Missione a Israele/Dio e Israele

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Heinrich Hofmann: "Cristo nel Getsemani" (1890)

Dio e Israele nell'antichità romana modifica

Qual è la più grande singola differenza tra la sensibilità religiosa delle persone nell'Occidente moderno e i nostri antenati culturali di venti secoli fa? Quando facevo questa domanda ai miei studenti, invariabilmente nominavano distinzioni tra idee religiose: gli antichi adoravano molti dei, ma noi siamo monoteisti; gli antichi reputavano che demoni o influenze astrali causassero malattie, ma noi, grazie alla medicina scientifica, combattiamo virus (e recenti pandemie!), batteri, cellule del sangue erranti; gli antichi seguivano i corsi del cielo, le stelle e i pianeti, per capire il mondo e il loro posto in esso, mentre noi guardiamo le realtà terrene – società, economia, politica – per analizzare il nostro.

Queste risposte hanno le loro virtù — sebbene io abbia incontrato troppo spesso colleghi moderni che consultano carte astrologiche e scongiurano demoni, per esserne completamente convinto. Tuttavia non penso che la maggiore differenza stia nel reame delle idee religiose. Gli antichi Ebrei erano monoteisti ma si preoccupavano anche di pianeti e demoni; certe filosofie pagane avevano comunque le loro proprie forme di monoteismo. Ciò che è cambiato, cambiato drasticamente, è il comportamento religioso. L'adorazione nell'antichità comportava sacrifici di sangue. Universalmente, l'adorazione di una divinità – virtualmente qualsiasi divinità – comportava la macellazione di animali e la distribuzione rituale dei loro corpi: alcune parti bruciate sull'altare alla divinità, altre parti consumate dai sacerdoti, altre parti ancora distribuite agli adoratori. E poiché la prossimità all'altare di un dio, in un certo senso significava anche prossimità alla santità, tutti i popoli antichi che offrivano ad altari tradizionali, sia pagani sia ebraici, si sottomettevano a riti di purificazione. I riti purificatori aiutavano a preparare l'adoratore al suo incontro col sacro mediante sacrificio.

Purezza modifica

Le leggi di purezza pagane, come il paganesimo stesso, tendevano a essere locali, particolari per il culto specifico di un dio. Le loro leggi, quando erano pubbliche (nei culti misterici il silenzio era di regola), circolavano molto meno ampiamente della scritture ebraiche: le troviamo inscritte nella pietra, su tavolette associate ai santuari, o accennate nella letteratura e poetica antiche. I rituali dell'acqua, astensione dal sesso, digiuno o evitamento di certi cibi — potremmo considerarli come note musicali componenti la scala delle tecniche purificatrici. Tutti i popoli antichi preoccupati della purezza esprimevano la propria cultura religiosa suonando tali note: gli antichi riti purificatori e il protocollo sacrificale, in tecnica simili a quelli osservati dagli Ebrei, erano quindi variazioni particolari suonate su questo tema universale di adorazione. Quando commentavano riguardo a quello che facevano gli Ebrei, i pagani, sia che fossero ammiratori o ostili, citavano la circoncisione o l'osservanza del Sabbath o il rifiuto di mangiare maiale: queste pratiche li colpivano come molto strane. La purificazione e i sacrifici ebraici, tuttavia, non provocavano tale commento, perché nella sensibilità religiosa antica, tali pratiche erano semplicemente normali. La cosa più estranea alle religiosità occidentale moderna circa l'ebraismo antico – i sacrifici e le relative regole di purezza – veniva ritenuta da osservatori antichi come una delle poche cose normali che facevano gli Ebrei.

Sappiamo molto di più delle antiche leggi ebraiche che regolavano la purezza di quanto non sappiamo di quelle pagane, perché le leggi ebraiche sono tuttora pubblicate: la loro istituzione, insieme al corretto protocollo delle offerte, costituisce gran parte della materia stabilita da Dio con Mosè nei primi libri della Bibbia. La narrazione biblica specifica la purezza come condizione per la persona che si avvicina alla Presenza Divina — nel linguaggio della storia, che appare davanti alla tenda dell'incontro; nel periodo di Gesù, che va al Tempio. Impurità in questo contesto è uno stato reale, oggettivo, solitamente temporaneo. Tale stato lo si può incorrere tramite certi processi corporei naturali (e spesso involontari), come l'eiaculazione, mestruazione, parto o aborto, o vari perdite genitali. Alcune sostanze o oggetti contaminanti – cadaveri umani specialmente; ma anche malattie esfolianti (la "lebbra" biblica, che poteva affliggere non solo le persone, ma anche gli abiti, le case e la mobilia); i corpi di certi animali – potevano causare impurità tramite contatto e anche prossimità. La Scrittura presume che tutti a un dato momento si sarebbero trovati in tale condizione impura per un dato periodo – era quasi impossibile evitarla – e gran parte delle persone erano in tale condizione gran parte del tempo. Ma la Scrittura prescriveva anche i mezzi per rimuovere l'impurità. Un sistema di "lava-e-aspetta" – immersione e osservanza di un periodo di tempo liminale (fino al tramonto; sette giorni; quaranta giorni: variava a seconda dei casi) – mondava dalla maggioranza delle impurità.

 
Antica mikveh vicino al Monte del Tempio, Gerusalemme

Molte di queste leggi sulle impurità regolavano specificamente l'accesso al Tempio. In linea di principio riguardavano tutto Israele, sebbene i sacerdoti avessero, a causa delle loro speciali responsabilità cultiche, regole purificatorie aggiuntive a seconda dei loro compiti. Le Grandi Festività in particolare provocavano grandi sforzi per assicurare che i pellegrini fossero nelle condizioni giuste di purezza per avvicinarsi a Dio: oltre alle descrizioni che rimangono nella letteratura antica, le nostre testimonianze si riscontrano proprio nelle pietre del Tempio stesso, dove a tutt'oggi tracce di una gran quantità di vasche d'immersione si ritrovano quali mute immagini del gran numero di ebrei che le usavano mentre si avvicinavano all'altare. Il Tempio era strutturato e preparato per accogliere innumerevoli moltitudini di adoratori.

