Insegnare fisica/Basi cognitive

Indice del libro

Basi cognitive dell'appredimento della fisica

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In questo capitolo si espongono alcuni argomenti di scienze cognitive legati alla fisica e al processo di apprendimento della fisica.

Introduzione

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Lo studio della fisica è in genere considerato più difficile di quello della matematica, probabilmente perché la prima non è una disciplina “deduttiva”, anche se viene spesso presentata, almeno nelle scuole superiori, come se fosse una branca della matematica. È un problema di come viene insegnata o ci sono delle difficoltà intrinseche nel suo apprendimento?

Bisogna per prima cosa tenere presente che l’insegnamento (universitario e della scuola superiore) della fisica e delle discipline tecnico/scientifiche è solo in minima parte basato su un approccio scientifico, ed in gran parte su prassi poco verificate.

Forse come conseguenza, gli studenti sembrano spesso comportarsi in modo “schizofrenico”: riescono a risolvere i problemi di fisica, se questi sono presentati in termini formali e matematici, ma cambiano radicalmente approccio se il problema è anche solo leggermente variato, utilizzano moduli “non fisici” quando il problema è formulato in termini “di tutti i giorni”, e tali moduli possono cambiare a seconda del contesto.[1]

Da ciò deriva una certa inutilità dell’insegnamento della fisica (tranne che agli studenti di fisica, che probabilmente imparerebbero lo stesso anche senza il corso), sensazione confermata dai risultati del Force Concept Inventory, un test per misurare quanta fisica “scolastica”, ovvero galileiana, viene sfruttata per interpretare gli eventi di tutti i giorni. Il test viene somministrato prima e dopo un corso liceale o universitario, e l’incremento delle performance risulta modesto.

Le ricerche relative alle scienze cognitive suggeriscono che gli “errori” degli studenti siano dovuti a dei meccanismi generici (o euristiche), che sono attivi anche in altri contesti, la cui conoscenza potrebbe risultare molto utile nell’insegnamento della fisica. In questa pagina si cerca di mettere in evidenza alcuni di questi processi, senza pretendere di essere esaustivi o completi.

L’aspetto probabilmente più importante è che l’apprendimento della fisica è in realtà in gran parte costituito dal “disapprendimento” delle associazioni intuitive, o meglio, dalla contestualizzazione della fisica intuitiva, che non può essere eliminata dato che, in fondo, è quella che ci consente di sopravvivere.

La difficoltà della fisica[2] non ha molto a che vedere con lo studio. Certo, questo è necessario, ma non è tutto. In fondo la fisica è basata su poche leggi, che vanno padroneggiate, con una modalità di apprendimento simile a quella usata per imparare il gioco degli scacchi. Come in quest’ultimo caso, bisogna esercitarsi per riuscire ad applicare le leggi e la loro derivazione matematica in maniera intuitiva, ma purtroppo per la fisica questo non basta.

La fisica, diversamente dagli scacchi, è “troppo” simile alla realtà, e contrasta con dei moduli di fisica intuitiva che tutti noi (animali) ci portiamo dietro fin dalla nascita, oltre a contrastare con altri processi cognitivi, che ostacolano l’apprendimento di molte altre discipline scientifiche.

Pressioni evolutive

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Il nostro cervello, come tutto il resto, è il prodotto di pressioni evolutive, combinazioni tra genetic drift e selezione naturale. Queste si possono schematicamente dividere in effetti dovuti alla selezione per sopravvivenza e selezione sessuale.

La società umana, come quella di primati tipo gli scimpanzé, è altamente sociale. Il successo non deriva tanto dalla forza fisica, quanto dalla capacità di formare alleanze e manipolare gli altri (intelligenza machiavellica). La necessità di conoscere non solo gli altri membri del gruppo, ma anche le relazioni tra loro è stata probabilmente una spinta evolutiva verso l'aumento delle capacità cognitive (numero di Dunbar).

D'altra parte, nella storia dell'Homo sapiens c'è stato sicuramente un passaggio da una vita in un ambiente forestale e un tipo di alimentazione simile a quella degli scimpanzé a una vita nella savana, con una divisione del lavoro tra maschi e femmine e la necessità di sviluppare forti legami di coppia (o di piccolo harem). Questa è probabilmente la ragione per la nascita dei tabù sessuali e la necessità di sviluppare metodi alternativi al grooming per stabilire le relazioni di gerarchia nel gruppo. Secondo Robin Dunbar, questa potrebbe essere l'origine del linguaggio. In ogni caso, il linguaggio non ha neppure oggi come scopo primario quello di comunicare informazioni tecniche o di coordinazione, quanto quello di essere uno strumento di coesione e di comunicazione di informazioni sociali (gossip).

D'altra parte, è plausibile che il linguaggio sia stato forgiato essenzialmente dalla parte femminile del gruppo, che restava più insieme rispetto ai maschi, ma che poi si sia evoluto in un ornamento sessuale, portando allo sviluppo di lati estetici come il canto e la poesia, lo sviluppo di una grammatica elaborata, e la necessità anche per i maschi di padroneggiare tale strumento.

È plausibile che le nostre capacità logico-analitiche siano un "sottoprodotto" di tali pressioni evolutive. Non a caso siamo molto più abili ad usare la logica in un contesto sociale che in uno astratto, come provato dal Wason selection task.

Queste considerazioni sono da tenere presenti nell'insegnamento, in quanto non si può assumere che una concatenazione logica di elementi sia automaticamente percepita come "più importante" di associazioni contestuali, mediate dall'esperienza passata o dalla comunicazione interpersonale (tipo le "fake news"), che hanno dalla loro un forte support sociale.

Fisica intuitiva

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Come detto, sicuramente non ci siamo evoluti sotto una pressione evolutiva per imparare la fisica galileiana, mentre ci sono evidenze che dicono che c'è stata una pressione per sviluppare il concetto di piccoli numeri e concetti che vanno sotto il nome di "fisica intuitiva".

Gli animali (almeno vertebrati, ma si pensa anche gli insetti) nascono con delle conoscenze fisico-matematiche di base: la capacità di contare fino a piccoli interi (3-5), la numerosità intuitiva (distinguere tra 8 e 16 punti), l’impenetrabilità dei corpi, la distinzione tra liquidi e solidi, e la distinzione tra oggetti animati e inanimati.[3]

Il tipico esperimento riguarda l’attenzione dedicata a tali fenomeni. Per esempio, si prende un bambino di pochi mesi e lo si abitua a vedere dei fogli con un certo numero di punti per esempio otto, con diverse disposizioni. Dopo l’abituazione, si presentano altri esempi dello stesso tipo, con sette o nove punti, oppure dei fogli con un numero molto diverso (per esempio 16) di punti. I bambini fissano per un tempo più lungo lo stimolo diverso dagli altri, manifestando sorpresa.

Esperimenti simili riguardano per esempio gruppi di 3 oggetti che vengono prima mostrati, poi coperti e quindi rivelati. Se alla rivelazione gli oggetti sono diventati due o quattro, il bambino mostra sorpresa. In questa maniera si può determinare che bambini di pochi mesi sanno “contare” fino a cinque, o distinguere numerosità molto diverse tra loro, e che si aspettano che gli oggetti solidi non si compenetrino, ecc.[4]

Questi esperimenti si possono fare anche con altri animali, per esempio un gatto che vede tre topolini entrare in un buco e due uscirne si mette in attesa dell’ultimo, cosa che non succede se entrano sei topolini e ne escono cinque.

In particolare, molti esperimenti sono stati fatti con pulcini appena usciti dall’uovo, che sono dei soggetti sperimentali molto interessanti perché “nascono adulti”, con buona mobilità ma poca esperienza diretta del mondo. Inoltre, i pulcini sono predisposti all’imprinting verso la prima cosa mobile che vedono appena usciti dall’uovo, e a seguirla (con lo sguardo se impediti al movimento). In questa maniera si possono eseguire esperimenti sulle “aspettazioni” fisiche dei pulcini, per esempio che uno schermo troppo piccolo non può nascondere un oggetto grande, e così via.[5]

Con gli insetti ovviamente gli esperimenti sono diversi,[6] ma si sa che alcune vespe sanno contare il numero di bruchi paralizzati che immagazzinano per ogni uovo, e che le api possono essere addestrate a distinguere tra gruppi di punti di diversa numerosità.[7]

Una delle caratteristiche che più ci interessa qui è quello che riguarda la fisica intuitiva: bambini e pulcini si aspettano che i corpi pesanti cadano verso il basso, che una palla rotoli per un po’ e poi si fermi, e così via. Ovvero che i corpi inanimati obbediscano alla “fisica di tutti i giorni”, che vagamente assomiglia alla fisica aristotelica.[8] In effetti, come fatto notare da Rovelli, la fisica aristotelica è una corretta descrizione del moto se questo si svolge in un mezzo viscoso, come appunto accade normalmente.[9]

La ragione evolutiva di tale “modulo fisico” intuitivo è probabilmente da associare alla necessità di distinguere velocemente tra oggetti inanimati, non pericolosi, ed oggetti animati, da tenere sotto controllo.

