tale quantità di citazioni, gli studiosi si devono chiedere se l'esistenza dell'immagine scritturale non creò i particolari o persino l'azione della storia.
Per dirla diversamente: la fonte di una storia evangelica su Gesù potrebbe trovarsi non in una qualche tradizione trasmessa e risalente ad un testimone contemporaneo degli inizi del I secolo, quando viveva Gesù, bensì nell'autorità religiosa di un distante passato biblico. La storia evangelica pertanto può fornire informazioni sulla lettura della tradizione biblica da parte dell'evangelista, e quindi anche sulla sua interpretazione teologica della figura di Gesù. Impariamo poco, tuttavia, su Gesù di Nazareth stesso. Ma è vero anche il contrario: proprio perché un evangelista si riferisce alla Bibbia quando presenta un episodio della vita di Gesù o un elemento del suo insegnamento, non significa che egli necessariamente costruisca da sé l'episodio e l'elemento. Nonostante la sua relativa glossa biblica, la tradizione stessa potrebbe essere autentica. Alla luce di queste complessità, tutto il materiale evangelico deve essere soppesato e giudicato prima che serva da testimonianza per il Gesù storico.
I Sinottici e Giovanni
modificaMarco serve da fulcro narrativo dell'ipotesi delle due fonti: suo è il Vangelo che fornisce la sequenza degli eventi, e in un certo senso la trama di base, per Matteo e Luca. A partire dalla fine del XX secolo, i biblisti si sono sempre più resi conto del grado in cui anche Marco stesso sia un redattore, un editore di tradizioni precedenti. Anche Marco ereditò il suo materiale da fonti differenti, in forme differenti — le storie dei miracoli, le parabole, le storie controverse, le guarigioni. Erano scritte o orali? Come decise di organizzare ciò che aveva? Ebbe accesso ad una qualche precedente cronologia storicamente affidabile, ora perduta, della missione di Gesù? O raccolse egli stesso quello che aveva ereditato, unendo pezzi di tradizione con il tessuto connettivo della sua immaginazione, organizzandoli per i suoi scopi – polemici, teologici, politici – nella sequenza che in definitiva servì a formare i successivi Sinottici? Per rispondere a tale domanda, dobbiamo considerare Marco insieme con un'alternativa canonica, Giovanni.
Abbiamo detto che Marco apre con la missione di Giovanni il Battista (in Giudea? Marco 1:5,9; cfr. v. 14). Giovanni battezza Gesù che, dopo un periodo di ritiro, inizia la propria missione, portando il messaggio evangelico – "Il Regno di Dio è vicino!" – ai villaggi della bassa Galilea. Chiama discepoli, esegue esorcismi e cure, discute con altri ebrei su questioni di osservanza, e si spinge a est del Mar di Galilea fino ad aree gentili (5:1-21) e a nordovest "nella regione di Tiro e Sidone" (7:31). Il contenuto della predicazione di Gesù, in altre parole, non ha niente a che fare con la sua propria identità. In effetti, egli è così notoriamente reticente su tale punto, azzittendo demoni quando lo riconoscono (cfr. 1:23-26), ordinando a oloro che guarisce di mantenere il silenzio (per es. 1:40-43), che gli studiosi hanno chiamato "segreto messianico" questo importante tema del Vangelo di Marco. Tale reticenza a sua volto sottolinea la confessione di Pietro vicino a Cesarea di Filippo dove, senza nessuna preparazione nella storia, Pietro sbotta "Tu sei il Cristo" (8:29). (Tipicamente, il Gesù marciano risponde ambiguamente. Matteo riscrive questa scena in parte per togliere qualsiasi dubbio che Pietro aveva identificato Gesù correttamente: cfr. 8:29-33 e Matteo 16:16-23.) La confessione di Pietro a sua volta produce la prima predizione della Passione da parte di Gesù:
Da questo punto in poi, Gerusalemme esercita un'attrazione gravitazionale sul resto della storia. (Diventa l'arena dei "sommi sacerdoti".) Gesù ripete questa predizione altre due volte, l'ultima esplicitamente quando si avvia insieme ai discepoli versa la città per la Pesach.
Salutato come "Figlio di Davide" da un cieco sulla strada di Gerico verso la città (10:47-48), Gesù ben presto viene spinto entusiasticamente a Gerusalemme da una folla di pellegrini che lo proclamano colui "che viene nel nome del Signore" mentre salutano "il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna!" (11:10). Gesù procede verso l'area del Tempio, poi si ritira nel vicino villaggio di Betania e ritorna al Tempio il giorno successivo.
