Storia della letteratura italiana/Vittorio Alfieri

Storia della letteratura italiana

L'opera di Vittorio Alfieri è segnata dall'idea che la scelta della letteratura sia anche una scelta della libertà, dettata dall'aspirazione di rompere con i vincoli imposti dalla società assolutistica. La libertà è infatti ciò a cui tende l'uomo dal «forte sentire», ma per raggiungerla è necessario impegnarsi in uno scontro tragico con il potere assoluto. La politica e la critica della situazione vigente è quindi uno dei punti chiave di tutta l'opera alfieriana.

La vita

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Vittorio Alfieri ritratto da Francois-Xavier Fabre (1794)

Vittorio Amedeo Alfieri nasce il 16 gennaio 1749 da Antonio Amedeo Alfieri, conte di Cortemilia, e dalla savoiarda Monica Maillard de Tournon.[1] Il padre muore di polmonite durante primo anno di vita di Vittorio e la madre si risposa in terze nozze nel 1750 con il cavaliere Magliano, un parente del defunto marito.[2] Alfieri vive fino all'età di nove anni e mezzo ad Asti a Palazzo Alfieri, affidato ad un precettore, senza alcuna compagnia.

Nel 1758 per volere del tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, governatore di Cuneo e nel 1762 viceré di Sardegna, Vittorio viene iscritto all'Accademia Reale di Torino.[3] All'Accademia studia grammatica, retorica, filosofia, legge. Entra in contatto con molti studenti stranieri: i loro racconti e le loro esperienze lo stimolano a sviluppare la passione per i viaggi.[3] In seguito definirà questi come «otto anni di ineducazione», in cui si sente «ingabbiato».[2]

Dopo la morte dello zio, nel 1766 lascia l'Accademia senza avere terminato il ciclo di studi che lo avrebbe portato all'avvocatura. Si arruola nell'esercito, diventando "portinsegna" nel reggimento provinciale di Asti. Rimane nell'esercito fino al 1774 e si congeda col grado di luogotenente.[2]

Tra il 1766 e il 1772, Alfieri comincia un lungo vagabondare in vari stati dell'Europa. Visita l'Italia da Milano a Napoli sostando a Firenze e a Roma, e nel 1767 giunge a Parigi dove conosce, tra gli altri, Luigi XV che gli pare un monarca tronfio e sprezzante. Deluso anche dalla città, a gennaio del 1768 giunge a Londra e, dopo un lungo giro nelle province inglesi, si sposta in Olanda.[4] A L'Aia vive il suo primo vero amore, per la moglie del barone Imhof, Cristina. Costretto a separarsene per evitare uno scandalo, tenta il suicidio, fallito per il pronto intervento di Francesco Elia, il suo fidato servo, che lo segue in tutti i suoi viaggi.[4]

Tra il 1769 e il 1772, in compagnia del fidato Elia, compie il secondo viaggio in Europa. Partendo da Vienna, passa per Berlino, dove con fastidio e rabbia incontra Federico II. Tocca poi la Svezia e la Finlandia, giungendo in Russia, dove non vuole neppure essere presentato a Caterina II, avendo sviluppato una profonda avversione per il dispotismo.[4] Raggiunge Londra e, nell'inverno del 1771, conosce Penelope Pitt, moglie del visconte Edward Ligonier, con la quale instaura una relazione amorosa. Lo scandalo che segue e il processo per adulterio pregiudicano una possibile carriera diplomatica di Alfieri, che in seguito a questi fatti è costretto a lasciare la donna e la terra d'Albione.[4] Riprende così il suo girovagare, prima in Olanda, poi in Francia, Spagna e infine in Portogallo. A Lisbona incontra l'abate Tommaso Valperga di Caluso, che lo sprona a proseguire la sua carriera letteraria. Nel 1772 comincia il viaggio di ritorno.[4]

Il ventiquattrenne Alfieri rientra a Torino nel 1773 e si dedica allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo «anni di viaggi e dissolutezze». Prese una casa in piazza San Carlo, la ammobilia sontuosamente, ritrova i suoi vecchi compagni dell'Accademia militare e di gioventù.[4] Con loro istituisce una piccola società che si riunisce settimanalmente in casa sua per «banchettare e ragionare su ogni cosa», la Societé des Sansguignon. In questo periodo scrive «cose miste di filosofia e d'impertinenza», per la maggior parte in lingua francese, tra cui l'Esquisse de Jugement Universél, ispirato agli scritti di Voltaire.[4]