L’esatta definizione della fisica intuitiva è ancora oggetto di studio, ma comunque alcuni suoi aspetti sono chiari:

  • Gli oggetti solidi non si dividono in due o più parti spontaneamente.
  • Gli oggetti solidi non si compenetrano. Se si appoggia un telo o un foglio su un oggetto, ci si aspetta che produca un rigonfiamento. Viceversa, un rigonfiamento mostra che c’è qualcosa sotto.
  • Gli oggetti continuano ad esistere anche se non si vedono, perché temporaneamente nascosti.
  • Se non sono tenuti dalla parte inferiore o sospesi, gli oggetti cadono verso il basso.
  • Oggetti più pesanti cadono più velocemente di oggetti manifestatamene leggeri.
  • Gli oggetti si spostano in direzione della forza a loro applicata.
  • In assenza di “motori” attivi, gli oggetti dopo un po’ si fermano.
  • Le forze sono esercitate da soggetti attivi (viventi) in maniera intenzionale.
  • Le risposte sono lineari se è possibile percepire la quantità (doppia causa doppio effetto), altrimenti sono analogiche (l’effetto è solo qualitativamente legato alla causa).
  • Bisogna sempre fare riferimento al caso tipico, non a quelli estremi.

Alcuni di questi elementi non sono peculiari della fisica, ma si possono identificare anche in altri contesti. Per esempio, Ramachandran ha elaborato una teoria della neuroestetica (le basi cognitive dell’esperienza estetica ed artistica) partendo da principi di semplicità, per esempio che un punto di vista troppo particolare (come un paesaggio esattamente simmetrico) è innaturale, che un oggetto parzialmente nascosto è probabilmente composto da un solo pezzo, e così via.[10]

La teoria del doppio processo del pensiero e le euristiche cognitive

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Un aspetto da tenere presente per analizzare le caratteristiche legate all’interpretazione dei fenomeni fisici è che si possono distinguere due modalità di pensiero, dette veloci e lente, intuitivo e deliberato, associativo e basato su regole, o semplicemente Sistema 1 e Sistema 2.[11]

Il Sistema 1 opera in modo inconsapevole (siamo consapevoli solo della risposta che ci viene in mente non del processo), analogico (non conta se non con numeri piccoli o per numerosità apparente), rapido, sempre attivo. È il sistema che ci permette di eseguire i compiti di tutti i giorni, come anche, previo allenamento, eseguire compiti abbastanza complessi come guidare una automobile e rispondere emotivamente a rumori, ecc. Il Sistema 1 si basa sul concetto di “euristica”, ovvero di risposta stereotipata, semplice, economica e (generalmente) efficace, ma che non garantisce l’individuazione di una risposta normativamente corretta.

Il Sistema 2 invece è deliberato, lento e faticoso. Monitora l’attività del Sistema 1 ed interviene inibendo la risposta automatica del Sistema 1 o quando questo non può risolvere un problema, per esempio perché c’è da usare una regola non lineare del tipo “se... allora”, o perché è necessario fare un calcolo complesso (ad esempio, risolvere un integrale). Dato che usare il Sistema 2 è faticoso e richiede risorse, se quest’ultimo non ha risorse sufficienti (ad esempio, nei casi in cui il tempo per risolvere un problema è estremamente breve), ci si affida alla risposta proposta dal Sistema 1 senza fare verifiche.

 
Figura 1. Un semplice test: l’accelerazione della massa M nella configurazione (a) è la stessa che nella configurazione (b)?

Per esempio, la risposta sbagliata al test della figura 1 è un classico esempio di una euristica: ignora le differenze e agganciati a quello che conosci. La domanda è stata posta ad alcuni insegnanti universitari di fisica, durante una pausa in una conferenza così da coglierli con le difese "allentate". Una buona percentuale di loro, tutti con molti anni di insegnamento alle spalle, ha risposto distrattamente di sì, salvo ovviamente correggersi quando abbiamo chiesto loro se fossero veramente sicuri (la forza è la stessa nelle due configurazioni, ma in (a) questa accelera sia il corpo M che il pesetto m).

Un altro esempio semplice, tratto dal testo di Kanheman[11], è il seguente: Al negozio di sport c’è una offerta eccezionale: una racchetta da ping pong e una pallina a solo 1,10 €. Se la racchetta costa 1 € più della pallina, quanto costa quest’ultima?

Anche chi è più propenso a fare i calcoli, sente dentro di sé una vocina che dice “10 c, 10 c, 10 c...”. È il Sistema 1 che non sa fare i calcoli e chiama il Sistema 2, suggerendo però: perché sforzarsi, insieme costano uno e dieci, leva uno, resta il dieci.... L'aspetto interessante è che in molti casi la verifica non viene fatta se non dopo molte sollecitazioni, domostrando la "pigrizia" del cervello.

Un'altra euristica si può definire della "linearità", e consiste nell'evitare i calcoli cercando di utilizzare le proporzioni come appaiono nel testo

Per esempio, in un problema viene descritto un moto composto da due parti: un corridore percorre un tratto D = 500 m partendo e arrivando con velocità nulla, prima con un moto uniformemente accelerato con accelerazione a1 = 2 m/s2 e poi con un moto uniformemente decelerato con accelerazione (negativa) a2 = 3 m/s2. Trovare il tempo impiegato.

L'approccio "lineare" potrebbe essere quello di dividere lo spazio (500 m) in due tratti proporzionali alle accelerazioni (200 e 300 m).

D'altra parte, un altro problema che gli studenti incontrano nell'approccio scolastico è quello di affrontare i problemi sempre e solo utilizzando la matematica/algebra e di non essere mai abituati ad utilizzare un approccio per approssimazioni successive o per tentativi ragionati, e spesso senza fare grafici.

La soluzione matematica del problema precedente non è difficile, ma si potrebbe cominciare con la prima approssimazione: dato che le accelerazioni non sono molto diverse, supponiamo che faccia metà percorso (250 m) con una accelerazione e metà con l’altra. Per la seconda parte si può anche pensare che il moto sia effettuato con il tempo che fluisce nel senso contrario, ovvero che ci siano due corridori, uno che parte dall'inizio con accelerazione a1 e l'altro dalla fine con accelerazione a2 e che si debbano incontrare con la stessa velocità. Visto che la prima accelerazione è più più piccola, dovrà accelerare per un tempo più lungo per avere la stessa velocità. Possiamo ipotizzare un tratto di 300 m per il primo e di 200 m per il secondo (che poi è la soluzione giusta, verificabile con le formule del moto uniformemente accelerato).

Infine, bisogna tenere presente che il Sistema 1 è composto da tanti processi, alcuni sempre attivi, altri richiamati “in azione” a catena. Per esempio, un processo sempre attivo è legato alla attenzione al movimento: se qualcosa si muove (come per esempio un topo), anche al di fuori dell’area visiva cosciente, l’attenzione viene immediatamente diretta all’agente (la “coda dell’occhio”). Similmente, gli occhi sono elementi attivamente ricercati, anche al di fuori dell’area visiva cosciente: sarà capitato a tutti di avere la sensazione di essere osservati, e di girarsi di scatto sorprendendo qualcuno intento a fissarci. Non si tratta di “sesto senso”, ma solo di processi inconsapevoli, che analizzano gli elementi, per esempio a seguito di saccadi,[12] che non vengono presentati al processo cosciente.

La gran parte dei processi del Sistema 1 vengono attivati a catena da altri “schemi” o “script”. Questo è particolarmente evidente nel sistema visivo: la quantità di informazione che giunge dall’apparato visivo è troppo grande per poterla processare (almeno in maniera conscia), quindi viene brutalmente filtrata dai processi inconsci prima di essere passata al Sistema 2. Un bell’esempio è dato dalla “change blindness” o “motion silencing illusion”, in cui un pattern che cambia colore e contemporaneamente ruota non può essere completamente acquisito, per cui il cervello si limita a “ruotare” il pattern già presente in memoria, silenziando i cambiamenti (vedere esempi su https://www.cell.com/current-biology/fulltext/S0960-9822(10)01650-7)[13].