Nella corte del Tempio, Gesù crea una scenata che paralizza tutte le attività, cacciando coloro che svolgevano compravendite nel cortile esterno (Marco specifica questi mercanti che vendevano colombi per il sacrificio, e cambiavalute, che facevano pagare una tassa per tale servizio 11:15-17). Ciò gli aliena i sommi sacerdoti e gli scribi, che lo "temono" e decidono di ucciderlo: "Cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento" (11:18). Ciononostante, Gesù continua ad andare nel Tempio, ad un certo punto predicendone la sua completa distruzione. Quando i suoi discepoli gli chiedono quando ciò accadrà, Gesù descrive degli eventi che prima devono accadere – falsi messia, guerre, la persecuzione dei suoi seguaci, l'evangelizzazione delle nazioni, un "abominio della desolazione" là dove non conviene. (Qui Marco si rivolge ai suoi lettori – "Chi legge capisca" [13:14] – per richiamare il riferimento che, preso da Daniele 9, implica il Tempio.) È dopo tutte queste cose che il Figlio dell'Uomo ritornerà nella gloria a radunare i suoi eletti:
I sacerdoti nel frattempo, afferma Marco, hanno deciso di arrestare Gesù di nascosto e ucciderlo: sanno che dovranno essere cauti perché Gesù è molto popolare (l'arresto non deve avvenire "durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo", 14:2). Dopo il sacrificio degli agnelli pasquali, Gesù organizza un pasto di Pesach, offre il pane ed il vino come una sorta di predizione della Passione (il pane è il suo corpo; il vino il suo sangue, "versato per molti"), e di nuovo predice la propria risurrezione (v. 28). Dopo il pasto, cade in un'imboscata di "una folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti" e portato alla loro assemblea riunita. "Falsi testimoni" lo accusano di aver minacciato di distruggere il tempio: "Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d'uomo" (14:58). Il rifiuto di Gesù a rispondere spinge il sommo sacerdote a chiedergli: "Sei tu il Cristo, il Figlio del benedetto?" A questo punto Gesù finalmente proclama pubblicamente la sua vera identità: "Io sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo" (v. 62).
Accusandolo di blasfemia (evidentemente a causa di questa succitata identificazione), i sacerdoti consegnano Gesù a Pilato che, senza entusiasmo, lo crocifigge quale "Il re dei Giudei" (15:26). Passanti e sommi sacerdoti lo scherniscono, insieme alla sua predizione sulla distruzione del Tempio: "Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!... Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, affinché lo vediamo e crediamo!" (15:26-32). Nel momento che Gesù muore, riporta Marco, "il velo del tempio si squarciò in due, dall'alto in basso" (v. 38). Vedendo Gesù morire, un centurione – in modo significativo, un Gentile – improvvisamente dichiara: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!". L'ultima scena è a Gerusalemme, quando donne seguaci di Gesù scoprono la tomba vuota. L'angelo che le aspetta lì ricorda loro la precedente predizione di Gesù: "È risorto, non è qui... Dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea (16:6-7; cfr. 14:28 durante l'Ultima Cena).
Ora confrontiamo Giovanni. Due differenze dall'opera di Marco balzano fuori immediatamente: l'itinerario e il suo carattere. Il Gesù giovanneo va avanti e indietro tra la Galilea e Gerusalemme, almeno quattro volte. Una volta là, invariabilmente va al Tempio, poiché viene per le festività di pellegrinaggio, Pesach (almeno due volte, cap. 2 e cap. 12) e Sukkot (Giovanni 7:10); una volta per la celebrazione della purificazione del Tempio da parte dei Maccabei ("Festa della Dedicazione", poi la Chanukkah della tradizione successiva, 10:22); e un'altra volta per una festività non meglio specificata (5:1). Il testo implica addirittura che egli vive a Gerusalemme per un periodo approssimato di quattro mesi, dalla festa autunnale di Sukkot (7:10) fino alla festa invernale che celebra la purificazione del Tempio (10:22).
Parimenti sorprendente è l'ambientazione che Giovanni fa dell'incidente nel Tempio. Il suo Gesù scaccia cambiavalute e mercanti di colombi (come anche quelli di pecore e buoi!) via dal Tempio nelle prime fasi della sua missione (2:13-17). Anche Marco, ricordiamocelo, aveva collocato questa scena all'inizio dell'entrata di Gesù a Gerusalemme. Ma in Marco, il pellegrinaggio di Gesù è il finale della sua missione: egli viene a Gerusalemme solo una volta, e questo incidente specificamente mobilita l'ostilità dei sacerdoti: in questo senso, l'azione di Gesù fa scattare la narrativa marciana della Passione. Marco deve quindi mettere la scena verso la fine della missione di Gesù. Quella di Giovanni, in contrasto, viene così presto nella sua storia che non può far scattare le azioni che porteranno poi alla Passione: altrimenti, il Vangelo sarebbe terminato ancor prima di averlo avviato.
