Missione a Israele/Appendice

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Cristo con corona di spine, olio di Carl Heinrich Bloch (1890)

Gesù, cristianesimo e storia modifica

Nella maniera che per lui contava, Pilato ebbe ragione. Con Gesù morto, la città ritornò sotto controllo. Le folle turbolente a Gerusalemme per la festività pasquale, cessarono di agitarsi per la venuta del Regno e per l'imminente rivelazione da parte di Dio che Gesù fosse il Suo Messia. Castigati e demoralizzati, tutti si azzittirono. Il resto della festività probabilmente passò senza incidenti.

Per i seguaci più intimi di Gesù, le cose erano diverse. Nel panico del suo arresto, molti erano fuggiti. Non sappiamo per certo ciò che accadde dopo, perché le nostre fonti differenti ci raccontano storie differenti: solo le grandi linee sono chiare. Assolutamente certi che Gesù fosse morto, alcuni membri di questo piccolo gruppo iniziarono a percepire, e poi a proclamare, che Gesù viveva ancora. Dio, dissero, lo aveva risorto dai morti.

Ciò che videro veramente questi discepoli è ora impossibile a dirsi. Paolo, la cui testimonianza è tarda (circa vent'anni dopo questi eventi) e dichiaratamente di seconda mano ("Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto"), insegna che il Cristo Risorto apparve in uno pneumatikon sōma, un "corpo spirituale". Qualche che fosse, Paolo iniste che questo corpo non era di carne e sangue. "Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità" (1 Corinzi 15:3,44,50). Le tradizioni ancor più tardive di Luca e Giovanni affermano il contrario. "Guardate le mie mani e i miei piedi" dice il Cristo Risorto di Luca, indicando ai discepoli attoniti le ferite che ancora porta: "Sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho" (Luca 24:39-40). "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani" ordina il Cristo Risorto di Giovanni all'incredulo Tommaso: "Stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!" (Giovanni 20:27).

In senso stretto, questi resoconti non ci dicono nulla di Gesù Nazareno. La sua storia finì su un croce romana. E questi resoconti ci dicono molto poco di ciò che i discepoli potrebbero aver visto. Scritti alquanto tempo dopo gli eventi di quella Pesach, divergono in modo significativo tra di loro.

Quello che invece queste storie della Risurrezione ci danno è un'idea delle convinzioni dei discepoli più intimi di Gesù, che sono la loro fonte ultima. La risurrezione dei morti era uno degli atti redentivi anticipati dalle tradizioni ebraiche riguardo alla Fine del Mondo, quando Dio avrebbe redento Israele e avrebbe riportato gli ebrei alla Terra. Se i suoi discepoli credettero di aver visto Gesù risorto – quale che fosse la loro presunta esperienza, e come la vogliamo interpretare noi oggi (cfr. Noli me tangere) – allora loro continuarono a funzionare nell'ambito del paradigma apocalittico stabilito dalla sua missione.

La Risurrezione nell'ambito di forme più tradizionali di ebraismo era stata immaginata come un'esperienza comunitaria, uno degli atti di salvezza attesi alla Fine. "Ecco, io aprirò i vostri sepolcri, vi farò uscire dalle vostre tombe, o popolo mio," Dio promette nel Libro del profeta Ezechiele, "e vi ricondurrò nel paese d'Israele" (Ezechiele 37:12). "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno" profetizza Daniele (12:2). "Benedetto sei Tu, Signore," riporta il testo delle Diciotto Benedizioni, "Tu che fai rivivere i morti". Per gli apostoli di Gesù, il significato della sua risurrezione individuale era che annunciava quella più generale in arrivo: Gesù era "primizia di coloro che dormono" (1 Corinzi 15:20). La sua risurrezione confermava quindi ai suoi seguaci che il Regno, e pertanto la risurrezione di tutti i morti, era in arrivo; in verità, molto prossima. La loro esperienza della sua risurrezione confermava sia l'autorità stessa di Gesù sia l'autorità del suo messaggio.