La sola immensità del Tempio e i reperti archeologici della sua tecnologia delle purificazioni indicano un ulteriore fatto culturale e sociale riguardo all'ebraismo antico che lo distingue dal paganesimo tradizionale. Le religioni delle culture maggioritarie dell'antichità erano locali; man mano che uno passava da santuario a santuario, da bosco sacro a una divinità, a una valle o montagna sacra a un'altra divinità, uno incontrava le regole peculiari a tale sito del tale dio individuale. I sacerdoti di quel culto si assicuravano che i visitatori si familiarizzassero e osservassero tali regole peculiari, in modo da non profanare l'altare e quindi incorrere nell'ira della rispettiva divinità. L'adorazione cultica del Dio di Israele, parimenti, si trovava collocata a Gerusalemme, intorno all'altare, nel santuario; parimenti, i suoi sacerdoti (e i loro assistenti, i Leviti) sovrintendevano. Ma, a differenza del paganesimo, l'ebraismo non veniva circoscritto dalla località e di conseguenza l'istruzione del culto non dipendeva da un contatto diretto coi suoi sacerdoti. La conoscenza delle sue tradizioni, l'etichetta, persino i dettagli del suo santuario circolavano ampiamente grazie al suo strumento letterario unico, la Bibbia. Pertanto l'ebraismo poteva viaggiare ovunque, dappertutto, intatto perché viaggiava con il Libro. Ed era da ogni luogo, da ovunque si trovassero, che gli ebrei volontariamente inviavano i loro contributi annuali o vi andavano in pellegrinaggio loro stessi. Il culto ebraico era anche locale; ma l'istruzione nel culto, grazie alla Bibbia, era universale.

Pratica e tradizione modifica

Due istituzioni in particolare permisero questa ampia trasmissione della cultura religiosa ebraica. La prima, privata, fu la casa e la famiglia; la seconda, pubblica, fu la sinagoga.

Se definiamo "casa" funzionalmente come il luogo dove si cucina, si mangia, si dorme e si concepiscono e crescono i figli, constatiamo gran parte della gamma domestica d'applicazione della legge biblica. La famiglia ebraica era l'ambiente più immediato nell'ambito della quale uno osservava le leggi alimentari e le leggi di purezza che governavano i tempi permessi dei rapporti sessuali (sempre intesi tra coppie sposate); dove uno pregava, istruiva i bambini e osservava il Sabbath. Lo Shemà, allora come adesso la preghiera principale nell'ebraismo, ricapitola questa definizione degli aspetti di vita ebraica. La prima parte del testo della preghiera proviena da Deuteronomio 6:4-5:

« Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. »

Gli stessi Vangeli Sinottici attestano la centralità di questa preghiera nel I secolo. Quando gli viene chiesto da un altro ebreo a Gerusalemme...

« "Qual è il primo di tutti i comandamenti?". Gesù rispose: "Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. »
(Marco 12:29-30 e parall.)

Le parole di Gesù fanno obliquamente riferimento ai Dieci Comandamenti, dati in un passaggio che precede lo Shemà, in Deuteronomio 5:

  1. Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me.
  2. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra...
  3. Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio...
  4. Osserva il giorno del Sabbath per santificarlo... Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il Sabbath per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno...
  5. Onora tuo padre e tua madre...
  6. Non uccidere.
  7. Non commettere adulterio.
  8. Non rubare.
  9. Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
  10. Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.

Una vasta gamma di testimonianze antiche sia in ebraico che in greco – Flavio Giuseppe, il Vangelo di Matteo, le prime tradizioni rabbiniche nella Mishnah (testo del tardo II secolo, primi del III), i Rotoli del Mar Morto, frammenti di questi versetti rinvenuti a Qumran – comprovano quanto fosse diffusa, sia in terra d'Israele sia nella Diaspora, l'osservanza ebraica di queste prescrizioni e come venissero interpretate. La frase nello Shemà che ingiunge di ricordarsi della Parola di Dio "quando ti coricherai e quando ti alzerai" portò all'usanza di recitare lo Shemà due volte al giorno a casa, svegliandosi e prima di coricarsi. Imprimersi "questi precetti" nel cuore suggerisce studio e contemplazione.

 
Mezuzah con effige del Muro Occidentale e la parola ירושלים
 
tefillin correnti

Il testo dello Shemà continua con un'altra direttiva riguardo a "questi precetti": "Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9 e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte" (Deuteronomio 6:8). Questo comando venne interpretato letteralmente. Frasi bibliche, copiate e affisse a porte e cancelli di case ed edifici ebrei, sono le mezzuzot dello Shemà: nei tempi antichi gli ebrei osservanti, come anche le loro controparti moderne, affiggevano brani della Torah all'entrata delle proprie abitazioni. Tali brani, contenuti in astucci quadrati di cuoio con cinghie da legare alla testa e al braccio, sono chiamati tefillin, o filatteri. Frammenti di mezzuzot e di tefillin sono stati rinvenuti tra i testi di Qumran (fornendo quindi una datazione prima del 68 e.v., quando la comunità venne distrutta dalla Decima Legione romana nel corso della guerra giudaica). Il Gesù di Matteo implicitamente istruisce i suoi seguaci sull'uso corretto dei tefillin: non devono essere larghi come quelli dei farisei (23:5). I tefillin, indossati quando si prega, potevano quindi essere messi per le devozioni a casa.

Il Deuteronomio specificamente presuppone l'istruzione religiosa in casa. "Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date? tu risponderai a tuo figlio..." (6:20); "insegnerete [le mie parole] ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua" (11:19; il passaggio da vv. 13 a 21 servono da secondo paragrafo nello Shemà). Tali istruzioni nei comandamenti da osservare in casa sarebbero serviti anche nel corso della settimana, mettendo da parte un giorno ogni sette. Durante il Sabbath, non si dovevano far affari o eseguire lavori. Cucinare, attività considerata lavoro, veniva fatta in anticipo tempo prima (che portò molti osservatori apgani a presumere, erroneamente, che il Sabbath fosse giorno di digiuno). La famiglia si riuniva per un giorno di riposo e per studiare la Legge.

Lo studio della Legge durante il Sabbath ci porta ad una seconda istituzione pubblica della vita ebraica, diffusa in tutta la Diaspora oltre che in terra d'Israele: la sinagoga. La parola significa semplicemente "congregazione" o "assemblea". Denotava primariamente una riunione di persone, non necessariamente in un particolare edificio (come ora invece) — sebbene abbiamo reperti archeologici di splendidi edifici pubblici presso le ricche comunità ebraiche del Mediterraneo, e persino un'iscrizione rinvenuta in una sinagoga e fatta dal suo costruttore, un sacerdote di lingua greca chiamato Teodoto, scoperta vicino al Monte del Tempio. Gli ebrei si radunavano nelle sinagoghe almeno una volta alla settimana, durante il Sabbath; e la comunità congregata ascoltava e interpretava la Bibbia, specialmente la Torah. Dice Giacomo, fratello di Gesù, in Atti 15:21: "Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni Sabbath nelle sinagoghe". Lo scopo di tale istruzione settimanale, spiega Flavio Giuseppe, era che ogni ebreo ("il popolo") "ottenesse una completa e accurata conoscenza della Legge" (c. Ap. 2.175). L'importanza di tale istruzione comprova l'esistenza della Septuaginta: quando gli ebrei della Diaspora occidentale passarono al greco vernacolare, le loro scritture vi passarono di conseguenza.