Ha anche una relazione con la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto, moglie di Giovanni Antonio Turinetti marchese di Priero. Tra il 1774 e il 1775, mentre assiste l'amica malata, porta a compimento la tragedia Antonio e Cleopatra, rappresentata a giugno di quello stesso anno a Palazzo Carignano, con successo.[4] Nel 1775 tronca la liaison e perfeziona la sua conoscenza della grammatica italiana riscrivendo le tragedie Filippo e Polinice, che in una prima stesura erano state composte in francese.[4]

Nell'aprile dell'anno seguente si reca a Pisa e Firenze per il primo dei suoi "viaggi letterari", iniziando la stesura dell'Antigone e del Don Garzia. Torna in Toscana nel 1777, in particolare a Siena, dove conosce quello che sarebbe diventato uno dei suoi più grandi amici, il mercante Francesco Gori Gandellini. Questi influenza notevolmente le sue scelte letterarie, convincendolo ad accostarsi alle opere di Niccolò Machiavelli. Da queste nuove ispirazioni nascono La congiura de' Pazzi, il trattato Della Tirannide, l'Agamennone, l'Oreste e la Virginia.[4] Per dedicarsi solo ed esclusivamente alla letteratura per lungo tempo, arriva a farsi legare alla sedia da Elia, in un famosissimo episodio.[5]

Nell'ottobre del 1777 Alfieri conosce Luisa di Stolberg-Gedern, contessa d'Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra. Nello stesso periodo si dedica alle opere di Virgilio e termina il trattato Del Principe e delle lettere e il poema in ottave L'Etruria vendicata.[6] Lo Stuart però non si limita a far scoppiare uno scandalo o sfidare il poeta a duello. Il 30 novembre, l'alcolizzato Carlo Edoardo aggredisce fisicamente la moglie, tentando di ucciderla.[2]

Dopo qualche tempo Alfieri, allo scopo di «disvassallarsi» (come dirà egli stesso) dalla monarchia assoluta dei Savoia, dona tutti i beni e le proprietà feudali alla sorella Giulia, riservandosi un vitalizio e una parte del capitale, e rinuncia alla cittadinanza del Regno divenendo apolide. Raggiunge quindi a Roma la contessa e si reca poi a Napoli, dove termina la stesura dell'Ottavia ed entra nella loggia massonica della "Vittoria".[6] Torna quindi a Roma, stabilendosi a Villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano, con la contessa d'Albany.

Nel 1783 Alfieri è accolto all'Accademia dell'Arcadia col nome di Filacrio Eratrastico. Nello stesso anno termina anche l'Abele. Nell'aprile del 1784 la contessa d'Albany, per intercessione di Gustavo III di Svezia, ottiene la separazione legale dal marito e il permesso di lasciare Roma; si ricongiunge all'Alfieri ad agosto, nel castello di Martinsbourg a Colmar. Qui Alfieri scrive l'Agide, la Sofonisba e la Mirra.[2] Costretti ad abbandonare l'Alsazia alla fine dell'anno, per l'obbligo della contessa di risiedere negli stati pontifici, Alfieri si sistema a Pisa e la Stolberg a Bologna.[6]

 
Firenze, Basilica di Santa Croce: il monumento funebre scolpito da Canova, raffigurante l'Italia turrita afflitta per la morte del poeta, le maschere teatrali e il medaglione con il ritratto

Nel 1785 termina le tragedie Bruto primo e Bruto secondo. Nel dicembre del 1786 si trasferisce a Parigi insieme alla Stolberg (che sarebbe divenuta vedova due anni dopo). Nel 1789 i due sono testimoni della rivoluzione francese. Gli avvenimenti in un primo tempo fanno comporre al poeta l'ode A Parigi sbastigliato, che poi però rinnegherà: l'entusiasmo si trasforma in odio verso la rivoluzione, esplicitato nelle rime del Misogallo.[2] Nel 1792 l'arresto di Luigi XVI e le stragi del 10 agosto convincono la coppia a lasciare definitivamente la città per tornare in Toscana, passando attraverso Belgio, Germania e Svizzera. Tra il 1792 e il 1796 Alfieri, a Firenze, si immerge totalmente nello studio dei classici greci traducendo Euripide, Sofocle, Eschilo, Aristofane. Proprio da queste ispirazioni nel 1798 nasce la sua ultima tragedia: l'Alceste seconda.