Se poi siamo impegnati in un compito particolare, come cercare qualcosa o seguire qualche azione animata, questo filtraggio è ancora più accentuato. Così, se ci focalizziamo nella ricerca di un pattern (le chiavi di casa, gli occhiali), possiamo passare davanti all’oggetto senza “vederlo” solo perché abbiamo cambiato da poco il portachiavi, o ignorare oggetti anche cospicui presenti nella scena (“selective attention test” o il “gorilla invisibile”).[14]

Infine, mentre il Sistema 2 è seriale, il Sistema 1 è parallelo, il che vuole dire che più schemi, anche contrastanti, possono essere attivati contemporaneamente, e anche richiamare il Sistema 2, sempre che questo non porti a un conflitto. Questa attivazione porta a comportamenti “schizofrenici”, come rivelato da interviste [1] e anche da molti esami orali: gli studenti possono sostenere un concetto e subito dopo il concetto opposto, a seconda dello “stimolo” ricevuto. [15]

Però questa è anche la base per l’apprendimento della fisica: dato che non possiamo eliminare il modulo di fisica intuitiva, possiamo però allenare degli schemi che praticamente implementino lo script “occhio che la risposta veloce è probabilmente sbagliata, sentiamo cosa dice il Sistema 2”.

Ovviamente, perché tali concetti in opposizione possano mantenersi, devono avere causato nel passato una azione positiva (rinforzo), oppure possono semplicemente essere frutto di generalizzazioni che non sono state smentite dall’esperienza.

Questa “convivenza degli opposti” è probabilmente alla base del comportamento “quasi quantistico” dei processi cognitivi,[16] ed è alla base del successo della prassi del “peer instruction”.

Il Force Concept Inventory

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Il “Force Concept Inventory” è uno strumento molto usato per mettere in evidenza le carenze delle conoscenze di meccanica di base degli studenti, a livello sia liceale che universitario. Si tratta di un insieme di quiz su cinematica e leggi di Newton, formulati con un linguaggio di tutti i giorni.[17]

Il test mira a sondare le conoscenze relativamente a moti accelerati, caduta di gravi, effetto delle forze e terza legge di Newton o azione-e-reazione. Ecco alcuni degli errori più comuni (che non sono sempre maggioritari) (si vedano le figure sulla ref. [2])

  • La forza viene confusa con l’inerzia: un oggetto si muove finché viene “sospinto” da una forza, dopodiché “torna” al suo logo naturale, per dirla in termini aristotelici.
  • Le forze causano spostamenti nella direzione in cui sono orientate e viceversa.
  • I corpi più pesanti cadono più velocemente, ma perdono più velocemente la velocità iniziale (la palla più pesante arriva prima a terra, ma meno lontano quando cade dal tavolo con una velocità iniziale orizzontale).
  • Si confondono i punti di vista: una palla che cade da un aereo, vista da un osservatore fermo, va “indietro” non solo rispetto all’aereo (per attrito dell’aria) ma addirittura rispetto al punto di partenza.
  • Per muoversi, anche a velocità costante, la forza dev’essere maggiore della resistenza e se si aumenta la forza aumenta la velocità limite. Il problema qui è che la resistenza di attrito non aumenta con la velocità, diversamente da quanto accade nei fluidi.
  • Lo stesso problema (il moto su un piano orizzontale) può avere risposte diverse a seconda dell’orientamento.
  • Il terzo principio della dinamica è quello meno compreso: la forza è proporzionale al danno potenziale o è collegata all’intenzionalità, ovvero attribuita solo a esseri viventi, quando compiono l'atto volontariamente.

Questo ultimo punto è interessante. Una persona esercita una forza su un oggetto, mentre questo semplicemente si oppone al moto, ma anche una persona che spinge da dietro un'altra esercita una forza mentre la seconda persone si oppone; solo se due persone si spingono faccia a faccia, entrambe esercitano delle forze. Probabilmente questa interpretazione è legata all'embodiement (vedi oltre) e ai neuroni specchio.

Come sottolineato da Rovelli, molte di queste “misconception” sono molto simili alla concezione aristotelica della fisica, ovvero sono consistenti con l’esperienza del moto di oggetti in un fluido fortemente viscoso,[9] il che spiegherebbe perché oggetti più pesanti vanno più veloci (e intuitivamente sono “attratti di più” dalla Terra), perché il moto sia nella direzione della forza (la velocità e l’energia cinetica vengono rapidamente dissipati), perché ci si aspetta sempre una velocità limite, proporzionale alla forza.[18]

Quello che è da sottolineare è che questo test viene proposto in genere sia prima che gli studenti seguano un corso di fisica, sia dopo che hanno passato l’esame. Ebbene, anni di esperienza mostrano che l’incremento nel punteggio del test è in genere vicino al 15%-25%, sia a livello liceale che universitario. Solo nel caso in cui gli argomenti del corso vengano discussi tra pari o con gli insegnanti, la percentuale di miglioramento sale a quasi il 50%.[19]

 
Distribuzione dei voti del “Force Concept Inventory” test all’Università di Firenze. Il punteggio massimo è 30 punti.

Nell’anno 2018-1019 il test è stato somministrato, solo all’inizio del corso, a vari studenti di circa 30 corsi di laurea all’Università di Firenze, collezionando quasi 300 risposte (la maggioranza nei corsi di ingegneria). Nonostante il 47% venga da un liceo scientifico e il 30% da un istituto tecnico, scuole superiori dove si studia fisica approfonditamente, la distribuzione del punteggio, riportata in Fig. 2, non è incoraggiante, la media è di soli 10 punti su 30.

Embodiment

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Molti dei problemi legati all’apprendimento della fisica hanno a che fare con la confusione dei termini, tra cui in particolare quello di forza. Noi umani siamo legati alla nostra esperienza corporea, e per noi la forza è legata allo sforzo muscolare. Inoltre, come mostrano le ricerche sui neuroni specchio[20], noi sfruttiamo la “mappatura” delle azioni sul nostro corpo per capire l’intenzionalità di un atto osservato. Quindi, non è da meravigliarsi se colleghiamo istintivamente la forza all’intenzionalità, così che se vediamo uno studente spingerne un altro premendo la mano sulla schiena o sulla spalla, attribuiamo la forza solo al primo. Viceversa, se due studenti si spingono vicendevolmente premendo le mani dell’uno contro quelle dell’altro, allora la forza viene attribuita ad entrambi.

 
L’illusione della “padella per muffin”: le protuberanze e gli incavi si scambiano se la figura viene girata.

Un altro elemento particolarmente importante è legato alla nostra abitudine di vedere il mondo in senso verticale, con la luce che cade dall’alto. Questo per esempio ci causa una profonda sensazione di tridimensionalità in immagini di per sé bidimensionali, come nell'illusione del "muffin pad".[21] Se l’immagine viene capovolta, gli incavi si tramutano in protuberanze, dato che ci aspettiamo che la luce venga dall’alto.

Infine, un altro aspetto molto interessante è legato alla scansione destra-sinistra, che associamo istintivamente allo scorrere del tempo. Si potrebbe pensare che questa associazione sia legata al senso della nostra scrittura, ma esperimenti con i pulcini mostrano che anche in questo caso un contenitore contenente cibo, che nella fase di training era posto in una certa posizione in una fila “uscente” rispetto al soggetto, viene fatto corrispondere al contenitore posto nella stessa posizione da destra verso sinistra, quando la fila è presentata in senso “orizzontale”.[5]

L’illusione della profondità esplicativa e l’illusione della conoscenza

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Un aspetto cruciale che influenza lo studio in tutte le sue forme (e che probabilmente si può fare risalire all’influenza del Sistema 1 sul Sistema 2) è l’illusione della profondità esplicativa e l’illusione della conoscenza.[22]

L’illusione della profondità esplicativa fa riferimento alla nostra tendenza a sovrastimare la nostra comprensione dei fenomeni ed oggetti che ci circondano. Se si domanda a qualcuno quanto stimi la sua conoscenza su qualche aspetto tecnologico usato tutti i giorni (oppure temi di discussione politica), per esempio su come funziona lo sciacquone del bagno, è probabile che la risposta sia molto positiva. Quando poi viene chiesto di descrivere accuratamente il funzionamento del sistema in oggetto, il soggetto si rende conto di aver di molto sopravvalutato le proprie conoscenze.

Questo ovviamente vale anche per gli esami. Se si domanda ad uno studente quanto pensa di prendere ad un compito scritto che ha appena consegnato, è probabile che si ricevano stime della valutazione molto più alte di quanto poi venga ottenuto. Del resto, accade anche a noi insegnanti: di fronte alla prospettiva di passare alcune ore a preparare la lezione, viene spesso il pensiero “ho già fatto questa lezione l’anno scorso, vuoi che non mi ricordi come si fa?” con l’implicita assunzione che il tempo risparmiato venga più piacevolmente usato per qualcos’altro.