L'esistenza della sinagoghe diasporiche, la loro funzione come centri di istruzione comunitaria, le fondamenta bibliche di tale istruzione, e specialmente il fatto che questa istruzione ed il testo della Bibbia stessa fosse disponibile in greco — tutto ciò comprova l'esistenza di una speciale sorta di Gentile, la cui presenza influenzò l'architettura del Tempio stesso. Le sinagoghe attraevano estranei interessati che volontariamente si associavano all'ebraismo a vari livelli. Gli ebrei della Diaspora incoraggiavano l'ammirazione per il proprio culto religioso e la propria cultura ed in generale sembra accogliessero benevolmente l'interesse dei Gentili. (Filone, per esempio, cita un festival vicino ad Alessandria che celebrava la traduzione della Torah in greco, e afferma che molti Gentili parteciparono a tale celebrazione insieme agli ebrei, De vita Mosis 2.41.) D'altra parte, per i Gentili pagani, era cosa normale associarsi a svariate religioni: lo stesso paganesimo incoraggiava tale sorta di ecumenismo cultico. La loro devozione al Dio ebraico non impediva affatto la normale partecipazione ai propri culti tradizionali. Né gli stessi ebrei richiedevano un'associazione esclusiva dai Gentili interessati: nella Bibbia, Dio aveva diretto la Sua richiesta di impegno esclusivo solo a Israele. Petanto i pagani, in quanto pagani, si ritrovavano ad adorare il Dio d'Israele insieme agli ebrei sia nella sinagoga diasporica e, ancor più visibilmente, nel Tempio. Ritorneremo a questo gruppo particolare quando esamineremo nuovamente le lettere di Paolo: questi estranei simpatizzanti, semenzaio della successiva chiesa gentile, figureranno visibilmente nello sviluppo del movimento di Gesù post-Risurrezione. Qui dobbiamo sottolineare che così tanti provenivano dai vari angoli dell'Impero ad adorare a Gerusalemme che venne loro riservato un cortile apposito, il più grande, che circoscriveva l'area del Tempio.

Ma le sinagoghe e la Bibbia vernacolare fecero ben di più che ispirare del turismo religioso. Nel disseminare le leggi e servire come luogo di discussione delle stesse, le sinagoghe crearono anche un tipo speciale di comunità testuale. Che fosse nella Diaspora o in patria, la sinagoga, proprio tramite l'enfasi sulla lettura pubblica, diminuiva la necessità di alfabetizzazione, e il relativo monopolio che una élite alfabetizzata poteva esercitare, quando ci si avvicinava al testo sacro. L'ebreo individuale non doveva esser capace di leggere per coinvolgersi nell'interpretazione della Scrittura: ascolatre la Legge almeno una volta alla settimana, completare il ciclo della Torah di volta in volta nel corso della propria vita, forniva testo a sufficienza. La Bibbia, mediante lo studio comunitario, permetteva la crescita di untipo di alfabetizzazione secondaria, per cui gli ebrei potevano essere del tutto familiari con un testo senza dover necessariamente essere in grado di leggere. E tale alfabetizzazione secondaria incoraggiava ed intensificava la vita comunitaria: tutti potevano (e, per quanto ne sappiamo, riuscivano) ad formarsi un aggancio scritturale su cui appendere la propria interpretazione particolare.

Diversità ebraica e consenso al tempo di Gesù modifica

Il risultato fu, forse, inevitabile: gli ebrei furono una nazione di esperti. "Se qualcuno della nostra nazione venisse interrogato sulle leggi", dice Flavio Giuseppe, "costui sarebbe in grado di ripeterle molto più prontamente del proprio nome" (c. Ap. 2.175). Dietro ad una solidarietà comunitaria che colpiva l'occhio critico dei pagani stavano faide accese di dissenso familiare. Ovunque gli ebrei si trovassero – generalizzo, ma non esagero – essi esprimevano una vasto consenso su cosa fosse importante religiosamente parlando: il popolo, la Terra d'Israele, Gerusalemme, il Tempio, la Torah. Dietro a questi concetti ed in base a loro, stava il loro impegno unico all'adorazione senza immagini di un Dio Uno, solo Signore dell'Universo. L'esclusività di principio del loro monoteismo poteva colpire i commentatori pagani come vagamente sediziosa e decisamente maleducata; strano il loro santuario vuoto di una qualsiasi statua cultica. Tuttavia, nell'ambito di questo ampio consenso visibile anche ad estranei, ribolliva un continuo, interminabile dibattito, veemente nei toni, praticamente su ogni cosa: non se la Legge dovesse essere osservata, ma su come. Poiché Dio era stato sia particolareggiato sia estensivo nelle sue istruzioni a Mosè, specificando spesso cosa dovesse esser fatto, ma non in che modo precisamente, lo scopo del dibattito interpretativo si allargava ininterrottamente. Il settarismo vigoroso che caratterizzò l'ebraismo del Secondo Tempio, ci fornisce un'indicazione di quanto fosse diffusa l'istruzione sulla Legge, e con quale profonda serietà venisse valutata.

Le leggi della purezza in entrambe le sue applicazioni, domestica e comunitaria, riceveva molta attenzione. Anche nella Diaspora, dove la distanza dal Tempio implicava che molti di questi regolamenti non avevano grande rilevanza, troviamo testimonianze che (alcuni) ebrei in linea di principio ritenevano la purezza importante. Per esempio, Filone di Alessandria, contemporaneo anziano di Gesù, cita aspersioni non bibliche eseguite per purificazione dopo un funerale o dopo rapporti sessuali; forse prima di entrare in sinagoga, e forse prima di pregare. La tendenza ebraica di riunirsi per le preghiere o di costruire case di preghiera vicino a corsi d'acqua (fiumi, spiagge; cfr. Atti 16:13) potrebbe essere interpretata come espressione di tale istinto "purificatorio": l'acqua veniva universalmente considerata un mezzo di purificazione.