Tra il 1799 e il 1801 le vittorie francesi sul suolo d'Italia costringono Alfieri a fuggire da Firenze per rifugiarsi in una villa presso Montughi. Tra il 1801 e il 1802 compone sei commedie: L'uno, I pochi e I troppi, tre testi che danno visione satirica dei governi dell'epoca; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto, sulla soluzione ai mali politici (quasi un testamento politico in cui Alfieri, "repubblicano", pare accettare una monarchia parlamentare in stile inglese); La finestrina, ispirata ad Aristofane; Il divorzio, in cui condanna i matrimoni nobiliari d'interesse, il cicisbeismo e tutti i cattivi costumi dell'Italia dei suoi tempi. Tra le originali iniziative di Alfieri nell'ultimo periodo, il progetto di una collana letteraria denominata "L'ordine di Omero", del quale si autonomina simbolicamente "cavaliere". Si spegne a Firenze l'8 ottobre 1803 all'età di 54 anni.

Il teatro

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Le tragedie

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Terminata l'Accademia militare a Torino, e dopo un lungo giovanile vagabondare in vari stati dell'Europa, nel 1775 (l'anno della conversione) Alfieri rientra nel capoluogo piemontese e si dedica allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo - secondo le sue stesse parole - anni di viaggi e dissolutezze. Completa così la sua prima tragedia, Antonio e Cleopatra, che registra un grande successo; seguiranno poi Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra.

La fama delle sue tragedie è legata alla centralità del rapporto tra libertà e potere e al tema dell'affermazione dell'individuo sulla tirannia. Una profonda e sofferta riflessione sulla vita umana arricchisce la tematica quando il poeta si sofferma sui sentimenti più intimi e sulla società che lo circonda.

Le tragedie furono in gran parte rappresentate quando il poeta era ancora in vita ed ebbero un notevole successo nel periodo giacobino. Le tragedie più rappresentate nel triennio giacobino italiano (1796-99) sono la Virginia e i due Bruti. A Milano, il 22 settembre 1796, Napoleone presenziò a una replica della Virginia.[7]

Il Bruto primo fu replicato anche alla Scala e a Venezia, mentre a Bologna vennero rappresentate tra il 1796 e il 1798 ben quattro tragedie (Bruto secondo, Saul, Virginia, Antigone).

Negli anni successivi, molti attori ottocenteschi si specializzeranno nelle opere alfieriane: da Antonio Morrocchesi al teatro Carignano di Torino, a Paolo Belli Blanes a Firenze o a Milano. Le tragedie sono ventidue, compresa la Cleopatra (o Antonio e Cleopatra) poi in seguito da lui ripudiata. L'Alfieri le scrive in endecasillabi sciolti, seguendo il principio delle unità aristotelica. La stesura del testo prevedeva tre fasi: ideare (trovare il soggetto, inventare trame e battute, caratterizzare i personaggi), stendere (fissare il testo in prosa, nelle varie scene e atti), verseggiare (trasporre tutto in endecasillabi sciolti).[8]

Alfieri volle coniugare il melodramma, molto in auge in quel periodo, con i temi più ostici della tragedia. Nacque così l'Abele (1786), un'opera che egli stesso definì «tramelogedia».

Caratteri della tragedia alfieriana

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Alfieri concepisce la tragedia come gesto assoluto, collocato nello spazio chiuso di un teatro vuoto dove sono le parole, con la loro energia, a creare le azioni e i conflitti. Il destino tragico non deriva da impedimenti politici, sociali o di altro tipo, ma piuttosto scaturisce dalla volontà degli stessi eroi alfieriani. Questa assoluta concentrazione viene ribadita dal ritmo del tempo, che viene scandito dall'alternanza del giorno e della notte. I riferimenti sul rischiaramento dell'alba e sul discendere delle tenebre non sono mai meramente descrittivi, ma evocano le forme della natura «come segni indeterminati degli impulsi che trascinano i personaggi».[9] Alfieri rifiuta la razionalità tipica del classicismo settecentesco; ricorre piuttosto la spezzatura e la difficoltà, alla ricerca di un linguaggio classico assoluto e tutto concentrato in sé.