L’illusione della profondità esplicativa è strettamente legata all’illusione della conoscenza, ovvero la tendenza a non distinguere tra ciò che sappiamo in quanto singoli individui e ciò che sappiamo in quanto membri di una comunità (ovvero ciò che sanno le persone che ci circondano), da ciò consegue la sovrastima della conoscenza individuale. Infatti, noi umani tendiamo a considerare “nostra” anche la conoscenza del gruppo. Una variabile critica di questo fenomeno è l’accessibilità delle conoscenze: siamo vittima di questa illusione se le persone che ci circondano sono accessibili (ovvero se sono disposte a condividere la loro conoscenza con noi). Se ad un soggetto viene semplicemente detto che gli scienziati sanno ormai tutto del funzionamento di una cellula o di una reazione nucleare (senza dare ulteriori dettagli), e poi gli/le viene chiesto di stimare la propria conoscenza dell’oggetto, otteniamo punteggi più alti rispetto al caso in cui al soggetto viene detto che gli scienziati hanno compreso tutto ma non possono diffondere queste conoscenze perché coperte da un segreto militare.

Attenzione e riflessione

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Un aspetto poco considerato nella modalità di erogazione della conoscenza è poi il meccanismo dell’attenzione rispetto alla riflessione.

Per cominciare, non molti studi hanno misurato il livello di attenzione durante una lezione, il che permetterebbe di calibrare meglio le pause, o anche di modulare la lezione inserendo elementi di sorpresa. Ma l’aspetto più importante riguarda la modalità di fruizione di una lezione.

Come si può vedere nella Figura 9 della ref. [23], l’attività del sistema nervoso autonomo di uno studente (o di qualsiasi altra persona) misurata sulla base delle variazioni della conduttanza cutanea (attività elettrodermica, EDA) è molto vario. L’EDA è un indice di attivazione emotiva, cognitiva e attentiva. Si osserva che il sistema è molto attivo durante lo studio, i compiti a casa, le attività sociali e quelle rilassanti, anche il sonno (anzi, è uno dei periodi di maggiore intensità). Gli unici momenti in cui l’attività scende vicino a zero sono quando si guarda la TV e… quando si è in classe.

In effetti in questi due casi si è in una modalità di “assorbimento e memorizzazione”, in cui non c’è nessuno spazio per la riflessione e l’elaborazione delle informazioni. Come sottolinea Erik Mazur durante i suoi seminari, la domanda più intelligente che uno studente potrebbe fare durante una lezione è “professore, potrebbe stare zitto per cinque minuti? Vorrei pensare a quello che ha appena detto”.

Sarebbe molto utile poter capire quando interrompere una lezione per lasciare riflettere gli studenti. Da questo punto di vista, sarebbe molto meglio erogare la lezione in video, così che i fruitori possano fermarla quando vogliono. Ma d’altra parte, l’illusione della conoscenza (e la conseguente spinta a seguire) funziona solo quando si partecipa insieme ad una attività comune.

Peer instruction

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Una possibile soluzione è quella di ribaltare completamente lo schema dell’insegnamento. In fondo, se la fase di elaborazione delle informazioni è quella in cui si discute, e se l’erogazione funziona meglio in video, perché ripetere, anno dopo anno, lo stesso spettacolo (la lezione)? Forse è meglio dedicare le ore in classe alla discussione, invitando gli studenti a documentarsi da soli (o in gruppo) sul libro o, appunto, usando una video-lezione registrata.

Queste sono grosso modo le ragioni che hanno portato a sviluppare il concetto della “flipped classroom” o “peer instruction”.[24][25][26][27][28][29] Secondo questa modalità, la classe è il luogo della discussione e della verifica. Per esempio, si possono dividere gli studenti in gruppi, e porre loro un problema che deve essere prima risolto individualmente, e poi discusso in gruppo, cercando di arrivare ad una risposta comune (e che sia quella giusta). Dato che il voto del test deriva da una combinazione di valutazione della risposta individuale e di quella di gruppo, conviene a tutti farsi convincere da chi dimostra di aver ottenuto la risposta seguendo la prassi corretta.

Il metodo della peer instruction ha sicuramente un aspetto molto interessante. Come sottolineato da DeSessa,[1][1] gli studenti in realtà non seguono in maniera organica una teoria sbagliata, come potrebbe essere quella aristotelica o quella dell’impeto medioevale,[8] quanto piuttosto un insieme eterogeneo di concetti, elicitati dal contesto narrativo (euristiche, schemi). È piuttosto difficile per un insegnante riuscire a “divinare” queste interpretazioni “originali” della fisica, e quindi controbatterle in modo da indebolire la loro attivazione. Viceversa, il miglior insegnante per questo scopo è lo studente che ha appena capito come usare il metodo giusto, ma è ancora abbastanza “fresco” di ignoranza (per così dire) da capire quale è la ragione dell’errore del compagno.

Purtroppo, la peer instruction non è di facile applicazione nel nostro sistema universitario, con classi di centinaia di alunni e pochi esercitatori. Una possibile soluzione potrebbe essere quella (in fase di sperimentazione) di chiedere agli alunni di rispondere a delle domande in forma aperta, in modo da “catturare” l’eterogeneità dei processi elaborativi usati, e quindi classificare ed utilizzare queste risposte in quiz a scelta multipla, da erogare immediatamente dopo (o durante) la lezione utilizzando i tanto amati telefonini o dei clickers.

Le “dimostrazioni” e la magia

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Per finire, è importante sottolineare il ruolo delle “dimostrazioni” o esperimenti di fisica. Purtroppo in genere non c'è né il tempo né la possibilità di portare gli studenti in laboratorio, ma questo non giustifica l’approccio prevalentemente deduttivo-matematico usato in genere nell’insegnamento della fisica.

Questo approccio, che confonde la fisica con la matematica, porta da una parte al disamoramento verso la prima, che viene vista come “una matematica più difficile, con regole non certe”, e poi allontana i concetti fisici, imparati in maniera razionale, dalla “percezione” della fisica nella realtà. Ovvero, come dice sempre Mazur, spesso gli studenti che svolgono il Force Concept Inventory, domandano: "devo rispondere come lei ci ha insegnato, o come io penso avvenga veramente nella realtà?"

Da questo punto di vista, gli esperimenti classici da “laboratorio di esperienze didattiche” non servono a molto, dato che sono troppo artificiali e lontano dall’esperienza di ogni giorno. Come notato da molti insegnanti, "si dubita che una dimostrazione possa essere efficace a meno che non venga eseguita in un contesto che susciti e aiuti a risolvere i conflitti tra il senso comune e concetti scientifici specifici".[18]

Come si può ovviare? In primo luogo, usando dei video, cercati per esempio su YouTube o fatti appositamente (anche con il telefonino), analizzati per esempio usando Tracker. Si possono per esempio analizzare video sportivi,[30] o immagini/spezzoni di film.[31]

Oppure si possono effettuare semplici esperimenti in classe, usando materiali di tutti i giorni, così che gli studenti possano facilmente replicarli da soli (vedere il capitolo Fisica quotidiana e Narrazione della fisica). [32][33][34]

In particolare, sarebbe oltremodo importante confrontare i risultati dei calcoli su un certo esercizio, con la realizzazione “fisica” di tale esercizio, in modo da confermare che il modello usato effettivamente costituisce una buona approssimazione della realtà. Per esempio, filmando la caduta di un grave e verificando che la legge oraria è, in buona approssimazione, quella di una parabola, come descritto dalla fisica. Si possono anche fare delle misure istantanee, in classe, con in telefonino, usando per esempio l’applicazione phyphox.

Non è da trascurare l’idea di utilizzare il computer come strumento di simulazione, per esempio per integrare le equazioni del moto di un pianeta, magari usando strumenti semplici come NetLogo.

Infine, E importante promuovere l’utilizzo di grafici e disegni nella risoluzione dei problemi in classe, fino a proporre di risolvere i problemi solo per via grafica. Per cominciare, fornirebbe agli studenti un modo per verificare la correttezza qualitativa e semi/quantitativa dell’elaborato, e inoltre può essere molto utile per evitare di prendere “fischi per fiaschi”.

Modelli di acquisizione della conoscenza

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È importante quindi elaborare un "modello" dell'acquisizione della conoscenza. Schematicamente si possono identificare i seguenti modelli.