Più vicini a casa, in patria diciamo, si constata un'intensificazione ed estensione di queste leggi nelle tradizioni attribuite ai Farisei di fama evangelica. Questi interpreti laici della Legge sembra fossero preoccupati di estendere lo scopo e il dettaglio dell'ingiunzione biblica, specificamente in merito alla purezza.[1] I Farisei ritenevano tra loro, in comune, certe credenze e pratiche — Flavio Giuseppe specifica la credenza nella risurrezione, nell'autorità delle proprie tradizioni d'interpretazione (la "tradizione dei padri"), e nell'interazione tra libero arbitrio e divina provvidenza nell'esperienza umana. Ma qui come altrove, il consenso non implica mai l'unanimità. Gli studiosi laici della Torah si dividevano inoltre tra la Casa di Hillel e quella di Shammai due saggi della generazione prima di Gesù, che dibattevano aspramente il modo giusto di adempiere ai comandamenti della Legge. Ed avevano le rispettive vedute su come anche i sacerdoti dovessero osservare le proprie leggi.

Non che i ranghi dei sacerdoti fossero uniti. Tutt'altro. A seguito della vittoriosa guerra di indipendenza condotta dagli Asmonei (166-142 p.e.v.), i sacerdoti della famiglia sadochita, per i quali il sommo sacerdozio era una questione ereditaria, si separarono quando gli Asmonei stessi si assunsero tale carica. Una branca stabilì il proprio tempio a Leontopoli nel Basso Egitto; altre trovarono modo di continuare la vocazione di famiglia stabilendo altri templi nella Samaria ed in quello che oggi è la Giordania. Un altro sadochita si stanziò presso una comunità di devoti separatisti sacerdotali – "i custodi del patto dei figli di Sadoc" – nel deserto giudeo fuori Gerusalemme. Nei Manoscritti del Mar Morto, biblioteca della comunità, egli appare come il "Maestro di Giustizia". Il suo gruppo, gli Esseni, estesero le regole della purezza in maniera elaborata (cosa comprensibile, penso, date le loro origini sacerdotali), evitando l'adorazione nel Tempio di Gerusalemme (macchiato, ai loro occhi, da sacerdoti inetti) e sognando visioni apocalittiche di ricompensa in un nuovo o rinnovato Tempio, alla fine del mondo, di proporzioni gigantesche, gestito secondo la loro interpretazione della Legge.

Ancor altri sadochiti rimasero a Gerusalemme, prestando i loro riguardevoli servizi all'organizzazione asmonea, e in seguito alla famiglia di Erode. Il termine "Sadducei", usato sia da Flavio Giuseppe sia dagli autori del Nuovo Testamento con riferimento all'aristocrazia sacerdotale della capitale, potrebbe derivare dal nome di famiglia, "Sadoc". Tuttavia non tutti i sacerdoti vivevano a Gerusalemme,, non tutti i sacerdoti che vivevano a Gerusalemme erano aristocratici, e non tutti i sacerdoti gerosolimitani benestanti erano "Sadducei" nell'interpretazione biblica. Flavio Giuseppe, tanto per citarne uno, che proveniva da tale strato sociale – le classi superiori gerosolimitane sacerdotali – ciononostante propendeva verso la posizione interpretativa dei Farisei (Vita I). I sacerdoti stessi erano un clan piuttosto che una setta o partito. Quale che fosse il credo interpretativo del singolo sacerdote, ciò che contava era l'obbligo del clan di servire nel Tempio.

Queste sono le tre "filosofie" che Flavio Giuseppe cita quando descrive le sette principali nell'ambito dell'ebraismo palestinese dei suoi tempi. A causa del loro ruolo quali oppositori argomentativi di Gesù, i Farisei potrebbero sembrare oltremodo influenti in questo periodo; inoltre, a causa della pubblicità che i Rotoli del Mar Morto hanno ricevuto recentemente, anche gli Esseni acquisiscono importanza. Per avere una visione più chiara delle cose, dobbiamo esaminare alcune cifre demografiche. Bisogna però ricordarsi che tali cifre sono solo stime, e quindi non affidabili.

Alcuni studiosi stimano che oltre 2,5 milioni di ebrei vivessero in Palestina nel primo secolo; altri riportano la popolazione ad 1 milione; altri ancora ne stimano la metà, circa 500.000. Flavio Giuseppe stesso fornisce i numeri di appartenenza dei tre gruppi (e, al pari degli altri, non abbiamo modo di confermarne la stima): sacerdoti/Sadducei, Farisei ed Esseni. Sebbene non verificabile, la relativa proporzione delle sette rispetto ai gruppi generici ci dà un'idea del contesto in cui ci muoviamo. Durante il regno di Erode il Grande, Flavio Giuseppe afferma che i Farisei ammontavano a circa 6000, gli Esseni a cvirca 4000 (AJ 17.42, 18.21). Finanche prendendo per buona la stima più bassa del numero totale della popolazione – 500.000 ebrei in Palestina agli inizi del primo secolo – ciò significa che gli Esseni costituivano l'0.8%, i Farisei l'1,2% del totale. Se presupponiamo una popolazione generale più numerosa, allora queste percentuali si abbassano ancor di più. Né i Farisei, né gli Esseni, quindi, rappresentano una proporzione molto ampia degli ebrei che risiedevano in Palestina.

Flavio Giuseppe riporta a ventimila la cifra dei sacerdoti e dei Leviti (c. Ap. 2.108). Pertanto i sacerdoti, quale che fosse la rispettiva appartenenza (se ne avevano una), erano chiaramente il gruppo più numeroso. Si concentravano a Gerusalemme, e avevano la posizione più importante: gestire e supervisionare il Tempio. E nonostante le critiche quasi universali contro di loro da parte di chiunque avesse un'opinione sul modo in cui si comportavano, i sacerdoti evidentemente (data l'esistenza delle lamentele) continuarono a fare come facevano. I loro critici e dissidenti (eccetto alcuni Esseni) cionondimeno continuarono ad adorare nel Tempio. Quale che fosse la posizione interpretativa del singolo sacerdote rispetto a certe questioni della Legge, il suo diritto di insegnare e servire proveniva da una fonte di autorità insindacabile, cioè la Bibbia stessa.

La Bibbia, quindi, insieme al Tempio, era sia un'occasione di energetica divisione sia una fonte unica di ampia unità. Dobbiamo esser consapevoli di entrambi questi aspetti dell'ebraismo del Secondo Tempio. Ebrei di differenti orientamenti settari potevano sì criticarsi a vicenda con rancore, ma la grande maggioranza degli ebrei non appartenevano a nessun partito/fazione ed il dibattito coesisteva consensualmente. Vaste quantità di ebrei ovunque nell'Impero e oltre, contribuivano volontariamente alla tassa annuale di mezzo siclo (שקל, shèqel) per il mantenimento del Tempio. Numerosi pellegrini si riversavano sulla città a spendere il denaro della seconda decima – una porzione del prodotto di famiglia messo da parte per spenderlo specificamente a Gerusalemme – per celebrare le grandi festività del pellegrinaggio. Grazie alla loro cultura religiosa comune, gli ebrei rimasero consapevoli d'appartenere ad una sola nazione, non importa quanto fossero dispersi per il mondo: quando l'imperatore Caligola, nell'anno 40-41 e.v., cercò di introdurre una statua con le sue sembianze nel Tempio, rischiò la ribellione degli ebrei ovunque, che preferivano la morte "a difesa della Legge" piuttosto che tollerare una simile profanazione.