Tuttavia il Regno non arrivò. Nel frattempo, evidentemente queste apparizioni della Risurrezione continuarono per un po' di tempo. Paolo elenca una serie di tali epifanie (1 Corinzi 15:5-8). Luca chiude il suo Vangelo e apre la sua storia degli Atti degli Apostoli, con il Cristo Risorto che parla ai discepoli: "Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio" (Atti 1:3). I seguaci più intimi di Gesù – "Chephas, e poi i Dodici" – reagirono alla loro esperienza di queste apparizioni ritornando a Gerusalemme. Si riunirono in quella città in anticipazione della venuta del Regno? Stavano aspettando, ritenendo la resurrezione stessa di Gesù un segnale della Fine prossima? Se fu così, allora la continuazione del tempo li spinse ad una nuova conclusione, e ad una differente interpretazione del significato della resurrezione di Gesù. Impegnati in un'attività missionaria energica e continuativa, questi discepoli attendevano con ansia l'apparizione definitiva del Cristo Risorto, alla sua Parusia. Nel poco tempo che pensavano rimanesse, si dedicarono a diffondere la buona novella, l’euangelion di Gesù, a tutto Israele.

Fu in questa fase post-Risurrezione, man mano che il movimento si sparse verso le comunità sinagogali lungo la costa e nella Diaspora, che questi discepoli iniziarono ad incontrare numerosi Gentili simpatizzanti. Quanto numerosi? In numero così elevato che, entro la fine degli anni 40, vari apostoli si riunirono insieme ai capi della comunità cristiana radunata a Gerusalemme onde poter decidere cosa fare di questi Gentili, e come integrarli nelle ekklēsiai dei seguaci di Cristo (Galati 2:1-10; per una descrizione differente della stessa assemblea cfr. Atti 15). Questi Gentili erano forse più simili a Timorati di Dio, cioè giudaizzanti volontari, e quindi liberi da qualsiasi obbligo imposto dalla Torah? O erano più simili a convertiti, e quindi "obbligati ad osservare tutta quanta la legge" (Galati 5:3) inclusa, per i maschi, la circoncisione?

La posizione presa da questa assemblea ci fornisce, nuovamente, la misura del continuo impegno apocalittico del movimento e la necessità di improvvisazioni sociali richieste dalla loro situazione senza precedenti. I Gentili-in-Cristo, erano tutti d'accordo, non avevano bisogno di convertirsi all'ebraismo. Era sufficiente evitare l'idolatria ed i relativi peccati. L'unico contesto nell'ambito della tradizione ebraica natia per tali Gentili non pagani era il Regno annunciato dai profeti. Questa popolazione cristiana gentile ci dà quindi un'altra misura dell'orientamento apocalittico della primissima comunità. Il resto del mondo poteva rimanere ancora nella vecchia era, faticando sotto le forze delle tenebre e della corruzione, mentre invece coloro che si trovavano dentro l’ekklēsia vivevano già secondo la nuova era, potenziati dallo Spirito di Dio (Romani 8:1-39). E come avevano annunciato i profeti tanto tempo prima, quando il Regno sarebbe arrivato – e in un certo senso era già arrivato per queste comunità i cui membri operavano miracoli e profetizzavano, i cui Gentili avevano volontariamente abbandonato le appartenenze religiose natie per impegnarsi soltanto nella fede del Dio di Israele – Dio avrebbe radunato non solo Israele, redento dal peccato, ma anche le nazioni, redente finalmente dalla schiavitù dei falsi dei. Per cui Paolo dice ai suoi Gentili in Galati (da notare il tempo dei suoi verbi): "Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; ora invece avete conosciuto Dio" (4:8-9).

La convinzione dei discepoli di aver visto il Cristo Risorto, la lora ricollocazione permanente a Gerusalemme, la loro inclusione di principio dei Gentili in quanto Gentili — tutto ciò è solida base storica, fatti noti al di là del dubbio, riguardo alla prima comunità dopo la morte di Gesù. Fatti che cadono in uno schema. Ciascuno segna un punto lungo l'arco della speranza apocalittica che passa da Daniele a Paolo, dai Manoscritti del Mar Morto alle Diciotto Benedizioni della sinagoga, dai Profeti del canone ebraico all'Apocalisse, che conclude il Nuovo Testamento: la convinzione che Dio è buono; che Egli è in controllo della Storia; che Egli non sopporterà il male indefinitivamente. Tutti i vari e molteplici temi in tutti questi scritti differenti si uniscono intorno a questa credenza fondamentale che, alla Fine, Dio prevarrà sul male, ripristinando e redimendo la Sua creazione.