Lo schema ricorrente nella tragedia alfieriana può essere individuato nella contrapposizione tra eroi positivi ed eroi negativi. Mentre i primi incarnano virtù come giustizia o la dolcezza, gli eroi negativi sono mossi dalla brama di potere e calpestano ogni valore. Nelle tragedie politiche lo scontro è tra l'uomo libero e il tiranno, a cui si aggiungono vari personaggi secondari. Tra questi non mancano i collaboratori dei tiranni, esseri meschini che contribuiscono alla realizzazione di crudeltà. Il tiranno e l'uomo libero, però, si staccano per la loro grandezza sulle altre figure presenti nel dramma. Spesso inoltre i due personaggi principali possono essere legati da vincoli familiari, un rapporto che contribuisce a complicare la vicenda. Si potrebbe vedere in questo un elemento autobiografico: gli eventi sanguinosi che travolgono le famiglie nel finale delle tragedie potrebbero quindi essere interpretati come un segnale di malessere. In questo senso, le tragedie potrebbero essere considerate come frammenti di un'unica grande opera autobiografica, un'ipotesi che viene giustificata con l'attenzione messa dallo stesso Alfieri nell'ordinare i suoi drammi in un corpus unitario.[10]

Le commedie

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Alfieri scrive anche sei commedie: L'uno, I pochi, I troppi, L'antidoto, La finestrina, Il divorzio. Le prime quattro costituiscono una specie di tetralogia politica, La finestrina è un'opera a carattere etico universale mentre Il divorzio tratta dei costumi italiani contemporanei. Furono scritte nell'ultima parte della vita dell'Alfieri, intorno al 1800, anche se l'idea di produrre commedie fu concepita alcuni anni prima. Lo stesso Alfieri racconta nella Vita di essersi ispirato a Terenzio per creare un proprio stile di autore comico:

« Pigliai anche a tradurre il Terenzio da capo; aggiuntovi lo scopo di tentare su quel purissimo modello di crearmi un verso comico, per poi scrivere (come da gran tempo disegnava) delle commedie di mio; e comparire anche in quelle con uno stile originale e ben mio, come mi pareva di aver fatto nelle tragedie. »
(da Vita, Epoca quarta, 1790, capitolo XX)

I giudizi sulle commedie di Alfieri sono in genere assai negativi. Uno studio su queste composizioni è quello di Francesco Novati,[11] il quale, pur considerandole «un importante documento, una pagina notevolissima della storia della letteratura», principalmente perché le ritiene «un tentativo originale, nuovo, ardito», le definisce nel complesso «opere imperfette, in parte rifatte, emendate, limate» e ne elenca numerosi difetti: la lingua in cui sono scritte «è un faticoso miscuglio di vocaboli e modi famigliari, popolari talvolta, anzi prettamente fiorentini, e di forme auliche, lontanissime dall'uso comune», e il dialogo che ne consegue «manca di vivacità, scioltezza e spontaneità»; il verso «è riuscito duro, stentato, fiacco, cadente, senza suono, senza carattere»; in generale sono «ideate e condotte secondo teoriche sull'indole e sullo scopo del teatro comico che non si possono approvare».

Lo stesso Novati riporta altri giudizi ancora più severi, come quello di Vincenzo Monti, che giudicava «insopportabili» tutte le opere postume di Alfieri, o di Ugo Foscolo, che definì le commedie «modelli di stravaganza». In un altro studio sulle commedie di Alfieri, Ignazio Ciampi sostiene che l'autore «dimostra non aver troppo ben pensato sullo scopo e sulla utilità della commedia quando insegna un po' troppo assolutamente che in questa non si debbono dipingere i costumi del tempo in cui si scrive, ma l'uomo in generale», individuando tuttavia in queste opere alcuni «pregi d'invenzione e di esecuzione».[12]

Scritti politici

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Le prose politiche

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L'odio per la tirannia e l'amore per la libertà vennero sviluppati in varie opere di argomento politico:

  • Della tirannide (1777-1790), di tema interamente politico, scritto durante il suo soggiorno a Siena dove conobbe il suo più grande amico, il mercante Francesco Gori Gandellini. L'Alfieri fa una disamina del dispotismo, considerandolo la rappresentazione più mostruosa di tutti i tipi di governo. La tirannide è basata, per Alfieri, sul sovrano, sull'esercito, sulla Chiesa che costituiscono le basi di questo stato.
  • Del principe e delle lettere (1778-1786), di tema politico-letterario, dove l'Alfieri giunge alla conclusione che il binomio monarchia e lettere sia dannoso per lo sviluppo di queste ultime. Il poeta prende in esame anche le opere di Virgilio, Orazio, Ariosto, Racine, nate con il benestare di principi o monarchi munifici e le considera il frutto di uomini "mediocri", contrapponendoli a Dante.
  • Panegirico di Plinio a Trajano (1787), personale rivisitazione dell'omonimo panegirico di Plinio il Giovane (Panegirico a Traiano).
  • La Virtù sconosciuta (1789), il poeta in un dialogo immaginario con l'amico defunto Gori Gandellini, lo paragona a fulgido esempio di virtù cittadina ed indipendenza morale.

Le odi politiche

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L'Etruria vendicata, poema in quattro canti e in ottave progettato nel maggio 1778, inizialmente con il titolo Il Tirannicidio, narra l'uccisione di Alessandro de' Medici a opera di Lorenzino, che Alfieri celebra come un eroe della libertà. L'America libera è un componimento di cinque odi, in cui si esalta la generosità disinteressata di La Fayette, che aiutò i ribelli e celebra l'eroismo di George Washington, che Alfieri paragona a quello degli antichi eroi. Parigi sbastigliato è infine un'ode composta da Alfieri dopo la distruzione della Bastiglia. Fu rinnegata dopo la fuga dalla Francia.

L'odio antirivoluzionario: il Misogallo

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Charles Thévenin, La presa della Bastiglia, 1793. Musée Carnavalet, Parigi

Il Misogallo (dal greco miseìn che significa odiare, e "gallo" che sta a indicare i francesi) è un'opera che aggrega generi diversi: prose (sia discorsive sia in forma di dialogo tra personaggi), sonetti, epigrammi e un'ode. Questi componimenti si riferiscono al periodo compreso tra l'insurrezione di Parigi del luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma del febbraio 1798.

È una feroce critica alla Francia e alla rivoluzione, ma l'autore rivolge l'invettiva anche verso il quadro politico e sociale europeo, verso i molti tiranni antichi e recenti, che dominarono e continuavano a dominare l'Europa. Per Alfieri, «i francesi non possono essere liberi, ma potranno esserlo gli italiani», mitizzando così un'ipotetica Italia futura, «virtuosa, magnanima, libera ed una».[13]

Alfieri è quindi un controrivoluzionario e un aristocratico (anche se la "nobiltà" non è per lui "di nascita", prova ne sia il disprezzo per la sua stessa classe sociale, ma quella dell'animo forte, dotato del "forte sentire") anche se non si può certo definire un reazionario, essendo un uomo che esaltava sempre e solo il valore della libertà individuale, che ritenne potesse essere preservata dalla nuova Italia che sarebbe nata.[14]

Alfieri fu contrario alla pubblicazione che fu fatta in Francia dei suoi trattati giovanili in cui esprimeva le sue idee anti-tiranniche in maniera decisa, lasciando trasparire anche un certo anticlericalismo, come il trattato Della tirannide; tuttavia anche dopo la pubblicazione del Misogallo non ci fu in lui un rinnegamento di queste posizioni, quanto la scelta del male minore, ovvero il sostegno verso chiunque si opponesse al governo rivoluzionario, che lo faceva inorridire per lo spargimento di sangue del regime del Terrore - sia contro nobili e antirivoluzionari, che contro rivoluzionari non club dei giacobini (i girondini) - e per aver portato la guerra in Italia; secondo Mario Rapisardi[15] egli, che non era anti-riformista (purché il rinnovamento venisse dall'alto, dal legislatore, e non dalla pressione e dalla violenza popolare), aveva paura di essere confuso con i "demagoghi francesi", che incitavano la "plebe". Così si espresse nel trattato sopracitato a proposito della religione cattolica, che egli giudica un mezzo di controllo sul popolo meno istruito (anche se, in fondo, dannoso anche per l'attitudine "da schiavo" che induce in esso), poco valido per un letterato o un filosofo[16]: "Il Papa, la Inquisizione, il Purgatorio, il sacramento della Confessione, il Matrimonio indissolubile per Sacramento e il Celibato dei preti, sono queste le sei anella della sacra catena" e "un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del papa e della Inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo".[17]