Vivere la Legge: spazio sacro e tempo sacro modifica

Cristo istruisce Pietro e Giovanni alla preparazione della Pasqua, di Vincenzo Civerchio (1504)

Sabbath, leggi alimentari, protocolli sacrificali; regole di distinzione tra sacro e profano, tra puro ed impuro; codici sessuali, istruzioni sull'allevamento di animali sulla semina; tori e legge penale. Tutto ciò veniva affastellato insieme nella grandi storie che aprono la Bibbia – la Creazione dell'universo e dell'umanità; la saga di Abramo, Isacco e Giacobbe, di Giuseppe e i suoi fratelli; la schiavitù di Israele e la sua libertà successiva – trasformate, a mezza strada in Esodo, in direttive e descrizioni specifiche. Dio comanda non solo osservanze cultiche e rituali, ma affetti ("temi il Signore tuo Dio, cammina per tutte le sue vie, ama e servi il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima", Deuteronomio 10:12; "Amerai il tuo prossimo come te stesso", Levitico 19:18), comportamenti ("Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi, onora la persona del vecchio", Levitico 19:32) ed etica ("Non coglierai i racimoli e non raccoglierai i grappoli rimasti; li lascerai per il povero e per il forestiero... Non commetterete ingiustizie nei giudizi, nelle misure di lunghezza, nei pesi o nelle misure di capacità", Levitico 19:10,35). Il lettore moderno, abituato all'organizzazione topica ed a una differente logica di presentazione, potrebbe restar confuso e meravigliato per la grande ridda di istruzioni. (Coloro che non sono abituati alla prosa biblica diano ora un'occhiata ad un solo capitolo, Levitico 19, e cerchino di tener traccia di quanti argomenti, non corrispondenti alle nostre categorie, Dio riesca a presentare in soli trentasette versetti.) La torah di Dio – תּוֹרָה‎, tōrāh, "insegnamento" in ebraico – intende istruire il popolo che Egli scelse come unico portatore del Suo Nome nel modo appropriato di vivere la vita con sé e con gli altri, e nel modo appropriato di adorarLo, e collega questi due impegni intimamente.

La rivelazione biblica quindi rappresentò non tanto una serie esterna di leggi che uno "obbediva", bensì un intero sistema di vita, che uno "custodiva" o "manteneva". La Legge strutturava la vita; pertanto strutturava anche lo spazio ed il tempo. Avremo un senso più certo dell'esperienza vissuta con la Legge se cerchiamo di immaginarci queste dimensioni come facevano gli antichi ebrei.

Lo spazio veniva conbsiderato come fosse ordinato lungo un gradiente di santità, con "meno santo" il mondo oltre il territorio di Israele (la Diaspora), "più santo" la Terra di Israele. Ancor più santa era la città di Gerusalemme; e nell'ambito della città, zone graduate di santità ordinavano il Monte del Tempio dal santo (la corte dei Gentili) al santissimo (il santuario stesso, che solo il Sommo sacerdote poteva entrare, e solo una volta all'anno, nel Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur). "Santità" in tale sistema non è un'astrazione: è la misura di separazione dal comune, dell'essere messi da parte per Dio, riservati a Lui. L'organizzazione dello spazio calibrava la prossimità al Divino: sebbene tutta la terra fosse del Signore, gli ebrei ritenevano che, in un qualche senso speciale, Dio dimorasse a Gerusalemme, nel santuario.

La vita ebraica era strutturata lungo questo gradiente di santità, dall'intimità delle coppie di sposi alle grandi celebrazioni comunitarie delle festività di pellegrinaggio annuali. Le istruzioni di Dio sui cibi permessi, per esempio, o sui tempi permessi per il rapporto sessuale (proibito durante le mestruazioni) erano valide ovunque. Una famiglia osservante ad Alessandria d'Egitto o a Roma in linea di principio non si sarebbe comportata differentemente da una famiglia a Gerusalemme. (Dico "in linea di principio" perché erano inevitabili variazioni nel modo di osservanza e interpretazione, ma entrambe le famiglie si sarebbero comunque preoccupate di adempiere la stessa mitzvah, il comando divino.) Ma in Gerusalemme, il Tempio aggiungeva un'ulteriore dimensione: la donna mestruante lì non sarebbe entrata nell'area del Tempio. Lo spazio nella sinagoga non era ordinato secondo codici di purezza perché lì non venivano offerti sacrifici: il loro analogo sarebbe stata la sala di lettura o il centro cuminitario, non il Tempio. Di conseguenza, una donna poteva andare in sinagoga quanto più gradiva, indipendentemente dalla purezza. Alla fine del suo periodo (determinato in vari modi: alcuni ebrei aggiungevano altri sette giorni al tempo d'inizio mestruazioni, cioè il periodo di continenza sessuale si allungava da sette a quattordici giorni), la donna ritornava alla sua normale vita matrimoniale — e, a seconda delle sue usanze, forse segnava tale transizione con acqua, con aspersione oppure con l'immersione completa.

Lo sperma era un altro effluvio corporeo che comportava impurità. Dopo il coito o dopo l'eiaculazione, gli uomini avevano pertanto un basso grado di impurità fino al successivo tramonto. Di nuovo, nella Diaspora, o in un qualsiasi posto distante da Gerusalemme, questa condizione non aveva conseguenze pratiche. Se tuttavia uno aveva intenzione di recarsi al Tempio, l'ingresso doveva essere posposto fino al giorno successivo. I sacerdoti a turno nel Tempio (dove alcuni dormivano durante il periodo del loro turno di servizio), se si erano inavvertitamente resi impuri a causa di polluzione notturna, sarebbero stati esentati dal servizio per la durata della loro impurità. Una scalinata speciale permetteva loro di uscire separatamente, senza causare rischio agli altri sacerdoti (poiché toccarli avrebbe provocato un'impurità secondaria). Un sostituto si preparava sempre insieme al Sommo sacerdote dutante lo Yom Kippur, pronto a rimpiazzarlo se quest'ultimo fosse stato squalificato dal servire a causa di impurità.