Tuttavia, la scena del Tempio fa comunque riferimento alla futura Passione di Gesù, e in un certo modo che curiosamente richiama il tema marciano — la relazione tra il fato di Gesù ed il fato del Tempio. Per citarne un esempio fra tanti: Marco connette l'idea di distruzione e restaurazione con la frase "tre giorni" in due drammatici contesti-chiave: nella predizione di Gesù riguardo alla propria Passione e Risurrezione ("Il Figlio dell'Uomo deve venire ucciso... e dopo tre giorni risuscitare", Marco 8:31,9:31,10:34); e nell'accusa a lui attribuita davanti al concilio dei sacerdoti ("Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d'uomo", 14:58, ripetuto beffardamente alla Crocifissione, 15:29). Anche il Gesù giovanneo rende esplicita la connessione, sebbene gli agenti della distruzione del Tempio, nella sua versione, si sposti da Gesù agli ebrei di Gerusalemme: "Rispose loro [gli ebrei] Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere»... Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo" Giovanni 2:19:22). Per Giovanni, il significato del Tempio reale è sussunta completamente dal suo significato cristologico: l'intera immagine del Tempio distrutto indica la Passione. La funzione del Tempio qui è simbolica, non drammatica (come in Marco).
Inoltre, il Gesù di Marco ha confidato le sue predizioni della Passione solo ai suoi discepoli; Giovanni, come abbiamo appena visto, proclama pubblicamente la notizia sia a seguaci che a nemici. Ciò punta ad una seconda grande distinzione tra i due Vangeli, distinzione che influenzerà ogni valutazione del loro rispettivo ordine degli eventi: le differenti rappresentazioni evangeliche del carattere di Gesù.
Il Gesù marciano è uomo d'azione: impetuoso, indaffarato, spinto vivacemente da sinagoga a infermo, da spiaggia a campagna a mare, comandando a demoni con autorità, perfino ordinando alla natura di obbedire alla sua volontà. Ad un suo ordine, una tempesta in mare si quieta e il fico si avvizzisce (Marco 4:39,11:14,20). Queste dimostrazioni di potenza a loro volta evidenziano il duplice messaggio di Gesù: il Regno è vicino, e il Figlio dell'Uomo ha l'autorità di annunciare tale avvento. La storia stessa rende chiaro al lettore che questo £Figlio dell'Uomo" è veramente il Gesù di Marco; ma Marco non permette al suo protagonista di essere più specifico di così sulla propria identità. In effetti, il Gesù di Marco sembra nascondere la propria identità in discorsi oscuri, finanche quando l'annuncia in azioni decisive. Sebbene con "Figlio dell'Uomo" il Gesù marciano chiaramente intenda se stesso (per es. 8:31), tuttavia parla di tale figura solo in terza persona; e sempre richiede il silenzio da coloro che comprendonio chi egli sia veramente: il Figlio dell'Uomo, il Messia (8:29,14:61-62), il Figlio di Dio. "E gli spiriti immondi, quando lo vedevano, si prostravano davanti a lui e gridavano, dicendo: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li sgridava severamente, perché non dicessero chi egli fosse" (3:11-12). Ai discepoli, dopo che Pietro lo aveva identificato come Messia: "E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno" (8:30); dopodiché la voce dalla nube chiama Gesù "‘Il Figlio mio prediletto’... [Gesù] ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto" (9:9).
Queste tre designazioni per Gesù – Figlio dell'Uomo, Figlio di Dio, Messia – si raggruppano tutte insieme solo al culmine della storia marciana, il processo davanti al sommo sacerdote. Subito dopo averlo accusato di aver minacciato la distruzione del Tempio, il sommo sacerdote fa la domanda a Gesù (14:61). Solo qui Gesù apertamente conferma la sua identità, ed è proprio tale sua conferma che porta direttamente alla sua condanna a morte (9:57-64).
I due punti da notare qui sono che l'identità di Gesù è nascosta perché così vuole, fino a che arriva a Gerusalemme; e che la sua identità è vincolata, mediante la sua morte, con la distruzione del Tempio. Marco strutturò il suo Vangelo intorno a questo paradosso di occultamento e riconoscimento, che risolve drammaticamente conducendo il suo personaggio principale, Gesù, lungo un percorso intenzionale a senso unico dal nord (occultamento) a Gerusalemme (rivelazione). Inoltre, il suo Gesù profetizza nel capitolo 13 che, una volta che il Tempio sarà distrutto, il Figlio dell'Uomo ritornerà, glorioso, a radunare i suoi eletti. Gerusalemme ed il Tempio giocano quindi un ruolo-chiave nella rivelazione del Figlio. Man mano che Marco espone la sua storia, è proprio l'itinerario di Gesù – il singolo approccio drammatico a Gerusalemme – che sottolinea questo processo di rivelazione. In altre parole, la sequenza di eventi nella storia stessa di Marco sostiene il messaggio teologico del suo Vangelo. La piena identità di Gesù come Messia, Figlio di Dio, e Figlio dell'Uomo sofferente e trionfante viene rivelata o (secondo la profezia al cap. 13) sarà rivelata solo a Gerusalemme.