Possiamo inoltre collocare lungo tale arco alcuni particolari profeti del Regno di Dio in arrivo: Giovanni il Battista, Teuda, l'Egiziano, i profeti dei segni riportati da Flavio Giuseppe. E, naturalmente, Gesù Nazareno, che i discepoli proclamarono, dopo la sua morte, il Cristo. La forma della loro proclamazione ci rivela in questo periodo la potenza delle tradizioni specificamente messianiche sul Regno prossimo. La loro esperienza della risurrezione di Gesù non richiese che i discepoli gli dessero l'importante titolo di "Cristo", né che collegassero la loro credenza sull'prossimo adempimento del suo messaggio del Regno ad un'aspettativa del suo ritorno. Ma lo fecero comunque. La Seconda Venuta di Gesù – contributo singolare del cristianesimo alla varietà di aspettative messianiche nell'ebraismo del tardo Secondo Tempio – risuona proprio nel paradigma davidico. Al suono delle trombe, con le schiere di angeli che sconfiggono le potenze del male, Cristo Risorto sarebbe ritornato come guerriero.

Ho sostenuto che furono le folle riunite durante la Pesach a Gerusalemme, e non questi seguaci intimi di Gesù, che proclamarono Gesù il Messia. Lo fecero in parte perché furono spinte dal loro entusiasmo per il suo messaggio autorevole che il Regno era in arrivo: il Regno sarebbe stato accompagnato dal Figlio di Davide. E lo poterono fare proprio perché non lo conoscevano. A differenza di coloro che nel suo gruppo centrale lo avevano seguito durante la sua missione,, e quindi sapevano perfettamente quanto Gesù fosse distante da una qualsiasi idea di candidatura messianica, questi pellegrini non avevano altro contesto per Gesù se non quello in cui lo avevano incontrato per la prima volta: durante la festa di pellegrinaggio nella città di davide durante la Pasqua, nell'eccitazione, cerimoniale e ricostruzione rituale della festività che commemorava la liberazione e redenzione del loro popolo. Il loro entusiasmo per Gesù e per il suo messaggio aveva causato direttamente la sua morte sulla croce.

La crocifissione di Gesù quale Re dei Giudei fu un trauma per i suoi seguaci più intimi. Anche le loro esperienze della sua presenza continua dopo la morte, secondo la testimonianza dei Vangeli, li sorpresero. Cercando di comprendere ciò di cui erano stati testimoni, si rivolsero alla Scrittura. E lì trovarono vari modi di concepire il loro leader rivendicato dalla risurrezione. Le lettere di Paolo, i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, e altri scritti che sarebbero stati poi inclusi nel Nuovo Testamento — tutti testimoniano le meditazioni creative di questa prima generazione apostolica e di quei credenti che si unirono alla comunità dopo di loro. In questi testi Gesù viene sempre considerato come lo avevano percepito i suoi primi seguaci durante la sua missione: un vero profeta, inviato da Dio. Tramite Isaia, essi considerarono Gesù il Servo Sofferente:

« Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti. »
(Isaia 53:5)

Il linguaggio di Levitico offrì immagini di sacrificio sull'altare di Dio: allora Gesù poteva essere ritenuto un sacrificio, un Korban: "Ecco l'agnello di Dio!" (Giovanni 1:36). Egli era il Figlio dell'Uomo che appare alla Fine dei Tempi, agli inizi sofferente, ma poi ritornando sulle nubi del cielo: "A lui diede potere, gloria e regno... e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto" (Daniele 7:14; Marco 13:26). Ed egli era l'unto di Dio, campione del Regno, suo messia.

Quest'ultima designazione era nata specificamente dagli eventi che circondarono l'ultima Pasqua dei discepoli con Gesù — l'acclamazione popolare giubilante, la disastrosa esecuzione come Re dei Giudei. Ma la loro esperienza della risurrezione di Gesù mise in una luce nuova tutti questi eventi precedenti. Nella retrospettiva post-Risurrezione dei seguaci intimi di Gesù, "messia" – di certo modificato in vario modo, alla luce di tale retrospettiva – venne a rappresentare il titolo più adatto di tutti.

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Il Gesù di questa mia ricostruzione è un profeta che predicò l'arrivo del Regno di Dio apocalittico. Il suo messaggio è coerente con quello del suo predecessore e mentore, Giovanni il Battista, e con quello del movimento che sorse in suo nome. Questo Gesù non è primariamente un riformatore sociale con un messaggio rivoluzionario; né è un innovatore religioso che ridefinisce radicalmente le idee tradizionali e le pratiche della sua religione natia. Il suo urgente messaggio ebbe in vista non tanto il presente quanto il futuro.