La sua accusa alla Rivoluzione è quindi anti-tirannica da una parte e culturale dall'altra, non ritenendo che un culto astratto - come il cosiddetto culto della Ragione o quello dell'Essere supremo - fosse adatto a contenere, con insegnamenti morali, il popolo ignorante dell'epoca.[18] Inoltre, pur detestando parte dell'alto clero e della nobiltà, non approvava l'odio indiscriminati e gli assassini legalizzati di cittadini francesi colpevoli solo di essere di famiglia nobile o membri del basso e medio clero.[2]

In una lettera all'abate di Caluso del 1802, Alfieri ribadisce privatamente le sue tesi giovanili (che quasi rinnegava invece pubblicamente, nel Misogallo e nelle Satire)[19]: "Il motore di codesti libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione, l'amore del vero o di quello che io credeva tale. Lo scopo fu la gloria di dire il vero, di dirlo con forza e novità, di dirlo credendo giovare.(...) Il raziocinio di codesti libri mi pare incatenato e dedotto, e quanto più v'ho pensato dopo, tanto più sempre mi è sembrato verace e fondato; e interrogato su tali punti tornerei sempre a dire lo stesso, ovvero tacerei.(...) In due parole, io approvo solennemente tutto quanto quasi è in quei libri; ma condanno senza misericordia chi li ha fatti e i libri medesimi, perché non c'era bisogno che ci fossero, e il danno può essere maggiore assai dell'utile".[20]

Le Satire

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Pensate fin dal 1777 e riprese più volte nell'arco della sua vita, sono componimenti sui "mali" che afflissero l'epoca del poeta. Sono diciassette:

  • Prologo: Il cavalier servente veterano, ridicolizza i cicisbei.
  • I re, sulla monarchia assoluta.
  • I grandi, in cui sono presi di mira i grandi di corte.
  • La plebe, invettiva contro la plebe volubile, feroce e sanguinaria.
  • La sesquiplebe, che tratta della ricca borghesia cittadina.
  • Le leggi, con una critica sul poco rispetto delle leggi in Italia.
  • L'educazione, sull'istruzione.
  • L'antireligioneria, ispirata alle idee di Machiavelli, sulla religione come instrumentum regni (ovvero mezzo politico e non spirituale), è una caustica e durissima condanna di Voltaire e dei suoi epigoni, che nell'aver empiamente dileggiato e superficializzato il cristianesimo e la religione in generale, hanno di fatto gettate le basi per i disastri della rivoluzione francese. Secondo Alfieri è molto pericoloso distruggere un sistema di pensiero religioso, senza prima averlo sostituito con uno nuovo e altrettanto capace di essere compreso dal popolo, verso cui l'autore non nutre alcuna fiducia, e funzionare da garante di ordine.[21] In realtà, cosa che Alfieri sembra qua ignorare, è lo stesso Voltaire, bersagliato dalla satira, che ritiene che la religione possa, quando non è dannosa, fare da strumento di ordine per il popolo.[22]
  • I pedanti, contro la critica letteraria.
  • Il duello, sulla meschinità dei duelli, ispirata a episodi giovanili.
  • I viaggi, sull'inutilità dei viaggi, in cui l'Alfieri prende implicitamente di mira anche sé stesso, viaggiatore instancabile.
  • La filantropineria, contro i teorici della rivoluzione francese, in particolare contro Rousseau.
  • Il commercio, sulla bassezza morale dell'attività mercantile. Alfieri non considera un male il lavoro dei mercanti in sé[23], ma attacca i difetti e le meschinità di molti di essi.
  • I debiti, sul malgoverno delle nazioni.
  • La milizia, una critica agli stati militaristi come la Prussia di Federico II.
  • Le imposture, sulle società segrete, in particolare i suoi ex confratelli della Massoneria, e sulle "fasulle" filosofie nate nel XVIII secolo, in particolare quella illuministica, adulatrice della rivoluzione francese.
  • Le donne, in cui l'Alfieri considera il "gentil sesso" sostanzialmente migliore degli uomini, ma imitatore dei loro difetti.