Consideriamo alcuni implicazioni di questi due casi. Primo, queste impurità non implicano nessun contenuto morale: la condizione spirituale della persona impura non viene minimamente influenzata a causa della sua impurità. Per dirla chiaramente: l'impurità non è un peccato. Non c'è nulla di moralmente sbagliato in queste persone; l'unica cosa è che non potevano andare nell'area del Tempio. Tuttavia, abbiamo testimonianze che gli ebrei, anche se lontani da Gerusalemme, svolgevano date procedure per segnare o concludere il periodo impuro. Allusioni ad abluzioni di vario genere, resti di vasche d'immersione per la purificazione rituale (al contrario della balneazione comune), preoccupazione per l'accesso a fonti acquifere: tutto ciò ci perviene da dati archeologici e letterari quale testimonianza di un interesse generale per la conservazione della purezza. Una seconda inferenza, quindi, che procede dalla prima: il rimedio dell'impurità è la purificazione e non (come argomentano alcuni studiosi, che confondono l'impurità con il peccato) il perdono.

Infine, dobbiamo fare un'osservazione più sottile ma estremamente importante: l'osservanza di queste regole presuppone un alto grado di internalizzazione e autoregolamentazione. Come si poteva effettivamente controllare se una persona osservava o meno le leggi di separazione sessuale o di impurità eiaculatoria? Solo la persona stessa poteva farlo. Il fatto che così tanti ebrei interpretassero la Legge in maniera così variabile, e avesse obblighi verso una così vasta gamma di interpretazioni differenti, spiega l'inconfondibile nota di ansia che possiamo tuttoggi percepire nelle fonti farisaiche o essene. Chi poteva essere sicuro che qualcuno al di fuori del proprio gruppo e che si reputava puro non fosse, in realtà, impuro? Ecco quindi la preoccupazione, in casi dove il controllo era possibile – dove e con chi si mangiava, da chi si compravano vivande o vasellame – di stare nell'ambito del proprio gruppo. Tuttavia, durante le festività di pellegrinaggio, nella grande folla umana delle corti del Tempio, tutti si sfioravano e scontravano l'uno contro l'altro. Proprio in questo momento quando la preoccupazione per la purezza era al culmine, la tolleranza delle differenze doveva anch'essa essere al culmine.

C'è un ultimo aspetto da considerare nelle nostre osservazioni sull'interiorizzazione e autocontrollo: il personale del Tempio presupponeva necessariamente un certo livello di conoscenza e interesse per la Torah da parte di coloro che vi si recavano, per la stessa ragione notata sopra — solo l'adoratore/adoratrice poteva controllarsi. Nessuno verificava se una certa donna stesse avendo le mestruazioni; nessuno poteva sapere per certo se l'uomo che gli stava davanti o di dietro, che proveniva da un qualche angolo della terra per fare il suo pellegrinaggio di Pesach, avesse o meno avuto una polluzione notturna durante la notte precedente. Pertanto, nonostante gli ardenti dibattiti sull'interpretazione delle Scritture e l'attenzione settaria continua per minuzie e particolari, le prove del gran numero di persone che affollavano la città durante le festività indicano quanto tale vasto ed oneroso sistema religioso si basasse su un forte impegno di buona fede.

Tali forme di impurità, obiettive e moralmente neutrali (occasionalmente definite purezza "rituale" o "levitica") in linea di principio limitava l'accesso al Tempio. Ma la Scrittura indicava anche un altro typo di impurità che risultava da certi atti sessuali o cultici ritenuti peccaminosi: rapporti sessuali illeciti (Levitico 18:1-30;20:10-21), infanticidio rituale e magia (Levitico 20:1-5; Deuteronomio 7:25) e specialmente idolatria (Deuteronomio 12:29-31). Per distinguere queste contaminazioni dal primo tipo, alcuni studiosi indicano impurità "morale", "figurativa", o "spirituale e religiosa". Tali contaminazioni riguardavano l'effetto moralmente inquinante del peccato.

Le impurità morali funzionavano in maniera differente dall'impurità levitica, sia socialmente che ritualmente. Poiché tale contaminazione era volontaria, essa era peccaminosa: Uno sceglieva di eseguire l'atto peccaminoso e contaminante. Di conseguenza (e a differenza delle impurità levitiche succitate) l'impurità morale non era contagiosa. Non veniva trasferita per contatto dall'agente ad una terza parte innocente. È però interessante notare che il contagio si accumulava intorno all'altare. Il peccatore pertanto contaminava non solo se stesso, ma anche il santuario e la Terra:

« Il paese ne è stato contaminato; per questo ho punito la sua iniquità e il paese ha vomitato i suoi abitanti... Badate che, contaminandolo, il paese non vomiti anche voi, come ha vomitato la gente che vi abitava prima di voi... Osserverete dunque i miei ordini e non imiterete nessuno di quei costumi abominevoli... né vi contaminerete con essi. »
(Levitico 18:25,28-30 cfr. 20:3)

Il rimedio per l'impurità dell'immoralità era la cessazione dell'attività peccaminosa, l'espiazione, e un giorno speciale di purgazione coi suoi sacrifici specifici, Yom Kippur (Levitico 16). Il pentimento e l'espiazione purgavano il peccatore, mentre il sacrificio espiatorio purgava la contaminazione dal santuario.

Il sacrificio per peccati faceva anche parte di un processo che era al tempo stesso psicologico, spirituale e pratico. Per esempio, Dio aveva specificato un protocollo per espiare il furto o la frode in Levitico: la parte colpevole doveva riconoscere il suo errore e restituire l'ammonto "in pieno, aggiungendone un quinto, e dandolo a colui al quale appartiene" (6:5). La chiusura di questo ciclo era l'offerta del sacrificio (un capro, v. 6): il penitente metteva la sua mano sulla testa dell'animale e diceva al sacerdote che aveva davanti la motivazione del sacrificio. La gola del capro veniva tagliata, il suo sangue versato tutto intorno all'altare — ciò chiudeva il processo di pentimento, restituzione e sacrificio con cui il peccatore espiava il proprio peccato. Il sacerdote poi divideva il corpo dell'animale — una parte da bruciare sull'altare, il resto ai sacerdoti. Con altri tipi di offerte, una parte della carne veniva restituita all'adoratore, da consumarsi fuori dal Tempio.