Inoltre, ciò che distinse il messaggio profetico di Gesù da quello di altri fu innanzitutto il tempo e non il contenuto. Come Giovanni il Battista, egli enfatizzò la propria autorità nel predicare la venuta del Regno; come Teuda, l'Egiziiano, i profeti dei segni, e ancora come il Battista, Gesù si aspettava che arrivasse presto. Ma la convinzione vibrante dei suoi seguaci anche decenni dopo la Croficissione, insieme al fenomeno senza precedenti della missione a Israele e l'inclusione di Gentili, suggerisce che Gesù avesse anticipato il tempo del Regno da presto a ora. Nominando effettivamente il giorno o la data dell'arrivo del Regno, forsanche proprio per quella Pasqua che diventò la sua ultima, Gesù galvanizzò le folle raccolte a Gerusalemme che non erano state preparate dalla sua missione – vale a dire, il suo tenore pacifista, la sua enfasi sull'azione divina piuttosto che umana – e che nel lodare il Regno in arrivo lo proclamarono Figlio di Davide e Messia. Fu una miscela combustibile di fattori – l'eccitata acclamazione popolare, nella Gerusalemme densamente popolata da pellegrini festanti, quando Pilato era in città specificamente per tener d'occhio la popolazione – e non il suo insegnamento in quanto tale, né le sue argomentazioni con altri ebrei sul significato dello Shabbat, del Tempio, della purezza, o un qualche altro aspetto della Torah, che portò Gesù direttamente alla sua esecuzione come Re dei Giudei.

Infine, un Gesù il cui itinerario viene tratteggiato non dai sinottici ma da Giovanni – un Gesù, cioè, la cui missione si estese regolarmente non solo alla Galilea ma anche alla Giudea, e specificamente a Gerusalemme – può comprovare l'anomalia che ha generato questa nostra indagine, vale a dire, che solo Gesù fu ucciso quale insurrezionalista in quella Pesach, ma nessuno dei suoi discepoli lo fu. Una ripetuta missione a Gerusalemme, specialmente durante le feste di pellegrinaggio quando anche il prefetto, di necessità, era lì, spiega come Caifa e Pilato sapessero già chi era Gesù e cosa predicasse, e quindi sapessero bene che egli non era un pericolo di prim'ordine. Proprio come l'entusiasmo della folla per Gesù come messia spiega il modo specifico della morte, così il duplice interesse di Gesù – la Giudea, specialmente Gerusalemme nel Tempio, come anche la Galilea – spiega la familiarità del sommo sacerdote e del prefetto riguardo alla sua missione, e quindi spiega perché Gesù fu il solo bersaglio della loro azione.

Domande essenziali rimangono comunque senza risposta. Perché Gesù rispose alla chiamata a pentimento e purificazione di Giovanni il Battista di fronte al Regno prossimo? Perché i suoi discepoli intimi, a loro volta, si impegnarono così fortemente a seguirlo? Perché il suo messaggio apocalittico fu così avvincente? Perché i suoi discepoli, i soli di tutti coloro che avevano seguito figure profetiche carismatiche in questo periodo, affermarono che Gesù era risorto dai morti? Perché essi dedussero da questa esperienza che dovevano continuare la missione di Gesù, estendendola alla Diaspora?

Qui la natura esplicativa dell'indagine storica deve cedere alla nostra ignoranza e ai suoi limiti. Alla fine, la storia stessa è più un'impresa descrittiva che una esplicativa. Scorrse più su un filo narrativo coerente che su proposizioni strettamente testabili. Mentre la ricostruzione di una sequenza di eventi permette, anzi invita, speculazioni sui collegamenti causali tra di loro, la storia offre non tanto una spiegazione quanto una stretta descrizione di una particolare sorta. Non possiamo sperare di misurare la verità di una proposizione storica con la certezza di poter testare o comprovare un'ipotesi sperimentale nelle scienze empiriche. Nessuna ricostruzione storica può essere dimostrata di essere vera. Il meglio che possiamo fare – una volta che l'interpretazione ha tessuto quanto più possibile dell'evidenza in un modello plausibile, coerente e significativo – è persuadere.