Il modello del vaso vuoto e il comportamentismo

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L'ordine di erogazione delle informazioni non è importante, prima o poi si "autorganizzeranno" da sole (una specie di processo di percolazione) e i vuoti verranno da soli in evidenza. Questo modello è collegato grossolanamente al comportamentismo ed è grosso modo il modello che sta alla base dell'apprendimento della lingua da parte di un bambino, se non fosse che in questo caso c'è una struttura genetica preesistente a guidare l'apprendimento.

Il comportamentismo viene profondamente influenzato dalla ricerca di Pavlov e si basa sull’assunto che il comportamento dell’individuo sia l’unica unità di analisi scientificamente studiabile della psicologia, in quanto unica istanza psicologica direttamente osservabile. Il metodo di indagine del comportamentismo si basa quindi essenzialmente sull’associazione tra stimolo (ambiente) e risposta (comportamento).

Il comportamentismo si concentra su parametri oggettivamente osservabili e misurabili, su meccanismi di stimolo e rinforzo, e sulla definizione operativa di obiettivi, abilità e risultati. Nel comportamentismo risulta centrale il problema della valutazione, vengono create classificazioni gerarchiche di obiettivi didattici descritti in termini di operazioni e processi osservabili.

Ci si rende però presto conto che questo schema può valere per apprendimenti semplici e mnemonici, non per quelli che richiedono l’elaborazione di informazione e creatività.

Strutturismo

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A fine anni Cinquanta, sopratutto negli Stati Uniti, inizia un vasto movimento di riforma dell’insegnamento scientifico, dovuto alla competizione con l’Unione Sovietica e alla constatazione del progressi sovietici evidenziati in modo plateale dal lancio dello Sputnik (1957). Varie istituzioni governative puntano al rinnovamento dell’insegnamento scientifico, con lo scopo di motivare i giovani allo studio della scienza e formare i futuri dirigenti in grado di guidare lo sviluppo tecnologico necessario. In questo periodo vengono elaborati progetti e libri in diverse discipline scientifiche e tecniche. Per la fisica vale la pena ricordare il PSSC (Physical Science Study Commitee), sviluppato da un gruppo di fisici diretto da Jerrold Zacharias ed il PPC (Project Physics Course), sviluppato dalla Harvard University.

Questi programmi promuovono un’innovazione nell’insegnamento della scienza sotto vari punti di vista: quello dei contenuti, delle strategie didattiche, delle metodologie dell’insegnamento e apprendimento e delle tecnologie di supporto mediale.

Un evento chiave è la conferenza di Wood Hole del 1959, negli Stati Uniti, sotto la direzione di Jerome Jerome Bruner. In questo evento si trovano riuniti sia esperti di varie discipline scientifiche, sia esperti di discipline quali storia, letteratura, arte, psicologia e pedagogia, con lo scopo di individuare modalità più efficienti per migliorare l’apprendimento delle scienze a scuola. La relazione finale di questa conferenza, redatta da Bruner stesso, ha portato alla realizzazione di un libro dal titolo The Process of Education[35] tradotto in molte lingue fra cui l’italiano (Il processo educativo, 2002[36]). Dal libro emergono idee come la centralità del ruolo della struttura, ovvero le discipline organizzate come “complessi organizzati e coerenti di conoscenze”, l’apprendimento a spirale, cioè prima ad un livello più intuitivo e poi approfondendo ciclicamente i contenuti, e l’importanza di utilizzare i tre tipi di rappresentazione: attiva, fondata sull’esperienza; iconica, fondata sulle immagini; simbolica, fondata sulla parola, sui numeri e sulle formule. Viene affermato che un insegnamento efficace è un compito complesso e che “presentare fenomeni fisici in modo che risultino interessanti, esatti e comprensibili, richiede una profonda intelligenza insieme ad un onesto scrupolo”.

Ogni argomento deve avere una sua struttura, ed è apprendendo la natura di quest’ultima che è possibile afferrare il significato essenziale dell’argomento. La struttura di una disciplina è costituita dalle sue idee fondamentali e generali, dai principi organizzatori che permettono un inquadramento organico delle conoscenze e dai dati dell’esperienza. Questi principi permettono quindi la sistemazione ed il progresso del sapere, portando ad una istruzione efficace

Esiste un ordine logico tra i concetti che devono essere comunicati in maniera ordinata, prima la base e poi i vari livelli. Un insegnamento centrato sulla struttura possiede due vantaggi: da una parte una maggiore capacità di memorizzazione davanti a ciò che è organizzato e strutturato in modo significativo; dall’altra si realizza un transfer di apprendimento, le idee generali apprese possono essere infatti utilizzate per affrontare problemi che si presentano in futuro.

L’apprendimento deve mettere in accordo la struttura psicologica del soggetto con la struttura logica e scientifica dell’oggetto, da ciò discendono due linee di ricerca didattica successive: la struttura delle discipline e lo studio delle rappresentazioni mentali degli allievi e delle allieve.

Il cognitivismo

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Durante gli anni Sessanta si afferma il quadro teorico del cognitivismo, sopratutto grazie a studiosi come Jean Piaget, Lev Vygotskij e David Ausubel. Il cognitivismo pone al centro il ruolo attivo della mente come sede di processi di elaborazione delle informazioni l'accento sul processo di apprendimento, e sul fatto che nuovo apprendimento acquisisce un senso solo se viene inserito in un ambiente di conoscenze già possedute.

Riguardo a ciò è famosa la frase di Ausubel:[37]

Se dovessi concentrare in un unico principio l’intera psicologia dell’educazione, direi che il singolo fattore più importante che influenza l’apprendimento sono le conoscenze che lo studente già possiede. Accertatele e comportatevi in conformità nel vostro insegnamento. [...] Il sussistere di preconcetti è il fattore singolo più importante nell’acquisizione e nella ritenzione delle conoscenze in una data materia [...] questi preconcetti sono sorprendentemente tenaci e resistenti all’eliminazione.

Vygotskij pone attenzione alla relazione fra strutture e processi mentali e strutture e processi culturali e sociali. Questa relazione è dovuta all’interazione fra individui e fra individui e cultura collettiva, in cui il linguaggio gioca un ruolo fondamentale. L'apprendimento quindi diventa un processo dinamico tra insegnante e comunità degli studenti, con la loro conoscenza passata.

Il cognitivismo è in contrasto con le teorie comportamentiste in quanto ritiene che l’apprendimento scolastico non può essere considerato di natura stimolo-risposta, ma coinvolge necessariamente processi cognitivi superiori. Secondo il cognitivismo lo studente o la studentessa assimilano le informazioni (per ricezione o per scoperta) all’interno della sua struttura cognitiva preesistente. Questo significa che per l’apprendimento il nuovo contenuto si deve collegare ad immagini, simboli e concetti già esistenti nella struttura cognitiva. Per questo motivo secondo Ausubel l’insegnante deve ricorrere a organizzatori cognitivi, come esempi, problemi e idee che formino la base a cui agganciare il nuovo contenuto. È possibile far ciò nello schema concettuale più generale già noto o attraverso idee familiari con cui le nuove idee possano essere comparate, integrate o differenziate.

Negli anni Sessanta si iniziano a sviluppare le ricerche sulle concezioni alternative degli studenti (alternative conceptions movement, ACM), da parte sopratutto di studiosi con una formazione scientifica, i quali scelgono di indirizzare i loro sforzi alla ricerca in questo campo. Ne sono esempi le tesi di dottorato di Rosalind Driver,[38] Laurence Viennot[39][40] e Saltiel. Già a fine anni Ottanta viene segnalata da Driver l’esistenza di centinaia di articoli sull’argomento, sebbene ad oggi l’ordine di grandezza sia sicuramente più elevato.[41]

Sviluppo cognitivo

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Sono sicuramente da citare le ricerche di Piaget e del suo gruppo sullo sviluppo cognitivo,[42][43][44] in particolare la ricerca sullo sviluppo delle idee dei bambini e adolescenti sulla materia, il movimento, le forze, i fluidi, la luce e le spiegazioni fisiche. Il metodo di ricerca del gruppo di Piaget, basato sulle interviste cliniche, sarà poi ripreso dalla ricerca didattica successiva.

Piaget cerca indicazioni sullo sviluppo dei processi logici generali, in grado di condurre il bambino o la bambina dallo stadio pre-operatorio a quello delle operazioni concrete ed infine a quello delle operazioni formali. Questo processo spontaneo dovrebbe portare a quel tipo di capacità logiche formali che sono essenziali per l’apprendimento scientifico e matematico.