L'eloquente e discorsivo Gesù di Giovanni non è costretto da tali vincoli. A partire dal suo dialogo di apertura con Nicodemo ai soliloqui belcanto di chiusura la notte del suo arresto, questo Gesù proclama la sua propria identità teologica. È il Figlio di Dio, il Figlio dell'Uomo e il Cristo. Ed anche i suoi discorsi brulicano di molteplici metafore sacramentali: "Io sono il pane della vita... dal cielo" (Giovanni 6:35-38), la luce del mondo (8:12,9:5), la fonte d'acqua viva (4:7-15), la porta delle pecore (10:7-10), la Risurrezione e la Vita (11:25), la Via e la Verità (14:16), la Vera Vite (15:1). Gesù è l'unico che sia venuto giù dall'alto, dal Padre, al mondo sottostante; e pertanto solo coloro che lo riconoscono possono Ūvedere oltre questo mondo inferiore verso il reame superiore; solo loro possono conoscere il Padre (6:45-46,8:21-58). E parla apertamente e francamente del suo status extraumano: "Prima che Abramo fosse, Io Sono" (8:58) e ancor più audacemente: "Io e il Padre siamo uno" (10:30).
Il Gesù di Giovanni, in altre parole, pronuncia schiettamente le sofisticate credenze teologiche che l'evangelista ha su di lui. Gli interessi religiosi e letterari di Giovanni si concentrano e sono compresi nei lunghi monologhi ed estesi discorsi cristologici del suo personaggio principale. La sua struttura narrativa frastagliata, in contrasto, serve più che altro da cornice su cui appendere i discorsi di Gesù: sono semplicemente incidentali agli interessi centrali di Giovanni. E poiché il suo Gesù apertamente e dall'inizio insegna il suo proprio status teologico elevato, tale autoidentificazione non può servire, come servì in Marco davanti al sommo sacerdote, quale ragione per l'esecuzione di Gesù. Allora perché viene giustiziato? Giovanni presenta i sacerdoti insieme ai Farisei che determinano di uccidere Gesù perché temono che le sue attività metteranno a rischio in qualche modo il Tempio e il popolo:
Forse non c'è bisogno di scegliere tra queste due cronologie; forse possiamo adattare l'arco di tempo più breve descritto da Marco, con quello più lungo di Giovanni. Ma allora, cosa succede all'incidente del Tempio? Gesù potrebbe aver fatto la stessa protesta drammatica due volte, una volta agli inizi della sua missione e un'altra alla fine? Allora dovremmo rendere conto della motivazione dei sacerdoti nell'arrestarlo: perché offendersi ed allarmarsi – o persino stupirsi – se tale protesta accadeva quasi ogni anno che Gesù veniva a Gerusalemme? Forse dobbiamo preferire la descrizione di Giovanni. I molteplici pellegrinaggi di Gesù in città hanno un loro senso storico. I galilei abitualmente andavano avanti e indietro per le festività di pellegrinaggio; due anni e più (come viene implicato) danno più tempo a Gesù di stabilire la sua missione e proclamare il suo messaggio. Alla luce del suo successivo impatto nella storia, un periodo più lungo durante il quale il suo messaggio poteva metter radici, è forse più plausibile intrinsecamente. O forse la rappresentazione di Marco è migliore: un periodo breve di attività pubblica si conforma meglio all'itineranza e povertà che Gesù evidentemente imponeva ai suoi discepoli. Ma la cronologia di Marco ricapitola così immediatamente la sua cristologia: è veramente cosa casuale? Se deliberata, allora la sequenza narrativa marciana non è forse di per sé una testimonianza della sua libertà e creatività come redattore?
Di nuovo, forse la questione potrebbe essere risolta da una sorta di voto di maggioranza: è una divisione tre-a-uno a favore di un'unica ascesa passionale a Gerusalemme. Ma Matteo e Luca non rappresentano tradizioni indipendenti in questo senso. Le loro cronologie supportano quella di Marco perché Marco è la fonte di entrambi. La decisione si riduce a una divisione di pari valore: Marco o Giovanni.
Nuovamente, considerando questi Vangeli da soli non risolvono la questione. Dobbiamo valutare la loro rispettiva plausibilità e coerenza mettendoli nell'ambito del loro contesto contemporaneo sociale e religioso, e rispetto a ciò che possiamo ricostruire del contesto proprio di Gesù quaranta/sessanta anni prima dei vangeli. È questo contesto, costruito da altre fonti antiche, insieme ad un'attenta lettura delle nostre testimonianze primarie, che può aiutarci ad ottenere un qualche avanzamento sul terreno scivoloso della cronologia evangelica. E capire quando Gesù fece ciò che fece – scopo della cronologia – ci aiuterà a percepire meglio cosa egli poteva aver pensato fosse l'obiettivo della sua missione, e perché i sacerdoti ed i romani lo fermarono.