In altre parole, per i peccati personali il tempio serviva come mezzo per effettuare l'espiazione. Non era però l'unico mezzo — troppi ebrei per troppi secoli erano vissuti troppo lontano da Gerusalemme e non erano mai riusciti ad andare al Tempio. Era fondamentale per l'espiazione e il perdono di Dio che il peccatore si pentisse. Il sacrificio poteva incrementare tale processo e, quandunque fosse stato possibile, doveva essere aggiunto, ma non era certo un sostituto né un sine qua non del pentimento. Il sangue del sacrificio, inoltre, non purificava il peccatore, bensì l'altare — e durante Yom Kippur, lo purificava dall'inquinamento dei peccati di tutto Israele.

Una categoria biblica finale che governava l'accesso al Tempio era la distinzione tra sacro o profano e tra comune o profano. La distinzione doveva esser fatta e mantenuta dai sacerdoti, che a loro volta erano responsabili d'insegnarlo al popolo: parlando ad Aronne, Dio aveva detto: "Dovete distinguere ciò che è santo da ciò che è profano e ciò che è immondo da ciò che è mondo, e possiate insegnare agli Israeliti tutte le leggi che il Signore ha date loro" (Levitico 10:10). Le due paia di parole si correlano funzionalmente – né il profano né l'immondo poteva esser portato vicino all'altare – ma questi non sono sinonimi. Un sacerdote con un difetto fisico, per esempio, non poteva servire all'altare: la sua menomazione lo rendeva "profano". Ma ciò non influenzava affatto la sua condizione di purezza: egli poteva sempre consumare il cibo generato dai sacrifici, che dovevano essere mangiati in purezza (Levitico 21:6,17-23).

Quest'ultima distinzione, presa insieme alle regole della purezza, ci può assistere nella comprensione della struttura del Tempio, e del modo in cui veniva disposto lo spazio sacro. Gli ebrei consideravano la Torah come privilegio e responsabilità esclusivi di Israele (cfr. per esempio Paolo in Romani 9:4-5). I suoi comandamenti, di conseguenza, incombevano solo sugli ebrei. La Torah di Dio a Israele era parte esclusiva della Sua elezione di Israele: nel linguaggio della Bibbia, gli ebrei erano un popolo che Dio aveva messo da parte per Se Stesso, "un regno di sacerdoti e una nazione santa". Rabbini successivi, nella loro ricerca di precisione interpretativa, la precisarono in modi assai pratici. Solo un cadavere ebreo, asserivano, poteva procurare impurità; un cadavere gentile/pagano non dava impurità. Parimenti, solo un contatto con fluido mestruale ebreo influenzava lo stato di purezza. Che succedeva se, camminando nei pressi di un bagno pubblico, un ebreo calpestava una macchia di fluido mestruale? Dobbiamo supporre, dicevano i rabbini, che sia fluido mestruale gentile e quindi non dobbiamo preoccuparci dell'imperità. In poche parole, i Gentili non erano soggetti ai regolamenti della purezza d'Israele. Ce ne accorgiamo dalla disposizione del Tempio: i Gentili avevano accesso alla corte più grande e più esterna nell'ambito del complesso. Per ottenere accesso alle proprie sezioni entro l'area templare, gli ebrei dovevano attraversare le folle di Gentili nella corte esterna. Se i Gentili potevano causare impurità, gli ebrei avrebbero corso il rischio di contrarlaper contatto proprio mentre andavano al sacrificio, quando dovevano preoccuparsi il più possibile di essere puri.

I Gentili erano quindi ammessi nella propria corte. Ed erano quindi limitati ad essa, nello stesso modo in cui le donne potevano inoltarsi solo fino alla propria area, senza poter entrare in quella degli uomini, e gli uomini potevano accedere la corte di Israele, ma non la corte dei sacerdoti, e i sacerdoti potevano servire nella propria corte, ma solo il Sommo sacerdote poteva entrare il santuario. Flavio Giuseppe descrive la corte dei Gentili affermando che era delimitata da "una balaustra di pietra, alta tre cubiti [circa 140 centimetri] e di squisita fattura. In questa, ad intervalli regolari, si trovavano lastre di pietra che ammonivano, alcune in greco, altre in latino, riguardo alla legge di purificazione, cioè che a nessun straniero era permesso accedere al luogo sacro, poiché così veniva chiamata la seconda sezione del Tempio" (BJ 5.193-94). Una di queste iscrizioni, rinvenuta il secolo scorso, riporta:

« Nessun uomo di un'altra nazione può entrare dentro il recinto e sezione intorno al Tempio. E chiunque viene preso deve incolpare solo se stesso per la pena di morte che ne consegue.[2] »

L'obiezione contro l'accesso dei Gentili non poteva riferirsi, come abbiamo visto, alla loro impurità: non erano infatti soggetti alle leggi di purezza che regolavano l'accesso all'altare. Il problema, piuttosto, riguardava il loro status rispetto a Israele. Israele era stato "eletto a parte" da Dio: tale è il significato di "santo" o "santificato". Così anche, per esempio, la formula pronunciata dallo sposo alla propria sposa durante la cerimonia delle nozze: "Io ti santifico a me secondo la legge di Mosè e Israele" — la sposa viene consacrata a suo marito. Il termine binario con "santo" è "comune/profano" — che è ciò che sono i Gentili, rispetto a Israele. E proprio come il sacerdote menomato era "comune/profano" e non poteva servire all'altare, stessa cosa per il Gentile: egli stava alla corretta distanza dall'altare, come la donna stava alla sua, e come l'ebreo laico alla sua. Ma un Gentile poteva avvicinarsi all'altare più di un'ebrea mestruante o di un ebreo lebbroso che, secondo le leggi di purezza d'Israele, era bandito da l'intera area templare.

Le leggi di purezza e dello spazio sacro era un modo basato biblicamente secondo cui gli ebrei strutturavano la vita comune nell'antichità. Prima di dedicarci ad esaminare i Vangeli, dobbiamo considerare un altro modo: i cambiamenti mensili del calendario annuale, le festività e, ancor più particolarmente, lo Shabbat — tempo sacro.

I calendari sono un modo estremamente efficace per costruire comunità a vaste distanze; per converso, le differenze di calendario delimitano gruppi differenti. Ne constatiamo entrambi gli effetti quando esaminiamo Israele nelle Diaspora, dove risalta specialmente l'osservanza dello Shabbat, e quando esaminiamo gli ebrei stessi, quando gruppi differenti misuravano tempi differenti. Il Tempio, e il successivo ebraismo rabbinico, per esempio, seguivano un calendario lunare, coi mesi che corrispondevano alle fasi della luna. Ma la comunità rappresentata dal documento settario chiamato Giubilei (una parafrasi di Genesi) come anche gli Esseni usavano il tempo solare, la cui enfasi sta nel numero di giorni all'anno. Ne risultava che i calcoli delle festività nell'ambito di questi due diversi sistemi indicavano giorni diversi. Tuttavia, nonostante le discrepanze, tuitti igruppi seguivano i dettami biblici nel determinare e osservare i tempi e le stagioni — Yom Kippur nel decimo giorno del settimo mese dell'anno (Levitico 16:29); la Pesach nel quattordicesimo giorno del primo mese (23:5); Shavuot/Pentecoste, cinquanta giorni dopo (23:15); il festival delle trombe che segnava il primo giorno del settimo mese (settembre/ottobre, che corrisponde a Rosh Hashanah, Levitico 23:24); Sukkot/Capanne, il quindicesimo giorno del settimo mese (23:33).