Tuttavia molte ricerche successive, come quelle di Violino e Di Giacomo[45] mostrarono che questa evoluzione non ha sempre luogo. Alte percentuali di studenti e studentesse non hanno ancora acquisito il livello delle operazioni formali ad una età matura come i 18-20 anni, mentre per altri l’acquisizione non è comunque completa. Emerge poi che alcune capacità formali astratte non siano un patrimonio disponibile naturalmente dallo studente o dalla studentessa, e per questo devono costituire un obiettivo della formazione.

Ostacoli epistemologici

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Importanti ricerche sono svolte da Gaston Bachelard, il quale analizza in modo profondo i dettagli della disciplina (fisica e chimica in primis) le specificità del pensiero, sottolineando sopratutto gli aspetti di rottura fra conoscenza scientifica e conoscenza comune. Bachelard introduce l’idea di ostacolo epistemologico e pedagogico, sottolineando l’importanza delle conoscenze già costituite degli allievi e allieve. In contrasto con Piaget, Bachelard[46] afferma che l’apprendimento delle scienze moderne non avviene come uno sviluppo spontaneo, attraverso una continuità fra idee del bambino o della bambina e le idee scientifiche, ma si costruisce in conflitto con il pensiero spontaneo. Ciò è dovuto al fatto che il pensiero scientifico moderno non è per niente natu- rale, ma molto spesso è contro-intuitivo ed in contrasto con le apparenze e le idee comuni. Bachelard afferma che “gli insegnanti non capiscono perché gli studenti non capiscono”, costituendo quindi un ostacolo al loro apprendimento. Spesso gli studenti e le studentesse sbagliano non per distrazione o incapacità, ma perché la pensano diversamente.

Gli errori non sono quindi semplicemente errori, ma differenti modelli interpretativi. È interessante la seguente affermazione corredata da un esempio di Bachelard stesso:[46]

L’adolescente arriva al corso di fisica con conoscenze empiriche già costituite: si tratta allora non tanto di acquisire una cultura, ma piuttosto di cambiarla, di rovesciare gli ostacoli già formatisi nella vita quotidiana.

Un esempio: l’equilibrio dei corpi galleggianti è oggetto di una cultura familiare che è tessuta di errori. Più o meno chiaramente, si attribuisce un’attività al corpo che galleggia, meglio al corpo che nuota. Se si cerca di spingere un pezzo di legno sott’acqua, esso resiste. Non si attribuisce facilmente la resistenza all’acqua. È allora difficile far comprendere il principio di Archimede nella sua sorprendente semplicità matematica, se prima non si critica e non si disorganizza il complesso impuro delle intuizioni prime. In particolare, senza questa psicanalisi degli errori iniziali, non si farà mai capire che il corpo che emerge e il corpo completamente immerso obbediscono alla stessa legge.

Cambiamento concettuale

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Una volta compresa e riconosciuta l’importanza delle rappresentazioni mentali degli allievi e delle allieve, è necessario studiare e ricercare possibili strategie di cambiamento concettuale in modo da favorire il passaggio dalle concezioni alternative ad una concezione in linea con la scienza attuale e con gli obiettivi dell’insegnamento.

Il problema del cambiamento concettuale apre quindi un nuovo importante campo di ricerca, ancora oggi molto attivo. Esistono di fatto due filoni: alcuni autori sottolineano l’importanza della continuità fra idee comuni e conoscenza scientifica, considerando le pre-concezioni come risorse da rimodellare e arricchire; altri autori insistono invece sul ruolo delle rotture e del conflitto cognitivo, considerando necessario un vero e proprio cambiamento concettuale. Questo secondo modello risente delle idee di Thomas Kuhn sui periodi di rivoluzione scientifica e quelli normali nel corso della storia della scienza.

Uno dei maggiori esponenti riguardanti questa linea è George J. Posner, il quale assieme ai suoi collaboratori ha elaborato una teoria del cambiamento concettuale basata proprio sul conflitto cognitivo,[47] stabilendo indicazioni per ottenere tale cambiamento: insoddisfazione della vecchia concezione, intelligibilità, plausibilità e fecondità della nuova concezione. La nuova concezione deve poi potersi inserire in un ambiente concettuale complessivo in grado di costituire una particolare ecologia concettuale, ovvero l’insieme di credenze, idee metafisiche e analogie possedute dall’allievo o dall’allieva. Questa idea si collega ancora una volta a quelle di Kuhn[48] in particolar modo al concetto di paradigma per descrivere lo sviluppo della scienza.

Questa teoria è stata molto utilizzata nelle strategie d’insegnamento, ma dagli anni Novanta è stata anche criticata e rimessa in discussione dagli stessi autori. In particolare le critiche si sono concentrate sulla rilevanza di fattori non cognitivi, affettivi e irrazionali ed è stato osservato che provocare forti conflitti cognitivi può portare al rifiuto ed alla disaffezione da parte del discente o della discente. Vygotskij[49] attribuisce alle interazioni sociali e al linguaggio un ruolo centrale nello sviluppo cognitivo, si parla dunque non più di conflitto cognitivo, bensì di conflitto socio-cognitivo come motore del cambiamento concettuale. Una possibile metodologia è quella che favorisce, ad esempio, la creazione di un dibattito scientifico in classe, rendendo significativamente importante la discussione fra pari

Il costruttivismo

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Pur basandosi sull’associazione tra lo studio dell’apprendimento e quello della memoria, il cognitivismo suppone una struttura cognitiva coerente per tutti i soggetti. Il costruttivismo ha le sue origini negli anni Ottanta del secolo passato ed è considerato attualmente il quadro di riferimento comune della maggior parte degli studiosi di didattica e di problemi educativi. È caratterizzato dall’idea che la conoscenza sia il prodotto di una costruzione attiva del soggetto e che l’apprendimento si sviluppi attraverso particolari forme di negoziazione sociale. Le idee alla base di tale quadro teorico erano già presenti in autori come Jerome Bruner, John Dewey, Jean Piaget e Lev Vygotskij ed il fatto che la conoscenza sia il risultato di una costruzione attiva permea gran parte della ricerca del XX secolo.

Il costruttivismo rifiuta l’idea dell’insegnante come semplice fornitore di informazioni e pone importanza sulla costruzione della conoscenza, non sulla sua riproduzione, cercando di concentrarsi sulla complessità del mondo reale ed evitando eccessive semplificazioni. Il discente assume un ruolo centrale mentre il progettista/docente assume invece un ruolo marginale.

Il costruttivismo[50][51] è pure basato sull’analogia dell'impalcatura, (scaffolding), in cui per raggiungere una certa altezza bisogna prima costruire una base solida. Risulta quindi che l’insegnamento non può essere svolto in ordine arbitrario, ma ogni elemento deve essere collegato ai precedenti in modo da non oltrepassare una certa distanza cognitiva (eredità del cognitivismo), poiché gli schemi che collegano i vari concetti devono essere attivati sequenzialmente per poter così rafforzare il loro legame. È poi importante che i termini utilizzati siano scelti in modo accurato, ad esempio evitando di utilizzarli alternativamente in maniera colloquiale e specialistica, altrimenti verranno attivati schemi contrastanti.

Un esempio è costituito dai “principi” dell’apprendimento analizzati da Edward Redish:[52]