Anacronismo e innocenza intenzionale
modificaMettere insieme un quadro del contesto storico di Gesù richiede lo stesso sforzo interpretativo del leggere i Vangeli, se non di più. Ma per tale progetto ci sono molte più fonti da utilizzare, sia letterarie che archeologiche. Le fonti letterarie stesse sono più ricche: anche soltanto prendere due opere principali di Flavio Giuseppe, la Guerra giudaica (BJ) e Antichità giudaiche (AJ), aumenta di un ordine di grandezza significativo la riserva di informazioni sulla Galilea e la Giudea rispetto a quella che abbiamo dai soli evangelisti. E lo stesso Flavio Giuseppe non si discosta dal tempo di Gesù più di quanto non lo siano gli evangelisti. Inoltre, egli fu un partecipante ed un testimone dei principali accadimenti del suo popolo e secolo. Giovane uomo all'inizio della ribellione contro Roma nel 66, proveniva da una famiglia sacerdotale influente a Gerusalemme, dove serviva al Tempio. Tentò la difesa della Galilea; catturato, in seguito, fu testimone dell'assedio alla città. Possiamo incrementare i suoi resoconti affidandoci agli scritti di Filone d'Alessandria, un anziano contemporaneo di Gesù e di Paolo, che egli stesso fece pellegrinaggio a Gerusalemme. E possiamo formarci un dossier di dati pertinenti esaminando gli scritti di autori pagani — Plinio il Vecchio, naturalista romano del primo secolo che visitò la Palestina; o anche lo storico romano del tardo I secolo, Tacito, i cui scritti parlano anche della guerra giudaica. Sebbene queste fonti ci dicano poco o niente direttamente di Gesù stesso, ci aiutano comunque a comprendere il suo mondo.
Se questi documenti formano una traiettoria di testimonianze lungo il corso del primo secolo, allora gli scritti religiosi assortiti e i documenti specifici di varie forme di ebraismo del tardo Secondo Tempio ce ne forniscono un'altra. Questo contesto religioso specificamente ebraico, messo insieme da una ricca collezione di testi e commentari – i cosiddetti Apocrifi e Pseudoepigrafi, documenti scritti nel tardo Secondo Tempio o primo periodo romano che assumono il nome ed il prestigio di antiche figure religiose come Enoch o Mosè o Salomone; la vasta biblioteca conservata nei Manoscritti del Mar Morto; alcune lettere e sermoni raccolti nel Nuovo Testamento – ci dicono come altri ebrei del periodo di Gesù interpretarono la Bibbia, quindi la loro stessa storia ed il loro posto in essa. L'idea del regno di Dio, la risurrezione dei morti, la fine del male, l'istituzione di un nuovo o rinnovato Tempio, il riconoscimento universale della sovranità di Dio – basandoci sui Vangeli, temi proclamati da Gesù stesso – formò le speranze e convinzioni di molti ebrei del periodo. Familiarizzandoci coi loro insegnamenti, otteniamo una panoramica dei significati contemporanei di questi termini e quindi dei significati che possono essere stati dello stesso Gesù.
Infine, c'è la traiettoria fornita dalla testimonianza specificamente cristiana. I Vangeli ovviamente rappresentano la fonte primaria. Ma altrettanto importanti, per ragioni differenti, sono le lettere di Paolo.
Paolo sta in una sorta di punto intermediario tra Gesù di Nazareth e i successivi evangelisti sui cui ritratti dipendiamo per formarci un quadro complessivo di Gesù. Come gli evangelisti, e a differenza di Gesù, la lingua madre di paolo era il greco, la sua tradizione biblica la Septuaginta, il sua ambiente le città della Diaspora mediterranea. Come loro, inoltre, egli è molto più consapevole della cultura gentile di quanto non lo fosse mai stato il Gesù storico, consapevole anche delle conseguenze del messaggio evangelico ai Gentili: Paolo indirizzò le sue lettere specificamente, addirittura esclusivamente, ai credenti gentili. E, di nuovo, come loro – e presumibilmente non come il Gesù storico – il suo vangelo viene informato dalla fede post-Risurrezione. Paolo aveva visto il Cristo Risorto (1 Corinzi 15:8; Galati 1:16), e molto della sua buona novella, il suo euangelion (gr. εὐαγγέλιον), riguarda cosa aspettarsi dall'imminente ritorno glorioso di Cristo.
Ma come Gesù, e a differenza degli evangelisti, Paolo verso la fine degli anni 60. Tale fatto, insieme alla sua convinzione che Dio, mediante Cristo, stesse per per portare la storia umana ad un finale glorioso (1 Corinzi 15, Romani 11), ci deve cautelare quando designiamo Paolo un "cristiano". Naturalmente, Paolo fu un cristiano, ed è difficile sapere cosa significherebbe tale termine se non lo usassimo per lui: egli credette che Cristo era il Figlio di Dio, il Suo agente nella Creazione, e l'attore chiave nel attuare la redenzione dell'universo (per es. Filippesi 2:5-11).
Tuttavia Paolo si reputava un ebreo. Operava nell'ambito di un lasso di tempo molto condensato: "Il tempo ormai si è fatto breve... la forma attuale di questo mondo passa" (1 Corinzi 7:29,31). Per lui e la sua comunità "è arrivata la fine dei tempi" (1 Corinzi 10:11).