Opere autobiografiche

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Le Rime

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Vittorio Alfieri in un altro ritratto di François Xavier Pascal Fabre

Alfieri compone le Rime tra il 1776 ed il 1799. Stampa le prime (scritte fino al 1789) a Kehl, tra il 1788 e il 1790. Preparò a Firenze nel 1799 la stampa della seconda parte, che costituì l'undicesimo volume delle Opere Postume, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1804 per l'editore Piatti.[24]

Le Rime di Vittorio Alfieri sono circa 400 e hanno un carattere fortemente autobiografico: infatti costituiscono una sorta di diario in poesia e nascono da impressioni su luoghi e vicende concrete o come sfogo legato a particolari occasioni amorose, e questa qualità si evince anche dal fatto che ogni poesia di norma reca l'indicazione di una data o di un luogo. Si tratta soprattutto di sonetti, forma poetica assai cara all'autore, poiché gli permettevano di esprimere i suoi sentimenti e le sue idee con una grande concentrazione concettuale.[25]

Le Rime si ispirano soprattutto alla poesia di Francesco Petrarca sia nelle situazioni sentimentali sia nel ricorrere di parole, formule e frasi, spesso tratte dal Canzoniere. Ma Alfieri, diversamente dal petrarchismo settecentesco degli arcadi, trae da Petrarca l'immagine di un io diviso tra forze opposte, portando il dissidio interiore ad una tensione violenta ed esasperata. Alfieri poi si ispira al linguaggio musicale e melodico dell'autore del Canzoniere, ma solo esteriormente: infatti il suo è un linguaggio aspro, antimusicale, caratterizzato da un ritmo spezzato da pause, inversioni ardite, violente inarcature degli enjambements, scontri di consonanti e formule concise e lapidarie. Un linguaggio simile a quello delle tragedie dunque, che deve rendere lo stato d'animo inquieto e lacerato del poeta: infatti la poesia per Alfieri deve puntare all'intensificazione espressiva delle proprie angosce e sofferenze.[25]

Grande importanza ha in Alfieri il tema amoroso: si tratta di un amore lontano e irraggiungibile, causa di sofferenza e infelicità. Ma il motivo amoroso assume un significato più vasto: costituisce infatti un mezzo per esprimere il proprio animo tormentato, in eterno conflitto con la realtà esterna. Alla tematica sentimentale si intreccia quindi il motivo politico, anch'esso vicino al clima delle tragedie: compare la critica contro un'epoca vile e meschina, il disprezzo dell'uomo che si sente superiore contro una mediocrità che egli avverte come vittoriosa e dominante nel mondo, l'amore per la libertà, la nostalgia verso un passato idealizzato, popolato da grandi eroi disposti a sfidare il proprio tempo pur di perseguire i propri ideali.[26]

Alfieri poi delinea un ritratto idealizzato di sé: difatti si presenta come letterato-eroe e negli atteggiamenti titanici e fieri dei protagonisti delle sue tragedie. È l'ideale di un uomo in cui domina più il sentimento (il "Forte sentire") che la ragione.[27]

Compare poi nelle Rime la tematica pessimistica che costituisce il limite della tensione eroica di Alfieri. Sempre presenti sono in lui "Ira" e "Malinconia", da una parte il generoso sdegno di un'anima superiore verso una realtà vile, dall'altra un senso di disillusione e di vuoto, di noia, di vanità. La morte diventa dunque un tema ricorrente e viene vista dal poeta come l'unica possibilità di liberazione e anche come l'ultima prova davanti alla quale bisogna confermare la saldezza magnanima dell'io. Questo pessimismo porta quindi all'amore per i paesaggi aspri, selvaggi, tempestosi e orridi, ma anche deserti e silenziosi: l'io del poeta vuole infatti intorno una natura simile a sé, una proiezione del proprio animo e questo è un motivo già tipicamente romantico.[8]

La Vita scritta da esso

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Alfieri cominciò a scrivere la propria biografia (la "Vita scritta da esso") dopo la pubblicazione delle sue tragedie. La prima parte fu scritta tra il 3 aprile ed il 27 maggio 1790 e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il 4 maggio ed il 14 maggio 1803 (anno della sua morte).[28]

La vita è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più conosciuto, infatti, secondo M. Fubini, l'Alfieri fu per molto tempo l'autore della "Vita", che ancora inedita, madame de Staël leggeva rapita in casa della contessa d'Albany e ne scriveva entusiasta al Monti.[28] Non a caso l'opera all'inizio del XIX secolo venne tradotta in francese (1809), inglese (1810) tedesco (1812), e parzialmente in svedese (1820).

