I promessi sposi/Don Abbondio

don Abbondio
don Abbondio (a sinistra) con il cardinale Borromeo in un'illustrazione di Gonin del 1840
don Abbondio (a sinistra) con il cardinale Borromeo in un'illustrazione di Gonin del 1840
Nome don Abbondio
Sesso M
Occupazione curato

Indice del libro

Don Abbondio è il primo personaggio ad apparire nel romanzo. La sua figura è introdotta dal Manzoni tramite una descrizione focalizzatrice del paesaggio che lo circonda: la tranquillità del paesaggio che lo circonda, il modo in cui cammina, sono tutti simboli della sua vita tranquilla e del suo modo superficiale di vivere il ministero del sacerdozio.

Molto pacata, ma soprattutto dettata dalla paura (come viene indicato nel capitolo 2, egli non aveva certo un cuor di leone), è anche la reazione che ha Don Abbondio all'incontro con i bravi (gli "scagnozzi" a servizio dei signorotti locali) i quali senza mezzi termini gli raccomandano di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia con la celeberrima affermazione questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.

Don Abbondio allora torna a casa impaurito, talmente condizionato dalle minacce dei bravi che, con astuzia e grazie all'uso di alcune frasi latine, lingua sconosciuta al povero Renzo, riesce a rimandare la celebrazione delle nozze, ma senza rivelarne il motivo, cosa questa che farà invece la sua donna di casa, Perpetua[1].

« - Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti? - Che vuol ch'io sappia d'impedimenti? - Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,... - cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. - Si piglia gioco di me? - interruppe il giovine. - Che vuol ch'io faccia del suo latinorum[2]»
(Capitolo 2)

Ancora una volta il curato si mostra timoroso di uno scontro e fa leva sulle sue conoscenze di latino per poter sopraffare il giovane.

Una delle conseguenze di questa sua indole timida e paurosa è la reticenza: don Abbondio in più occasioni non ha il coraggio e la forza di completare o di esporre completamente i suoi pensieri.

Il curato dimostra in più passi del romanzo una sfiducia nei confronti delle autorità ecclesiastiche: ad esempio, nel primo capitolo rifiuta in maniera categorica l'ipotesi di chiedere l'aiuto al cardinale per risolvere la questione del matrimonio tra i due sposi.

Questi atteggiamenti sono dovuti soprattutto al suo modo di vivere il ministero sacerdotale, dettato dai motivi della sua scelta di vita: don Abbondio, come viene specificato nel capitolo 2, non si è fatto curato per motivazioni di fede, bensì perché a quei tempi il riunirsi in corporazioni era l'unico modo per i più deboli di non restare sopraffatti:

« Quindi era, in que' tempi, portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva »
(Capitolo 2)

Carneade, chi era costui?

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La celebre frase pronunciata dal curato all'inizio dell'ottavo capitolo viene usata ancora oggi quando ci si sofferma su una questione marginale senza prendere in considerazione la faccenda nel suo insieme, in relazione alla quale quell'aspetto risulta quasi insignificante.

Nell'occasione propostaci dal Manzoni, don Abbondio è intento a leggere un saggio sulla vita di San Carlo Borromeo; proprio tra le parole di San Carlo compare il nome di Carneade, su cui si sofferma il curato.

Nell'insieme, il modo di leggere di don Abbondio rispecchia una sua indole: egli sceglie i libri in modo casuale, e la sua lettura è un semplice passatempo, senza secondi fini di ragionamento o crescita culturale. È proprio in questo ambito, di una lettura distratta e poco "intelligente", che si inserisce la famosa domanda.

  1. Perpetua è diventato poi per antonomasia il nome delle donne di casa degli uomini di Chiesa
  2. Ancora oggi per parlare del latino come di una lingua difficile si usa questo termine; probabilmente Renzo avrà sentito durante le celebrazioni della messa la desinenza -orum del genitivo plurale latino