Un tale lasso di tempo non gli avrebbe certo permesso di concepire la sua missione di istituire nuove comunità separate e indipendenti da quelle ebraiche. Quando dibatte con gli apostoli, anche loro ebrei, dibatte su temi tipicamente ebraici: retaggio ("Sono Ebrei? Anch'io! Sono Israeliti? Anch'io! Sono stirpe di Abramo? Anch'io!" 2 Corinzi 11:22; "circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei" Filippesi 3:5; livello di osservanza religiosa ("quanto alla legge, fariseo... quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile", Filippesi 3:5-6; i suoi oppositori in Galazia "neppure loro, che sono circoncisi, osservano la legge", Galati 6:13); autorità religiosa ("il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione", Galati 1:11-12). Quando organizza una grande colletta, lo fa per il sostegno dei poveri a Gerusalemme (1 Corinzi 16:1-3; 2 Corinzi 1:1-9:15; Romani 15:25).
Ma sono le parole stesse di Paolo che rendono questo punto molto efficacemente – cioè, che il suo orientamento spirituale si centrava sulla Torah e sul Tempio del suo tempo, nell'ebraismo pre-70 – quando descrive il suo operato come inviato di Dio (gr. απόστολος, apostolos) alle nazioni per portare la buona novella della redenzione in Cristo. Paolo concepì il suo apostolato sull'analogia del servizio dei sacerdoti gerosolimitani al Tempio. Pertanto, quando sollecitava i Gentili a Corinto a capire che il supporto materiale della comunità è il diritto dell'apostolo, Paolo argomenta citando il Deuteronomio:
Un apostolo ha diritto al supporto della comunità che serve come i sacerdoti che servono la comunità a Gerusalemme:
In una lettera successiva, scrivendo per introdursi alla comunità gentile di Roma, Paolo enumera i privilegi e le prerogative con cui Dio ha distinto Israele:
Ho messo in corsivo le due parole nella lista di Paolo, "gloria" e "adorazione", perché l'italiano oscura la loro connessione immediata col Tempio. Per "gloria" il greco di Paolo ha doxa (δόξα); la parola ebraica che traduce è kavod, che nella letteratura ebraica non si riferisce alla gloria di Dio in generale, ma specificamente alla presenza gloriosa di Dio che dimora sulla terra nel Tempio di Gerusalemme. Come dice il Gesù di Matteo: "Chi giura per il Tempio, giura per esso e per Colui che l'abita" (Matteo 23:21). Inoltre, alla base della parola "adorazione" sta la parola greca di Paolo latreia (λατρεία): ciò richiama l'ebraico avodah (עֲבוֹדָה), l'adorazione di Dio. E come viene adorato Dio? Col culto che Egli ordinò a Israele tramite Mosè, che Israele conservò davanti lla presenza di Dio (nel Tempio) a Gerusalemme. "Adorazione " è una traduzione che non implica sangue, ma ciò che Paolo intende è "culto", specificamente il culto del sacrificio animale (che a sua volta, come abbiamo visto sopra, forniva cibo ai sacerdoti di Dio) che si svolgeva al Tempio, appunto.
Il Tempio e il relativo servizio ebraico per paolo rappresentano l'acme dell'adorazione umana di Dio. Pertanto, quando parla del proprio ruolo come apostolo, portando la colletta raccolta dalle comunità diasporiche gentili per i poveri di Gerusalemme, Paolo dice che Dio gli ha concesso la grazia di essere "un ministro di Gesù Cristo tra i Gentili, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i Gentili divengano una oblazione gradita" (Romani 15:16). Alla base della versione italiana dei corsivi stanno le parole paoline leitourgos ("ministro") e hierourgeo ("ufficio sacro"). In greco, la prima parola significa specificamente "attendente di un sacerdote", qualcuno che assiste coi sacrifici; la seconda parola, letteralmente, significa "opera del sacerdote", cioè fare offerte all'altare. E poiché Paolo in questo passaggio nomina Gerusalemme come sua destinazione, riceviamo un altro indizio che queste immagini non sono sacrificali in maniera generica, vale a dire, correlate ad un qualsiasi ufficio sacro o culto sacerdotale del I secolo a favore di un qualsiasi dio, bensì esse evocano specificamente il culto del Dio di Israele. Per Paolo, dietro a hieros, parola greca che traduce sacerdote, sta l'ebraico cohen (כּהן kohèn), il sacerdote che a Gerusalemme offre sacrifici al Dio di Israele.