L'attuale massa di lavoro sul Gesù della storia riflette le confusioni di narrazioni interpretative contrastanti. Il profeta apocalittico di uno storico diventa il riformatore sociale radicale di un altro; uno storico presenta un devoto hassidorientato individualmente, mentre un altro presenta un critico politico, o un saggio cinico. Ma tutte le narrazioni non sono create uguali, e le ragioni per scegliere tra loro, per decidere quale sia più persuasiva, non sono arbitrarie. Ciò accade perché, anche se il centro di una narrazione storica è un individuo, tale individuo, che sia Gesù o un altro, visse in un contesto sociale. Questo contesto sociale è il promontorio critico dello storico.

Ciò significa che la ricerca del Gesù storico deve essere, necessariamente, una ricerca anche del suo pubblico di primo secolo. Ciò potrebbe sembrare problematico: dopotutto, se Gesù sembra un soggetto elusivo, coloro che lo ascoltarono lo sembrano ancor di più. Almeno per lui abbiamo documenti che ne parlano; degli altri, invece e in confronto, ne abbiamo pochi.

Tuttavia, riflettendoci, tutte le informazioni nelle nostre fonti in effetti parlano più direttamente di loro che di lui, dato che Gesù non ci ha lasciato scritti. Lo vediamo scrivere solo una volta, nella sabbia... "Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra" (Giovanni 8:6).

Le lettere di Paolo, i Vangeli – e, da una prospettiva esterna, Flavio Giuseppe – testimoniano meno di Gesù direttamente che dell'effetto che ebbe sugli altri. Questi antichi documenti, quindi, devono essere letti cercando di ricostruire tanto lui quanto loro. È questa grande compagine di testimoni – il pubblico anonimo di Gesù; i suoi discepoli, i suoi simpatizzanti, ed i suoi opponenti – che fornisce un punto di appiglio nel vortice delle ricostruzioni storiche concorrenti. Il primo scopo dello storico è di trovare un Gesù del primo secolo la cui missione aveva un senso per i suoi ascoltatori contemporanei del primo secolo. Fu sulla sua intelligibilità per loro fondamentale che dipese tutto il resto della storia del cristianesimo.

La sfida nel porre coerentemente Gesù nel suo contesto natio dell'inizio primo secolo viene assistita da un esiguo numero di fatti indiscutibili che sono serviti come fondamenta per questa ricostruzione: il suo incontro con Giovanni il Battista, il suo seguito popolare, la sua proclamazione del Regno di Dio, la sua crocifissione a Gerusalemme ordinata da Pilato, la sopravvivenza dei suoi seguaci più stretti, che continuarono la sua proclamazione del Regno identificando Gesù come Cristo, risorto dai morti, ed estendendo la missione dalla sua matrice ebraica ad includere anche i Gentili. Nessuna ricostruzione del Gesù storico può essere persuasiva se non include significativamente anche questa manciata di fatti sicuri.

Questi fatti – allcuni corroborati da fonti esterne – ci arrivano principalmente tramite i primi scritti cristiani. Tutti questi testi sono scritti da una prospettiva post-Risurrezione, che a sua volta rifrangono quelle reminiscenze storiche che contengono. E, eccetto Paolo, tutti gli altri autori cristiani scrivono sapendo che il Tempio di Gerusalemme non esiste più. Tale conoscenza, non meno delle loro credenze riguardo a Gesù, influenza il modo in cui loro raccontano le proprie storie su di lui. L'approccio ad un'approssimazione credibile della figura storica di Gesù Nazareno filtra attraverso queste storie e, in effetti, attraverso una conoscenza critica dell'ambiente di Gesù, corretta da tali successivi punti di vista.

Alla fine, la persona che cerchiamo sta con la schiena rivolta verso di noi, la faccia verso gli altri della sua propria generazione. Poiché Gesù di Nazareth, come qualsiasi persona, visse intatta e totalmente nell'ambito della sua propria cultura e del suo periodo, inconsapevole di ciò che riservava il futuro. E mentre Gesù ed il suo messaggio si relazionano alle varie forme di cristianesimo che alla fine risultarono dalla sua missione, le loro interpretazioni di Gesù quale Cristo non sono identiche né con le sue personali credenze religiose, né tra di loro. La figura storica di Gesù sta invero al punto d'inizio delle successive interpretazioni cristiane. Per questa ragione, una valutazione accurata del suo reale contesto storico ha importanza per la teologia. Una cattiva storia produrrà una cattiva teologia. Ma la corrispondenza tra il Gesù storico e le successive confessioni di fede cristiane su di lui è indiretta piuttosto che diretta, mitigata piuttosto che immediata.