In quest'opera analizza la sua vita come per analizzare la vita dell'uomo in generale, si prende come esempio. A differenza di altre autobiografie (come ad esempio le Mémoires di Goldoni) Alfieri risulta molto autocritico. In maniera cruda e razionale, egli non si risparmia neppure quando deve accusare il suo modo di fare, il suo carattere eccentrico e soprattutto il suo passato; tuttavia, Alfieri non ha né rimorsi né rimpianti per quest'ultimo.[28]

Traduzioni

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Alfieri dedicò molto tempo allo studio dei classici latini e greci. Questo portò ad alcune traduzioni pubblicate postume, come la Congiura di Catilina e La Guerra di Giugurta di Sallustio, l'Eneide di Virgilio, I Persiani di Eschilo, il Filottete di Sofocle, l'Alcesti di Euripide, Le Rane di Aristofane.

  1. Vittorio Alfieri, Vita, Epoca I.
  2. 2,0 2,1 2,2 2,3 2,4 2,5 2,6 Giuseppe Bonghi, Biografia di Vittorio Alfieri, su classicitaliani.it. URL consultato il 26 febbraio 2017.
  3. 3,0 3,1 Vittorio Alfieri, Vita, Epoca II.
  4. 4,00 4,01 4,02 4,03 4,04 4,05 4,06 4,07 4,08 4,09 Vittorio Alfieri, Vita, Epoca III.
  5. Lucio D'Ambra, Vittorio Alfieri. Il trageda legato alla sedia, Bologna, Zanichelli, 1938.
  6. 6,0 6,1 6,2 Vittorio Alfieri, Vita, Epoca IV.
  7. Silvano Montaldo, Il Risorgimento nell'Astigiano nel Monferrato e nelle Lange, in Carla Forno (a cura di), Il mito risorgimentale di Alfieri, Asti, Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, 2010, p. 186.
  8. 8,0 8,1 Marta Sambugar e Gabriella Salà, Letteratura Modulare, vol. 1, Firenze, La Nuova Italia, 2008.
  9. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 534.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 534-536.
  11. Francesco Novati, L'Alfieri poeta comico, in Studi critici e letterari, Torino, Loescher, 1889.
  12. Ignazio Ciampi, Vittorio Alfieri autore comico, in La commedia italiana: studi storici, estetici e biografici, Roma, Galeati, 1880.
  13. Vittorio Alfieri, Misogallo, parte I.
  14. Mario Rapisardi, L'ideale politico di Vittorio Alfieri
  15. M. Rapisardi, La religione di Vittorio Alfieri
  16. ibidem
  17. V. Alfieri, Della tirannide, pag. 76 e seguenti
  18. Satira L'antireligioneria, in cui critica Voltaire; in questo modo però si allinea anche posizioni pragmatiche espresse anche proprio dallo stesso contestatissimo Voltaire, nel Trattato sulla tolleranza: "La legge vigila sui crimini conosciuti, la religione su quelli segreti", auspicando l'eliminazione dei dogmi, non della religione per il popolo; e posizioni simili saranno anche del democratico Giuseppe Mazzini o di Ugo Foscolo, secondo cui, come scrive amareggiato nello Jacopo Ortis, il "volgo" richiede spesso "pane, prete e patibolo".
  19. M. Rapisardi, ibidem
  20. Lettera all'abate di Caluso del gennaio 1802
  21. Mario Rapisardi, La religione di Vittorio Alfieri
  22. Voltaire, Trattato sulla tolleranza, cap XX, "Se sia utile mantenere il popolo nella superstizione"
  23. suo grande amico era il mercande Gori Gandellini
  24. le Opere Postume uscirono con la falsa indicazione della pubblicazione a Londra
  25. 25,0 25,1 Alfieri e Petrarca
  26. Alfieri e le rime: riassumendo
  27. Vittorio Alfieri, Il forte sentire e la tragedia
  28. 28,0 28,1 28,2 Autori Vari, I classici del pensiero italiano, biblioteca Treccani 2006 Trebaseleghe (Padova)

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