  1. Le persone tendono a trovare pattern e raggruppare esperienze e osservazioni in modelli mentali. Questo è simile al funzionamento di una rete neurale con supervised learning: così come le reti neurali sono sensibili al set esempi proposti, ad esempio una rete neurale nel discriminare lupi e cani husky si basava sulla presenza di neve nell’immagine, gli studenti e le studentesse raggruppano ad esempio gli oggetti in base al colore. Come primo corollario Redish evidenzia che lo scopo dell’insegnamento della fisica è quello di permettere di elaborare i propri modelli mentali, come secondo corollario afferma che non è sufficiente soltanto che lo studente o la studentessa conosca gli elementi corretti della fisica, ma è anche necessario che vi abbia accesso nel momento appropriato. Ad esempio uno studente, o una ricercatrice, possono anche conoscere perfettamente un concetto, ma non venire in mente al momento opportuno dell’applicazione ad un problema. Uno dei collegamenti più importanti, e quindi da rinforzare, è quello che connette le esperienze della vita quotidiana con i concetti di fisica. Redish (corollario 1.3) evidenzia poi come la studentessa o lo studente possieda già propri concetti e collegamenti fra schemi, e che (corollario 1.4) i modelli devono essere costruiti, possibilmente facendo anziché guardando altri fare. Fare significa anche provare soluzioni, tentativi sbagliati compresi. L’ultimo corollario sottolinea come la maggior parte degli studenti e studentesse non sviluppa i modelli mentali appropriati per imparare la fisica e questo potrebbe essere il problema principale dell’insegnamento. Questo è reso evidente dal Force Concept Inventory[17]. Questo test mostra che, nonostante il superamento dell’esame di fisica, la capacità di applicare quanto appreso a problemi qualitativi risulta limitata.
  2. Si può imparare soltanto qualcosa che estende ciò che abbiamo già imparato. Questo significa anche che non possiamo imparare qualcosa che non si conosce per niente (corollario 2.1), quindi l’apprendimento deve essere graduale e basarsi su ciò che è già appreso e su un contesto già familiare. Il secondo corollario afferma che impariamo essenzialmente attraverso l’analogia, mentre il terzo sottolinea l’importanza di esperimenti cruciali, cioè quelli che con più facilità tornano alla memoria. La memoria di questi esperimenti può essere facilitata da esperienze emozionali, alla preparazione attraverso la narrazione o alla teatralità nella preparazione stessa.
  3. Risulta molto arduo il cambiamento di un modello mentale. Ciò può essere fatto, ad esempio, indebolendo la catena di attivazione degli schemi mostrando che le conseguenze di un ragionamento o di un’assunzione portano a contraddizioni. Come corollario viene evidenziato come il sostituto per un modello mentale, ovvero una nuova concatenazione di schemi, deve essere comprensibile, plausibile, suscitare un forte conflitto con le predizioni del precedente modello e infine deve essere utile. Il gioco, la narrazione, la teatralizzazione e la magia possono essere utili a questi scopi. Le persone hanno modelli mentali differenti e diverse procedure di apprendimento per cui (corollari 4.1 e 4.2) l’apprendimento è personale e non esiste un modo migliore di insegnare rivolto a tutti e tutte. Il terzo corollario afferma che le esperienze personali possono essere poco adatte all’insegnamento, mentre il quarto che l’insegnante di fisica non dovrebbe parlare ma principalmente ascoltare.

Euristiche cognitive

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Come già illustrato, osservazioni su bambini molto piccoli[53] e su animali[5] mostrano la presenza di una sorta di “fisica intuitiva” insita già dalla nascita e che viene consolidata con l’esperienza.

La fisica intuitiva identifica come normale il comportamento di oggetti inanimati, i quali sembrano sottostare alla fisica aristotelica: gli oggetti si fermano se non vengono spinti, se lasciati cadere lo fanno verso il basso, se spinti si muovono verso la direzione della spinta. D’altra parte questa fisica è molto ragionevole osservando il mondo che ci circonda, dominato dall’attrito viscoso.

Bambini di pochi mesi, ma anche pulcini da poco usciti dall’uovo, non si meravigliano quando osservano questo tipo di fenomeni, ma prestano molta attenzione se vedono oggetti in perenne movimento, che non seguono le “forze” esterne o che cambiano direzione.

Probabilmente questo tipo di comportamenti ha ragioni evolutive derivanti dal bisogno di distinguere in modo veloce tra oggetti inanimati e altri dotati di volontà e che possono essere prede o predatori.

Una delle difficoltà della fisica è dovuta quindi al fatto che non richiede soltanto l’apprendimento di concetti e relazioni nuove, ma anche la “contestualizzazione” della conoscenza acquisita, come se di fronte ad un fenomeno fisico della vita di tutti i giorni ci trovassimo ad affrontare un dilemma: dobbiamo affrontarlo come suggerisce l’intuito o come mi è stato insegnato nelle lezioni di fisica?

L’insegnamento della fisica procede, come molte altre discipline, fornendo concetti e mostrando come questi sono fra loro legati, utilizzando un carattere quantitativo e collegando leggi fisiche e manipolazione algebrica o geometrica delle grandezze. Queste sono tutte operazioni già difficili per l’essere umano, la cui mente non si è evoluta per effettuare questo tipo di calcoli, a cui viene aggiunta l’ulteriore difficoltà dovuta al conflitto fra modalità di pensiero, meno forte per discipline come la matematica o la chimica, le quali pur avendo carattere quantitativo non sono in gran parte relazionate ad esperienze corporali.

Lo studio delle basi cognitive legate all’apprendimento della fisica può e potrà migliorare le sue tecniche d’insegnamento e sviluppare strumenti di monitoraggio dell’apprendimento.

Pensieri lenti, pensieri veloci

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Daniel Kahneman[11] sostiene che le decisioni delle persone sono basate su due tipi di pensiero: i pensieri lenti, quelli più astratti e più impegnativi in termini di risorse cognitive, e i pensieri veloci, i quali sono automatici e fortemente dipendenti dal contesto. Benché entrambi possano portare a decisioni razionali in base a principi normativi (teoria dei giochi, teoria delle probabilità o logica formale ad esempio), si osservano spesso comportamenti che violano questi criteri.

I pensieri lenti, nonostante si basino su forme di ragionamento controllate ed astratte, non sempre conducono infatti a decisioni razionali, dato che esiste la possibilità di commettere errori.

I pensieri veloci sono quelli che utilizziamo continuamente nella nostra quotidianità e ci consentono di prendere decisioni in pochissimo tempo (frazioni di secondo) riguardo molteplici aspetti importanti della nostra vita come la reazione quasi istantanea dopo il riconoscimento di stimoli minacciosi, ma anche la più banale scelta del dolce al ristorante quando il cameriere o la cameriera ci elenca la lista.

Nella maggioranza dei casi questo tipo di pensieri sono associati a decisioni razionali (in termini della nostra sopravvivenza) ma, se applicati in contesti non adatti come ad esempio un problema di fisica, possono facilmente portare a risposte errate.

Spesso ci affidiamo infatti a delle euristiche, quindi strategie basate su pensieri veloci, come l’“euristica delle disponibilità” in base al quale si stima un evento a seconda di quanti sia facile recuperare dalla nostra memoria degli esempi dell’evento stesso.

Nella teoria dei giochi vengono fatte delle assunzioni da cui discendono delle previsioni che la ricerca psicologica e le evidenze comportamentali contraddicono.

Una delle assunzioni è quella per cui i giocatori e le giocatrici percepiscono il gioco e le loro azioni in modo chiaro e coerente, deve in tal caso valere l’assioma di invarianza secondo cui, se le scelte possibili sono formalmente equivalenti, chi decide lo farà in modo indipendente da come il problema viene rappresentato.

Amos Tversky e Daniel Kahneman[54][55] hanno però osservato che le persone, in alcune situazioni, violano tale principio. Ci si riferisce in questo caso ad un fenomeno chiamato “effetto del frame”, secondo il quale le persone sono più propense a prendere decisioni rischiose quando le opzioni fra cui scegliere sono descritte in termini di perdite, rispetto che in termini di guadagno.

Ad esempio, nel contesto della teoria dei giochi, ciò si osserva nella tendenza ad adottare strategie differenti in scenari di negoziazione in cui un individuo deve compiere una scelta: accettare un accordo negoziato o rifiutare e ricorrere ad un arbitrato (scelta più rischiosa).

Se il frame della negoziazione è in termini di guadagno, è più probabile che venga scelta la prima opzione; se invece le opzioni vengono contestualizzate in termini di perdita, è più probabile che venga scelta l’opzione più rischiosa, rifiuto e ricorso ad un arbitrato in questo caso.[56][57]

Secondo Colin Camerer[58] uno dei principi di razionalità assunti nell’ambito della teoria dei giochi è il pensare che, in situazioni in cui non tutte le informazioni sono disponibili, i giocatori o le giocatrici coinvolte condividano le stesse aspettative riguardo agli aspetti incerti.

Numerosi studi hanno però riscontrato che gli individui tendono a sovrastimare le proprie abilità rispetto a quelle degli altri. Questo effetto viene chiamato “overconfidence”, cioè la presunzione di eccessiva sicurezza. L’overconfidence è una distorsione cognitiva che procede insieme alla sovrastima della probabilità di avere un colpo di fortuna rispetto ad un colpo di sfortuna, ed è collegata alla “illusione di conoscenza”, ovvero la tendenza a sopravvalutare ciò che si conosce e si comprende sul funzionamento del mondo. Non solo: si ritiene acquisita anche la conoscenza disponibile a livello di comunità in quanto facilmente accessibile [38].

Sperimentalmente però si osserva che la nostra comprensione del mondo che ci circonda è molto limitata, ne è un esempio l’esperimento di Rebecca Lawson[59] in cui veniva chiesto a studenti universitari di completare un disegno schematico di una bicicletta in cui non erano presenti elementi come catena e pedali.