Gli evengelisti stessi dimostrano ampiamente questo punto. Il Gesù "storico" – cioè, Gesù come se lo immaginavano quando era in vita, tra i suoi contemporanei – fu il loro punto centrale. Ma ciascuno di loro lo videro dalla prospettiva del loro proprio tempo e luogo che, sebbene circa venti secoli più vicino del nostro, inevitabilmente influenzò la loro interpretazione. Attraverso le loro varie prospettive gli evangelisti "aggiornarono" Gesù, collocandolo nei loro propri contesti storici e religiosi — post-Tempio, anti-Farisei, mescolanza ebrea-gentile. Marco aggiustò e quindi interpretò tradizioni anteriori. Matteo redasse e accrebbe Marco. Stessa cosa fece Luca, sebbene differentemente. Giovanni è eccezionalmente differente da questi tre. Se consideriamo la gamma dei successivi Vangeli non canonici – il Vangelo di Tommaso; il Vangelo di Pietro, il Vangelo degli Egiziani, e altri ancora – queste differenze di interpretazione si moltiplicano solamente. Sebbene ciascun Vangelo riporti storie e insegnamenti che sono chiaramente variazioni su un tema comune, cionondimeno ciascun evangelista in un certo senso crea e presenta il suo Gesù personale, uno che serve a stabilire e quindi a legittimare le credenze e le pratiche della successiva comunità propria dell'evangelista.

Il compito della presente ricerca del Gesù storico è fondamentalmente diversa, ed i suoi punti di principio la distinguono da una teologia sia antica che moderna. Una costruzione teologica di Gesù può certamente cercar di relazionare questa figura fondamentale a interessi e usanze della moderna comunità di credenti. Ne risulteranno tante differenti interpretazioni teologiche quante sono le chiese in esistenza — romana, greco-ortodossa, pentecostale, battista, presbiteriana, e via dicendo. Lo scopo di tale impresa è di trovare ciò che Gesù significa per coloro che si riuniscono in suo nome, nell'ambito di quella data chiesa. Ma una costruzione storica di Gesù ricerca ciò che Gesù significò per coloro che lo seguirono durante le proprie vite e la sua. In linea di principio funziona nella direzione opposta, senza tirare Gesù dentro un contesto moderno, ma mettendolo, il più coerentemente possibile, nel suo.

Tale sforzo deve rispettare la distanza tra ora e allora, tra i suoi inretessi ed impegni ed i nostri. Il Gesù Nazareno storico non fu mai né mai potrà essere nostro contemporaneo. Rivestirlo di abiti presi in prestito da programmi correnti e nel contempo affermare che tali programmi furono in effetti i suoi, distorce solo e oscura chi egli fu veramente.

Se i credenti moderni cercano un Gesù che sia moralmente intelligibile e religiosamente pertinente, allora è loro compito reinterpretare di necessità creativamente e responsabilmente. Un tale progetto non è storico bensì teologico (generando un significato moderno/contemporaneo per una data comunità religiosa). Ne risulteranno inevitabilmente molteplici e conflittuali affermazioni teologiche, tante quante le varie e differenti comunità che le producono. Tuttavia, questa reinterpretazione teologica non deve essere scambiata né presentata come una descrizione storica.

Per considerare Gesù storicamente richiede liberarlo dal servire interessi moderni o identità confessionali. Significa rispettare la sua integrità come persona reale, quale soggetto di convinzioni appassionate e conseguenze inaspettate, sorpreso dalle svolte degli eventi e ignaro del futuro quanto ogni altro. Significa permettergli l'irriducibile alterità della propria antichità, la stranezza che Albert Schweitzer rappresenta nella sua poetica descrizione di chiusura: "Viene a noi come Uno sconosciuto, senza nome, come un tempo, in riva al lago". È proprio quando rinunciamo alla familiarità falsa profferta dagli angeli oscuri della Rilevanza e dell'Anacronismo che vediamo Gesù, i suoi contemporanei, e forse anche noi stessi, più chiaramente nella nostra comune umanità.

  Per approfondire, vedi Biografie cristologiche, Interpretare Gesù in contesto e Noli me tangere.