Se Paolo, un ebreo della Diaspora e portavoce attivo della fede post-Risurrezione in Gesù quale Cristo, stimava così naturalmente e immediatamente il Tempio ed il suo culto, a maggior ragione dobbiamo aspettarci di vedere la stessa stima evidente nella missione e messaggio pre-Risurrezione di Gesù. Tuttavia le fonti evangeliche ne complicano la nostra visione in merito a questa problematica, perché sono scritte dopo, le guerre giudaiche contro Roma, e forse in un certo senso alla luce di tali eventi. Pertanto, sebbene il contesto narrativo dei Vangeli sia, approssimativamente, il primo terzo del primo secolo, dall'anno finale di Erode il Grande (m. 4 p.e.v.) al mandato di Ponzio Pilato (26-36 e.v.), il contesto storico degli scrittori evangelici è, approssimativamente, il terzo finale del primo secolo, c. 70-100 e.v. Tra questi autori e il loro soggetto ci fu la frattura irrecuperabile del culto tradizionale di Israele. La posizione degli evangelisti riguardo al Tempio è quindi più vicina alla nostra, nonostante i venti secoli che intervengono tra noi e loro, rispetto a quella delle generazioni che immediatamente li precedono. Loro, comed noi, sanno qualcosa che nessuna delle figure storiche di cui scrissero poteva sapere: cioè, che il Tempio di Gerusalemme non esisteva più.
Tale conoscenza non può non influenzare ciò che videro gli evangelisti, e ciò che vediamo noi, quando guardiamo indietro. Sia noi che loro siamo nella posizione di uno che legge un romanzo o guarda un film per la seconda volta. Gesti e azioni che la prima volta sembravano solo dare consistenza alla storia, ora pulsano di ora pulsano di un'intensità accresciuta, poiché sappiamo come finiranno le cose. L'appassionato sfogo di Giulietta quando Romeo si prepara a lasciare Verona in esilio – "O, think'st thou we shall ever meet again?" – sentito in tutta innocenza, sembra sia a Romeo sia ad un pubblico inconsapevole un'ansia esagerata di fronte alla separazione traumatica. Le sue assicurazioni che tutto andrà per il meglio – "All these woes shall serve / For sweet discourses in our times to come" – sono una reazione calmante e ragionevole. Ma la seconda volta, le parole di Giulietta assumono una terribile accuratezza, rendendo le parole di Romeo teneramente ingenue, persino patetiche.[5] Sappiamo troppo per poterle udire allo stesso modo due volte...
Stessa cosa per gli evangelisti. Quale che sia la tradizione da loro ereditata su Gesù e Gerusalemme, le ricevettero in un periodo con una realtà religiosa molto alterata: il culto ordinato da Dio al popolo ebraico, i cui particolari si estendevano lungo quattro dei primi cinque libri della Scrittura, la cui esecuzione era stata la responsabilità speciale del sacerdozio di Gerusalemme, e la cui modalità di esecuzione aveva alimentato aspre dispute di interpretazione e un vigoroso settarismo nel periodo del tardo Secondo Tempio, aveva cessato di esistere. Detti e storie di Gesù e del Tempio, o di Gesù e le leggi della purezza riguardo al Tempio, o di Gesù e quei gruppi la cui devozione si concentrava specialmente sul Tempio, di conseguenza acquisirono una dimensione aggiunta dalla prospettiva post-70 propria degli evangelisti: Gesù parlava ed interagiva con un'istituzione e rispettive autorità religiose che erano svanite. Come poteva non conoscere cosa sarebbe successo da lì a breve? Cosa poteva intendere Dio nel permettere una tale enorme distruzione? Gli sforzi degli evangelisti per rispondere a queste domande influenzò intimamente la loro ricostruzione della tradizione.
Stessa cosa per la ricerca storica: anch'essa è oberata (in questo senso) dal saper troppo. La nostra conoscenza retrospettiva forma discretamente ciò che vediamo. Noi sappiamo che il Tempio cessò d'essere il centro della devozione attiva cristiana subito dopo il tempo di Gesù; che la maggioranza delle leggi della purezza diventarono presto irrilevanti al movimento che si stava espandendo; che le chiese sarebbero diventate sempre più gentili e, infine, antiebraiche. E questa conoscenza a sua volta può dar peso a quelle interpretazioni moderne del materiale neotestamentario in cui Gesù sembra alienato o ostile o indifferente agli interessi e impegni dei suoi contemporanei ebrei. La retrospezione inevitabile per il progetto storico può, ironicamente, minacciare il collasso della distanza tra presente e passato. E tale collasso a sua volta minaccia il progetto storico sia moralmente che intellettualmente.
Moralmente, questa diminuzione di differenza tra presente e passato può portarci a proiettare ciò che è significativo per noi indietro verso il nostro soggetto di ricerca. Specialmente quando studiamo testi religiosi come i Vangeli o figure culturalmente centrali come Paolo e, ancor di più, Gesù, il desiderio di avere queste antiche voci rivolgersi al presente immediato, ad essere spiritualmente e moralmente in sintonia con attuali preoccupazioni, troppo spesso le stacca dal loro contesto storico mettendole su un territorio familiare a generazioni successive ma estranee a loro stesse. Ne vediamo i risultati nel Cristo della chiesa imperiale occidentale, raffigurato in un mosaico italiano del sesto secolo come un ufficiale dell'esercito romano. Li vediamo nel Gesù degli studiosi protestanti liberali nei secoli XVIII e XIX, che emerge dai loro pesanti tomi egli stesso come liberale religioso. Li vediamo ora, quando il Gesù accademico del XXI secolo combatte nazionalismo, sessismo e gerarchie sociali. Un tale Gesù è subito rilevante per gli interessi che formano questi contesti moderni. Ma tale rilevanza è acquisita al prezzo dell'anacronismo.