Sorprendentemente, nonostante la bici sia un oggetto della vita di tutti i giorni ed il loro meccanismo sia semplice e ben visibile, circa la metà degli studenti e studentesse non riuscì a completare il disegno in modo corretto.

Lo stesso risultato è stato osservato anche scegliendo di selezionare il disegno della bicicletta corretto fra quattro opzioni e, con ancor più sbalordimento, anche ciclisti esperti hanno mostrato risultati non ottimali nel confrontarsi con questo genere di compiti.

Questo dovrebbe farci capire quanto sia schematica e superficiale la nostra conoscenza e comprensione di ciò che ci circonda, anche per quanto riguarda oggetti della nostra quotidianità che funzionano grazie a meccanismi tutto sommato semplici.

Uso della memoria e schemi cognitivi

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Come detto, secondo Kahneman[11] esistono due tipi di sistemi che concorrono alla ricerca della risposta adeguata: il “sistema 1”, quello veloce e intuitivo, è fondato sulla percezione e sulla memoria associativa, il “sistema 2”, al contrario lento e pigro, è responsabile della trattazione ragionata e fondata sull’elaborazione e sul controllo. Una volta posta una domanda difficile ad uno studente o ad una studentessa, questi avranno la tentazione di rispondere attivando il sistema 1, ovvero ricorrendo ad euristiche intuitive e le risposte che arrivano per prime potranno essere enunciate una di seguito all’altra pur essendo in conflitto. Per attivare il sistema 2 è invece necessario uno sforzo cosciente e soltanto attraverso la sua continua attivazione per i problemi di fisica si potrà arrivare ad ottenere una risposta sia veloce che corretta, poiché si impara a riconoscere elementi familiari in situazioni nuove e ad agire con prontezza. Tre tipi di memoria concorrono contemporaneamente nel processo di apprendimento e sono interconnessi e in costante dialogo:

  • La memoria sensoriale, responsabile della codifica delle informazioni provenienti dall’esterno (con una durata di circa tre secondi);
  • La memoria a lungo termine, che racchiude i dati processati e acquisiti stabilmente;
  • La memoria di lavoro, veloce e immediata, ma con una capacità limitata,[60] in grado di processare i dati provenienti da stimoli (memoria sensoriale) e da ricordi (memoria a lungo termine) e immagazzinare l’output in memorie esplicite nel sistema a lungo termine.

La memoria di lavoro, in particolare, è responsabile di processi complessi ed è proprio quella che entra in gioco quando si chiede a studenti e studentesse di risolvere un problema, dato che contiene tutte le informazioni per la sua risoluzione.

Questa ha però una capacità limitata, l’insegnante dovrebbe perciò fare attenzion al numero di concetti nuovi che introduce e quanto tempo viene offerto per immagazzinarli. In altre parole l’insegnante deve capire come calibrare il carico cognitivo della lezione, rimuovendo elementi di distrazione ed evitando di dare per scontate conoscenze pregresse.

Non tutta l’informazione che arriva dall’esterno viene assimilata, essendo veramente troppa per le nostre capacità cognitive e per la dimensione della memoria di lavoro. Inoltre l’attenzione risulta selettiva e ci permette di ignorare informazioni percepite come inutili (salvo casi di deficit dell’attenzione, in cui è spesso presente una difficoltà nel selezionare gli stimoli “utili”), oltre che dipendente da ciò che conosciamo già e dalla necessità di sapere qualcosa.

Esistono inoltre varie teorie sui filtri che utilizziamo: alcuni pensano che siano iniziali, ovvero che se l’informazione non passa dal filtro è irrecuperabile, altri pensano invece che i filtri siano tardivi, ovvero che l’informazione rimanga in background e possa essere recuperata.

La percezione è il processo di individuazione e organizzazione degli stimoli e di associazione di un significato, processo che attraversa due fasi: una bottom-up e l’altra top-down. Nella prima fase avviene la scomposizione del fenomeno osservato in diverse caratteristiche, le quali sono selezionate e analizzate in modo da creare uno schema. Nella fase top-down, al contrario, gli schemi sono elaborati e combinati sfruttando le conoscenze pregresse.

La percezione è quindi pesantemente influenzata dal contesto, il quale è poi manipolato anche dagli schemi cognitivi. L’attivazione di uno schema dipende dal contesto, ovvero dalla presenza o meno di alcuni elementi e dato che un certo contesto può attivare più schemi contemporaneamente potrebbero sorgere situazioni di conflitto. In fisica ne è un esempio l’utilizzo della “fisica intuitiva” rispetto a quella “appresa”, la prima utilizzata spesso in contesti non scolastici, la seconda attivata per risolvere esercizi e problemi.

Il conflitto tra schemi viene aggirato dalle euristiche, che a loro volta dipendono dal contesto. Come mostrato da Kahneman[11] la scelta delle euristiche dipende anche dal tempo a disposizione, più breve è e con più probabilità verrà scelto lo schema più semplice e veloce.

Gli schemi vengono poi rafforzati quanto più sono utilizzati e legati a esperienze positive (predizioni corrette, esperimenti riusciti, risposte giuste, ecc.) oppure, al contrario, sono indeboliti se poco utilizzati e legati ad esperienze negative. In realtà le esperienza negative più che indebolire, più probabilmente ne diminuiscono la fiducia: lo schema viene sempre considerato, ma poi viene scartato.

Un altro ruolo importante può essere fornito dalle emozioni, ad esempio la sorpresa, dall’esperienza “sensoriale”, oppure dalla narrazione, capace di rafforzare o indebolire la fiducia in uno schema. Ad esempio un’esperienza in cui una predizione viene confutata attraverso un esperimento “spettacolare” o “magico”, rimane probabilmente più vivida nella memoria, allo stesso modo un esperimento costruito in prima persona dallo studente o dalla studentessa rimane più impresso rispetto ad uno creato dall’insegnante.

Conclusioni

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L’apprendimento della fisica è spesso percepito come un accumulo di nozioni e di derivazioni matematiche. In effetti, in ben pochi libri si cercano di mettere in evidenza i metodi da usare per affrontare un problema, come effettuare esperimenti per confermare le ipotesi, o i possibili errori in cui si può incappare. Nel caso della fisica la situazione è ancora peggiore, dato che i concetti (e i metodi) proposti, confliggono con i moduli della “fisica intuitiva”, conoscenze di origine probabilmente genetica su come ci si deve aspettare che il mondo si comporti.

Il nostro sistema cognitivo è razionale solo apparentemente: normalmente usiamo delle regole euristiche (dette Sistema 1), che sono facili, automatiche e poco faticose, invece di usare il Sistema 2, quello razionale, che è lento e faticoso.

Da ciò deriva che l’aspetto più importante da tenere presente durante l’insegnamento è che l’apprendimento della fisica è in realtà in gran parte costituito dal “disapprendimento” delle associazioni intuitive, o quanto meno dalla loro “contestualizzazione”

Non si può eliminare la conoscenza della fisica intuitiva, che è quella che ci aiuta a sopravvivere, ma, come insegnanti, abbiamo lo scopo di “indebolire” le associazioni automatiche, promuovendo l’insorgenza di un “campanello di allarme” che dica "attenzione che la soluzione proposta dal Sistema 1 è probabilmente sbagliata. Esamina il problema da più parti, studia i casi limite, fai (o immaginati) un disegno, semplifica e getta via il superfluo...". Un approccio che in genere non seguiamo regolarmente neppure noi insegnanti...

Difficoltà legate a temi specifici

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Cinematica

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Dinamica

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Quantità di moto ed energia

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Elettrostatica e circuiti

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Elettromagnetismo

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Riferimenti

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  1. 1,0 1,1 1,2 1,3 Andrea A. DiSessa. Unlearning Aristotelian physics: A study of knowledge-based learning*. Cognitive Science, 6(1):37–75, 1982. URL: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1207/s15516709cog0601_2, arXiv:https://onlinelibrary.wiley.com/doi/pdf/10.1207/ s15516709cog0601_2, doi:10.1207/s15516709cog0601\_2.
  2. 2,0 2,1 Franco Bagnoli; Giorgio Gronchi (2019). Perché la fisica è così difficile? Why is physics so difficult?. PH, vol. 2, pp. 23-41, ISSN:2240-0559. https://flore.unifi.it/retrieve/e398c37e-c144-179a-e053-3705fe0a4cff/FisicaDifficile-pH_2-2019_art-3.pdf
  3. Cervelli che contano, Giorgo Vallortigara e Nicla Pancera, Collana Biblioteca Scientifica n.54, Milano, Adelphi, 2014, ISBN 978-88-459-2932-8.
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