Questi giorni di convocazione santa e di assemblea solenne, come Dio le chiama in Levitico, formavano l'anno ebraico. Nell'ambito della terra di Israele – unico scenario contemplato dalla Torah – agli Israeliti maschi veniva specificamente ingiunto di radunarsi per presentare offerte: al tempo di Gesù, naturalmente, ciò significava il Tempio di Gerusalemme. Gli ebrei che vivevano fuori del territorio – la maggioranza al tempo di Gesù – svilupparono varie improvvisazioni per compensare o sostituire l'adorazione al Tempio: un esempio potrebbe essere, la ripetizione di preghiere durante i tempi approssimativi delle offerte al Tempio, negli ambienti comunitari della sinagoga. Oppure si faceva un pellegrinaggio dalle terre della dispersione durante le festività. O, più concretamente, si contribuiva il mezzo siclo annuale della tassa del Tempio – obbligatoria per gli Israeliti maschi residenti nella Terra d'Israele, ma volontaria nel periodo del Secondo Tempio per coloro che ne stavano fuori – che veniva assegnato alle spese generali del Tempio, specialmente per i sacrifici a nome della comunità che venivano offerti nello Shabbat e durante le festività. Pertanto, il tempo sacro condiviso dava la possibilità, culturalmente e religiosamente, di abbreviare la distanza tra Gerusaleme – spazio sacro – e tutte le altre località.[3]

Il legante temporale ultimo per la vita, la famiglia e la comunità ebraiche, era lo Shabbat. Qui le testimonianze sia dalla Diaspora sia dalla Terra d'Israele è fuori discussione. Lo Shabbat fu una delle pratiche ebraiche che gli scrittori pagani commentarono più frequentemente; e abbiamo testimonianze in tutto l'impero delle leggi speciali che esentavano gli ebrei dal servizio militare, o dal testimoniare in tribunali, a causa del loro obbligo ad osservare lo Shabbat. Come dimostrano le storie dei Vangeli, c'era un notevole spazio interpretativo nel definire cosa significasse "osservare lo Shabbat". Ma il principio di osservare lo Shabbat stesso non era in discussione: era, come Dio aveva detto nel Libro dell'Esodo...

« un segno tra me e voi, per le vostre generazioni, perché si sappia che io sono il Signore che vi santifica. Osserverete dunque il Sabbath, perché lo dovete ritenere santo... Pertanto i figli d'Israele osserveranno il Sabbath, festeggiando il Sabbath nelle loro generazioni come un'alleanza perenne. Esso è un segno perenne fra me e i figli d'Israele, perché il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo ha cessato e si è riposato. »
(Esodo 31:12-17)

Lo Shabbat era quindi un segno speciale della dignità unica quale nazione eletta da Dio. Condensava in un unico simbolo quegli elementi dell'antico ebraismo che erano contemporaneamente universalisti e precisamente particolaristi. Nel riferirsi a Dio come Creatore, lo Shabbat implicava l'asserzione che Dio era una divinità universale, la fonte di tutta la Creazione: Egli era, quindi, il giusto oggetto di venerazione sia dei Gentili che degli ebrei.[4]

Ma questo Dio che crea non è un essere supremo generico, che sta in un qualche rapporto vagamente causale rispetto a tutto il resto. Il Dio Unico era specificamente il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Lo stesso Dio che aveva fatto i cieli e la terra e tutto ciò che vi stava era anche interessato ai particolari della vita matrimoniale di Israele, all'educazione dei loro figli, alle loro giuste misure e tribunali imparziali. Più specificamente, Egli era il Redentore di Israele, che realizzava la Sua promessa ad Abramo liberando il suo popolo dalla schiavitù in Egitto. Il Dio di tutta la Creazione era, allo stesso tempo, il Dio della storia ebraica.

Questo tema verrà ripetutamente sottolineato dalla stessa storia biblica, invocata per l'osservanza domestica e comunitaria dello Shabbat, e ricordata durante ciascuna della Festività principali, che vennero associate a momenti specifici nella creazione del popolo di Israele: Sukkot, quando Israele viveva in capanne nel deserto; Shavuot, quando Israele ricevette la Legge al Sinai; e soprattutto, Pesach, con la liberazione del popolo dall'oppressivo dominio straniero. Pertanto, proprio come l'ebraismo non faceva distinzioni tra comportamento "secolare" e "religioso" o tra "etica" e "rituale" – entrambi erano soggetti a interesse e direttiva divini; Dio specifica con pari insistenza come prendersi cura dei poveri e come adorare al Suo altare – così non c'era una netta distinzione tra il "religioso" ed il "nazionale". Le convocazioni festive che radunavano insieme grandi folle a celebrare la redenzione di Israele da parte di Dio, poteva benissimo includere sia fini che potremmo considerare politici che quelli spirituali. Non c'è quindi da meravigliarsi che, una volta che la Giudea venne sotto il controllo diretto delle autorità romane, il prefetto portasse le sue truppe da Cesarea a Gerusalemme. E che il luogo sorvegliato più attentamente fosse il Tempio stesso, dove i soldati stavano a sentinella sul tetto del colonnato, a sorvegliare dall'alto gli ebrei ammassati sotto di loro.

Note modifica

  1. Si veda, inter al., J. Neusner, The Idea of Purity in Ancient Judaism, passim.
  2. Jonathan Klawans, "Notions of Gentile Impurity in Ancient Judaism", Association of Jewish Studies Review 20.2 (1995):285-312; si veda inoltre il suo "The Impurity of Immorality in Ancient Judaism", Journal of Jewish Studies 48.1 (1997):1-16.
  3. Per una particolareggiata analisi del periodo di Gesù, si veda E. Sanders, Jewish Law from Jesus to the Mishnah, partic. pp. 29-41, 131-254 (Farisei), 258-71 (Diaspora).
  4. Per un'affermazione retoricamente altisonante di questa posizione, si veda il primo capitolo della Lettera ai Romani di Paolo, 1.