Per fare storia onorabilmente e bene, allora, richiede la disciplina morale di permettere al divario di venti secoli di aprirsi tra noi e i nostri soggetti antichi. Ciò che ci interessa, ciò che per noi è significativo, coinciderà alla meglio solo raramente con quello che interessava a loro. Vivevano in un mondo differente. Alcuni aspetti di tale mondo possono essere percepiti bene quanto nel nostro: anche noi possiamo comprendere le conseguenze sociali dell'oppressione e della povertà, gli effetti spirituali della preghiera. Ma alcuni aspetti rimarranno ostinatamente estranei, sempre fuori dalla nostra esperienza e dalle nostre categorie di significato, proprio perché l'antico passato è antico. Non è affatto il nostro mondo, ma un luogo dove la lebbra e la morte contaminano, dove le ceneri e l'acqua purificano, e dove uno si appropinqua all'altare di Dio con purificazioni, offerte sacrificali e timore.
Rispettare la loro integrità storica e autonomia morale, permettere a Gesù o a Paolo o agli evangelisti quali ebrei del tardo Secondo Tempio o cristiani del post-Secondo Tempio di preoccuparsi di ciò che li interessava e non di ciò che interessa noi – di cui loro non avevano responsabilità e di cui loro non avevano conoscenza – è l'unico modo di vederli nella loro piena umanità. Qualunque cosa di meno praticamente riveste versioni camuffate di noi stessi in abbigliamento antico, mascherando figure di un dramma in costume che abitano comodamente la scena moderna, non l'antico passato. Pertanto, sia leggendo i Vangeli stessi che valutandone gli studi moderni, dobbiamo chiedere se sensibilità posteriori influenzino la presentazione del passato, un passato veramente vissuto da Gesù e dai suoi contemporanei — simpatizzanti, ammiratori, oppositori, nemici.
La "spinta all'indietro" della storia comporta anche pericoli intellettuali. Di nuovo, come il lettore che legge due volte lo stesso romanzo o lo spettatore che vede due volte lo stesso film, non possiamo fare a meno di saperne più di quanto dovremmo. Oltre alla disciplina morale di tener conto dell'alterità, quindi, dobbiamo coltivare anche la disciplina intellettuale di vedere il passato come se sapessimo meno di quanto sappiamo.
Ciò è difficile proprio perché la storia di sua natura è retrospettiva. Iniziamo dal nostro punto di vantaggio nel presente e ci sforziamo di tornare indietro in un passato immaginato. Ma sebbene la storia si faccia sempre tornando indietro, la vita si vive solo andando avanti. Noi tutti ci spostiamo dal nostro presente verso l'inconoscibilità radicale del futuro. Se nel nostro lavoro storico desideriamo ricostruire l'esperienza vissuta di un popolo antico, allora dobbiamo rinunciare alla nostra conoscenza retrospettiva, perché ci dà una prospettiva delle loro vite che loro stessi non potevano proprio avere. Guardando indietro ora, sappiamo come siano finite le loro storie; loro, vivendo le loro vite, no.
Per comprendere il nostro popolo antico dalle testimonianze che hanno lasciato, dobbiamo fingere un'ingenuità intenzionale. Dobbiamo pretendere un'innocenza del futuro che riecheggi la loro. Solo allora possiamo sperare di ricrearli realisticamente nelle loro proprie circostanze storiche. Solo accettando – in effetti, rispettando e proteggendo – l'alterità del passato, possiamo sperare di scorgere la facce umane di coloro che cerchiamo.
Propongo di iniziare la ricerca di Gesù di Nazareth esaminando un'attività apparentemente comune sia alla cultura moderna che a quella antica: l'adorazione di Dio.
Note
modificaPer approfondire, vedi Biografie cristologiche, Interpretare Gesù in contesto e Riflessioni su Yeshua l'Ebreo. |
- ↑ Cfr. Matteo 28:17.
- ↑ Cfr. per es. Marco 7:1-23 e il commento di Marco al v. 19.
- ↑ È stato anche ipotizzato che i racconti evangelici abbiano avuto origine per influenza di storie similari presenti nelle mitologie di altri popoli, in modo particolare nell'ambiente ellenistico, con esempi di partenogenesi, cefalogenesi, geogenesi, i miti della nascita di Venere, ecc. Cfr. Helmut Koster, Ancient Christian Gospels: their history and development, Trinity Press, 2004
- ↑ Ogniqualvolta uso il corsivo nelle citazioni, lo faccio per evidenziarne il testo.
- ↑ Da The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet, di William Shakespeare (1596).